• 13 Feb

    LE PREPARAZIONI


    6. Sacramento dell’alleanza


    1. Introduzione

    Questo è il calice del mio sangue, il sangue della nuova ed eterna alleanza“. dicono tutte le preghiere eucaristiche.

    Parole che fanno eco agli evangelisti e a s. Paolo: “Questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti” (Mt 26,28; Mc 14,24); “questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi” (Lc 22,20; 1Cor 11,25).

    I materiali di cui si serve l’eucaristia cristiana non sono affatto una semplice materia bruta, ma sono pietre già squadrate e sapientemente lavorate. Non uno iota solo di quanto già inciso sarà cancellato.  Non possiamo partire da zero con le prime formule eucaristiche cristiane, come non si può partire da zero col vangelo.  Nei due casi, per un disegno provvidenziale, abbiamo un antico testamento che non è possibile saltare a pie’ pari. Se infatti la provvidenza ha giudicato necessaria questa tappa, non abbiamo allora né il diritto né la possibilità di cancellarla con un colpo di spugna. (Bouyer)

    L’eucaristia è perciò dominata dall’idea, dalla realtà dell’alleanza, radicata nell’alleanza, “compie” l’alleanza.

    Sappiamo tutti che cosa sono le alleanze, di cui si porta al dito un piccolo segno; sappiamo che esse significano dono totale, corpo e anima, per tutta la vita, nell’amore.

    E’ necessario approfondire questo tema nella prospettiva dell’eucaristia.

    L’eucaristia, infatti, è il “sacramento dell’alleanza”; il sangue prezioso è il “sangue dell’alleanza”.

    Come la intendiamo?  Come la viviamo?

    2. Le alleanze della promessa

    Parlando del tempo della loro vita pagana, s. Paolo scrive ai cristiani di Efeso: “Ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d’Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo” (Ef 2,12).

    Giudica perciò d’estrema importanza per la salvezza questo diritto di cittadinanza nell’Israele spirituale.

    E noi?  Sappiamo che ci sono queste alleanze, questi “patti della promessa”, senza i quali saremmo “senza speranza e senza Dio in questo mondo”?  Promessa di che cosa?  In virtù di quali alleanze?

    Se ci si accosta all’alleanza del Sinai, saremo rinviati ad Abramo: il Signore rinnova con Mosè l’alleanza conclusa con Abramo. Matteo e Luca, ritengono di capitale importanza sottolineare con una genealogia che Gesù era figlio di Abramo, a causa della promessa! (Cfr.  Mt 1,1ss; Lc 3,23ss).

    E i due grandi cantici evangelici – il Benedictus e il Magnificat – che la liturgia cristiana riprende ogni giorno, a lodi e a vespri, come i pilastri della sua fede e della sua speranza, questi due cantici ricordano Abramo a proposito dell’incarnazione di Gesù e della salvezza del mondo:

    “Ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza, dei giuramento fatto ad Abramo, nostro padre…”

    “Si è ricordato della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, al Abramo e alla sua discendenza per sempre”.

    3. Abramo: Il padre di tutti i credenti

    Con Abram, che Dio chiamerà Abraham dopo l’alleanza (Gen 17,5), la Bibbia raggiunge la storia.  Tutto ha inizio verso l’anno 1850 a.C., al tempo della prima dinastia di Babilonia, e in alcune città (Ur, Harran) che gli scavi archeologia degli ultimi cinquant’anni ci hanno restituite, con innumerevoli documenti dell’epoca, in particolare con migliaia di tavolette scritte, archivi dei re di Mari capitale della Caldea.

    Giosuè disse a tutto il popolo: “Dice il Signore, Dio d’Israele: i vostri padri, come Terach padre d’Abramo e padre di Nacor, abitarono dai tempi antichi oltre il fiume e servirono altri dei.  Io presi il padre vostro Abramo da oltre il fiume e gli feci percorrere tutto il paese di Canaan”. (Gs 24,2-3)

    Proprio in questo luogo e in questo tempo Dio prende l’iniziativa di “rivelarsi”.  Abramo vive un’esperienza interiore che lo domina: Dio gli parla.

    “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre…” (Gn 12).

    Quando la parola di Dio esce dal silenzio è sempre per strapparci verso un “altrove”; verso lui stesso.

    E’ il movimento della salvezza.  Dio non si rivolge a nessuno per lasciarlo al suo passato, alla sua terra, ai suoi idoli, alla sua personale sicurezza.  Bisogna “passare” fiumi, deserti, e cambiare terra e divinità.

    Prima tappa della fede: lasciare la presa, senza rete di salvataggioNon saper nulla di quel paese… perché l’unico paese in cui ci si può fermare è Dio.

    Nella fede morirono tutti costoro, pur non avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati da lontano, dichiarando d’essere stranieri e pellegrini sulla terra.  Chi dice così, infatti, dimostra d’essere alla ricerca d’una patria.  Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto possibilità dì ritornarvi; ora invece essi aspirano a una migliore, cioè a quella celeste.  Per questo Dio non disdegna di chiamarsi loro Dio: ha preparato infatti per loro una città. (Eb Il, 13 -16)

    La lettera agli Ebrei (1 1,8ss) l’autore ci mostra in tutta la sua grandezza la fede del patriarca: “Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava.  Per fede soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa.  Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso: la Gerusalemme celeste”.

    Era il primo aspetto della “promessa”: una terra, nuova e sconosciuta.

    Ed ecco il secondo: “Farò di te un grande popolo“, dice Dio, “e ti benedirò, renderò grande il tuo nome.  In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra.  A quest’uomo di settant’anni e a Sara che è sterile, Dio darà un popolo di discendenti; anzi di più: “in lui si diranno benedette tutte le famiglie umane“, i suoi figli saranno numerosi come la polvere della terra e come le stelle del cielo (Gn 13, 16; 15,5), “a lui e alla sua discendenza è data la promessa di diventare erede del mondo” (Rm 4,13), la promessa, cioè, che ogni uomo, ebreo o non ebreo, sarà debitore della vita eterna a colui di cui Abramo è l’antenato, Gesù, compimento di questa promessa.

    Abramo “amico di Dio” (Is 41,8), partì: credette alla divina parola e attese l’impossibile.  Per questo, “nessuno ci fu simile a lui nella gloria” (Sir 44,19).

    Le tradizioni ebraica e cristiana lo proclamano “padre di tutti coloro che credono” (Rm 4,1 1).

    Tutta la storia del popolo di Dio, tutta la storia della salvezza parte da questa chiamata e da questa risposta.

    Da questa sorgente aperta nella sterilità di Abramo, sostituita dalla sorgente aperta nella verginità di Maria, e dalla loro duplice fede che dice sì senza batter ciglio.

    C’è forse qualche cosa impossibile per il Signore?” (Gen 18,14).

    Questa frase annuncia il concepimento miracoloso d’Isacco, ed è ripresa dall’angelo dell’annunciazione per garantire a Maria il concepimento verginale di Gesù.(Lc 1,37)

    Questa fede prepara e accoglie l’incarnazione del Figlio di Dio, figlio di Abramo, figlio della Vergine, fratello universale di tutti gli uomini, vita e salvezza del mondo.


    4. Gesù: La nuova ed eterna alleanza

    In realtà, con la sua pasqua – la sua morte e risurrezione – Gesù, “figlio di Abramo… figlio di Dio” (Lc 3),

    –   entra personalmente nella beatitudine eterna, la vera terra promessa che noi non conosciamo, e ne apre le porte a tutto il genere umano;

    –   attira a sé, orizzontalmente, “tutti gli uomini” (Gv 12,32), tutto il popolo di Dio, e ne fa una sola famiglia di fratelli; di più: un solo corpo (Rm 12,5), dunque una sola discendenza spirituale d’Abramo, il frutto della sua fede: “I figli che Dio mi ha dato” (dice Gesù) sono la “stirpe d’Abramo” (Eb 2,13 e 16);

    –   attira a sé verticalmente, verso il Padre presso cui è salito, questo popolo di Dio che nasce, cammina e muore, di generazione in generazione, fino alla parusia finale: discendenza universale promessa ad Abramo.

    Per mezzo dell’eucaristia, egli continua e termina felicemente il suo “compimento” in una incessante migrazione, un incessante “passaggio”, “oltre il fiume” della morte, verso l’eternità: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,54).

    Tutti voi siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo.  Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù.  E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza d’Abramo, eredi secondo la promessa. (Gal 3,26-29)

    5. Alla maniera di Melchisedek

    La Lettera agli Ebrei riassume questo mistero della storia della salvezza nei seguenti termini:

    “Il Figlio, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di Mechisedek(5,9-10).

    Nello stesso modo Cristo non si attribuì la gloria di sommo sacerdote, ma gliela conferì colui che gli disse: Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato.  Come in un altro passo dice: Tu sei sacerdote per sempre, alla maniera di Melchisedek.  Proprio per questo nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek. (Eb 5,5-10)

    Eccoci rinviati ad Abramo dallo stesso nuovo testamento.  Per indicare che cosa?

    Abbiamo visto che Abramo è superiore a Mosè.

    Di conseguenza, il sacerdozio di Aronne, fratello di Mosè, sarà ugualmente sostituito, in Gesù Cristo, da un sacerdozio superiore, “alla maniera di Melchisedek” (Eb 7,1-28), dal sacerdozio che Abramo ci fa scoprire: quello delle nostre eucaristie.

    Ecco i fatti: alcuni re predoni hanno rapito Lot, suo nipote, con la famiglia e i beni. Abramo e la sua truppa li inseguono, li raggiungono e riportano indietro nipote, famiglia, beni e il “di più” di un ricco bottino.  Sulla via del ritorno, passano per una città chiamata Salem – “la pace” – che diventerà poi celebre e santa sotto il nome di Gerusalemme.  Ora, questa “città-la-pace” è governata da un re di cui non si conoscono né gli ascendenti né i discendenti, e che ha nome Melchisedek, “re-di-giustizia”.  Egli è anche sacerdote: “sacerdote del Dio altissimo, creatore del cielo e della terra” (Gen 14,18-19),  sacerdote del vero Dio, l’unico, quello di Abramo e di Gesù Cristo.

    Questo personaggio misterioso è presentato dal Salmo 110 come una figura del Messia, re e sacerdote.  Tale applicazione al sacerdozio di Cristo è sviluppata nella lettera agli Ebrei al cap. 7.

    La tradizione patristica ne sottolineerà gli aspetti importanti:

    A. Melchisedek comincia con l’ “offrire pane e vino”.  A che scopo?  Per un’offerta rituale?  No!  Per condividerli con Abramo e il suo seguito. E’ un gesto di ospitalità, un rito di accoglienza per gli stranieri. E’ anche un pasto – sacro o no, è secondario -, un pasto condiviso tra due stirpi, in segno di alleanza fraterna.

    In questo pane e questo vino presentati ad Abramo, i santi padri vedranno una figura dell’eucaristia, e insieme un vero sacrificio.  Tale interpretazione è entrata nel canone della messa (canone romano).

    B. Poi Melchisedek “benedisse Abramo e questi “gli diede la decima di tutto”.  Come è stato sottolineato, il ruolo principale è tenuto qui da Melchisedek, sacerdote non ebreo; di fronte a lui Abramo l’ebreo, antenato dei sacerdoti levitici, occupa un grado inferiore.  Attraverso Melchisedek, Abramo si inchina davanti a Gesù Cristo e riceve da lui il pane e il vino.

    C. Inoltre, il personaggio, il nome, i titoli di re-sacerdote, il fatto che non ha ricevuto un’investitura terrena, tratteggiano così bene le caratteristiche di Gesù che molti padri hanno affermato che in lui era apparso il Figlio di Dio in persona.  Gesù, in ogni caso, sarà “sacerdote alla maniera di Melchisedek”.

    Anzitutto il suo nome tradotto significa re di giustizia; è inoltre anche re di Salem, cioè re di pace.  Egli è senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio e rimane sacerdote in eterno” (Eb 7,2-3).

    Sul portale di Reims, Melchisedek, in abiti sacerdotali, tiene in mano una pisside e presenta un’ostia ad Abramo che è vestito come un guerriero medioevale, con le mani giunte per ricevere il sacramento.  Anche l’atrio settentrionale di Chartres rappresenta Melchisedek con in capo la tiara di sommo pontefice e in mano un incensiere e una pisside.  Gli scalpelli degli scultori hanno tenuto conto di tutta la tradizione patristica e liturgica. Il sacerdote eterno, Gesù, dà l’eucaristia a tutto il popolo di Dio nella persona del suo antenato nella fede, Abramo.

    6. L’alleanza senza condizioni

    Prima di Abramo e da sempre, l’alleanza era una pratica giuridica e sociale molto in uso tra gli uomini.  Questo rito era un contratto, con diritti e doveri reciproci. Patti di amicizia, di pace, di vassallaggio, tra individui o tra gruppi stipulati attraverso un rito specifico:  “Le parti si impegnano con giuramento.  Si dividono in due degli animali e si passa tra le metà pronunciando delle imprecazioni contro gli eventuali trasgressori (si invoca su chi sarà infedele la sorte di quegli animali fatti a pezzi).  Infine si stabilisce un memoriale: si pianta un albero. o si erige una pietra che saranno ormai i testimoni del patto” (DTB).

    Dio contratta ufficialmente con il suo amico Abramo secondo questo rito abituale. E’ utile leggere, al capitolo 15 della Genesi, la messinscena degli animali divisi e di Dio, sotto forma di fiaccola ardente, che accetta di essere “tagliato in due”, se viene meno alla sua promessa!

    (Dio) condusse fuori (Abram) e gli disse: “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle” e soggiunse: “Tale sarà la tua discendenza”.  Egli credette al Signore che glielo accreditò come giustizia.  E gli disse: “lo sono il Signore che ti ha fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questo paese”.  Rispose: “Signore mio Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso?”.  Gli disse: “Prendi una giovenca di tre anni, una capra di tre anni, un ariete di tre anni, una tortora e un piccione”.  Andò a prendere tutti questi animali, li divise in due e collocò ogni metà di fronte all’altra…. Quando, tramontato il sole, s’era fatto buio fitto, ecco un forno fumante e una fiaccola ardente passarono in mezzo agli animali divisi.

    In quel giorno il Signore concluse questa alleanza con Abram. (Gen 15,4-18)

    Si tratta d’una promessa.  Dio non chiede nulla, non mercanteggia.  E Abramo non dà nulla, non promette nulla, non dice nulla. Abbiamo qui la differenza radicale con le alleanze umane.

    Dio promette tutto e darà tutto.  Un volta per sempre, Dio s’impegna a condurre l’uomo alla felicità nella terra di Dio.

    Questa promessa ci riguarda, ciascuno personalmente, allo stesso modo di Abramo!  Per quanto grandi possano essere i nostri peccati, Dio non potrà contraddirsi, e ne è una testimonianza “a caldo” la straordinaria contrattazione del capitolo 18 in favore di Sodoma, in cui Abramo si stanca alla fine di intercedere per il perdono.  L’amicizia, la misericordia, da parte di Dio, non verranno mai meno, mentre Dio attende in cambio solo la fiducia e l’amore: “Cammina davanti a me e sii perfetto“.

    Neppure questa è una “condizione”.  L’amore infinito di Dio è incondizionato:

    Se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso” (2 Tm 2,13).

    Abramo ha lasciato tutto, ma d’ora in poi la sua sicurezza – e la nostra – sarà la fedeltà di Dio.

    Fedeltà fino alla morte… Per noi che siamo infedeli, lui sarà “tagliato in due” in occasione della pasqua, nell’alleanza di sangue del suo sacrificio.  “Corpo spezzato… sangue versato”… sulla croce, sull’altare.

    “Anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio” (1 Pt 3,18).

    7. Il sacrificio di Abramo

    L’altare?  Abramo ne dovrà innalzare ora uno sul monte Moria (Gn 22) e, come il Padre celeste, sacrificarvi sopra il figlio. Dopo dieci anni di vita errabonda e di fede, ha infatti avuto un figlio, Isacco.  Un unico figlio: attraverso di lui e solo attraverso di lui potranno realizzarsi le promesse di Dio: “Sarai padre di un popolo e questo popolo avrà una terra; e questa terra sconosciuta radunerà tutti i popoli, tuoi figli‘ .

    Ora Dio gli dice: “Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco e offrilo in olocausto! “.

    Abramo non lo sa, ma noi sappiamo che Dio ha un figlio, un unico Figlio, il prediletto.  Sa che cosa domanda. (Anche Maria conoscerà questo strazio).

    Abramo, l’amico di Dio, “il credente”, dà subito la testimonianza assoluta: “Abramo si alzò di buon mattino, spaccò la legna…” (Gen 22,3).

    Pensa forse che Dio si smentisca?

    Eredi quindi si diventa per la fede, perché ciò sia per grazia e così la promessa sia sicura per tutta la discendenza, non soltanto per quella che deriva dalla legge, ma anche per quella che deriva dalla fede di Abramo, il quale è padre di tutti noi.  Infatti sta scritto: Ti ho costituito padre di molti popoli; (è nostro padre) davanti al Dio nel quale credette, che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono.  Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza.  Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo aveva circa cento anni – e morto il seno di Sara.  Per la promessa di Dio non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio. (Rm 4,16-20)

    Ascoltiamo ancora la lettera agli ebrei 11,17ss:

    Per fede Abramo, messo alla prova, offrì Isacco e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unico figlio, del quale era stato detto: In Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome.  Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti. Per questo lo riebbe e fu come un simbolo.

    Un simbolo del sacrificio e della risurrezione di Gesù Cristo.

    Era il mese di Nisan (dalla metà di marzo alla metà di aprile). E’ questa la vera fecondità di Abramo: per virtù della fede, egli genererà l’Isacco della risurrezione.

    Ed è questa la vera nascita di Isacco: quella notte in cui questo “primogenito”, quest’unico, fu “saltato” dalla morte, perché la fede di Abramo lo vedeva già “risorto”…

    Pasqua del primogenito Isacco sull’altare di Abramo, “saltato” dalla morte sterminatrice per virtù della fede di suo padre.

    Pasqua di Gesù Cristo, primogenito del Padre, sgozzato sull’altare della croce e risuscitato perché la morte ”salti” per sempre tutti coloro che non rifiuteranno di aver fede in lui.

    Pasqua dell’Eucaristia “carne data per la vita del mondo” (Gv 6,51) – in cui coloro che non la “salteranno” troveranno vita e risurrezione: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno (6,54).


    IL SACRAMENTO DELL’ALLEANZA

    “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò  tutti a me” (Gv 12,32). L’elevazione sulla croce significa e annunzia l’elevazione dell’Ascensione al cielo. Essa ne è l’inizio. Gesù Cristo, l’unico sacerdote della Nuova ed Eterna Alleanza “non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo…, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore” (Ebr 9,24). In cielo Cristo esercita il suo sacerdozio in permanenza, “essendo egli sempre vivo per intercedere” a favore di “quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio” (Ebr 7,25). Come “sommo sacerdote dei beni futuri” (Ebr 9,11) egli è il centro e l’attore principale della Liturgia che onora il Padre nei cieli”. Catechismo della Chiesa Cattolica, 662

    ***

    Dio stipula con Abramo una promessa: una terra, una discendenza, una benedizione. Gli chiede di fidarsi, di porsi in cammino verso un “altrove”, è un primo “passaggio”, una prima “pasqua”. Cfr.    Gn 12; Ebr 11,13-16

    ***

    Gesù si colloca nella linea delle promesse fatte ad Abramo, le porta a compimento:

    –       entra personalmente nella beatitudine eterna, la vera terra promessa

    –       attira a sé tutti gli uomini facendone un corpo solo, una sola discendenza che prolunga spiritualmente quella di Abramo

    –       attira a sé verso il Padre il popolo che Dio gli ha donato.

    L’eucaristia attualizza continuamente queste realtà contenute nella promessa

    Cfr.    Gal 3,26-29

    ***

    Melchisedek è prefigurazione del sacerdozio vero ed eterno di Cristo.

    È solo il sacerdozio di Cristo, che è vittima pura e sacerdote vero allo stesso tempo, a portare a realizzazione solo ciò che l’antico sacerdozio preannunciava: la nostra piena comunione con Dio.

    Cfr.    Ebr 5,5-10

    Ebr 7,2-3

    ***

    JHWH propone ad Abramo un’alleanza che domanda solo ad Abramo la fede. Un’alleanza che consiste nella promessa. Qui è la rivelazione di un amore di Dio verso l’umanità incondizionato, un amore che domanda solo fiducia e amore. Dio non potrà mai ritrattare la sua alleanza: Dio è amore

    Cfr     2Tm 2,13

    1Pt 3,18

    ***

    Il racconto del sacrificio di Isacco propone alla nostra meditazione il gesto di fede incondizionata di Abramo, ma nello stesso tempo è annuncio del sacrificio dell’unigenito che il Padre lascerà compiersi sul Calvario.

    Cfr     Rm 4,16-20

    Ebr 11,17ss

  • 12 Feb

    le preparazioni

    5. SACRAMENTO DELLA CREAZIONE


    Per tornare al sacramento dell’eucaristia, se vogliamo, al di là dei simboli, coglierne la smisurata portata, dobbiamo risalire i tempi, oltre Gesù Cristo, fino all’inizio del tempo, “in principio”, alla creazione.


    Egli è prima di tutte le cose

    La salvezza dell’uomo è legata alle alleanze d’amore che Dio non cessa di cercare, di moltiplicare con lui.

    E questo a partire dalla creazione, che è la prima “grazia”, la prima alleanza, il primo “sacramento” dell’incontro col Padre.

    La realtà di Dio è di essere amore.  La realtà della creazione è di essere il suo primo gesto d’amore per noi.  Un gesto sconfinato come l’universo.

    Un gesto permanente, di ogni istante, perché la creazione non è un “anticamente”, ma un “ora”, come una sorgente.  La creazione è il cuore di Dio che non cessa di donarsi.

    Ma può un cuore restare pago di un primo gesto d’amore, fosse anche importante?  E’ forse sufficiente, per essere padre o madre, concepire un figlio?… Resta da “farlo”: metterlo al mondo, nutrirlo, formarlo, liberarlo, “allevarlo”, finché diventi “grande”, come i genitori, al loro livello.

    La creazione è dunque qualcosa che Dio sta “perfezionando”.  E’ qualcosa che, dopo l’inizio, sale verso una maggiore bellezza, verso una maggiore vita, coscienza, umanizzazione, divinizzazione.  “Sale”?  No: è attratta, sollevata verso un polo divino che non è altro che Gesù Cristo “primogenito di ogni creatura: tutto è stato fatto in lui e in vista di lui”.

    Sappiamo che nei cromosomi dell’ovulo umano, fin dal primo giorno della fecondazione, i “geni” sono già presenti e attivi per assicurare la trasmissione dei caratteri ereditari che la crescita metterà in risalto.  Chi fosse in grado di leggere la programmazione prodigiosamente miniaturizzata iscritta nell’embrione microscopico, saprebbe anche subito che cosa sarà quel bambino, eccettuate, è chiaro, le sue libere scelte.  Può conoscere perfino il colore degli occhi e dei capelli!

    Allo stesso modo, fin dalla creazione, una forza vitale chiama e trae l’umanità e il mondo verso la pienezza, che è Dio.  Tale forza è una Persona, il Verbo, il Verbo incarnato: Gesù Cristo nel cuore del mondo per trasformarlo e portarlo fino alla divinizzazioneFin dal “principio”, l’uomo e l’universo sono programmati da Gesù Cristo risorto. Il codice – cioè il senso scritto ma segreto – il codice per un’autentica interpretazione del mondo è, ci dice san Paolo, “Cristo in voi, speranza della gloria” (Col 1,27).

    Il Figlio eterno del Padre è creatore, insieme al Padre e allo Spirito. E’ l’alfa (prima lettera dell’alfabeto greco), il principio del mondo, ma ne è anche l’omega (l’ultima lettera), il compimento.  E il punto di partenza e di arrivo, e tutto ciò che vi è in mezzo.  Infatti, con la sua incarnazione, è entrato nella storia e nella creazione, uomo fra gli uomini, materia in mezzo alla materia, per condurre ogni cosa alla pienezza della vita divina, perché lui solo ne conosce la via.  Egli solo è la via.

    “Egli è generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra…

    Tutte le cose sono state create

    per mezzo di lui e in vista di lui.

    Egli è prima di tutte le cose

    e tutte sussistono in lui.

    Egli è anche il capo del corpo…

    Egli è il principio…

    Perché piacque a Dio di fare abitare in lui

    ogni pienezza (della divinità e dell’universo)”

    (Col 1, 15ss).

    E’ la messa che guida

    Questo sconfinato movimento di divinizzazione è significato e realizzato in maniera particolarmente intensa dall’eucaristia.

    Alla consacrazione il pane e il vino, elementi materiali del mondo, sono mutati in corpo e sangue del Figlio di Dio!  Per la potenza dello Spirito, la creazione è investita dalla luce sovrana del risorto e diventa la pienezza che egli stesso è: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue!”.

    “Essa non è più semplicemente segno di Dio (mostra cioè la sua esistenza per il solo fatto di essere uscita dalle sue mani); non è più solamente portatrice della sua grazia (come gli altri sacramenti).  Essendo transustanziata, essa è vita eterna, il corpo del Figlio di Dio.

    L’eucaristia rivela così il senso ultimo dell’atto creatore di Dio, la vocazione di tutta la creazione.  Questa suprema significazione non consiste nella sua uscita da Dio, nella sua creazione dal nulla (ex nihilo), come se Dio, dopo averla tenuta nelle sue mani, la lanciasse nella cieca danza dei secoli, nel nulla del mondo cosmico che gira in tondo senza mai avanzare.

    Si tratta piuttosto, d’una progressione della materia verso l’uomo, dell’uomo verso Cristo, e di Cristo verso il Padre.

    Tale ritorno della creatura a Dio è significato, in una maniera che supera tutti gli altri sacramenti, dall’eucaristia.  Il momento della consacrazione, quando il pane e il vino, frutti della terra e del lavoro dell’uomo, diventano il corpo di Cristo, compie in un batter d’occhio il cammino dei secoli verso Dio.  Predestinato dal Padre, chiamato all’esistenza nel Figlio, condotto dallo Spirito che muove tutti i figli di Dio, l’uomo – e la creazione ch’egli riassume in sé – torna nel seno del Padre, dove si trova il Figlio e dove regna l’amore dello Spirito.

    La creazione, nata nel cuore di Dio e ora transustanziata nell’eucaristia, ritorna nel cuore di Dio per esservi eternamente lode e gloria della sua grazia” (Ef 1,6)” (Lucien Deiss).

    La transustanziazione realizza nel pane e nel vino la vocazione dell’uomo e la fine dell’universo. Nell’eucaristia avviene per due elementi di questo mondo ciò che deve avvenire per il mondo intero e per l’uomo stesso, quando li si considera alla luce della risurrezione” (Gustave Martelet).

    E’ perciò l’eucaristia che “guida”.  E’ la messa che anticipa la fine dei tempi, realizzando il divenire divino dell’uomo e dell’universo.

    “Pegno della gloria futura” canta dell’eucaristia l’antifona di s. Tommaso.

    L’eucaristia è il grande sacrificio di lode attraverso il quale la chiesa parla a nome dì tutta la creazione.  Infatti il mondo che Dio ha riconciliato con se stesso, è presente a ogni eucaristia: nel pane e nel vino, nella persona dei fedeli e nelle preghiere che offrono per se stessi e per tutti gli uomini.  I fedeli e le loro preghiere, poiché sono uniti nella persona dei Signore e alla sua intercessione, sono trasfigurati e accolti.  Così l’eucaristia rivela al mondo ciò ch’esso deve diventare. (Consiglio ecumenico delle chiese, 1976)

    IL SACRAMENTO DELLA CREAZIONE

    Puoi meditare il testo di Colossesi 1,15-20: il primato di Cristo su tutte le cose. Tutto è stato fatto per mezzo di lui e in vista di lui. L’Eucaristia esprime fin da ora questa certezza.

    * * *

    Un pegno di questa speranza e un viatico per il cammino il signore lo ha lasciato ai suoi in quel Sacramento della fede nel quale degli elementi naturali coltivati dall’uomo vengono tramutati nel Corpo e nel Sangue glorioso di Lui, in un banchetto di comunione fraterna che è pregustazione del convito del cielo. Gaudium et Spes, 38

    * * *

    Di questa grande speranza, quella dei “nuovi cieli” e della “terra nuova nei quali abiterà la giustizia” (2Pt 3,13), non abbiamo pegno più sicuro, né segno più esplicito dell’Eucaristia. Ogni volta infatti che viene celebrato questo mistero, “si effettua l’opera della nostra redenzione” (LG 3) e noi spezziamo “l’unico pane che è farmaco d’immortalità, antidoto contro la morte, alimento dell’eterna vita in Gesù Cristo” (sant’Ignazio d’Antiochia). Catechismo della Chiesa cattolica, 1405

    * * *

    Il mondo è stato creato come un processo di celebrazione, per partecipare della grazia e divenire Eucaristia attraverso l’offerta degli uomini. Ed è proprio ciò che il Cristo, Adamo definitivo, ha realizzato. Con la sua morte e la sua risurrezione, ha fatto passare l’universo nella gloria. Nell’Eucaristia ci viene offerto questo modo  di essere trasfigurato della creazione, affinché anche noi possiamo unirci a quest’opera di risurrezione. “Il pane della comunione” – dirà san Giovanni Damasceno – “non è semplice pane, ma pane unito alla divinità”, non con un nuovo processo di incarnazione, ma mediante l’assimilazione al corpo di Cristo. Il pane e il vino sono trasformati in corpo e sangue di Cristo, e con ciò stesso “pienificati”, trasfigurati secondo la loro destinazione originaria” Olivier Clement

    * * *

    Ed è perché noi siamo sue membra e siamo nutriti per mezzo del creato – creato che lui stesso ci dona facendo sorgere il sole e cadere la pioggia – che il calice, tratto dal creato, egli lo ha dichiarato suo proprio sangue, mediante il quale il nostro sangue si fortifica, e il pane, tratto dal creato, egli lo ha proclamato suo proprio corpo, medinte il quale si fortificano i nostri corpi. Sant’Ireneo di Lione

  • 11 Feb

    I SIMBOLI


    4. Il  pasto eucaristico


    Un pasto condiviso

    Il pane e il vino, “frutti della terra e del lavoro dell’uomo”, sono naturalmente destinati a essere condivisi a tavola.

    Il Signore, infatti, istituì l’eucaristia “mentre cenavano” (Gv 13,2), cioè durante un pasto: “a mensa con i dodici” (Mt 26,20).

    Quando fu l’ora, Gesù prese posto a tavola e gli apostoli con lui (Lc 22,14)

    L’eucaristia è un pasto condiviso: “Prendetelo e distribuitelo tra voi“(Lc 22,17).

    Un pasto condiviso è molto di più del nutrirsi e del dissetarsi!

    Mangiare e bere possono anche essere soltanto atti animali; e se le bestie lo fanno fianco a fianco, ne nasce una lotta, perché ciascuna vuole avere tutto per sé, senza alcuna condivisione; non mangiano “insieme”, ma come rivali.

    Per l’uomo “umanizzato”, al contrario, il più piccolo pasto è già un importante gesto umano ricco di simbologia. E’ una celebrazione rituale della famiglia, della fraternità, dell’amicizia, dell’ospitalità, della riconciliazione.

    Si comprende allora perché il simbolo del sacramento dell’eucaristia non è anzitutto l’atto del mangiare, ma quello del condividere nella comunione fraterna.  Il simbolismo degli elementi eucaristici si colloca dunque all’interno della simbologia di un pasto fraterno, e da questo trae anzitutto il suo primo significato.  Il sacramento dell’eucaristia è il condividere-mangiare Cristo insieme.

    Non confondere “pasto” e “presenza reale”

    Ogni sacramento è presenza di Cristo.  Troppo spesso si è confuso “presenza reale” e “sacramento dell’eucaristia”…

    A che cosa giova la presenza dei viveri nella dispensa, o anche sulla tavola?  Certamente tale presenza è necessaria: “non si vive di belle parole”, diceva Molière.  Ma non si vive neppure della sola presenza reale di questi alimenti.  Si vive biologicamente del mangiare e del bere, si vive umanamente del mangiare e del bere insieme, nella condivisione fraterna, si vive divinamente del mangiare e del bere Cristo insieme.

    Il sacramento istituito da Cristo è, infatti, la “frazione del pane” consacrato, la condivisione del vino consacrato.

    Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue“, certamente. La presenza reale è un aspetto molto importante: ma a che scopo?  Per “prendere e mangiare”, per “prendere e bere”, per “distribuire tra voi”.  Ecco il sacramento.

    “Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. lo sono il pane vivo, disceso dal cielo.  Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita dei mondo”.  Allora i giudei si misero a discutere tra di loro: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”.  Gesù disse: “In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita.  Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno.  Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.  Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. (Gv 6,48-56)

    Poiché nella riforma protestante l’eucaristia era vista come un puro simbolo, la controriforma e il concilio di Trento hanno insistito a tal punto sulla presenza reale da far passare in second’ordine, se non dimenticare, gli aspetti essenziali: “Mangiate… Bevete….

    Il giansenismo peggiorò la situazione: invece di mangiare l’ostia, come aveva detto il Signore, la si adorò perdutamente, a distanza.  La partecipazione al sacramento fu sostituita dalla devozione all’ostia consacrata: processioni, omaggi, benedizioni del santissimo sacramento…

    Tale mentalità è ancora in molti radicata.  Contate gli adulti che si comunicano alla domenica… Dopo le confessioni pasquali, contate le brave persone che “osano” accostarsi alla tavola sacra più di una o due volte, per poi passare il resto dell’anno senza “prendere e mangiare”.

    Contate i parroci che consacrano il pasto del giorno e dividono questo pasto con l’assemblea, come richiede il concilio… e il buon senso (SC 55):

    Molti preferiscono ricorrere ancora alla pisside di riserva nel tabernacolo della presenza reale, impoverendo così il segno sacramentale, e perciò il sacramento stesso.

    Il “segno” eucaristico è un’assemblea che consacra e condivide un pasto sacrificale.


    Un pasto è un’assemblea

    Purtroppo, il nostro mondo burocratizzato, industrializzato, schiacciato dal “progresso”, non ha più il tempo di radunarsi gratuitamente e di condividere fraternamente tra convitati. Ci si accontenta.  Ci si nutre, è vero: si ingoia, talvolta ci si “abbuffa”; oppure si sbocconcella in fretta uno spuntino; o ancora, ci si dirige velocemente al self-service in cui, con il vassoio in mano, si segue la coda fino alla cassa, poi si cerca – non un volto, questo no! – ma un tavolo vuoto in cui mangiare a raffica, senza una parola, e finalmente tutto è concluso… Siamo proprio dei sottosviluppati!

    Nella Bibbia e presso i popoli che noi chiamiamo “primitivi”, poiché il ritmo industriale non ha distrutto in essi i valori umani, ogni pasto introduce nella grandezza, nell’incontro con gli altri, con l’Altro…

    Il ruolo naturale del pasto, infatti, oltre ad alimentare, è di riunire. Il pane suggerisce, come abbiamo ricordato, la collaborazione di una catena di lavori e di lavoratori; suggerisce anche, e maggiormente, il raduno familiare attorno alla tavola, la comunità dei convitati, la comunione degli spiriti e dei cuori, la condivisione degli alimenti terrestri e spirituali.

    Se manca l’affetto, almeno un legame d’onore unisce ogni partecipante a tutti gli altri e tutti a ciascuno.  Non si invita un nemico; oppure, se lo si invita, non vi è gesto più espressivo di perdono.

    “Ma ecco, la mano di chi mi tradisce è con me, sulla tavola.  Il figlio dell’uomo se ne va, secondo quanto è stabilito; ma guai a quell’uomo dal quale è tradito!”.  Allora essi cominciarono a domandarsi a vicenda chi di essi avrebbe fatto ciò. (Lc 22,21-23)

    Non si accetta un invito se non per andarvi in spirito di fraternità.  Nelle saghe tedesche, non si può uccidere l’invitato.  Nel mondo arabo, è un delitto mostruoso tradire la convivialità.  Essere traditore proprio mentre si prende il boccone dell’amicizia significa essere posseduti dal demonio, come Giuda (Gv 13,27).

    Un pasto “umano” raduna dei fratelli, o rende fratelli coloro che raduna.

    Un pasto rende fratelli

    In una tribù, in una famiglia, si è fratelli e sorelle perché si discende da comuni antenati: si è ricevuto la vita dalla stessa fonte.  Ma se in realtà non si è fratelli, in quanto si appartiene a famiglie o a tribù diverse?  Resta allora un mezzo di “fraternizzare” sempre attuabile: condividere un pasto.

    Infatti, si trae vita dagli stessi piatti, dallo stesso calice: si è perciò ormai fratelli.  Tale è il senso del pasto condiviso presso coloro che si osa definire “primitivi”.  Tale è il senso del pasto condiviso nella bibbia e nel vangelo.

    Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicano e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli.  Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: “Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicano e ai peccatori?”.  Gesù li udì e disse: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati.  Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio.  Infatti non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori. (Mt 9,10-13)

    Abbiamo qui il senso sconvolgente dei pasti di Gesù.  “Costui mangia insieme ai pubblicano e ai peccatori! ” dicono i farisei scandalizzati. il profeta di Dio, e in lui Dio stesso, si comporta come fratello dei peccatori; vuol essere della loro tribù, del loro clan, dalla loro parte… e mangerà con i suoi, i peccatori: pubblicani, prostitute, Zaccheo, Levi… Questa grande misericordia li farà ritornare.

    Se, per coloro che hanno conservato il senso dei valori profondi, un pasto comune fa rinascere dalla stessa fonte, quanto più ciò è vero a proposito di quel pasto che è l’eucaristia condivisa.  A quella tavola del pane di vita si realizza l’unità reale e misteriosa della chiesa. Comunicando con lo stesso Cristo, noi comunichiamo con gli altri.

    Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo?  E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?  Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1Cor 10,16s).

    Un pasto è parola

    Nelle “scorpacciate” del robot umano, la bocca è soltanto mascelle sul piatto.

    Nelle agapi fraterne, il mangiare insieme è innanzitutto labbra, lingua e sorriso: è parola, è “conversazione”: condivisione di novità, idee, sentimenti, più che di pane e di sale.  Soprattutto quando il vino dà libera corsa alla gioia espansiva e alle confidenze.  Allora si mette sulla tavola quanto c’è nella testa e in fondo al cuore: pene, preoccupazioni, gioie, speranze.

    La messa, soprattutto nel corso dei secoli di latino e di gerarchismo, non ci ha abituati a parlare alla tavola santa.  Tanto più che proprio lì la parola raggiunge il suo vertice nelle parole della consacrazione: “Questo è il mio corpo…”

    E’ perciò necessario ritrovare non solo il senso pieno di questa tavola della parola, ma anche le parole spontanee improvvisate che ciascuno si sente di dire nell’incontro caldo e fraterno.  Altrimenti i giovani andranno a cercare nelle sette quella calda atmosfera che Cristo amava condividere con i discepoli.

    Un pasto è condivisione

    Un pasto è infine condivisione, perché è amicizia.  Amare significa condividere.

    Come abbiamo detto, un pasto fatto da ciascuno per conto suo non è più un pasto.  Il gesto allora non ha più alcun senso umano, soprattutto tra cristiani.  Lo afferma con forza san Paolo scrivendo ai Corinti.  Il pane, i cibi sono per ognuno; il calice deve passare di mano in mano, di labbro in labbro.  Come sono per tutti e per ciascuno gli sguardi, i sorrisi, le idee e le parole.  Condividere!

    Ma condividere è ben diverso che dare…

    Si dà ciò che è proprio.  Il dare porta perciò gli altri a essere “debitori”

    E’ la mano che permette all’uomo di presentarsi a tavola col volto eretto.  Infatti, senza la mano, sono la mandibola o la mascella o il becco o la zanna ad afferrare direttamente gli alimenti; ciò comporta una violenza.  Ma quando la mano, diventata libera per la posizione verticale dell’uomo, afferra gli alimenti, allora la faccia sottratta alla violenza, si ricompone e si umanizza per funzioni diverse da quella alimentare.  In questo modo la faccia diventa volto, ossia sorriso, sguardo, e soprattutto parola. Il sorriso e lo sguardo sono già, in un certo senso, delle parole. (F. Varillon, s.j.)

    Non posso condividere, se non ciò che ho coscienza di aver prima ricevutoNon condivido ciò che è mio; condividiamo del nostro, perché il Padre celeste ce l’ha dato. lo non sono la fonte del mio amore, come di nessun’altra cosaHo coscienza d’aver ricevuto tutto, e innanzitutto questi fratelli e queste sorelle che mi donano la gioia di ammettermi a condividere tutto ciò ch’essi sono e questi semplici cibi che Dio ci offre insieme.

    Così la condivisione è riconoscenza: riconoscenza di Dio e riconoscenza degli altri; riconoscenza verso Dio e riconoscenza verso i fratelli. E’ la via dell’umiltà e del ringraziamento, della “benedizione” e dell’eucaristia”.

    “Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.  Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo” (At 2,44-47).

    IL PASTO EUCARISTICO

    «La comunione eucaristica ha un carattere tutt’altro che intimistico e sentimentale. Far comunione con il Signore crocifisso e risorto significa donarsi con lui al Padre e ai fratelli: “A noi che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo, perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito. Egli faccia di noi un sacrificio perenne a te gradito” (Pregh. Euc.III). Il Signore Gesù viene a vivere in noi e ci assimila a sé: “La mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandanto me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me” (Gv 6,55-57). La vita che egli comunica è la sua carità verso il Padre e verso tutti gli uomini.

    Unendoci a sé, Gesù Cristo ci unisce anche tra noi: lo esprime bene il segno del pane e del vino, condivisi in un convito fraterno. I molti diventano un solo corpo in virtù dell’unico pane (Cfr 1Cor 10,17): “Mistero di amore! Simbolo di unità! Vincolo di carità!””(sant’Agostino). Come i chicchi di grano si fondano in un solo pane e gli acini di uva in un solo vino, così noi diventiamo uno in Cristo (Didaché 9,4). L’eucaristia presuppone, rafforza e manifesta l’unità della Chiesa. Esige l’unità della fede e impegna a superare le divisioni contrarie alla carità (Cfr 1Cor 11,18).»


    Dal Catechismo degli Adulti, La verità vi farà liberi, 691-692

    • Il simbolo primario dell’Eucaristia non è anzitutto il mangiare, ma il condividere lo stesso cibo. Le nostre eucaristie sono espressione anzitutto di questa condivisione, o si risolvono in atti strettamente “individuali” che interessano solo me, ma non coloro che mi sono accanto?

    • Un pasto raduna fratelli e rende fratelli. Non si mangia insieme al proprio nemico le nostre eucaristia assumono nei gesti, nelle parole il nostro essere riuniti fraternamente? E’ possibile celebrare l’eucaristia quando esistono tensioni, inimicizie, calunnie, divisioni all’interno della propria comunità. Non è questa un mangiare e un bere il corpo e sangue del Signore indegnamente? Cor 10,16ss

    • L’Eucaristia è anzitutto gesto di condisione e di fraternità. Si condivide ciò che tutti abbiamo ricevuto. Condividere e riconoscere che l’iniziativa non è nostra, che tutto è dono datomi e datoci per essere spezzato fra tutti nessuno escluso. At 2,42-47

    • Medito qualche passo evangelico in cui contemplo Gesù che “condivide” il pasto con i pubblicani e peccatori, scandalizzando i religiosi benpensanti. Condivedere è entrare in comunione, è fare alleanza. E Gesù mangia con i peccatori. Cosa mi suggerisce questa meditazione: Mt 9,10-13

  • 10 Feb

    I SIMBOLI

    3. PANE E VINO

    La sera del giovedì santo, “mentre mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede (ai dodici), dicendo: “Prendete, questo è il mio corpo”.  Poi prese il calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti.  E disse: “Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, versato per molti.  In verità vi dico che non berrò più del frutto della vita fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio” (Mc 14,22-25).


    Gli alimenti base

    Il pane e il vino sono gli alimenti base, simbolo di tutti gli altri, almeno nella nostra civiltà occidentale.  Si mangia il proprio pane, lo si bagna nelle lacrime, o nella gioia, o nel sudore, o nel sangue; ci si guadagna il pane, cioè la nostra stessa vita; al Padre si chiede il pane quotidiano, cioè ciò che è necessario per vivere.

    Il vino, poi, è necessario per un pasto completo e festoso.  Altrimenti si è condannati a mangiare pane secco.  Aggiunge  certamente una nota di festa, di allegria, senza la quale “non è più vita”.  L’uomo infatti non vive soltanto di pane; ha bisogno, per digerirlo, di quel minimo di gioia di cui il succo dell’uva è il simbolo efficace:

    “Il vino è come la vita per gli uomini, purché tu lo beva con misura.

    Che vita è quella di chi non ha vino?

    Questo fu creato per la gioia degli uomini.

    Allegria del cuore e gioia dell’anima

    è il vino bevuto a tempo e a misura”.

    (Sir 31,27s).

    Fai crescere il fieno per gli armanti e l’erba al servizio dell’uomo,

    perché tragga alimento dalla terra:

    il vino che allieta il cuore dell’uomo;

    l’olio che fa brillare il suo volto

    e il pane che sostiene il suo vigore.

    (Sal 104,1,14-15)

    Frutti della terra

    Per preparare la vita e la festa eterne, Gesù “prende il pane e un calice di frutto della vite”.

    Questi elementi, per lui innanzitutto e anche per coloro che gli stanno intorno, sono carichi di tutto un simbolismo, e, prima ancora, di tutta una potenza evocatrice che chiameremo “naturale”, purché non dimentichiamo che per il semita – e per il cristiano – tutta la natura è dono e presenza di Dio.

    In primo luogo, come diceva la preghiera ebraica di benedizione ripresa oggi nella messa, il pane e il vino sono “frutti della terra“.  Radicati nella terra, vi raccolgono tutte le energie profonde e oscure del suolo per viverne e farcene dono.  Spuntando subito alla superficie e insieme continuando a succhiare tutte le potenze del terreno, fanno proprie, per crescere, tutte le energie del cielo: assimilano la pioggia e il vento, la luce e il calore, i raggi e le forze cosmiche.  Nel frumento e nell’uva si dà appuntamento tutto l’universo.

    Così, il cosmo intero si concentra sulla tavola dell’uomo, e costui è perciò invitato alla tavola da lui preparata dalla provvidenza del Padre.

    Alimenti vegetali

    Anche gli alimenti a base di carne sono, a loro modo, frutti della terra, perché gli animali traggono la loro sussistenza dall’aria, dal suolo e dal fondo marino.  Tuttavia, il Signore non ne farà la materia eucaristica.

    Il pane e il vino sono alimenti vegetali.  Si possono individuare alcune motivazioni:

    * La Genesi ci presenta le piante e i frutti come il menù esclusivo dell’uomo in un mondo senza peccato dove non si versa il sangue, né quello dell’uomo, né quello degli animali:

    “Dio creò l’uomo a sua immagine… e disse: Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo” (Gn 1,29).

    Il creatore sottomette all’uomo tutti gli animali della terra; ma il suo cibo saranno i frutti e le piante… il suolo sarà avaro solo dopo il peccato.

    Da quel momento, saranno meno vegetariane le indicazioni date alla generazione peccatrice del diluvio: “Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo: vi do’ tutto questo, come già le verdi erbe.  Soltanto non mangerete la carne con la sua vita, cioè il suo sangue” (9,3s).

    Per quanto riguarda il pesce, che non ha sangue, figura molte volte nel menù dei pasti evangelici di Gesù, prima e dopo la risurrezione.

    Per questo motivo rimase nel rituale eucaristico di alcune comunità primitive.  Non è inoltre il pesce, con le sue lettere greche, il simbolo del Messia?  Tuttavia, pur avendo (per due volte) moltiplicato dei pesci con i pani, Cristo, nell’ultima cena, consacrò e distribuì il pane e il vino…

    * Se la materia dell’eucaristia è costituita da elementi vegetali, ciò non significa certamente che Gesù voglia promuovere una dieta vegetariana.

    Era però assolutamente necessario prendere le distanze dai sacrifici di animali, il cui sangue scorreva a fiotti nei bacini del tempio: occorreva mettere in evidenza che si era di fronte a una nuova alleanza.

    * Era soprattutto necessario sottolineare che un solo sacrificio fu offerto una volta per tutte, un solo sangue versato una volta per tutte. E’ il grande tema della lettera agli ebrei, soprattutto ai capitoli 9 e 10.  Il pasto sacro dei cristiani non verserà dunque altro sangue: è memoriale, cioè ricordo e presenza sacrificale della croce, ripresentazione dell’unico sangue versato in sacrificio sul Calvario.

    Riassumendo: questi vegetali – pane e vino – sono sufficientemente diversi dai sacrifici pagani e ebraici per evitare ogni equivoco. E sono sufficientemente espressivi a livello simbolico del sacrificio di Gesù.


    Se il chicco di grano non muore

    Il frumento e l’uva, infatti, non sfuggono al passaggio attraverso la morte per giungere alla loro utilizzazione.  Per diventare pane, i chicchi di frumento sono macinati; per diventare vino, i grappoli d’uva torchiati e come dissanguati.

    Nella scrittura e nel linguaggio corrente, la macina evoca la sofferenza, e il torchio lo stritolamento della tortura, il sangue versato.

    Il Signore ha pigiato come uva nel tino la vergine figlia di Giuda (Lam 1,15)

    Gettò l’uva nel grande tino dell’ira di Dio (Ap 14,19)

    Se il chicco di grano caduto a terra non muore, rimane solo (Gv 12,24)

    E’ necessario insistere sull’alimento del pane.  Se il vino è privilegiato alle nozze di Cana (Gv 2), il pane lo è maggiormente, moltiplicato sul monte e commentato nel discorso del pane di vita (Gv 6).  E Gesù stesso si paragona al chicco di grano (12,24): se non muore, rimane solo, sterile; ma se cade in terra e muore, produce molto frutto.

    Il suo futuro è di morire in terra per risorgere e moltiplicarsi in messe.  Ma il significato della messe è di essere nuovamente falciata, battuta, macinata, impastata, cotta e, finalmente, spezzata.

    Attraverso questa duplice morte essa dà il pane che farà vivere l’uomo.

    Immagine espressiva di Gesù stritolato nella passione, morto in croce, sepolto, per risuscitare e diventare, sotto l’umile apparenza del mangiare, quel pane vivente e che fa vivere: l’eucaristia.

    Nel pane e nel vino è rappresentata la tragedia della morte dell’Unigenito per la vita di tutti gli altri.

    Il calice del mio sangue

    La vendemmia rappresenta un destino simile a quello della mietitura: essere schiacciati per saziare l’uomo e inebriarlo.

    Fermiamoci un momento su ‘ questo “calice”.  Cristo “prende un calice” di vino rosso.  Dice: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue” (1Cr 11,25), nel mio sangue versato.

    Un sangue può essere versato in un incidente, in una emorragia, in una operazione chirurgica, in un delitto.  Tale sangue non ha più alcun valore, proprio perché è versato, perduto: il paziente ne è privato, svuotato. E’ un sangue che non si raccoglie, perché non si sa che cosa farne.  Lo si getta negli scarichi e se ne lavano i segni.

    Ma il  sangue può essere prelevato da un donatore. E allora è raccolto con molta cura: è una partecipazione di vita in favore d’un malato anemico o d’un ferito dissanguato.

    Un sangue può infine essere versato in sacrificio religioso.  Allora è scelto: si sacrifica il meglio che si ha. E’ versato, ma raccolto perché non vada perduto.  Deve infatti essere offerto. E forse sparso in libagione o condiviso in aspersione, se non addirittura come bevanda.

    Il “calice” ci dice dunque subito di quale sangue si tratti nell’eucaristia: sangue prezioso, raccolto per essere offerto, in un calice per passarlo a tutti, perché ciascuno ne beva.  “Il sangue della nuova alleanza versato in un calice” significa il dono della vita e dei sangue di Cristo, offerto al Padre come sacrificio di valore infinito e ai cristiani in comunione di salvezza.

    Il calice della benedizione” (1 Cor 10, 16) sostituisce in modo definitivo “il calice dell’ira” (Ger 25,15ss).

    Così mi disse il Signore, Dio d’Israele: “Prendi dalla mia mano questa coppa di vino della mia ira e falla bere a tutte le nazioni alle quali t’invio, perché ne bevano, ne restino inebriati ed escano di senno dinanzi alla spada che manderò in mezzo a loro”.  Presi dunque la coppa dalle mani del Signore e la diedi a bere a tutte le nazioni alle quali il Signore m’aveva inviato: a Gerusalemme e alle città di Giuda, ai suoi re e ai suoi capi, per abbandonarli alla distruzione, alla desolazione, all’obbrobrio e alla maledizione, come avviene ancora oggi; anche al faraone re d’Egitto, ai suoi ministri, ai suoi nobili e a tutto il suo popolo; alla gente d’ogni razza e a tutti i re del paese di Uz…

    (Ger 25,15ss)


    Frutto della terra e del lavoro dell’uomo

    Il pane e il vino, “frutti della terra”, non sono prodotti grezzi; sono anche i “frutti del lavoro dell’uomo”.  “Con il sudore del tuo volto mangerai il tuo pane” (Gen 3,19).  Perciò il pane e il vino sono anche degli uomini.

    Degli uomini con la loro dimensione spirituale, con la loro attività intelligente. Infatti, il pane e il vino sono alimenti elaborati, perciò propri dell’uomo.  Il Signore non ha scelto frutti di alberi, carne, miele: di questi si cibano anche gli animali; basta brucare, raccogliere, cacciare.  Il pane e il vino invece è necessario produrli, e saperli produrre bene.

    Il pane e il vino non rappresentano perciò soltanto la vita dell’uomo in ciò che ha di più istintivo – nutrirsi -, ma anche in ciò che comporta di più attivo, di più industrioso, di più intelligente.  Sono più espressione dell’uomo creatore, che del consumatore.

    Offrendo a Dio il pane e il vino, perché siano trasformati nel suo corpo e nel suo sangue, gli offriamo anche la nostra attività manuale e intellettuale, la nostra storia umana, ed egli le integrerà al suo sacrificio per comunicare loro una dimensione divina ed eterna.  La nostra, e quella di tutto il mondo del lavoro.

    Il pane e il vino sono inoltre rappresentano la fatica, le speranze, il sudore degli uomini con le loro pene. Sono stati dei lavoratori a seminare, mietere, macinare e impastare questo pane.  Dei vignaioli hanno scassato il terreno roccioso e piantato la vigna, hanno irrigato, sarchiato, potato, solfatato ogni pianta molte volte, sotto il sole a picco, per produrre questo vino.  Vi hanno sudato sangue e acqua, come Cristo nella sua agonia.

    Sulla nostra tavola e sui nostri altari ci sono i loro sudori e le loro pene. E vi sono rappresentati tutti i lavoratori del mondo.  Il sacrificio eucaristico sarà fatto anche dalle loro giornate di fatica, dalla vita che hanno dato anche per i loro fratelli.

    Il pane e il vino, infine, sono degli uomini insieme al lavoro, ognuno fedelmente al suo posto nella lunga catena che ci permette di spezzare il pane e riempire i bicchieri.  Dal lavoratore agricolo che apre il terreno con la vanga o il trattore, fino al garzone del fornaio che corre di primo mattino, perché alcuni amano il pane appena sfornato.  Nativi e immigrati, conservatori e progressisti, credenti e non credenti, capitalisti e socialisti… Insieme.  Si sono dati la mano per questo pane e questo vino.  Tutti sono dunque presenti, insieme, per noi, in questo boccone di pane, in questo sorso di vino.

    Sulla tavola eucaristica, come sulla tavola della mia famiglia, trovo così la solidarietà degli uomini nella loro diversità, la catena dei lavoratori nelle loro dissomiglianze, addirittura nelle loro opposizioni.

    Tutta questa convergenza degli uomini è ripresa da Cristo – “Attirerò tutti a me” -, assunta da Cristo, offerta al Padre in sacrificio da colui che è “la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione(Ef 2,14).  Tutti quanti gli uomini che lavorano si danno perciò convegno, senza saperlo, alla messa, in quel pane e quel vino che sono il loro lavoro collettivo!

    A noi tocca saperlo e essere, con Cristo, il loro legame cosciente e stupito, la loro preghiera e la loro “comunione”, e non soltanto coloro che ne “approfittano”.  Tale raccolta, attraverso di noi, di tutto il mondo dei lavoratori è uno dei maggiori compiti del nostro sacerdozio di battezzati.

    Come questo pane spezzato era prima sparso qua e là su per i colli e, raccolto, divenne una cosa sola, così si raccolga la tua chiesa dai confini dei la terra nel suo regno; poiché tua è la gloria e la potenza, per Gesù Cristo nei secoli! (Didaché)


    I SIMBOLI: IL PANE E IL VINO

    Dal Catechismo della Chiesa Cattolica

    Al centro della celebrazione dell’Eucaristia si trovano il pane il vino i quali, per le parole di Cristo e per l’invocazione dello Spirito Santo diventano il Corpo e il Sangue di Cristo… i segno del pane e del vino continuano a significare anche la bontà della creazione. Così, all’offertorio, rendiamo grazie al Creatore per il pane e per il vino (cfr. Sal 104,13-15), “frutto del lavoro dell’uomo”, ma prima ancora  “frutto  della terra” e “della vite”, doni del Creatore. Nel gesto di Melchisedek, re e sacerdote che offrì “pane e vino” (Gn 14,18), la Chiesa vede una prefigurazione della sua propria offerta (cfr. Canone Romano).

    Nell’Antica Alleanza il pane e il vino sono offerti in sacrificio tra le primizie della terra, in segno di riconoscenza al Creatore. Ma ricevono anche un nuovo significato nel contesto dell’esodo: i pani azzimi, che Israele mangia ogni anno a Pasqua, commemorano la fretta della partenza liberatrice dall’Egitto; il ricordo della manna del deserto richiamerà sempre ad Israele che egli vive del pane della Parola di Dio (cfr. Dt 8,3). Il pane quotidiano, infine, è il frutto della Terra promessa, pegno della fedeltà di Dio alle sue promesse.

    Il “calice della benedizione” (1Cor 10,16), al termine della cena pasquale degli ebrei, aggiunge alla gioia festiva del vino una dimensione escatologica, quella dell’attesa messianica della restaurazione di Gerusalemme.

    Gesù ha conferito la sua Eucaristia conferendo un significato nuovo e definitivo alla benedizione del pane e del vino.

    I miracoli della moltiplicazione dei pani, allorché il signore pronunciò la benedizione, spezzò i pani li distribuì per mezzo dei suoi discepoli per sfamare la folla, prefigurano la sovrabbondanza di questo unico Pane che è la sua Eucaristia (cfr. Mt 14,13-21; 15,32-39).

    Il segno dell’acqua trasformata in vino a Cana (cfr. Gv 2,11) annunzia già l’Ora della glorificazione di Gesù. Manifesta il compimento del banchetto di nozze del regno del Padre, dove i fedeli berranno il vino nuovo (cfr. Mc 14,25).

    nn. 1333-1335


    Esercizio di meditazione sul segno del pane e del vino

    Ti invito a compiere oggi una meditazione semplicemente sul pane.

    In u n primo tempo limitati a meditare su questo alimento così comune sulle nostre tavole. Lascia che il pane ti parli. Lascia entrare in te tutta la sua ricchezza di senso.

    Formula a te stesso domande sulla sua origine e il suo cammino, che l’ha portato sin qui, davanti a te.

    In un secondo tempo fissa la tua attenzione sulla necessità di nutrirti per vivere.

    In un terzo tempo lascia che il pane ti parli attraverso il suo valore simbolico.

    Fermati più che puoi su un punto.

    Lascia poi che la parola “pane di vita” risuoni dentro di te.

    Tutto questo di preparerà ad accogliere il mistero dell’Eucaristia nello stupore e nel rendimento di grazie.

  • 09 Feb

    I SIMBOLI

    2. VIVERE L’EUCARISTIA

    Ciò che Gesù ha istituito nell’eucaristia è un’azione che coglie la realtà più naturale del mondo per trasformarla totalmente con la sua risurrezione.

    Rimaniamo perciò ancora su quest’aspetto primario dei simbolo sacramentale: il nutrimento.

    Attraverso la Bibbia, Israele appare – come tutti i popoli antichi e moderni – innanzitutto come un popolo che ha fame e sete, che va di pozzo in pozzo, di mietitura in mietitura, dal pascolo all’albero da frutto, dal latte alla carne del suo gregge.  E’ un popolo che mangia.

    Ma “mangia prendendo dalle mani di Dio” (Qo 2,24).

    Sa che tutto ciò che esiste è dono di Dio. E questo fa sì che egli possa conoscere, gustare la paternità di Dio. Ancora quest’esperienza gli permette di fare esperienza di una comunione con Dio.  Il frutto e l’acqua, il latte e la carne, l’aria e il sole sono l’amore divino fatto nutrimento e vita per l’ uomo.

    Così Dio “benedice” tutto ciò che crea.  Ciò significa che egli fa della creazione il segno e il mezzo della sua presenza, del suo amore, della sua rivelazione all’uomo.

    Ma, dirà qualcuno, l’uomo non è il solo ad aver fame.  Tutto ciò che vive, vive di cibo.  Anche l’animale mangia dalle mani di Dio! …

    Certamente, ma la vocazione dell’uomo nell’universo è unica: tutti gli altri mangiano e vivono per essere al servizio dell’uomo, per essere eventualmente suo cibo.  Questo è il senso di quella solenne presentazione dell’Eden in cui spetta ad Adamo di “dare un nome” a ogni creatura, cioè di prenderne possesso come dono di Dio e di rendergliene grazie (Gn 2,19).


    Benedire Dio – Rendere grazie

    Benedici il Signore, anima mia, quanto è in me benedica il suo santo nome. Benedici il Signore, anima mia, non dimenticare tanti suoi benefici.  Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue malattie; salva dalla fossa la tua vita, ti corona di grazia e di misericordia; egli sazia di beni i tuoi giorni e tu rinnovi come aquila la tua giovinezza.

    (Sal 103,1-5)

    L’uomo è il solo a cui sia chiesto di “benedire” Dio per il cibo e la vita, come anche per tutta questa natura che riceve da lui.  Solo all’uomo è chiesto di rispondere alla benedizione di Dio con una personale “benedizione” di riconoscenza.

    Dio ha benedetto il mondo, l’uomo e ogni creatura per l’uomo, sua prima creatura; ha benedetto il settimo giorno, cioè il tempo dell’uomo.  Ciò significa che ha riempito tutto ciò che esiste con la sua bontà, che ha fatto ogni cosa “molto buona” per amore verso l’uomo.

    Alla manifestazione dell’amore di Dio, della sua benedizione, che sgorga nella creazione e nella storia umana rispondono normalmente il ringraziamento e la lode dell’uomo. Tale benedizione, rendimento di grazie, è di per sé già un atto cultuale. Già in essa si esercita la sua “vocazione sacerdotale”. E’ la maniera più naturale di vivere per chi sa che il mondo è dono di Dio.

    Dio si rivela creando meraviglie; l’uomo risponde “benedicendo” il Dio delle meraviglie.  Questa è l’eucaristia.

    “Benedizione” ed “eucaristia” hanno praticamente il medesimo significato: “azione di grazie”,  “ringraziamento”.

    Se non è negativamente condizionato dall’ambiente, l’uomo conosce spontaneamente questo senso divino degli alimenti che sostengono la sua vita: sono per lui un collegamento con il Dio vivente.  Altrimenti, c’è la rottura.

    Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò.

    (Gen 3,6)

    Non è un caso che la rappresentazione biblica della caduta sia centrata sul nutrimento.  L’uomo e la donna hanno mangiato dell’albero che sta in’ mezzo al giardino, hanno morso il frutto proibito: immagine di un mondo non più riconosciuto, non più ricevuto come un dono di Dio, e quindi in un atteggiamento di “‘azione di grazie”, di “‘eucaristia”

    E’ il peccato di una moltitudine di uomini che vedono il mondo come una realtà opaca e non attraversata dalla presenza di Dio.  A molti, purtroppo, sembra naturale non vivere in rendimento di grazie – in eucaristia – per il dono che Dio ci ha fatto del mangiare, del bere, e della vita di cui sono la radice quotidiana.  Errore di coloro che, la domenica, preferiscono lavorare per il cibo, piuttosto che offrire l’eucaristia a colui che fa vivere.

    Offerta – Sacrificio

    Lo sguardo della fede ci spinge irresistibilmente a far risalire verso Dio tutto ciò che da lui riceviamo in questa vita.

    Nelle religioni non si è trovato di meglio che sacrificare-offrire alla divinità il nostro nutrimento e addirittura la vita stessa.

    La funzione “eucaristica” primordiale dell’uomo è di offrire a Dio la sua vita, attraverso il nutrimento che ne è il simbolo espressivo.

    “Prendere nelle nostre mani il mondo intero come si prenderebbe una mela”, ha detto un poeta russo.  Non per rubarla e mangiarla nella ribellione o nell’indifferenza, ma per “offrirla” in riconoscenza a colui dal quale tutto abbiamo. E’ il gesto che Adamo non ha saputo fare. E’ il gesto del “sacrificio”.

    Il sacrificio dovrebbe essere l’atto più naturale dell’uomo.  I pagani stessi ne hanno trovato spontaneamente la strada.  Il sacrificio è amore, è un ri-conoscere che ciò che possiedi non è tuo, è perciò ringraziamento.

    Come cristiani questa azione di rendimento di grazie, di benedizione, di sacrificio lo compiamo “in Cristo”.

    Egli, nuovo Adamo, ha offerto tutto; ha compiuto una volta per tutte questa eucaristia,  offrendo” la sua vita, “sacrificando” la sua vita al Padre e a tutti i fratelli.  Cristo è l’unico perfetto, autentico “grazie” del mondo al Padre, la sola eucaristia.

    Quale albero è più bello della croce?  Quale frutto più meraviglioso di colui che pende da quel legno d’amore? Si è dato a noi; lo raccogliamo per offrirlo al Padre.

    Egli lo ripone nuovamente nelle nostre mani, perché noi viviamo per esso.  Questo è il sacrificio, l’eucaristia, l’alimento di vita eterna.

    In ogni eucaristia veniamo e ritorniamo con le nostre con le nostre povere vite da offrire.  Ed ecco che le nostre mani sono ricolmate in misura abbondante e traboccante del Corpo di Cristo, di questo pane in cui tutto è offerto, tutto sacrificato.  Nelle nostre mani, nelle nostre vite, il Padre vede soltanto il suo Figlio prediletto.

    Per il fatto che Dio crea con sapienza, la creazione ha un ordine: “Tu hai disposto tutto con misura, calcolo e peso” (Sap 11,20). Creata nel e per mezzo del Verbo eterno “immagine del Dio invisibile” (Col 1,15), la creazione è destinata, indirizzata all’uomo, immagine di Dio chiamato ad una relazione personale con Dio…La creazione è voluta da Dio come un dono fatto all’uomo, come un’eredità a lui destinata e affidata.

    (Catechismo della Chiesa Cattolica 299)

    Dio ha creato tutto per l’uomo (cfr GS 12; 24; 39), ma l’uomo è stato creato per servire e amare Dio e per offrirgli tutta la creazione

    (Catechismo della Chiesa Cattolica 358)

    La presentazione delle oblate (l’offertorio): vengono recati poi all’altare, talvolta in processione, il pane e il vino che saranno offerti dal sacerdote in nome di Cristo nel sacrificio eucaristico, nel quale diventeranno il suo Corpo e il suo sangue. E’ il gesto stesso di Cristo nell’ultima Cena “quando prese il pane e il calice”. “Soltanto la Chiesa può offrire al Creatore questa oblazione pura, offrendogli con rendimento di grazie ciò che proviene dalla sua creazione” (Sant’Ireneo di L.). La presentazione delle oblate all’altare assume il gesto di Melchisedek e pone i doni del Creatore nelle mani di Cristo. E’ lui che, nel proprio sacrificio, porta allla perfezione tutti i tentativi umani di offrire sacrifici.

    (Catechismo della Chiesa cattolica, 1350)

    * Tutto ciò che ti circonda è dono di Dio e ti permette di fare continuamente esperienza di comunione con lui.

    Tutto deve portare l’uomo ad innalzare un inno di benedizione e di rendimento di grazie (eucaristia)

    Cfr Sal 103;  1 Cor 1,4 ; Fil 1,3;  Col 1,3,  1 Tess 1,2;  2,13 ; 2 Tess 1,3

    * Il peccato è misconoscere che ciò che possiedi, ricevi, usi: tutto proviene dalle mani di Dio. E’ la pretesa da parte dell’uomo di appropriarsi dei doni di Dio. In tale direzione l’uomo diviene incapace di “fare eucaristia” della creazione dono di Dio a lui.

    Cfr Gn 3,6

    * L’uomo per vocazione è chiamato al rendimento di grazie e al sacrificio. Ovvero alla capacità di ri-offrire ciò che ha  ricevuto al donatore. E’ questo un gesto non solo di umiltà, ma soprattutto di gratitudine e amore. Tale gesto è stato compiuto perfettamente e una volta per tutte da Gesù sulla croce. Ad esso la nostra vita è chiamata a confrontarsi e a strutturarsi. Non ti viene chiesto un sacrificio solo di cose, ma anche di te stesso. E’ questa la conformazione a Cristo perfetta.

    Cfr. Mc 10,45; Lc 22,37; Is 53,10ss; Gv 17,19; 1Pt 2,5; Rm 12,1; 15,16; Fil 2,17; 4,18; Ebr 13,15


  • 08 Feb

    I SIMBOLI


    1.    UN NUTRIMENTO

    Per permetterci di incontrarlo nei sacramenti, Cristo si è reso presente e operante in atti profondamente umani:

    l’acqua nel battesimo

    l’olio nella confermazione.

    Egli usa queste realtà “sopranaturalizzandole”, ovvero non svuotandole della loro consistenza umana, quotidiana. Ma proprio partendo da questi significati naturali ne fa dei segni efficaci della sua azione divina.

    Questo appare evidente anche nell’eucaristia.

    Ritrovare i simboli

    Occorre a malincuore riconoscere che i simboli istituiti dal Signore utilizzando realtà quotidiane ed immediate lentamente sono stati “incelofanati” dalla storia, da un concetto di sacralità che li ha resi spesso ridotti a pura  cerimonia.

    Dove sono concretamente i segni dello spezzare il pane, del prendete e mangiatene tutti. Tante difficoltà e motivi storici e pratici hanno avuto la meglio sulla verità del segno.

    Occorre realmente sperare che nelle nostre liturgie la realtà del segno riacquisti realmente il suo spessore autenticamente umano carico di significato e di calore.

    Quello che noi chiamiamo il sacrificio della messa, Gesù l’ha istituito come un pasto: La mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda (Gv 6,55).

    Si tratta di un pasto fraterno: Prendetelo e distribuitelo tra voi (Lc 22,17)

    Un pasto in cui l’alimento è rappresentato dal pane e dal vino.

    Sono realtà ricche di significato umano.

    Gesù le usa per parlare del suo sacrificio: del suo corpo e del suo sangue sacrificati e glorificati, per parlare della comunione con lui e tramite lui col Padre e tra di noi.

    Ma quale il motivo per cui Gesù sceglie il segno del pasto per comunicarci realtà di fede fondamentali?

    Mangiate e bevete

    Per vivere occorre nutrirsi: è un dato questo di ogni giorno. Non ne possiamo fare  a meno. E per mangiare occorre dipendere da altro (vegetale e animale). Siamo esseri dipendenti.

    Il Creatore fin dall’inizio ha provveduto a questo, alla nostra sussistenza.

    Purtroppo l’uomo occidentale, che soffre per sovranutrimento, ben pasciuto, non percepisce più l’aspetto meraviglioso e tragico di questo suo radicarsi nelle forze del cosmo.

    Il povero che può fare affidamento solo sul suo raccolto e sul suo bestiame conosce bene invece questa esperienza.

    Mangiare il pane e bere il vino significa poter sussistere. Significa riconoscere che la tua vita non è autosufficiente, dipendi dal creato e dal Creatore che ne è il signore: è lui solo il Vivente.

    (cfr. Dt 32,39; Tb 13,2; Sap 16,13; Sal 23).

    E’ evidente trasporre questo sull’eucaristia: Come senza pane e senza vino, o qualcosa di corrispondente, i corpi più vigorosi subito vengono meno, così, senza la forza del corpo e del sangue di Cristo, le anime più sante sono destinate alla morte. E come il pane e il vino sostentano la nostra vita naturale, così il Signore Gesù, con il dono continuo della forza di grazia rappresentato dal pane e dal vino, sostiene veramente quella vita spirituale che ci ha procurato con la sua croce” (John Wesley).

    Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue

    Per mezzo del cibo e della bevanda, l’uomo “comunica” con l’universo e l’universo “comunica” con l’uomo.

    Il filosofo tedesco Feuerbach ha detto: L’uomo è ciò che mangia!. Voleva dire che l’uomo non ha alcuna dimensione spirituale; che non è altro che materia destinata a distruggersi.

    Tuttavia possiamo in questa frase ritrovare anche una concezione religiosa sia dell’uomo che del mondo.

    1.     L’uomo immagine di Dio, figlio di Dio, è l’invitato alla tavola del cosmo. Divenendo “ciò che mangia” integra il mondo con la sua carne e con il suo sangue.

    Prende dell’universo, lo assimila, lo fa suo. “Comunica” ovvero con il mondo materiale di cui può dire: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”.

    La creazione in un certo senso, attraverso l’uomo che la assimila, “comunica con l’uomo”, diventa il suo corpo, il suo spirito, il suo cuore, la su azione, il suo amore, la sua preghiera, la sua fede.

    2.     Questa apertura dell’uomo e dell’universo si proietta sempre più in alto, più in alto dell’uomo stesso. Infatti Dio si è fatto carne, ha posto la sua dimora in mezzo a noi. Gesù Uomo-Dio comunicherà con il cosmo e il cosmo con Dio, perché lui stesso ha avuto bisogno di mangiare e di bere. Ciò che lui ha assimilato è divenuto suo corpo e suo sangue, corpo e sangue divini.

    3.     Questa ascesa trova il suo punto di convergenza nell’eucaristia.

    La creazione  fornisce al Cristo Uomo-Dio il pane e il vino, che lo Spirito trasforma nel suo Corpo e nel suo sangue. L’uomo mangerà e berrà di questo pane e di questo vino transustanziati: l’uno e l’altro saranno così “assimilati” al Cristo risorto.

    Dio potrà dire a questi elementi, a me che li consumo, all’assemblea che partecipa: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue… Costoro, insieme, uno per uno, sono il mio corpo.


    I SIMBOLI: IL NUTRIMENTO

    “L’eucaristia protegge il mondo e già l’illumina segretamente.

    L’uomo vi ritrova la sua filiazione perduta, attinge la sua vita a quella di Cristo, l’amico segreto, che divide con lui il pane del bisogno e il vino della festa. Il pane è il suo corpo e il vino è il suo sangue; in questa unità nulla ci separa da cose e persone. Ci può essere qualcosa di più grande? E’ la gioia della pasqua, la gioia della trasfigurazione dell’universo. Noi riceviamo questa gioia nella comunione dei santi e nella tenerezza della Madre Chiesa. Allora nulla ci fa più paura. Abbiamo conosciuto l’amore che Dio ha per noi, siamo degli dei. Ormai tutto ha senso. Tu e tu ancora, avete un significato. Tu non morirai Quelli che ami, anche se li credi morti, non moriranno. Ciò che è vivente è bello, fino al più piccolo filo d’erba, fino all’attimo fuggente che ti ha fato sentire nelle tue vene la pienezza dell’esistenza, tutto sarà vivente per sempre. Anche la sofferenza e la morte hanno un senso, diventano gli itinerari della vita. Tutto è già vivente perché Cristo è risorto” Atenagora.

    * Il condividere il pasto: prova ad elencare il simbolismo e il valore ad esso attribuito che tale gesto assume nella tua esperienza.

    * Siamo essere bisognosi, dipendenti. Per vivere dobbiamo mangiare. Mangiare è riconoscere che siamo mortali, non autosufficienti. In fin dei conti è riconoscere che dipendi da un Altro che solo è “il Vivente”

    Cfr. Gn 1,9ss; Dt 32,39; Tb 13,2; Sap 16,13; Sal 23; Sap 2,24

    * Mangiando di ciò che Dio ha creato per te tu integri in te la creazione. Lo fai tuo. Tu comunichi con l’universo e l’universo comunica con te: attraverso di te la creazione diventa corpo, cuore, azione, amore, preghiera, lode, riconoscenza…

    * Il Verbo di Dio ha scelto di farsi carne. Ha assimilato in sé la sua stessa creazione, l’ha fatta sua (ha mangiato e ha bevuto). Tutto ciò che ha fatto suo è divenuto suo corpo e suo sangue.

    * La creazione fornisce al Cristo Uomo-Dio pane e vino perché nella potenza dello Spirito egli li trasformi nel suo corpo e nel suo sangue. L’uomo ne mangia. L’uno e l’altro sono assimilati al Corpo del Cristo risorto. Egli può dire: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue… Costoro, che hanno mangiato di me, sono mio corpo.”

  • 07 Feb

    Religione del Padre o illusione?


    “Papà”, “Mamma”: le parole più usate, più pronunciate  dall’inizio alla fine della vita…

    Ma come tutte le parole più usate ed inflazionate, esse rischiano di essere tra quelle sulla quali meno si riflette, con la conseguenza che non si riflette sul loro profondo contenuto.

    Padre e Madre sono parole primordiali, essenziali nel loro suono labiale e nel loro significato.

    Esse ci riconducono sempre alle nostre radici.

    Sono sempre estremamente cariche di memorie affettive piacevoli o dolorose, memorie che permangono nel tessuto della nostra esistenza spesso inconsapevolmente e che fanno da filtro alla percezione di noi stessi, degli altri e dell’ambiente (cfr. il transfert).

    Proprio per il carico di vissuto affettivo che la memoria del padre e della madre conserva in ciascuno di noi alcuni filosofi e psicanalisti hanno sospettato che il concetto di Dio Padre, che sta alla base della nostra esperienza religiosa, non sia altro che l’immagine amplificata idealizzata proiettata all’infinito del nostro desiderio e sentimento.

    Ovvero Dio Padre non sarebbe che una nostra costruzione mentale originata dalla nostalgia del padre-madre che abbiamo e non-abbiamo avuto.

    L’uomo limitato, segnato in se stesso dall’insoddisfazione e dall’angoscia, condenserebbe tutto il suo bisogno di amare e di essere amato, di onnipotenza, di protezione, di regolazione morale (con premio o punizione) su Dio Padre.

    Sappiamo che il grande esponente di questa teoria è S. Freud. Nel suo scritto L’avvenire di una illusione, egli sostiene che  la religione non è che il condensato delle aspirazione appagate e quindi da far perdurare ad ogni costo e inappagate e quindi da perseguire angosciosamente ad ogni costo dell’uomo.

    Dio sarebbe tutto ciò che il padre è o non è stato. L’origine della religione? Un inesauribile dolore per una assenza inguaribile.

    Da qui allora la conseguenza che la religione non sia che  un ostinato perdurare nell’infanzia, un essere se non altro compensazione di desideri insoddisfatti.

    La conclusione per Freud è chiara. La religione (l’illusione) del Padre ci sarà sempre fino a quando ci sarà qualcuno che non riesce a far a meno del padre.

    L’uomo adulto è l’uomo che cessa di voler perdurare nella stato di figlio, l’uomo che si svincola da ogni tutela parentale.

    E’ l’uomo che si assume in toto la sua vita senza rimpianti di legami nostalgici. Che affronta “virilmente” tutta l’angoscia che la vita porta con sé senza cercare comode vie d’uscita.

    E’ l’uomo che si appropria di sé, svincolandosi da ogni mito. Diviene lui il centro di se stesso e di tutto ciò che lo circonda.

    Mai prima di Freud, Feuerbach, Nietzsche l’uomo aveva portato così avanti la rivendicazione della sua autonomia di fronte agli dei usurpatori. Una volontà di depodestare il mito di Sisifo.

    Questi autori non si accaniscono nel voler dimostrare l’inesistenza di Dio, non ne hanno la necessità.

    Perseguono un’altra strada andando alla radici dell’esperienza religiosa scalzandone alla base la legittimità e serietà.

    Occorre onestamente riconoscere che molte delle loro critiche mettono realmente allo scoperto le inconsistenze di una certa religiosità.

    Ma come porsi dinanzi a queste posizioni a cui la nostra cultura sembra più o meno consapevolmente essersi abbondantemente abbeverata.

    Una pista è anzitutto quella di precisare il senso delle parole che usiamo parlando di Dio.

    Infatti la religione pullula di caricature di Dio nascoste dietro le medesime parole. Sono idoli mentali che hanno indotto a vere e proprie aberrazioni. Il nostro rischio è di continuare a proiettare su Dio, per appropiarcelo o strumentalizzarlo, le nostre ossessioni e individuali e collettive.

    Scriveva già nel IV sec. San Clemente di Alessandria: la maggior parte degli uomini, chiusi nel loro corpo mortale come la lumaca nel suo guscio, trincerati nelle loro ossessioni a guisa di istrici, si formano l’idea del beatissimo Iddio prendendo a modello se stessi.

    Occorre una seria consapevolezza che tutti i nostri concetti, tutte le nostre parole possono contenere Dio. Un dizionario non contiene la vita delle parole in esso contenute.

    Il mistero infinito di Dio lo posso solo intuire attraverso segni, simboli, metafore che parlano per evocazione, allusioni. E’ questa l’analogia, ovvero l’unica possibilità data all’uomo per poter parlare del mistero in modo legittimo. E’ ad esempio tutto il linguaggio usato dalla liturgia.

    Cito un brano esemplare di un grande mistico – teologo che ha fatto della teologia apofatica il motivo maggiore della sua riflessione:

    I teologi lodano la divina Origine perché non ha nome alcuno, e intanto perché li possiede tutti…

    La lodano perché ha una molteplicità di nomi quando osservano che essa dice di se medesima: Io sono Colui che sono, o anche Vita, Luce, Dio, Verità; e quando coloro che conoscono Dio celebrano con molteplici nomi la Causa universale, ispirandosi ai suoi effetti come Bontà, Bellezza, sapienza… Intelligenza, Anziano di giorni, Giovinezza eterna, salvezza, Giustizia, santificazione, Liberazione… E’ nello stesso tempo nel cuore dell’universo e al di là del cielo, Sole, Stella, Fuoco, Acqua, Soffio, Rugiada, Nuvola, Roccia Assoluta, Pietra in una parola tutto ciò che è niente di ciò che è.

    Così questa causa di tutto che supera tutto, è nel contempo l’assenza di nomi che le si addice e tutti i nomi di tutti gli esseri… Essa contiene in sé dall’inizio ogni essere di modo che si può lodarla, e nominarla a partire da ogni essere (Nomi Divini).

    L’analogia, con il suo linguaggio simbolico, serve a gettare ponti tra la nostra realtà limitata dallo spazio e dal tempo e la realtà divina che trascendendo ogni cosa è in-dicibile, irraggiungibile.

    Questo non significa che i nomi che usiamo per parlare dell’indicibile come Dio, Trinità, Padre, Figlio, Spirito; Amore, Signore, Eterno, Immenso siano in un certo senso gratuiti, impropri, illegittimi. No! Essi sono appropriati ma non di certo esaustivi. Dicono qualcosa, non tutto e non esattamente ciò che intendiamo dire perché il mistero sfuggirà implacabile. Dio è sempre il “Totalmente Altro”.

    Sono nomi attinti alla nostra esperienza quotidiana perché è questa sola che può parlare alla nostra vita.

    Tornando allora alla denominazione di Dio come Padre dobbiamo dire che se essa fosse soltanto la proiezione di quanto l’esperienza del padre e della madre hanno lasciato in noi, Dio allora non sarebbe che un fantasma, un feticcio da noi inconsapevolmente inventato per far fronte alla nostra fatica di vivere. Sarebbe realmente una “compensazione” alla nostra debolezza e alla nostra paura.

    Ma è qui che si innesta la straordinarietà della fede cristiana che attesta che Dio si è rivelato, ha mostrato il suo volto di Padre in un uomo vissuto duemila anni fa in Palestina: Gesù di Nazaret.

    Se non avessimo conosciuto in Gesù il Figlio di Dio, il nome di Padre dato a Dio sarebbe se non insensato certamente e immensamente timido e povero.

    Qui siamo chiamati a ripercorrere tutta l’esperienza filiale di Gesù come ci è testimoniata dai vangeli.

    Ascoltando le parole di Gesù appare evidente che il rapporto che Egli ha col Padre non assume certamente un carattere compensatorio. Non vi sono nostalgie infantili o frustrazioni irrisolte.

    E quando Lui stesso suggerisce ai suoi discepoli di rivolgersi al Padre invita ad assumere il medesimo suo atteggiamento.

    Da quel momento per il discepolo di Gesù, Dio è Padre con le qualità proprie di ogni vera paternità: amore, sollecitudine, compassione, perdono, fedeltà, sicurezza.

    Egli ci conosce, sa le nostre necessità, conta il numero dei capelli del nostro capo, ha cura di noi.

    Gesù incoraggia alla fiducia (cfr. Lc 12,32)…

    O queste parole posseggono il loro senso e la loro verità oppure l’intero evangelo è privo di senso e di verità.

    La denominazione di Dio Padre non elimina la trascendenza e il mistero che la circonda, siamo sempre in un linguaggio analogico, ma permette di stabilire con lui una relazione filiale nel senso più pieno, nella quale diventa spontaneo un atteggiamento di consegna e di fiducioso abbandono.

    Certo la paternità di Dio incontra le nostre debolezze e le nostre memorie, ma non nasce da esse, non deve nascere da esse, pena l’instaurarsi di un errato e deviante rapporto con una nostra immagine di Dio che diviene idolo da adorare o abbattere.

    Per il cristiano la scoperta della paternità di Dio nasce dalla rivelazione donataci da Gesù “Figlio unigenito, divenuto primogenito di molti fratelli”.

    Compensazione e rivelazione possono coesistere nel nostro incontro col Padre dei cieli, a condizione che la sua conoscenza non la si faccia derivare dalla nostalgia del passato, ma dalla parola e dall’esempio di Gesù Cristo. Solo questo incontro purificherà memoria , affetto volontà nella direzione di una sempre più limpida relazione col Padre.

  • 07 Feb

    MORENDO E RISORGENDO GESU’

    OFFRE LA RIVELAZIONE SUPREMA DI DIO


    Scrive Giovanni Paolo II nella sua enciclica Dives in Misericordia: “Il messaggio messianico di Cristo e la sua attività tra gli uomini terminano con la croce e la risurrezione. Dobbiamo penetrare profondamente in questo evento finale che, specialmente nel linguaggio conciliare, viene definito mistero pasquale, se vogliamo esprimere fino in fondo la verità sulla misericordia, così come essa è stata rivelata nella storia della salvezza” (n. 7).

    Guardando alla tragicità della storia della passione e morte di Gesù viene spontanea una domanda; una domanda che sorge istintivamente dinanzi all’assurdità di ogni sofferenza soprattutto se innocente: quale volto di Dio si può manifestare tramite essa?

    Sempre l’enciclica ricorda come quel giovedì e venerdì di passione introducono nella vita e nella missione di Cristo “un cambiamento fondamentale. Colui che passò beneficando, risanando e curando ogni malattia ed infermità (cfr. At 10,38; Mt 9,35) sembra egli stesso meritare la più grande misericordia e richiamarsi alla misericordia, quando viene arrestato, oltraggiato, condannato, flagellato, coronato di spione, quando viene inchiodato alla croce e spira fra tormenti strazianti” (DM 7).

    Entriamo nel Getsemani e osserviamo attentamente che cosa avviene: “Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Disse loro: La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate. Poi, andato un po’ innanzi, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell’ora. E diceva: Abbà, padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,33-36).

    Gesù in quel momento inizia una vera e propria lotta, la sua agonia. L’evangelista Marco non teme di rivelarci il cuore di Gesù straziato tra due gridi di preghiera: da un lato l’implorazione di essere esonerato dal calice di sofferenza postogli dinanzi, dall’altro il grido fiducioso dell’abbandono alla volontà del Padre.

    Sofferenza e amore: è questo l’impasto stupendo e drammatico della passione di Gesù. Ed è così che egli resta fedele alla sua missione di rivelare un Dio che si compromette per l’uomo fino a morire per lui.

    E questo che il Padre domanda a Gesù, e glielo chiede proprio in favore dell’uomo.

    Sul Calvario giungiamo al vertice di questo impasto di dolore e amore: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.

    Un grido che non va indebitamente alleggerito quasi disturbasse la contemplazione del crocifisso, quasi fosse una nota stonata.

    E’ un grido di dolore, ma è pure l’inizio della preghiera di colui che innocente e perseguitato si affida a dio con la certezza che egli non abbandonerà il giusto fedele a lui (cfr. Sal 21,2; 23-30).

    Non è certo un grido di disperazione, tuttavia il racconto evangelico ne ha conservato tutta la drammaticità sottolineando  la solitudine immensa di Gesù che tocca il fondo dello sconforto umano.

    Sant’Ireneo commenta questo momento affermando che Gesù lo volle “perché non poteva esigere dai suoi discepoli nessuna sofferenza che egli non avesse già affrontato come maestro” (Adv. Haer. III,18).

    Vi sono altre parole che commentano il grido di Gesù sulla croce. Luca pone sulle labbra di Gesù le parole del salmo 31: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). Giovanni scrive: “Dopo aver ricevuto l’aceto, Gesù disse: Tutto è compiuto” (Gv 19,30).

    Paolo dirà ai cristiani di Corinto: “Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio” (1Cor 5,19.21).

    Dando uno sguardo complessivo possiamo dire con il Papa che “la croce è il più profondo chinarsi della Divinità sull’uomo e su ciò che l’uomo – specialmente nei momenti difficili e dolorosi – chiama il suo infelice destino. La croce è come un tocco di eterno amore sulle ferite dolorose dell’esistenza terrena dell’uomo” (DM 8).

    Già nella sinagoga di Nazaret, nel discorso inaugurale della sua predicazione, Gesù affermava chiaramente di voler essere rivelazione dell’amore di Dio per i poveri, i sofferenti e i prigionieri, verso i non vedenti, gli oppressi e i peccatori. Con la sua morte e risurrezione va oltre. Rivela che in lui vengono affrontate e vinte “le più profonde radici del male, che affondano nel peccato e nella morte” (DM 8).

    Croce e risurrezione si offrono come segno di speranza per il cammino dell’umanità intera e di ciascun uomo.

    “Il fatto che Cristo è risuscitato il terzo giorno costituisce il segno finale della missione messianica, segno che corona l’intera rivelazione dell’amore misericordioso nel mondo soggetto al male. Ciò costituisce al tempo stesso il segno che preannuncia un nuovo cielo e una nuova terra, quando Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate” (cfr. Ap 21,1; DM 8).

  • 06 Feb

    DOLORE  DEL  MONDO  E  AMORE  DEL  PADRE

    Tre volte al giorno la liturgia ci fa domandare al Padre, attraverso la preghiera del Signore, di liberarci dal male.

    Chiediamo al Padre che il male non ci sovrasti al punto di dubitare di lui, del suo amore, fino al punto di dire insieme allo stolto del Salmo 14: Dio non c’è! Dio non se ne cura! (v. 1)

    Come credere all’amore di un Dio che si dice Padre di fronte al mistero del dolore e del male che sembrano dilagare sempre più in mezzo a noi sino al punto da sommergere tutto?

    Basti uno sguardo veloce alla cronaca di questi ultimi tempi…

    La liturgia ci ha condotti al Calvario: Se è figlio di Dio, come ha detto, scenda dalla croce… Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso?…

    Accanto a Gesù ci sono due ladroni. Essi rappresentano due modi di affrontare la vita, il dolore, la morte.

    Uno impreca e si beffa di Dio, che non ce la fa a vincere il male. Questi non spera nulla, si accontenta forse di aver goduto la vita per quanto gli ha dato. Di fronte alla croce del Giusto non attende alcun aiuto.

    L’altro ladrone si apre ad una luce diversa, uno spiraglio che fa affiorare un senso diverso, una speranza. Si apre ad una sapienza diversa, che per san Paolo è quella della debolezza di Dio. E’ la stoltezza di un Dio che muore da peccatore accanto al peccatore.

    In Gesù, Dio scende agli inferi, si è fatto estrema debolezza e stoltezza…

    Chi ha visto morire il Figlio sulla Croce ha visto, ha contemplato chi è il Padre e sino a che punto giunge la sua follia d’amore per questa nostra umanità: Gv 14,9 Gli dice Gesù: «Da tanto tempo sono con voi, e non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”?


    LA PEDAGOGIA DELLA STORIA

    Lungo la storia Dio ha preparato il suo popolo alla lettura del Giusto che soffre e che muore perché tutti gli altri si salvino. In queste figure Dio si rappresenta nella sua passione causata dalla resistenza dell’uomo che fatica a voler essere liberato.

    Giuseppe viene venduto, tradito, dai suoi fratelli. Il libro della Sapienza commenta: Dio scese con lui nella prigione, non lo abbandonò mentre era in catene (10,14).

    Di Mosè l’autore della lettera agli Ebrei commenta: Mosè, divenuto adulto, rifiutò di essere chiamato figlio della figlia del faraone, preferendo l’obbrobrio del Cristo piuttosto che godere per breve tempo del peccato (11,26).

    Davide perseguitato è figura del Messia perseguitato. Giosia re giusto e santo viene trafitto a Meghiddo dagli arcieri del faraone egiziano!

    Lentamente la consapevolezza del giusto oppresso e ucciso si fa strada ed impone una riflessione. Inizia a prospettarsi la figura di un Messia-Servo sofferente: ne è conferma la vicenda di Geremia, di Giobbe e di tanti protagonisti dei Salmi.

    Non per nulla Gesù inizia i suoi discepoli al suo mistero pasquale commentando “Mosè, i Profeti e i Salmi” onde far capire che bisognava che lui patisse.

    Il Servo-Figlio è torturato ed ucciso e non vi è nessuno e nulla che fermi la mano del Padre! In lui il Padre stesso muore.

    La debolezza di Dio è arrivata sino a farsi ghermire dalla morte.

    Il Padre in Gesù Messia è Amore che si dona tutto.

    Il corpo di Gesù Giusto sofferente ha sofferto in tutti i giusti dell’Antico testamento e continua a soffrire, a subire violenza e ad essere oltraggiato ed ucciso nei sofferenti e i morti di oggi e di domani.

    C’è un comune destino: quello del mistero pasquale.

    IL MISTERO PASQUALE

    Pesach significa “passare oltre, saltare, passare attraverso”.

    Come risposta al peccato che ha votato alla morte l’uomo e coinvolge la creazione, Dio ha inventato l’economia della redenzione, cioè il faticoso cammino della fede.

    In questo cammino Dio stringe un’Alleanza, salva dallo sterminio i primogeniti del suo popolo passando oltre, fa uscire Israele dalla schiavitù e dall’idolatria facendolo passare attraverso il mare, fa passare il suo popolo attraverso il deserto per condurlo alla terra da lui promessa.

    Cioè egli ha educato il suo popolo facendone la figura esemplare dell’unto del signore, del Messia, anticipandogli in tanti modi le sue sofferenze.

    E’ la sorte di tutti noi, entrare nel medesimo destino del Servo-Messia condividendone il cammino. In lui siamo stati battezzati.

    Pertanto il nostro soffrire da cristiani è segnato dalla partecipazione alle sofferenze di Cristo, anzi in noi egli porta a compimento la sua passione.

    L’amore del Padre che consuma il Figlio consuma ora, ancora, il suo corpo che siamo noi misteriosamente toccati dalla sua incarnazione.

    Così ci sono due modi di soffrire e di morire: o imprecando o amando.

    Nell’amore posso essere distrutto nel corpo con tutto quello che ciò vuol dire, ma ne esco vincitore, in Cristo che con me oggi soffre e muore per condurmi alla gloria.

    Dov’è il Padre in tutto questo, nel dramma di tanti piccoli e giusti violentati, torturati ed uccisi? Dov’era il Padre in quelle ore di tremenda agonia nella quale il Figlio consumava tragicamente la sua giovane vita?

    Il Padre era lì sulla croce dell’obbrobrio del Figlio, scendeva con lui nel buio del sepolcro, era ucciso, è ucciso.

    Non posso più dire che Dio è estraneo al mio dolore da quando il Figlio suo ha assaporato fino all’ultima goccia quel calice che gli era presentato. Calice di dolore e di amore.

    UNA BUONA NOTIZIA

    La buona notizia non è dunque che io sia esentato dalla morte e dalla sofferenza comune a tutti, credenti e non, ma che io posso morire e soffrire nell’amore, nella certezza che il Padre soffre con me, e perciò non mi lascerò schiacciare dal non senso e dalla disperazione. Anzi sarò capace di fare della mia morte e del mio dolore un’offerta.

    L’amore per questa nostra umanità ha fatto sì che Dio assumesse in pienezza la kenosis: affinché nulla andasse perduto.

    Mosso dallo Spirito accetto l’assurdo del soffrire e del morire senza rassegnarmi alla sua negatività, imparo da Gesù e con Gesù a strappare alla morte e alla sofferenza la forza malefica del male e del peccato, ed entrare così nella follia della croce.

    La conclusione è questa: io sono preso dalla passione del padre, divengo come il Padre capace di amare sino a dare il suo proprio figlio, che è tutta la sua vita, solo perché è amore.

    Un amore che corre sempre il rischio di essere rifiutato e disprezzato: il Padre lo ha fatto per chi non poteva dargli nulla in cambio, anzi gli era nemico, e neppure chiedeva e voleva essere liberato.

    Tutto questo lo comprendiamo bene non toglie nulla alla drammaticità del dolore e della morte, anzi addirittura lo acutizza, perché affina la percezione dell’assurdità del dolore dell’Innocente che il Padre consegna all’uomo.

    Occorre preghiera e abbandono affinché il dolore non distrugga. L’abbandono nelle braccia del Padre non lo si improvvisa. Anche Gesù lo dovette imparare, reso perfetto mediante la sofferenza: seppe perciò morire pregando e perdonando e chiedendo con forza la risurrezione.

    Il male non è voluto dal Padre, ma da noi. E questo male non deve mettere in dubbio la paternità di Dio, ma spingerci a rifugiarci in essa: Se anche camminassi in una valle oscura non temerei alcun male perché tu sei con me. So che mi ridarai la vita e non permetterai che il tuo santo rimanga nella tomba.


  • 05 Feb

    IL PADRE NOSTRO NELLA PASSIONE


    Ripercorrendo le pagine dei vangeli e ricercando l’ambito cristologico in cui viene a meglio collocarsi la preghiera e l’interpretazione del Padre Nostro, ci si accorge che questo acquista particolare rilievo nei racconti della Passione.

    Un rilievo talmente evidente, sia nelle perole stesse che nei contenuti,  che addirittura alcuni esegeti suppongono che la stesura della preghiera del Signore sia da collocarsi proprio a partire dai capitoli evangelici dedicati alla Passione.

    Certamente la Passione rappresenta una chiave interpretativa quanto mai autentica per la retta comprensione delle singole richieste contenute nella Preghiera del Padre nostro.

    Possiamo perciò tentare di ripercorrere le sue singole richieste alla luce della Passione.


    1. Padre nostro che sei nei cieli

    Gesù all’inizio della sua Passione si pone in sofferta preghiera nell’orto del Getsemani. La sua orazione inizia con quella parola con cui iniziava ogni sua preghiera: Padre- Abbà!

    (cfr. Mt 26,39; Mc 14,36; Lc 22,42; Gv 12,27). E’ la parola rivelatrice dell’intima, fiduciosa e filiale relazione che Gesù viveva nei confronti di Dio.

    Egli entra nella sua Passione accompagnato dalla certezza che accanto a lui, sofferente con lui, vi è il Padre che da sempre lo ama.

    Una dato significativo è il fatto che la parola “Padre” compare nella prima frase pronunciata da Gesù a dodici anni nel tempio di Gerusalemme (“Non sapevate che devo occuparmi delle cose del Padre mio?” Lc 2,49), e nell’ultima invocazione di Gesù affisso sulla croce (“Padre nelle tue mani affido il mio spirito” Lc 23,46). Tutta l’esistenza di Gesù si pone in riferimento continuo verso Colui che lo ha mandato.

    2. Sia santificato il tuo nome

    Durante la Passione raccontata nel vangelo di Giovanni, Gesù invoca: “Padre glorifica il tuo figlio” (17,1).

    Vi è una relazione molto stretta tra glorificare Dio e santificare il suo Nome, in quanto il Nome indica la persona stessa, si identifica con essa. Glorificare e santificare possono essere intesi come sinonimi.

    Gesù glorifica-santifica il Padre compiendo la missione cui è stato chiamato. E la sua missione trova compimento e pienezza di rivelazione nel mistero pasquale.

    E’ dunque soprattutto in questo evento che il Padre può glorificare-santificare davanti al mondo il suo Nome attraverso il Figlio suo.


    3. Venga il tuo regno

    E’ nella vittoria pasquale che il Padre instaura già nella nostra storia il suo Regno. Le forze del male (il peccato, la morte, Satana) sono già sconfitti sulla croce.

    Per san Giovanni il mondo, nel moneto della Passione, risulta giudicato nel suo peccato che è rifiuto della rivelazione e il “principe di questo mondo” viene estromesso: “Ora c’è il giudizio di questo mondo, ora il principe di questo mondo sarà cacciato fuori” (12,31; cfr. 16,11).

    E Gesù  può così aprire le porte del Regno del Padre al ladro pentito crocifisso con lui (Lc 23,42).

    Il Regno del Padre che Gesù instaura mediante il mistero pasquale passa attraverso lo scandalo della debolezza, dell’impotenza, del suo farsi ultimo e servo di tutti. E’ un regno dai parametri umani di potenza e dominio.

    4. Sia fatta la tua volontà

    Sempre nella preghiera nell’orto del Getsemani Gesù chiede: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice. Però non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22,42).

    E’ questo il nucleo della preghiera di Gesù come è il nucleo centrale del Padre nostro.

    Gesù si offre come strumento docile nelle mani del Padre. E’ il fare la sua volontà che diviene il sacrificio unico perfetto e gradito a Dio: “Perciò, entrando nel mondo dice: Non hai voluto sacrificio, né oblazione, ma tu mi hai preparato un corpo. Non hai gradito olocausti, né sacrifici per i peccati. Allora io dissi: ecco vengo, nel rotolo del libro è stato scritto di me, o Dio, per fare la tua volontà” (Ebr 10,5-7).

    5. Dacci oggi il nostro quotidiano

    Il senso dell’aggettivo “quotidiano” è duplice: è il pane “sostanziale” o il “pane di domani”. Potremmo interpretare la richiesta come: dacci il pane del regno che deve venire.

    Spesso nei vangeli il regno è paragonato ad un grande banchetto (cfr. Mt 22,1ss; Lc 16,16).

    Questo pane del regno ci rimanda all’ultima cena, preludio e anticipazione della Passione.

    Gesù dona alla sua comunità l’Eucaristia come pegno del regno dei cieli che si instaura con la sua morte e risurrezione.

    6. Rimetti a noi i nostri debiti,come noi li rimettiamo ai nostri debitori.

    Due diretti riferimenti alla “remissione dei peccati” li troviamo nei contesti della consacrazione del calice durante l’ultima cena (cfr. Mt 26,28), e nella preghiera di Gesù sulla croce: “Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34).

    Già i profeti avevano annunciato e descritto la nuova alleanza come piena espiazione di tutti i peccati.

    E’ per il sangue di Cristo, agnello pasquale immolato, che il nostro peccato è espiato e perdonato (cfr. Ebr 10,12-18).


    7. E non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male

    All’inizio della sua Passione Gesù mette in guardia i discepoli contro la tentazione dello scandalo della fede in lui causata dalla sua Passione e Morte (cfr. Mt 26,31).

    Ancora la scena del Getsemani ci viene presentata come un “entrare nella tentazione” per Gesù stesso e i suoi discepoli (cfr. Mt 26,41; Mc 14,38; Lc 22,40).

    Da questa tentazione solo l’assidua e impetrante preghiera può salvare: “Vegliate e pregate affinché non entriate in tentazione. Sì, lo spirito è pronto, ma la carne è debole” (Mt 26,41).

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