LE LEGGI DEL CAMMINO
di p. Attilio Franco Fabris
Nelle fiabe a chi si mette in cammino per terre sconosciute vengono date sempre alcune precise raccomandazione da osservarsi scrupolosamente.
Potremmo così enucleare anche noi alcune leggi che dovrebbero regolare il nostro cammino umano e spirituale:
Ne accenno alcune:
– vinci la paura
– vinci il rimpianto
– vinci la comodità
– vinci la pretesa autosufficienza
– vinci il sogno e la violenza
VINCERE LA PAURA
In ciascuno di noi esistono due spinte, due forze contrastanti. E’ l’esperienza che ci racconta Paolo nella lettera ai cristiani di Roma. Una forza di vita e una di morte che fratturano dolorosamente l’uomo. Possiamo chiamare queste forze:
– il bisogno di crescere, di camminare, di progredire verso la pienezza
– la paura di farlo che blocca il cammino.
(Cf es. la paura di montagna…)
Più volte nella nostra vita abbiamo sperimentato questo conflitto, tipico dell’età adolescenziale, ma che può permanere in certa misura, in chi più e chi meno, anche nell’età adulta.
Sentiamo infatti il bisogno di migliorare, di crescere in quegli aspetti che avvertiamo carenti soprattutto nella nostra relazione con gli altri, con Dio e con noi stessi, di crescere nel cammino vero la nostra unificazione…
Ma ecco che questo nostro desiderio viene a scontrarsi con innumerevoli ostacoli. Essi sono parte inevitabile del cammino della vita: “T’imbatti in rocce, valli, precipizi, scogli, tronchi, fiere, rettili, spine: devi tribolare per un poco ma poi li superi e vai avanti” (Basilio, sul salmo 1). Oppure sono ostacoli riconducibili alla nostra natura mortale, e di peccatori, oppure si debbono ricercare in noi stessi nelle nostre paure
La paura ci blocca. Lasciandoci però in fondo al nostro essere una profonda insoddisfazione e nostalgia:
“Molte volte ho studiato
la lapide che mi hanno scolpito; una barca con vele ammainate, in un porto.
In realtà non è questa la mia destinazione, ma la mia vita.
Perché l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno;
il dolore bussò alla mia porta, io ebbi paura;
l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti.
Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita.
Ma adesso so che bisogna alzare le vele
e prendere i venti del destino
dovunque spingano la barca.
dare un senso alla vita può condurre a follia
ma una vita senza senso è la tortura
dell’inquietudine e del vano desiderio – è una barca che anela al mare eppure lo teme” (Masters, Spoon river, “George Gray”).
Se partiamo dalla constatazione che camminare nella vita comporta inevitabilmente il salpare verso il mare che si teme, e che ciò significa inevitabilmente distacco, una morte, non ci meravigliamo allora che incontriamo un po’ di paura…
Sintomo della paura è la nevrosi: possiamo definire il nevrotico come colui che “vuole continuare ad essere il bambino”, essere protetto e coccolato e difeso dalle insidie della vita. Egli ricorrerà a numerose manovre di salvataggio (l’eterno studente, l’indeciso…). Denominatore comune la paura e la noia, colta questa come uno stato di sospensione, un “vorrei ma ho paura”.
Il progredire comporta la capacità di cambiamento che suppone un affidamento fiducioso al futuro nella speranza. Ed ecco che questo futuro ci appare sempre insicuro, incerto. In questa direzione anche Gesù nell’orto del Getsemani, come uomo, sente la paura: “Gesù cominciò a sentire paura e angoscia” (Mc 14,33).
Per noi tante volte risulta più rassicurante rimanere ancorati a riva, nel porto.
“Quando il faraone fu vicino, gli israeliti alzarono gli occhi: ecco gli egiziani muovevano il campo dietro di loro! Allora gli israeliti ebbero grande paura, e gridarono al Signore. Poi dissero a Mosè: Forse perché non c’erano sepolcri in Egitto ci hai portati a morire nel deserto? Che hai fatto portandoci fuori dall’Egitto? Non ti dicevamo in Egitto: Lasciaci stare e serviremo gli egiziani, perché è meglio per noi servire l’Egitto che morire nel deserto?” (Es 14,10-12).
“Perché avete paura uomini di poca fede?” (Mt 8,26)
“Per paura andai a nascondere il mio talento sottoterra” (Mt 25,26)
“Tutti” i discepoli al momento cruciale della passione abbandonano Gesù e fuggono (Cf Mc 14,50).
Ciascuno deve fare i conti con le sue paure.
VINCERE IL RIMPIANTO
Ciò che blocca tante volte il cammino, il cambiamento è la nostra “memoria affettiva” che ci fissa su un determinato passato, vissuto come piacevole o spiacevole, obbligandoci a ripeterlo infinitamente in noi. Ci “giriamo intorno”.
Un bambino che perde sua madre sarà sopraffatto da un immenso dolore. Il dolore può essere represso e dimenticato. Ciononostante esso continua a influenzare la vita di questo bambino ora diventato uomo: potrà trovare difficile legarsi alle persone per paura di perderle, oppure potrà sentirsi incapace di accettare l’amore che gli viene offerto, oppure perderà gradualmente ogni interesse per la gente e per la vita in generale, perché emotivamente non s’è staccato dalla tomba di sua madre, si rifiuta di lasciarla andare via, pretende da lei un amore che non può più dargli.
Si tratta allora di intraprendere un cammino di guarigione della nostra memoria. (A.Gentili, Dio nel silenzio, 96ss). “Sensazioni e immagini, pensieri e aneliti dello spirito confluiscono in quel “ventre dell’anima” che è la memoria (Agostino).
Questa nostra memoria che è parte integrante di noi stessi, sedimentazione del nostro passato e che influisce sul presente e sull’avvenire. La nostra memoria è malata. nei suoi antri, nelle sue caverne, nei suoi segreti ripostigli vi sono raccolte e impresse, oltre a quelle positive, tutte le tracce negative del nostro sentire, del nostro pensare e del nostro operare. Questi ricordi rischiano di attirarci come una potente calamita impedendoci di guardare in avanti, al cammino che ci rimane da fare, alle possibilità che si aprono ogni giorno davanti a noi.
La memoria guarisce dimenticando, sgombrando il cuore, lasciando a terra quegli inutili fardelli che rallentano o arrestano il cammino: Non ricordate più le cose passate… ecco faccio una cosa nuova…” (Is 43,18s).
La memoria guarisce ri-cor-dando: ovvero ridando il cuore, la centralità, a Dio. E’ riporre la ricerca del volto di Dio come ragione e senso del nostro esistere.
VINCERE LA COMODITA’
Circe, la bellissima e crudele maga simbolo della seduzione, figlia del Sole e della ninfa Perse dimorava nell’isola Eea presso il monte Circeo. Quando Ulisse nel suo peregrinare capitò di incontrarla ella fece di tutto per distoglierlo dal cammino. Gli assicurò infatti vita e benessere per tutta l’eternità presso di lei. Lo stare troppo bene, il sentirsi soddisfatti di quello che si vive giorno per giorno può essere la tentazione di assestarsi e non camminare più. (cfr Il gabbiano Jonathan Livingston).
E’ indispensabile che si abbia sempre dinanzi l’esigenza della sequela perché in noi c’è sempre la tendenza alla riduttività, al minimo sforzo necessario.
Il non avvertire più la necessità di cambiare è una spia di allarme non indifferente. In questo caso l’omeostasi, la “completa soddisfazione” significa mancanza di obiettivi. Se non esiste alcuna necessità di cambiare, creare, completare, sperimentare si potrebbe alla fin fine mettere in questione la necessità di continuare a vivere. La comodità è la rinuncia a quei valori che ci pongono in una sana tensione tra quello che siamo e quello che dovremmo essere.
Segno della scelta di comodità potrebbe essere il preteso realismo (cfr lettera circolare n.5). Il falso realista è colui che non vagheggia più possibilità inedite. Egli dimentica l’azione dello Spirito ed è velatamente ateo. “V’è di peggio che avere uno spirito perverso: è l’avere un animo abitudinario” (C. Peguy).
La vita è ridotta a formulismo e formalismo. E’ la fossilizzazione, è l’installazione (e allora si sacralizzano le mediazioni, gli orari, modi di vita, strutture, costumi…
Il rifugiarsi nella ripetitività della legge: colui che sceglie tale strada cerca la sicurezza nella staticità della legge che preservi dal problema di porsi continuamente in discussione di fronte alle inevitabili novità della vita, si evita di scegliere di giudicare: “Si è sempre fatto così! E basta!; “Mi hanno sempre insegnato che…”. La legge invece di essere spinta diviene scappatoia, scusante al fine di mantenere lo status quo.
Quante volte Gesù e Paolo apostolo si troveranno a far fronte a persone che usano la legge come scusante al cambiamento di vita. Facciamo attenzione che anche l’uso della Parola di Dio e della regola può cadere in questo tranello.
E’ tarpare le ali allo Spirito che continuamente vivifica e crea…
VINCERE LA PRETESA AUTOSUFFICIENZA
La crescita non avviene indipendentemente dagli altri, non è un processo che si può svolgere tra me e me.
Si cresce solo e in misura in cui mi scopro come essere di relazione: il che significa nella misura in cui sono in grado di rispondere ad una chiamata che mi giunge dal di fuori. Questa legge è valida sul piano umano ma anche su quello spirituale.
Se prendiamo il bambino ad esempio, ci accorgiamo che la sua crescita è armoniosa, solida, solo se scopre attorno a sé persone che sempre lo invitano ad operare dei passaggi progressivi, a rinunciare a sicurezze ormai acquisite per conquistarne di nuove. Sia i genitori (crescono anch’essi col bambino) che il bambino sviluppano allora quell’atteggiamento base della crescita che è la fiducia.
Accettare il cammino in relazione significa accogliere con fede le mediazioni che il Signore mi offre: la mia famiglia, la mia comunità, le persone che incontro. E quella mediazione particolare e privilegiata che è la relazione con il padre o la guida spirituale.
In tutte queste relazioni devo accettare che si attui ancora una morte perché possa nascere una nuova vita, è la dinamica pasquale. L’incontro con l’altro infatti fa sempre morire qualcosa di me. E questa è la condizione perché dall’incontro possa nascere qualcosa di nuovo.
Detto in altri termini: il pormi in relazione significa dimenticarmi, divenire accoglienza, svuotarmi del mio io e dei miei bisogni per far posto in me all’altro, al fine di poterlo accogliere con amore e benevolenza. E questo porta con sé un arricchimento di crescita interiore inestimabile.
RINUNCIARE AL SOGNO E ALLA VIOLENZA
Il sogno: “Quanto mi piacerebbe…”; “Vorrei tanto, ma…”. Osservando attentamente lo spirito che si nasconde queste espressioni apparentemente tanto sincere e umili, scopriamo che l’illusione dei soli desideri mi preserva dall’ adesione alle esigenze di cambiamento nella mia vita. Cerco però di fare bella figura di fronte a me stesso e agli altri, trovo giustificazioni magari pie. Ma le ipotesi di cambiamento non hanno alcuna incidenza sulla vita.
La violenza: è l’opposto del sogno ma il fine è identico. Distruggo il reale che è base e stimolo per il cambiamento e la crescita autentica.
Questa aggressività, ci insegna la psicologia, può assumere tantissimi aspetti.
Quanto spesso l’aggressività rivolta al fratello, al superiore o alla struttura… è scappatoia che mi esenta dal pormi in discussione personalmente