• 04 Feb

    FARE A MENO DEL PADRE ?

    di p. Attilio Franco Fabris


    Appare ormai scontato la difficoltà di parlare di Dio “Padre”, e questo rientra nella difficoltà della predicabilità della relazione paterna.

    Ci troviamo in una cultura che ha rivendicato in modo radicale il diritto della soggettività.

    La modernità ponendo l’assolutezza del soggetto, ha colto nella figura paterna l’ostacolo fondamentale, sotto l’aspetto relazionale, socio-politico, religioso.

    La figura del padre riecheggia limitazione, coercizione, antagonismo.

    Si è parlato della “morte del padre”.

    Il dato antropologico da parte sua ci mette di fronte al fatto inequivocabile dell’indole “culturata”, sociale, storica di tutte le relazioni parentali, maternità e paternità incluse.

    A questo non sfugge neppure l’ambito culturale patriarcale della sacra scrittura con il quale è ineluttabile un serio confronto con lo sforzo attuale di culturazione della fede.

    A Dio nell’antico testamento sono attribuite valenze tipicamente maschili come signore, re, sposo, giudice. Circa dodici volte viene definito come Padre non tanto nel segno dell’autorità quanto piuttosto nel “farsi carico”, “prendersi cura”.

    Si tratta di una paternità materna, in tutta coerenza affidata anche ad audaci immagini femminili come quella della madre.

    Ad esempio in Osea 11:…(leggere)

    Qui non troviamo esplicito il termine di madre, ma ritorna questo prendersi cura, il “nutrire”: Dio si rivela esattamente il contrario di un padre-padrone. La sua paternità è viscerale, misercordiosa, compassionevole.

    In Is. 49,15 l’immagine è ancor più esplicita: Si dimentica una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai

    Ancora in Is 66,13: Come una madre consola il figlio, così io vi consolerò.

    Un elemento di rilievo è offerto dall’uso del termine rehem, che indica il grembo materno. Lo ritroviamo in Os. 11,8 e Is 49,15.

    Ancora troviamo l’espressione collegata di rehamim col significato di compassione. Misericordia.

    Quindi il riferirsi a Dio come misericordia, compassione, tenerezza, custodia ha come entroterra l’esperienza del grembo femminile con la sua capacità di accogliere, generare alla vita e nutrire.

    Nel nuovo Testamento sembra prevalere Dio come Padre a partire dal darsi a conoscere di Gesù come Figlio, ma scendendo più in profondità anche qui si rivela una paternità materna di Dio.

    Basti pensare alla parabola del figliol prodigo (Lc 15,11-32).

    Il Padre di Gesù sembra ancor eludere i parametri di una cultura tipicamente patriarcale.

    I tratti del volto del Padre di Gesù sono fatti di tenerezza, compassione, misericordia, amore, perdono, accoglienza.

    Tuttavia la declinazione al femminile di Dio come “madre” lascia intatto l’androcentrismo della cultura antica ed odierna.

    Vi è l’ipotesi radicale, che soppresso il “padre”, subentri la madre. Avremmo una teologia della femminilizzazione di Dio, un ribaltamento dei ruoli che però si rivelerebbe ancora insufficiente.

    Cosa cambierebbero la “dea”, la chiesa delle donne, una società nella quale le donne avessero leadership e autorità?

    Quale il vantaggio di tale organizzazione su quella andropocentrica?

    L’altra ipotesi è quella che domanda alla paternità di fare un passo indietro (R. Stella) per riacquistare cittadinanza. Si tratterebbe di una castrazione in cui sia il figlio che il piacere sarebbero riconsegnati al mistero di qualcosa che viene offerto gratuitamente all’uomo come opportunità e come tale accolta gratuitamente. (che bisogno c’è del padre quando è possibile generare la vita senza di lui?).

    Qui rientrano i fantasmi della fine del patriarcato e del delirio di onnipotenza dato dall’ingegneria genetica.

    Emancipati gli uomini e le donne dalle vie sin qui obbligate dei processi riproduttivi, maternità e paternità rischiano i divenire simboli contestati della mascolinità e femminilità.

    Tutto questo teniamo presente non può non avere ricadute sul pensare Dio come Padre.

    Tutta la difficoltà e spesso l’equivoco sta certamente nell’aver formulato in termini riduttivamente androcentrici la manifestazione economica di Dio.

    Sono stati meccanismi proiettivi dettati dalla nostra condizione umana legata ad una storia culturata, e dal mistero ineffabile di Dio.

    Siamo ben lontani dal saper esprimere in modo adeguato la paternità autentica di Dio!

  • 03 Feb

    RITORNARE AL PADRE

    sintesi della lettera pastorale del card. C.M. Martini

    1. I CAMMINI DELL’INQUIETUDINE PERSONALE: MI ALZERO’ E ANDRO’ DA MIO PADRE (Lc 15,18)

    Vi sono tanti modi per rifiutare il Padre e il cammino di ritorno a lui.

    Il più comune,anche se meno appariscente perché nascosto nelle nostre profondità è il rifiuto della morte.

    Un pensiero che viene allontanato anche se è la realtà più certa della nostra esistenza. Essa incombe sulla nostra vita, incombe nella forma di domanda: che ne sarà di me dopo la morte? Se bisogna morire che senso ha vivere? Dove vanno le mie fatiche, le mie speranze, le mie gioie, i miei dolori?

    La morte: essa si presenta come “una sentinella che fa guardia al mistero. E’ come la roccia dura che ci impedisce di affondare nella superficialità”.

    Essa costringe a chi si interroga a cercare una meta per la quale valga la spesa vivere.

    Non meraviglia che l’uomo quando si pone dinanzi a questi interrogativi, e spesso se li pone solo in momenti drammatici della propria vita, si senta in un certo senso sul fondo della vita stessa. Si accorge che in quel punto la vita stessa chiede una risposta. Un po’ la situazione del figlio prodigo che si ritrova a toccare il fondo, ma che proprio grazia a questa situazione è capace di far memoria della casa del padre abbandonato. L’esperienza della miseria gli consente di guardare in faccia la via della morte che sta percorrendo e di ribellarsi ad essa.

    Nella solitudine delle domande ultime si aprono solo due strade: l’angoscia e la disperazione del nulla o il presentimento, la nostalgia di un Altro che “possa accoglierci e farci sentire amati, al di là di tutto e nonostante tutto”.

    Il Padre rappresenta l’immagine di qualcuno a cui ci si possa affidare senza riserve, una roccia alla quale ancorare saldamente la nostra vita.

    Perché allora tanti rifiutano questo riferimento ad un Padre che darebbe sicurezza e ragione alla nostra vita?

    La psicologia ricorda come la figura del genitore rappresenta pure l’avversario da combattere, da cui emanciparsi, per rivendicare la libertà alla propria vita e alle proprie scelte. La sua “uccisione” rappresenta l’affermazione di noi stessi e del nostro destino, per fare in fin dei conti ciò che ci piace fare. Una cattiva esperienza compito nel seno della famiglia in questo senso rischia di oscurare l’immagine paterna di Dio, così pure si potrebbe dire di ogni altra forma di rapporto che risponde ad una dinamica di “paternità”.

    Lo scrittore Franz Kafka nella sua Lettera al padre (1919) scrive: “La sensazione di nullità che spesso mi domina ha origine in granm parte dalla tua influenza… Io potevo gustare quanto tu ci davi solo a prezzo di vergogna, fatica, debolezza e senso di colpa. Insomma potevo esserti riconoscente come lo è un mendicante, non con i fatti. Il primo risukltato visibile di questa educazione fu quello di farmi rifuggire tutto quanto, sia pur alla lontana, mi ricordasse di te”.

    Ma quando parliamo di ritorno alla casa del Padre cosa intendiamo? No di certo una regressione e dipendenza infantile, uno scaricare la propria responsabilità. Il Padre di gesù Cristo ci chiama alla libertà vera, corresponsabile, creatrice con lui. Questo padre non è un’aspèirazione, un sosprio interiore: è una persona che ci è stata rivelata, a cui possiamo appoggiarci come a roccia che non crolla, come ad un cuore che sappiamo palpitare d’amore per noi.

    2.I CAMMINI INQUIETI DI UN’EPOCA: IL SECOLARISMO E LA SOCIETA’ SENZA PADRI

    Questo rifiuto del padre si è operato in modo concomitante anche a livello culturale caratterizzato da un progressivo secolarismo.

    L’illuminismo ha introdotto il concetto di età di ragione, un mondo ormai adulto, padrone di sé e del proprio destino ormai governabile dalle sicure leggi della scienza.

    Quest’ambizione lentamente è andata sgretolandosi. Essa aha dato origine alle grandi ideologie in cui erano presenti subodli sotituti del padre a cui ancorare la sicurezza della vita e del futuro: il capo carismatico, il ruolo del partito, la scienza e il progresso…

    La morte di Dio era considerata condizione essenziale per il futuro felice dell’umanità.

    Ma questa ideologia ha prodotto in mezzo ad innegabili conquiste soprattutto frutti di morte: lo dimostrano i genocidi, i campi di concentramento, la solitudine, la massificazione, la distruzione della natura, la sperequazione economica fra i popoli…

    La società senza Padre non ha riunito l’umanità, l’ha al contrario frantumata in miriadi di solitudini.

    L’uomo di oggi è indifferente, incapace di passione per la verità e di grandi speranze. Si è chiuso in un corto orizzonte legato al proprio interesse o a quello del gruppo. La frammentazione ha preso il posto dei grandi sistemi totalitari.

    La fine della società senza padri non ha dunque equivalso ad un ritorno alla casa del padre come forse alcuni speravano. Anzi: si è fatto largo l’atteggiamento del relativismo come abbandono delle certezze ideologiche, l’indifferenza ai valori, una vita spesa alla ricnorsa frenetica dell’effimero.

    In questo contesto la situazione di allonmtanamento dal padre si è ulteriormente aggravata: “il padre non è più figura di un avversario da combattere o di un despota da cui liberarsi, ma è figura priva di ogni interesse o attrattiva. Ignorare il padre è in fondo più tragico che combatterlo per emanciparsi da lui.

    Crollarono le grandi ideologie facendo nascere un pensiero debole che riconosce il fallimento di quelle vecchie pretese. Il pensiero debole non nega Dio, in quanto non sente il bisogno di farlo. Esso svuota di significato e di attrattiva il trascendente. Al massimo si può convivere con lui come uno delle tante cose o “ornamenti”. Esso non segna per nulla l’esistenza.

    In fin dei conti il figlio maggiore viveva sì nella casa del Padre, ma di fatto lo ignorava.

    Guardando a questa realtà saremmo tentati di applicarla agli altri, a quelli di fuori.

    Si tratta invece di prendere atto che questi rigurgiti esistono anche in noi. Li sperimentiamo anche in noi stessi, non sentiremo i lontani come fuori di noi, ma li riterremo compagni di cammino, in questa nostra storia.

    Lo Spirito di gesù continua a gridare in noi, in ciascuno: Abbà! Padre!.

    Si tratta di far sì che impariamo ed aiutiamo gli altri ad imparare a riconoscere in noi questo grido.

    3. LA VITA COME PELLEGRINAGGIO VERSO IL PADRE

    Da quanto accennato comprendiamo come all’uomo in fin dei conti non si aprano che due possibili vie.

    Da un lato, l’uomo chiuso in se stesso in una proteica pretesa d’essere padrone di sé e del proprio destino, intento a conseguire i corti rizzonti dei propri progetti: il risultato è solitudine, scontentezza, non senso.

    Dall’altro un uomo che si pone in ricerca di un orizzonte più grande che gli è dato come promessa da un Altro, un Padre che ci corre incontro e ci chiama.

    Per il credente vi è dunque l’invito a porsi come un pellgrino in cammino, un ritorno alla casa del Padre nella certezza che non si vive per la morte ma per la vita, che il nostro porto è legato ad un Padre che dona la vita. E’ un Padre che ci  costringe a ripartire continuamente, che ci pone in cammino insieme ai nostri fratelli, non lascia che ci ripieghiamo sulle nostre tristezze e solitudini.


  • 02 Feb

    CONOSCERE IL PADRE

    di p. Attilio Franco Fabris

    Gesù è mediatore della conoscenza del Padre:

    Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare (Mt 11,27).

    Ma che cosa significa conoscere il Padre?

    Per la natura umana comune e condivisa da tutti noi possediamo una base di conoscenza reciproca che ci permette una comunicazione di esperienze, ma nello stesso tempo ciascuno è unico ed irrepetibile il che fa sì che ciascuno sia portato ad uscire da sé, per andare incontro all’altro.

    Talvolta poi una terza persona ci pone in contatto con qualcosa di diverso, ovvero mi introduce in una sua conoscenza, mi aiuta ad esempio a stringere nuovi legami. Questa persona appare allora come mediatore.

    Partendo da queste considerazioni ci domandiamo allora: ma è possibile a noi creature umane conoscere Dio come persona? Noi non abbiamo la sua natura, tra lui e noi è posta una distanza abissale. Come possiamo dire di conoscere il Padre?

    Una conoscenza di Dio “naturale” mi porta tuttalpiù a prendere coscienza di una entità superiore e metafisica. E’ una conoscenza filosofica, dottrinale. E’ un po’ come il “Dio ignoto” da cui Paolo ad Atene prenderà lo spunto per annunciare Cristo e il Padre (cfr At 17,23).

    L’unica possibilità che rimane è dunque una rivelazione. La Scrittura ci dice che l’uomo è immagine di Dio, fatto a sua somiglianza.

    Questo allora mi fa capire che tutto ciò che è autenticamente umano mi può portare a Dio, condurre a lui, ad una certa conoscenza di lui.

    Ma questa stessa rivelazione non si limita a questo, perché sappiamo che la natura umana non è più così trasparente da portarci imemdiatamente all’immagine di Dio.

    Dio stesso compie un passo qualitativamente diverso, prende l’iniziativa di farsi conoscere incarnandosi, facendosi prossimo all’uomo stesso.

    San Giovanni nel suo vangelo presenterà Gesù come rivelatore, “esegesi” del Padre.

    Nella “preghiera sacerdotale” Gesù dice:

    Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo.

    Ancora è lo stesso Gesù che dopo la sua morte e risurrezione fà dono alla sua comunità del suo Spirito. Nell’uomo è infusa questa presenza divinizzante che ci rende capaci di sintonizzarci e di conoscere il Padre all’interno di una relazione di amore e di allleanza.

    Chiedere nella preghiera inistentemente di possedere tale conoscenza è vitale per noi: è possedere la vita eterna.


    CONOSCERE GESU’  E’ CONOSCERE IL PADRE

    Gv 7,29: Eppure io non vengo da me e chi mi ha mandato è veritiero. Voi non lo conoscete; io però lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato.

    Nell’accostare la persona di gesù non dobbiamo fermarci al Gesù storico nell’uillusione così di poterlo già conoscere. La vita terrena di gesù è certo ricchissima in questo senso ma è insuffciente.

    Conoscere gesù implica accostarsi al suo mistero di Figlio eternamente generato da Padre, di inviato dal Padre, di rivelatore del Padre.

    AI Giudei gesù ripeterà che essi non conoscono il Padre perché non riconoscono il Figlio.

    Chi conosce il Padre è solo gesù, perché Dio nessuno l’ha mai visto (Gv 1),  e lui è venuto in questo mondo per comunicarci questa conoscenza.

    Quindi conoscere superficialmente Gesù significa conoscere superficialemnte il Padre. Rispose gesù: Voi non conoscete né me né il Padre; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio. (Gv 8,19).

    Ne scaturisce il dato di fatto fondamentale che per il discepolo è essenziale la familairità col Vangelo al fine di poter conteplare il mistero del Padre: Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare.

    Allora potremmo interrogarci se quando invochiamo “Dio nostro”, “Dio mio”, lo invochiamo e riconosciamo realmente come il Padre di Gesù e Padre nostro. Oppure se in noi esiste ancora una spaccatura tra Gesù e un Dio ancora generico e misconosciuto.

    La vera adorazione da tributare al Signore Gesù è quella di ricoscerlo come inviato del Padre, come immagine perfetta del Dio invisibile.

    IO E IL PADRE SIAMO UNA COSA SOLA

    Un testo importante appartiene al “discorso di addio” pronunciato da gesù nell’ultima cena. Gesù risponde agli interventi di Tommaso e di Filippo:

    Non sia turbato il vostro cuore.

    Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me.

    Nella casa del Padre nio vi sono molti posti; se no, ve l’avrei detto.

    Io vado a prepararvi un posto.

    Quando sarò anadato e vi avrò preparato un posto,

    ritornerò e vi prenderò con me,

    perché siate anche voi dove sono io.

    Già conoscete la via per anadre dove sono vado?

    Gli disse Tommaso: Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?

    Gli disse Gesù: Io sono la via, la verità e la vita:

    nessuno vine al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,1-6)

    Gesù si presenta come via che conduce al Padre, il che supera di molto la nube e il fuoco che guidavano il popolo ebreo nel deserto.

    Gesù è la vita che egli eternamente riceve dal Padre, da lui possseduta in pienezza e a noi comunicata.

    Gesù è verità non solo perché porta agli uomini un insegnamento vero, ma perché lui stesso è piena verità del Padre.

    Viene poi l’intervento di Filippo:

    SE conoscete me,  conoscerete anche il Padre.

    Fin da ora lo conoscete e lo avete veduto.

    Gli dice Filippo:

    Signore mostraci il Padre e ci basta.

    Gesù gli risponde:

    Da tanto tempo sono con voi

    e tu non mi hai conosciuto, Filippo?

    Chi ha visto me ha visto il Padre.

    Come puoi dire: Mostraci il Padre?

    Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me.

    Le parole che io vi dico, non le dico da me;

    ma il Padre che è in me compie le sue opere” (Gv 14,7-10).

    Contemplando attraverso il Vangelo la vita di Gesù, noi percepiamo come in filigrana la presenza e l’azione del Padre.

    Nell’antico testamente Dio parla nel tuono e nel fulmine,è avvolto da nubi oscure: non si può vedere il volto di Dio. Quando Mosè rivolegrà a JHWH la preghiera: “Mostrami la tua gloria”. Il Signore gli risponde: Non potrai vedere il mio volto, perché nessuno uomo può vedermi e restare vivo (Es 33,18-20).

    Nell’ultima cena Filippo ripete la preghiera audace di Mosè, e qui riceve una risposta affermativa: in Gesù Maestro e Signore egli può contemplare il volto del Padre.

    Ci domandiamo: noi che quotidianamente leggiamo e meditiamo le pagine del Vangelo, accopagnando gesù nel suo cammino possiamo dire di conoscerlo veramente? Riusciamo a avedere in lui il volto del Padre.

    Certo non vediamo il volto terreno di Gesù, tuttavia la stessa esperienza degli apostoli è possibile tramite gli occhi della fede.

    Tanta esperienza mistica lungo i secoli testimonia in modo impressionante questa possibilità.

    Ricordiamo che questo è possibile poiché esiste un’unità inscindibile perfetta eterna tra il Figlio e il Padre, con lo Spirito sono una “cosa sola” (Gv 10,30).

    E questa unità tramite il Figlio si apre per accoglierci.

    IL RUOLO DELLO SPIRITO

    Nella rivelazione del Padre anche lo Spirito ha un suo ruolo: Io pregherò il Padre che vi manderà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre… ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome egli v’insegnerà tutto e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14,15ss).

    Lo Spirito sarà mandato anche dal Padre per riguardo al Figlio, o quando gli uomini lo chiederanno invocando il Figlio. Abbiamo qui un forte riferimento trinitario.

    Il Figlio manda lo Spirito da parte del Padre; il compito dello Spirito è di rendere testimonianza al Figlio. Lo Spirito accuserà il mondo di peccato e ristabilirà la giustizia e sarà pronunciata la sentenza di condanna del “principe di questo mondo”.

    E anche i discepoli, mossi dallo Spirito, sono inviati a rendere testimonianza a Gesù in quanto inviato dal Padre. Tutta la missione apostolica sta sotto il segno dello Spirito.

    Questo è lo Spirito che Gesù continua a mandare sulla Chiesa e sul mondo

  • 01 Feb

    PADRE ONNIPOTENTE

    di p. Attilio Franco Fabris

    Per te chi è Dio?

    Sicuramente a questa domanda possono presentarsi molte risposte, forse, più facilmente, molti silenzi ed interrogativi.

    Se da un lato il pensiero di Dio attira, affascina, da un altro esso suscita un’infinità di atteggiamenti emozionali e talvolta contraddittori. Ne è prova una certa rinascita del sentimento religioso ai nostri giorni.

    Al di fuori della rivelazione biblica ed evangelica gli uomini hanno tentato diversi approcci al mistero del Dio Trascendente dandogli diversi volti e nomi. Ne sono prova la varietà di religioni che hanno visto il loro nascere lungo i secoli in tutte le parti del mondo.

    Paolo nell’Areopago di Atene vedendo la varietà dei templi e degli altari  esistenti sull’Acropoli i atene non perde l’occasione per annunciare il vangelo:

    Cittadini di Atene, vedo che siete in tutto molto timorati degli dèi. Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un altare con l’iscizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio (At 17,22-23).

    Paolo non disprezza questa ricerca “a tentoni” da parte dell’uomo naturale; è un inizio, un preannuncio, una disponibilità a ricevere il dono della rivelazione. Certo egli afferma che, a causa del peccato, questa ricerca è destinata a girare a vuoto ed ad imboccare molte vie errate.

    Per passare dal Dio Ignoto al Dio unico e vero occorre che egli si riveli, mostri il suo volto irraggiungibile. E noi crediamo che Gesù abbia rivelato pienamente questo volto.

    Credo in Dio Padre onnipotente

    Al concetto di Dio onnipotente l’uomo naturale era giunto, ma dandole tonalità che facevano riferimento al suo concetto di potenza: quindi caratterizzata da un potere indiscriminato, imprevedibile, capace di incutere rispetto e paura… una onnipotenza, in fin dei conti, poco simpatica.

    Ma nel simbolo apostolico noi affermiamo che Dio è Padre onnipotente!

    La parola Padre frapposta a Dio e ad Onnipotente  ci abbaglia e ci sconcerta, perché queste due parole (Dio e Onnipotente) alla luce della paternità cambiano totalmente prospettiva.

    HA RIVELATO IL SUO NOME

    La rivelazione del nome di Padre è stata progressiva, e si è manifestata lungo la storia attraverso gli interventi di salvezza che JHWH ha compiuto per il suo popolo.

    Si tratta di ben quaranta secoli!

    Abramo ode una voce: Vattene da l tuo paese, dalla tua patria… verso il paese che io t’indicherò (Gn 12,1).

    E’ la voce di El: il Dio onnipotente, misterioso ed invisibile, eppur vicinissimo ad Abramo, tale da accompagnarlo nel suo cammino: proprio come un padre farebbe con suo figlioletto.

    Una  seconda tappa sarà la rivelazione del nome fatta a Mosè.

    JHWH lo chiama dal roveto ardente: Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe… Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti… Sono sceso a liberarlo… Ora va’!

    Ma Mosè chiede esplicitamente il nome a Dio: Ecco io arrivo dagli israeliti e dico loto: il dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro?

    Ed è così che Dio rivela il suo nome: Io sono colui-che-sono… Dirai agli israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi… Questi è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione (cfr. Es 3).

    Si tratta di un evento straordinario, perché Dio rivelando il suo nome lascia che l’uomo entri in una relazione intima con lui, gli attribuisce un potere su di lui, come se gli dicesse: “Mi chiamo così e così, ormai sai come mi chiamo, puoi dunque chiamarmi, non hai che da chiamarmi, ora sai il mio nome”.

    Dare un nome implica qualcosa che va al di là di una semplice definizione. Dare un nome significa esercitare un dominio. Il nome implica sempre un rapporto, l’altro non è più uno sconosciuto tra tanti altri.

    Se Dio dice il suo nome e chiama per nome è per porsi in dialogo, dandosi in un rapporto di amicizia e di alleanza. Da questo momento Dio non è più uno sconosciuto misterioso.

    Il nome rivelato a Mosè non è una definizione ontologica. Si tratta di un nome proprio, di un nome che rivela la sua presenza (Io-sono-qui), è un nome che indica fedeltà.

    Passano secoli e appare un Rabbi nella Galilea. Egli proclama di se stesso: Se non credete che Io-Sono, morirete nei vostri peccati… Quando avrete innalzato il figlio dell’uomo, allora saprete che Io-Sono (Gv 8,24.28).

    Gesù si presenta come nuovo roveto ardente che rivela non più solo il nome ma anche il volto di Dio: Dio incarnato Dio con noi. Al termine della sua missione Gesù in pienezza potrà dire: Padre, ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini (Gv 17,6).

    Al culmine della rivelazione, il Signore Gesù si presenta come il rivelatore del nome/volto vero e vivo di Dio. Sentiamo Giovanni esclamare con giubilo nel prologo: Dio nessuno lo ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato.


    IL PADRE GUARDATO CON SOSPETTO

    Ma le affermazioni congiunte di “Dio” e “Padre” sollevano tante questioni.

    Sembra infatti assurdo assommare la divinità onnipotente con la paternità divina. L’onnipotenza sembra escludere la paternità. A meno che non ci si rifaccia ad una simbolica di padre-padrone.

    Ancora più la difficoltà aumenta pensando che la simbolica del padre oggi non è così scontata. Ai contemporanei suona quanto meno ambigua se non irritante.

    Purtroppo o per fortuna il linguaggio non indica sempre realtà univoche, spesso risulta addirittura mistificante. Alcuni filosofi hanno così denunciato il linguaggio religioso come il più soggetto a questo rischio.

    Per questi filosofi affermare “Dio Padre” equivale ad affermare solo un fantasma a servizio di una data stratificazione sociale (Marx), oppure a fomentare un risentimento camuffato da parte dei deboli (Nietzcshe), o ancora è frutto di un inconscio che si vorrebbe imbrigliare perché pericoloso (Freud)., infine potrebbe rappresentare solo un insieme di simboli sociali convenzionali (Althusser).

    Le parole nascondono dunque solo dei tranelli?

    Pensiamo di no, esse sono indicatrici, rivelatrici di una realtà da esse solo indicata. L’uso che la rivelazione fa del linguaggio umano è legittimo, poiché è la sola possibilità di parlare di Dio almeno per analogia.

    Per le nuove generazioni la parola Padre appare una provocazione bell’e buona. Sazie  di paternalismo si sono ripiegate su una forma di “parricidio”: ovvero su un rifiuto di ogni “paternità” al fine di rivendicare la propria autonomia, libertà, indipendenza.

    Il padre è morto, dunque… Dio Padre è morto.

    Ma ciascuno di noi si porta dentro, voglia o non voglia, nel profondo, questo archetipo, che stando alla psicologia del profondo è tra i fondamentali della psiche umana.

    Ne è prova il fatto che ciascuno sente la propria esperienza di figlio come fondamentale nel proprio cammino vitale. Mi ha colpito la vicenda raccontata in TV di un uomo ormai anziano che ha speso tutta la sua vita, le sue energie, nella disperata ricerca della propria madre in quanto abbandonato da piccolo e adottato. A ben sedici anni abbandonò improvvisamente la propria famiglia adottiva per mettersi alla ricerca della propria origine, a più di sessanta non desisteva ancora da questa ricerca che diceva essere l’”unico scopo della sua vita”.

    Ma una cosa importante è constatare che Dio quando si rivela come padre, non si richiama alla nostra esperienza di figli; non dice: Ricordatevi di vostro padre e di vostra madre: io sono come loro. Rimanda al contrario all’esperienza adulta dell’essere padre o madre nei confronti dei figli (cfr. Is 49,15; Os 11,1-4; Lc 11,11-13).

    La simbologia del padre applicata a Dio rimanda dunque non all’esperienza di figli, ma a quella dei genitori amorosi, alla loro tenerezza. Balzac in un suo romanzo dice: “Io ho veramente compreso ciò che poteva significare essere Dio, solo quando sono diventato padre”.

    L’essere padre o madre significa sentirsi immagine di Dio Padre.

    E a Dio compete l’originaria paternità di  ogni cosa creata, sulla quale si struttura ogni paternità e maternità. Nessuno è padre quanto Dio: “Non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello dei cieli” (Mt 23,9).

    PADRE DI TUTTI E DI CIASCUNO

    Tutta la scrittura ci parla di un Dio che si rivela paterno nei confronti del suo popolo.

    Lungo la storia del popolo di Israele JHWH non si perde in chiacchiere e dichiarazioni, cosa tipica dei “paternalisti”. Egli è l’”Io-Sono-qui” che si manifesta attraverso avvenimenti concreti della storia,  ed è per questo che solo successivamente è colto da Israele come Dio che agisce ed è presente:

    Non è lui il padre che ti ha creato, che ti ha fatto e che ti ha costituito?… Hai dimenticato il Dio che ti ha creato!” (Dt 32,6.18).

    Io sono il Signore tuo Dio che ti tengo per la mano destra e ti dico: Non temere, io ti vengo in aiuto. Non temere, vermiciattolo di Giacobbe, larva di Israele, io vengo in tuo aiuto – oracolo del Signore – tuo redentore è il Santo di Israele” (Is 41,12-14).

    Pur nella sua storia tormentata e costellata di tradimenti, Israele sa di poter contare sempre sulla fedeltà-amore-paternità del suo Dio:

    Dove sono il fremito della tua tenerezza e la tua misericordia? Non sforzarti all’insensibilità, perché tu sei il nostro padre… Tu Signore, sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore” (Is 63,15-16).

    E Dio sempre si lascerà muovere a compassione, come una tenera madre verso il suo piccolo:

    Non è forse Efraim un figlio caro per me, un mio fanciullo prediletto? Infatti, dopo averlo minacciato, me ne ricordo sempre più vivamente. Per questo le mie viscere si commuovono per lui, provo per lui profonda tenerezza. Oracolo del Signore” (Gr 31,20).

    Questa paternità di Dio che inizialmente è rivolta esclusivamente alla dimensione di Israele come popolo, nella rivelazione cristiana viene ad assumere pure il connotato di una relazione anche personale intima di ciascuno con Dio.

    Così si è sono portati a scoprire che il Padre che è nei cieli,  conosce ciascuno per nome, siamo suoi figli, contiamo per lui:

    Poi disse ai suoi discepoli: Per questo io vi dico: Non datevi pensiero per la vostra vita, di quello che mangerete, né per il vostro corpo, come lo vestirete. La vita vale più del cibo e il corpo più del vestito. Guardate i corvi: Non seminano e non mietono, non hanno ripostiglio né granaio, eppure Dio li nutre. Quanto voi valete più degli uccelli” (Lc 12,22-24; cfr. Mt 10,29-31).

    Il figlio è preservato dall’ansia e dall’affanno per le cose:

    Di tutte queste cose si preoccupano i pagani. Il Padre vostro celeste sa infatti che ne avete bisogno… Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena” (Mt 6,32-34).

    Questa rivelazione della paternità di Dio prima verso il popolo, poi per ciascuno porta il credente ad estendere la consapevolezza della paternità di Dio a tutti, nessuno è escluso perché Dio tratta tutti come figli, ama tutti dello stesso amore e con lo stesso cuore di Padre:

    Per questo Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del vostro Padre celeste che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti… Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt5,44-47).

    Egli è Padre di tutti i popoli, di tutti gli uomini; è Padre di ogni uomo, qualunque sia la sua razza, la sua religione, e il  suo… peccato. E’ questa la rivelazione del vangelo.


    PADRE ONNIPOTENTE

    Ora come conciliare la paternità premurosa di Dio per ciascuno e la sua maestosa onnipotenza di fronte alla quale ci sentiamo quasi annientati e lontani?

    Questa onnipotenza dicevamo spaventa un po’!

    Nella Scrittura essa è espressa in immagini temibili: “Dio delle moltitudini”, “Dio delle potenze”, Dio delle schiere”…Egli è il Dio “Sabaoth” sovrano di tutto e di tutti.

    Potenza assoluta-amore assoluto sono inconciliabili? Distanza assoluta-prossimità assoluta, l’essere assoluto e l’essere fattosi limitato e legato all’uomo sono irrimediabilmente concetti escludentesi a vicenda?

    Questa inconciliabilità trova uno sbocco sconcertante solo nella seconda parte del Credo: Credo in Gesù Cristo, suo figlio unigenito…

    L’incarnazione ha rivelato contemporaneamente il volto della paternità di Dio e la sua onnipotenza: un Dio che vagisce in una stalla, agonizzante su una croce…

    In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati (1Gv 4,8-10).

    Siamo così costretti a rivedere radicalmente tutte le nostre immagini di potenza e di sovranità.

    La potenza di Dio è l’esattamente contrario della potenza intesa umanamente. La potenza suprema di Dio è il poter completamnente rinunciare alla potenza: è onnipotenza di amore.

    Scrive F. Varillon: Quando usciamo dalla sfera propria dell’amore e, lavorando di fantasia introduciamo in Dio elementi estranei all’amore, quando pensiamo che l’amore è qualcosa in Dio o un aspetto di Dio e non Dio stesso, allora ci costruiamo un idolo. Siffatta idolatria alligna nel cuore dei cristiani sotto la parvenza della fede, quando appunto la fede non è abbastanza forte e pura per criticare i concetti e le immagini che si moltiplicano alla sua ombra.

    Gli attributi di Dio per quanto belli e numerosi non costituiscono la natura di Dio. Questa è amore, nient’altro. I nostri attributi ne esprimo sono delle qualità.

    Un esempio. Tu hai una casa al mare: è nuova, bianca, grande, luminosa… Quello che possiedi al mare non è il biancore, la grandezza, la luminosità. Tu hai una casa e nient’altro ed essa è bianca, grande, luminosa. Questi sono solo attributi della casa. Ora l’amore non è attributo di Dio, ma tutti gli attributi di Dio sono gli attributi dell’amore.

    Quanto allora dobbiamo purificare le nostre immagini di Dio!

    L’amore di Dio Padre per noi, per me, è antecedente, gratuito, senza ragione, senza condizioni.

    I genitori amano il figlio che deve arrivare prima ancora di vederne il volto, di saperne il sesso, il carattere, il colore dei capelli e degli occhi… (e quanto purtroppo sperimentiamo come il nostro amore umano rischia sempre di porre condizioni e ragioni!).

    L’amore del Padre dei cieli non presuppone nulla da parte mia, non ho nessun valore da presentargli prima, non aspetta che io lo ami o che io sia amabile.

    Scrive ancora Varillon: L’amante dice all’amata: “Tu sei la mia gioia”, il che significa: “Senza di te sono povero di gioia, infelice”. Oppure: “Tu sei tutto per me”, il che significa: “Senza di te non ho nulla, sono niente”. Amare vuol dire esistere mediante l’altro e per l’altro… Colui che ama di più, pertanto, è anche il più povero. L’infinitamente amante-Dio è infinitamente povero. Mendicante d’amore?!

    Anche l’amore dei fidanzati, degli sposi, non è mai completamente gratuito, perché è reciprocità.

    La gratuità totale ed eterna dell’amore è l’onnipotenza di Dio, del suo amore di Padre. Povertà, spinta all’infinito, dei genitori di un figlio ingrato che non cessano di amare…

    Quest’amore gratuito corre il rischio del rifiuto, della dimenticanza, del tradimento. D’altronde un’onnipotenza che piegasse l’uomo al proprio volere non esiste, negherebbe all’uomo il dono della libertà di figlio (cfr. la parabola : “Un uomo aveva due figli” Lc 15).

    Dio corre il rischio della libertà dell’uomo. Sartre diceva: Se l’uomo è libero Dio non esiste.

    Il Dio “Onnipotente” alla maniera umana non esiste.

    Esiste un Padre onnipotente, onnipotente nel suo amore.


    SCHEDA DI LAVORO

    1.                 Dio Padre Onnipotente: questa espressione che sentimenti suscita in te. Prova ad elencarli e a darne una motivazione.

    2.                 La rivelazione biblica ha conosciuto una diversità di nomi da dare a JHWH. L’islamismo conosce 99 nomi da attribuire a Dio: non inserisce quello di padre. Tu che nome sceglieresti per definire Dio? Perché?

    3.                 La paternità di Dio abbraccia tutti senza distinzioni. Cosa significa questo? Cosa comporta concretamente nel vissuto della tua fede?

    4.                 L’onnipotenza di Dio, e onnipotenza del farsi debole. Bimbo che vagisce e crocifisso sul Calvario. Questo cambia di molto la prospettiva con cui intendere la sua onnipotenza. Questo fatto cosa viene a togliere, a modificare, a migliorare nel tuo rapporto con lui? Nella tua vita cristiana cosa significa?

    5.                 Cerca di comporre una tua breve preghiera in cui cerchi di dire a Dio i tuoi sentimenti di fronte alla sua rivelazione di Onnipotente e Padre.

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