PECULIARITA’ DEL
MONACHESIMO IRLANDESE:
il terzo tassello delle radici cristiane europee
di padre Attilio Franco Fabris cp
Casa di Preghiera Sant’Andrea
Abbazia di Borzone
16041 Borzonasca – GE
Dobbiamo riconoscere che il monachesimo celtico, di cui san Colombano è certamente la figura più significativa, è purtroppo un tesoro sconosciuto. Una trascuratezza abbastanza grave se, come pensano numerosi storici, il monachesimo irlandese dovrebbe essere riconosciuto a tutti gli effetti come il terzo tassello di un mosaico che venne a forgiare dal V al X secolo le radici dell’Europa cristiana.
La nostra identità culturale europea è certamente frutto del monachesimo benedettino capace di operare una sapiente rilettura della tradizione monastica orientale e della romanità che dal sud risale il continente, è ancora sicuramente frutto della coraggiosa apertura missionaria e capacità di inculturazione nell’Europa dell’est da parte dei santi Cirillo e Metodio, ma anche, come cercheremo di evidenziare, frutto del contributo originalissimo e di certo non marginale che dal nord venne da parte del monachesimo celtico.
Premesse generali
A livello storico l’Irlanda rappresenta un caso unico nell’arco dei secoli che vedono la formazione dell’identità del nostro continente. Fu infatti una nazione, l’ultima terra che si apriva sull’oceano, che rimase ai margini della grandi vicende storiche europee soprattutto nei secoli V e VI. Gli stessi romani non conquistarono mai realmente l’isola e questa non fu neppure grandemente interessata dalle grandi trasmigrazioni barbariche che interessarono invece il resto dell’Europa nei secoli che a noi interessano.
Questa “marginalità” permise il formarsi di una certa autonomia e strutturazione culturale, sociale e religiosa tipica seppur sempre saldamente ancorata alla radice continentale, non riscontrabile nel resto dell’Europa.
La fede cristiana giunse in Irlanda ad opera di sporadici missionari e di mercanti. Giunse probabilmente dalla Gallia e dalla Scozia già alla fine del IV secolo, se già nel 341 papa Celestino I invia in Irlanda Palladio come primo vescovo “ad Scottos in Christum credentes”, ovvero alle comunità cristiane già presenti sull’isola.
Ma la conversione totale dell’isola, attuatasi nell’arco di pochi decenni, è da attribuirsi all’opera di san Patrizio (432-461), successore di Palladio. L’evangelizzazione sia di Palladio come di Patrizio avvenne senza traumi: si tratta di un dato abbastanza insolito se non unico, infatti in Irlanda non ci furono missionari martiri. Questo perché il cristianesimo seppe sapientemente avvicendarsi all’antica cultura celtica senza imporre fratture. Come non ricordare ad esempio l’episodio in cui a Patrizio preso da scrupoli e incerto se conservare e utilizzare i poemi pagani appare un angelo che lo consiglia di usarli saggiamente traendone insegnamenti cristiani?
Sembra che sia stato san Patrizio ad introdurre ufficialmente l’istituzione monastica in Irlanda anche se alcuni storici sostengono l’esistenza di qualche comunità monastica precedente a lui. Patrizio fu un innamorato del monachesimo, si era infatti formato alla sua missione in Gallia nell’importante centro monastico di Lérins. Patrizio arrivato in Irlanda fondò ad Armagh la prima sede vescovile ma unitamente vi volle anche un monastero. Già durante il suo episcopato sorsero nell’isola numerosissimi monasteri ed egli poté gloriarsi, nelle sue “Confessiones” di aver fatto entrare nella vita monastica numerosi “figli e figlie di re”.
Nascita del monachesimo irlandese
Nel IV e V secolo il monachesimo nato in oriente aveva già trovato diffusione nell’area del Mediterraneo attraverso numerose fondazioni monastiche sorte soprattutto sulle sue isole tra le quali è da ricordare anzitutto Lérins che fu in quei secoli il centro monastico più importante.
A partire dal secolo V e VII i monasteri in Irlanda si moltiplicano in modo quasi prodigioso. Questa profusione di fondazioni monastiche, avvenuta in pochissimo decenni, fa sì che si possa affermare che il cristianesimo irlandese abbia di fatto assunto sin dall’origine una matrice essenzialmente monastica.
Citiamo alcune delle fondazioni monastiche più importanti.
Intorno al 500 sant’Enda fonda un primo insediamento monastico irlandese nelle isole Aran, che fu in seguito denominata l’”Isola dei Santi”. A questo primo monastero nella stessa zona se ne aggiunsero poi molti altri. Questi monasteri ricopersero un’importanza notevole come scuole di spiritualità monastica a cui accorsero generazioni di aspiranti monaci.
San Finnian fu invece il fondatore di Clonard, intorno al 500. Egli fu definito il “maestro dei santi d’Irlanda”, in quanto dal suo monastero uscì un folto gruppo di monaci che fu denominato “i dodici apostoli d’Irlanda” che a loro volta furono fondatori di numerosi monasteri.
San Cirian intorno al 545 fonda Clonmachnoise, uno dei principali insediamenti monastici d’Irlanda, l’unico a non essere sottoposto ad un legame con uno specifico clan con la conseguenza di svolgere un notevole influsso anche politico.
Altro grande monastero fu quello di Bangor, presso l’attuale Belfast, fondato da san Cumgall nel 558 e che divenne un famoso centro spirituale e culturale nel quale visse e si formò lo stesso san Colombano.
San Columba fu il fondatore, nel 563, di un importantissimo monastero irlandese nell’isola di Jona sulle coste scozzesi. Nonostante la sua dislocazione mantenne una forte giurisdizione in Irlanda.
Non bisogna neppure scordare l’importante presenza di monasteri femminili. La prima fondazione fu opera di santa Brigida discepola di san Patrizio. Il suo monastero ebbe sede ad Ardagh. Seguirono altre fondazioni femminili tra le quali nel 470 del monastero “doppio”, ovvero maschile e femminile, di Kildare che divenne un grande centro sia culturale che caritativo.
San Colombano proveniente da Bangor invece fu il grande e primo propagatore del monachesimo irlandese nel continente avendo fondato lui e i suoi discepoli, durante i suoi pellegrinaggi, numerosi monasteri tra i quali occorrerà ricordare Auxerre, Luxueil, San Gallo e Bobbio.
A tutti questi fondatori e monasteri se ne potrebbero aggiungere moltissimi altri degni di nota a testimoniare dell’enorme vitalità del fenomeno monastico irlandese a partire dal V secolo.
Una straordinaria espansione
Questa straordinaria espansione monastica avvenuta nell’arco di pochi decenni, vera peculiarità del monachesimo celtico, fu dunque un successo dovuto a diversi fattori tra cui il favorevole terreno socioculturale e religioso celtico in cui esso venne a stabilirsi.
La società irlandese era di tipo strettamente patriarcale e tribale. L’economia era legata all’allevamento, alla pesca, e in minor misura, dato il contesto geografico, all’agricoltura. Non dimentichiamo poi le attività commerciali via mare. Non esistevano centri cittadini, si ignorava il concetto di stato. La cultura era di tipo orale, l’alfabeto praticamente sconosciuto (si utilizzava raramente solo quello ogamico). La popolazione era raccolta in “clan”, ovvero gruppi familiari che includevano non solo la famiglia in senso stretto, ma anche antenati, collaterali, discendenti e parenti acquisiti, comprendendo varie decine di persone a capo di cui stava il capoclan. Più clan formavano una tribù (“tuath” in scozzese). Era al clan – e non all’individuo – che spettava la proprietà della terra: la proprietà privata vi era sconosciuta. A capo di ogni tribù era posto un re (in gallico “rix”) con pieni diritti di vita e di morte sui sudditi. Accanto poi alla nobiltà troviamo un ruolo rilevante riservato ai “bardi” e ai “druidi”. I “bardi” erano i trasmettitori del sapere del popolo, una sorta di poeti professionisti che venivano istruiti per memorizzare e comporre le tradizioni e i miti. Essi furono stimati e protetti anche nell’epoca cristiana: san Columba più volte prese le loro difese. I sacerdoti “druidi” invece rappresentavano una casta potente e rispettata la cui influenza era non solo religiosa ma anche sociale; spesso erano anche filosofi, scienziati, maestri, giudici e consiglieri del re. La religione da essi coltivata aveva forti caratteristiche naturalistiche legate alla forza misteriose, cicliche e minacciose della natura. Una religione cupa che si scontrò, anche se non con la violenza, già a partire da san Patrizio con l’annuncio cristiano. Scontri tra druidi e evangelizzatori,e prove di “forza spirituale” sono narrati a lungo nelle vite dei primi santi irlandesi. Anche dalla religione druidica il cristianesimo seppe utilizzare miti e espressioni religiose purificandole e rileggendole alla luce dell’evento cristiano: così ad esempio il valore simbolico delle sorgenti, di alcuni alberi, del fuoco, di alcune isole, e così via. Classico l’esempio del monastero di Kildare dove dieci monache avevano il compito di mantenere vivo perennemente un fuoco considerato sacro.
Ora, tribù, clan e monastero in certo qual modo tendono ad equivalersi nella loro valenza sociale possedendo strutture organizzative molto simili. In entrambe ad esempio la figura del capoclan e dell’abate, ha un ruolo determinante non solo in vista dell’autorità e del potere ma della propria identificazione. Notiamo a questo proposito un particolare importante: il termine “monasterium”, in celtico “muintir”, non definisce, come sul continente, il luogo quanto invece la comunità monastica stessa. È un dato che ci permette di comprendere come fondamentale per il monaco celtico fosse la sua appartenenza che si definiva a partire dal gruppo più che da un luogo fisico come è nell’accezione benedettina.
Tranne qualche sporadico caso, i monasteri venivano fondati a partire da una donazione di terre ad un monaco proveniente da qualche clan, il quale ne diveniva generalmente anche abate istituendovi una sua regola. La successione degli abati prevedeva generalmente che fossero membri della medesima famiglia del fondatore facendo sì che la proprietà terriera rimanesse nell’ambito del clan in ottemperanza alla tradizione celtica che prevedeva il trasferimento del possesso fondiario solo all’interno della medesima famiglia. Questo comportava un forte legame tra monastero e tribù, e non mancano casi (come nella vicenda di san Columba e san Finnian) in cui vediamo monasteri il lotta tra loro perché coinvolti nelle vicende dei clan corrispettivi. L’insieme delle fondazioni e dei territori facenti capo ad un’abbazia madre costituiva ciò che veniva chiamata “paruchia”: si tratta di una vera e propria circoscrizione di tipo religioso e sociale autonoma e sottomessa all’autorità dell’abate., che si trova di fatto ad avere la responsabilità di una sorta di vera e propria “tribù monastica”.
L’organizzazione episcopale legata soprattutto al contesto e al ruolo sociale della città fu, almeno nei primi secoli, impossibile importarla in Irlanda nonostante gli sforzi di san Patrizio. Il monastero invece ben s’adattò al carattere sociale celtico: la conseguenza fu che l’abate di fatto venne a prendere il posto giuridico del vescovo al quale non rimase che un semplice ruolo liturgico e sacramentale. Non era raro che l’abate avesse tra i suoi sudditi diversi monaci consacrati vescovi. Scrive san Beda a questo proposito: “Quest’isola suole avere sempre come rettore un abate che è prete, al cui volere non solo tutta la regione è soggetta ma anche, con inusitato ordine gerarchico, gli stessi vescovi, secondo l’esempio di quel primo maestro (san Columba) che non fu vescovo, ma prete e monaco”.
Tutti i monasteri celtici dovettero così assumersi il compito della cura pastorale delle popolazioni presenti nel loro territorio; questo fece sì che praticamente tutti i monaci fossero anche sacerdoti. Un’altra conseguenza imposta da questo dato di cose fu che la vita di questi monaci non fosse strettamente claustrale, e la “stabilitas”, caratteristica del monachesimo benedettino, non fosse considerata un obbligo monastico fondamentale.
La struttura del monastero celtico
Non dobbiamo immaginare un monastero irlandese sullo stile di un tipico monastero medievale. Esso assomigliava maggiormente ai primi insediamenti monastici d’oriente della valle del Nilo denominati laure.
Anzitutto il luogo dove almeno originariamente sorgeva il monastero era sempre appartato, selvaggio, molto spesso su di un’isola. Alla fine del V sec. san Macan ci lascia una descrizione sulla qualità del luogo da preferire: un eremitaggio solitario con “una piccola fonte dalle acque chiare, dove tutti i peccati vengono purificati dalla grazia santificante”, un boschetto piacevole “ben protetto dai venti”, con “un ruscello possibilmente ricco di trote e salmoni”, un orticello ben rasato con terra molto fertile, “buona per ogni tipo di frutti”. Un luogo dunque solitario, che faciliti il distacco dal mondo e la contemplazione e che possa assicurare nello stesso tempo il proprio sostentamento.
Le tecniche di costruzione seguite per erigere il monastero sono quelle della società celtica e così anche la sua struttura: esso è costituito da semplici capanne rotonde di legno o pietra, abitate da due o tre monaci, raccolte attorno ad o più chiese. Accanto alla chiesa si trova un refettorio con la relativa cucina, una biblioteca con il suo scriptorium, le officine per il lavoro perché il monastero deve sostentarsi autonomamente. Molto spesso unita al monastero troviamo la “Guest House”, la foresteria, dove gratuitamente per tre giorni e tre notti vengono accolti pellegrini e viandanti. Il tutto è circondato da un fossato e una palizzata o muraglia di difesa contrassegnata da grandi croci scolpite nella pietra.
Solo in epoca più tarda, circa il IX sec., all’interno del recinto del monastero vengono costruire le tipiche torri coniche (ne rimangono circa 80) in pietra alte circa 150 piedi e larghe venti suddivise in sei o sette piani comunicanti da scale a pioli ed illuminate da finestre. Sono strutture difensive erette durante il periodo delle invasioni vichinghe.
L’abito del monaco consiste in sandali, una tunica bianca (simile a quella dei sacerdoti druidi), un mantello di lana ruvida e un cappuccio. Anche la tonsura (uno dei motivi di tensione con Roma) è diversa: la rasatura dei capelli avviene solo nella parte anteriore del cranio mentre sulla nuca i capelli vengono lasciati crescere (anche questa usanza druidica).
Circa invece il vitto è previsto un unico pasto dopo nona costituito da pane, legumi, latte e derivati, cereali, pesce. Le bevande consentite sono acqua e birra. La carne è permessa solo in occasioni speciali. Un detto monastico del periodo afferma ironicamente che il pasto consisteva in “pane, acqua,legumi oppure legumi, acqua e pane”.
La vita monastica
Ogni monastero adotta una sua regola e le sue consuetudini. Generalmente è lo stesso fondatore che stabilisce la sua “regola” caratterizzata comunque da elementi comuni e sempre improntata da un grande rigore ascetico. A partire dal 590 la Regola che si affermò maggiormente non solo in Irlanda ma anche sul continente, prima ancora della Regola di san Benedetto, fu la “Regula Monachorum” redatta da san Colombano. Fu composta dal santo durante la sua permanenza nel monastero di Luxeuil, da lui fondato. Essa è articolata in dieci capitoli, è accompagnata dalla Regula Coenobialis suddivisa in due parti: la prima denominata Regula coenobialis Patrum (costoro sono i grandi fondatori monastici irlandesi che lo hanno preceduto) e la seconda Regula coenobialis fratrum. La Regula Monachorum tratta soprattutto delle virtù e della spiritualità del monaco (obbedienza, silenzio, digiuno, disprezzo dei beni terreni, ripudio della vanità, castità, preghiera, discrezione, mortificazione della superbia e dell’orgoglio, buon esempio), ma essa non ci dice quasi nulla circa alcuni aspetti concreti della vita e della struttura della comunità (es. economia, ammissione, elezione dell’abate…). La Regula Coenibialis ci appare invece come un “Penitenziale”, ovvero una raccolta di indicazioni pratiche circa le penitenze cui sottomettere il monaco in caso di mancanze alla regola. L’importanza della Regula Monachorum colombaniana è confermata dal fatto che fu approvata ufficialmente dal concilio di Macon nel 627. Ma già qualche decennio dopo sul continente ad essa fu affiancata la regola benedettina onde mitigarne il rigore. Nel 643 a Bobbio troviamo già la tipica presenza di un monastero dalla “regula duplex”: colombaniana e benedettina.
La disciplina ascetica monastica veniva assicurata anzitutto dall’obbedienza totale e indiscussa all’abate e dall’esercizio della carità fraterna. Per Colombano la famiglia monastica si costituisce attorno alla figura e al ruolo dell’abate che raduna attorno a sé dei discepoli e costituisce insieme a loro una famiglia. Colombano sempre nella sua Regola, in cui l’obbedienza è posta non a caso al primo e ultimo capitolo, chiede al monaco un’obbedienza pronta e totale perché è chiamato ad imitare “il Cristo che ha obbedito a suo Padre sino alla morte”.
L’abate veniva assistito nella direzione della comunità spesso molto numerose (non mancarono alcuni centri che giunsero ad avere addirittura più di mille-duemila monaci) da dei “seniores”, generalmente monaci anziani e stimati. Troviamo inoltre le figure dell’ “oeconumus” che si prende cura degli aspetti materiali della gestione della comunità, dello “scriba” probabilmente un segretario, dell’addetto agli ospiti, del cuoco, del dispensiere.
La liturgia monastica, che vedeva i monaci radunarsi più volte a ore precise in chiesa sia di giorno che di notte, consisteva nella recita dei Salmi e nella s.Messa quotidiana privata. Alcune regole prevedevano la memorizzazione completa del salterio da parte di ciascun monaco. La liturgia veniva cantata su musiche celtiche, accompagnate dal suono della cetra, tipico strumento musicale celtico. L’ufficio notturno era il più prolungato. Colombano nella Regola prevede sino a tre alzate notturne per la preghiera comunitaria. Da notare anche che numerosi elementi rituali e liturgici furono ripresi direttamente dalla liturgia orientale.
Una caratteristica devozione monastica irlandese era la recita delle cosiddette “loricae” ovvero lunghe preghiere composte da numerose invocazioni ripetute. Questi testi costituiscono uno dei contributi più originali del cristianesimo celtico (la più famosa rimane quella di san Patrizio) e che si riaggancia per alcuni aspetti alla cultura druidica precristiana.
Lo stile monastico era di stampo essenzialmente cenobitico ma dalle fonti sappiamo che molti cenobiti fin dal VI secolo lasciavano, con il permesso dell’abate, il cenobio per scegliere la vita eremitica (il loro deséart) per sempre o per tempi limitati. Questo avveniva generalmente in prossimità del monastero stesso o su piccole isole dei dintorni. Non di rado poi in questi eremi sorgevano nuovi monastero come accade ad esempio sulle isole Aran o a Clonfert.
Lo stile di vita era contrassegnato da un forte rigore ascetico, forse con influssi semipelagiani (non dimentichiamo che Pelagio era di origine bretone). Questo aspetto è nell’immaginario collettivo forse l’elemento peculiare dell’antico monachesimo irlandese. Troviamo negli usi monastici una serie impressionante di pratiche ascetiche e penitenziali: ad esempio la recitazione di tutto il salterio con le braccia in croce (cross fighell), le restrizioni del sonno, l’immersione nell’acqua gelida. Il digiuno era previsto due giorni alla settimana (al mercoledì e al venerdì). In quaresima se ne aggiungevano altri due e uno durante l’avvento e dopo pentecoste. Di Finiann di Clonenagh, maestro di san Comgall fondatore di Bangor il monastero di Colombano, è scritto: “Il generoso Fintan non consumò nulla nella sua vita se non pane di orzo ammuffito e l’acqua torbida dell’argilla”. Altra usanza ascetica di origine orientale era la ripetizione di numerose genuflessioni o prostrazioni: di un anacoreta si narra ne compisse settecento ogni giorno! Evidentemente l’antropologia che soggiace a tutto questo vede la carne come un nemico da combattere, cosicché la vita del monaco assume inevitabilmente i connotati di uno strenuo combattimento contro le passioni. Si tratta di un accento antropologico diverso da quella che appare nella regola di Benedetto in cui non compaiono e non vengono richieste al monaco imprese ascetiche eroiche ma sarà privilegiata la virtù dell’obbedienza e dell’umiltà. Se da un lato effettivamente vi furono eccessi in merito, non mancò anche un ridimensionamento, talvolta anche critica, delle eccessive penitenze corporali: san Colombano nella sua Regola insiste molto sulla virtù della discrezione: “Coloro che vivono senza discrezione inevitabilmente cadono nell’eccesso, il quale è sempre contrario alle virtù, che stanno in mezzo, tra due eccessi opposti” (Regola, VIII). Ma nello stesso tempo non esita a presentare al monaco un cammino quanto mai esigente, il cui obiettivo fondamentale rimane l’annientamento dell’amore al proprio io che si oppone al comandamento dell’amore di Dio e del prossimo: Il monaco in monastero viva sotto l’autorità di un solo Padre e insieme con molti fratelli, affinché impari da uno l’umiltà, da un altro la pazienza; uno gli insegni il silenzio, l’altro la mansuetudine; non faccia ciò che vuole, mangi ciò che gli è prescritto; non possieda se non ciò che ha ricevuto, compia il lavoro che gli è assegnato; sia sottomesso a chi non vorrebbe; si corichi stanco, sonnecchi camminando e sia costretto ad alzarsi quando non ha ancora finito di dormire; offeso taccia; tema chi gli è preposto al monastero come un padrone, ma insieme lo ami come un padre; creda che qualunque cosa gli comandi, è per lui vantaggiosa; non osi giudicare una decisione dei superiori, lui il cui dovere è obbedire e di compiere ciò che è giusto, secondo le parole di Mosè: Ascolta Israele! (Dt 6,4), con quel che segue” (Regola, X).
Certamente ci si presenta una vita contrassegnata da un grande rigore ascetico, ma non privo di aspetti di grande tenerezza. San Columba chiamava i suoi monaci “i miei bambini”. Leggendo la regola di san Colombano e le istruzioni è possibile intravvedere il suo desiderio che nella comunità si viva nell’armonia, nel perdono vicendevole e nell’attenzione premurosa a non ferire l’altro con parole o gesti. Nell’XI “Istruzione” Colombano scrive: “L’amore non è una fatica; l’amore è quanto vi è di più dolce, di più salutare, di più sano per il cuore. Se infatti il cuore non è ormai esanime per i vizi, la guarigione per esso sta nell’amare e in ciò che piace a Dio; tuttavia niente è più gradito a Dio che l’amore”.
Interessante poi vedere come questa stessa tenerezza si allarghi fino a comprendere anche la natura, in particolar modo gli animali. A questo proposito l’aneddotica agiografica presenta tratti che la avvicinano moltissimo al francescanesimo, notevole ad esempio la scena in cui il monaco Giona descrive san Colombano nella “Vita” in cui il santo monaco è presentato quasi un nuovo Adamo nel giardino terrestre prima del peccato: “Un discepolo attestava di aver sovente visto che, quando si ritirava in solitudine per digiunare e pregare, nelle sue passeggiate era solito chiamare a sé gli animali selvatici e gli uccelli; accorrevano essi al suo cenno, e lui li toccava accarezzandoli con la mano. Da parte loro, le fiere e gli uccelli gli saltellavano attorno, al colmo della gioia… Il medesimo testimone assicurava di aver visto spesso quella bestiola che si chiama comunemente scoiattolo, lanciarsi giù, al suo richiamo, dalle cime più alte degli alberi, accovacciarglisi nella mano, saltargli al collo, entrargli in seno e sgusciarne fuori” (cap. XV).
Altro aspetto peculiare del monachesimo irlandese fu l’usanza della manifestazione-confessione spesso quotidiana dei pensieri e azioni del singolo monaco, fatta al proprio padre spirituale (anmachah). Per facilitare il compito del padre spirituale furono redatti i minuziosi Penitenziali dove ad ogni colpa, ma tenendo conto con sano realismo di tutte le attenuanti e condizionamenti, veniva corrisposta la pena conseguente. A questa prassi si sottomisero non solo i monaci ma poco a poco anche i laici. Dobbiamo riconoscere che i “Penitenziali”, nonostante i loro limiti oggettivi, furono ottimi strumenti di direzione spirituale che permisero di affinare la coscienza morale e religiosa dell’occidente cristiano Ricordiamo che proprio a partire da quest’usanza monastica irlandese andò configurandosi la prassi del sacramento della confessione individuale come è da noi ancora oggi conosciuta e praticata.
La “Peregrinatio pro Christo” e i suoi risvolti missionari
Vogliamo accennare ad un aspetto importante relativo all’ascetismo monastico irlandese: la “peregrinatio pro Christo” o “peregrinatio pro amore Dei”. Alcuni cronisti narrano che nell’anno 891 alcuni monaci irlandesi approdarono sulle coste della Cornovaglia dentro un “curragh” senza remi: “essi desideravano – precisa il cronista – esiliarsi per amore di Dio”. Molti monaci irlandesi dal VI al XI secolo abbracciarono la peregrinatio come particolare forma ascetica. Essa era di origine orientale, era denominata xenetèia ovvero vivere da stranieri. Questi monaci decidendo di abbandonare definitivamente la propria patria sceglievano come loro “diseart” la navigazione lasciandosi trasportare dalle correnti di fiumi o mari; poco importava loro dove sarebbero approdati: l’importante era abbandonarsi alla volontà di Dio.
Tra i primi monaci pellegrini ricordiamo il monaco San Cataldo, discepolo di san Patrizio, che dopo un pellegrinaggio in Terra Santa divenne vescovo a Taranto, e poi San Columba che accettò sotto obbedienza questa forma ascetico-penitenziale recandosi in Scozia fondandovi il monastero di Jona. Il monaco Giona scrive del suo maestro san Colombano, il più celebre pellegrino per le vie dell’Europa: “Egli fu preso dal desiderio di divenire pellegrino ricordando che il Signore diede questo comando ad Abramo:” Lascia il tuo paese, la tua famiglia e la casa di tuo padre e va verso il paese che io ti indicherò” (Vita I,4). Sempre nella Vita è scritto: “Avendo riconosciuto che la volontà del giudice clemente è con loro, salirono su una nave e si avventurarono sui flutti lungo rotte sconosciute” (1,4).
Ma il racconto più famoso e fantastico (ma nulla toglie ad un suo fondamento storico), un vero e proprio bestseller medioevale del IX sec, rimane certamente la “Navigatio Sancti Brandani”. Si tratta di un racconto leggendario che tuttavia reca traccia di un effettivo pellegrinaggio compiuto dall’abate Brandano. Il genere letterario celtico precristiano dell’ “Immram”, ovvero del viaggio fantastico e avventuroso dell’eroe, viene qui utilizzato per descrivere le grandi gesta di un nuovo eroe: il santo, il nuovo eroe della fede. La Navigatio sancti Brandani narra la vicenda del monaco Brandano che con un gruppo di altri dodici monaci (il numero non è casuale e ricorre in altri testi agiografici) lascia il suo monastero imbarcandosi per raggiungere l’Isola dei Beati, una sorta di anticamera del paradiso, che un eremita gli aveva narrato essere al di là del mare. Essi viaggiano per sette anni di isola in isola incontrando meraviglie, pericoli e mostri. Dopo essere sfuggiti alle bocche dell’inferno, un’isola di fuoco attorniata da un mare in ebollizione (probabilmente un vulcano islandese), essi giungono finalmente alla Terra dei Beati. Dopo averne gustato le delizie finalmente tornano, con un viaggio di altri sette anni, portando con sé frutti e pietre preziose.
L’idea di fondo che sottostà alla scelta del farsi pellegrini verso il regno di Dio vuole essere un rivivere nella propria carne e nella propria storia l’esperienza di fede del grande patriarca Abramo in cammino verso la terra della promessa.
Una fede dunque che non rimane un assunto di verità astratte a cui aderire solo mentalmente ma che si trasforma in un invito a farne concretamente esperienza. Illuminante un passo delle Istruzioni di san Colombano: “Occupiamoci dunque delle cose divine per non rimanere legati alle cose umane; e così come veri pellegrini sia sempre presente in noi l’anelito alla patria e la sua nostalgia sempre ci sospinga. I viandanti desiderano ardentemente la fine della via, per cui anche noi, che siamo viandanti e pellegrini, riflettiamo incessantemente sulla meta del cammino, cioè della nostra vita: la meta della nostra via, infatti, è la nostra patria… Non amiamo dunque la via più della patria per non perdere la patria eterna; la nostra patria è tale che è nostro dovere amarla. Conserviamo perciò salda in noi questa convinzione così da vivere nella via come viandanti, come pellegrini, come ospiti del mondo” (cap. VIII).
Monaci evangelizzatori
Una conseguenza importante e provvidenziale di queste “peregrinazioni monastiche” verso terre ignote fu che questi monaci pellegrini si trasformarono, si direbbe loro malgrado, in evangelizzatori o rievangelizzatori delle terre sulle quali approdavano divenendo nello stesso tempo propagatori del loro ideale monastico.
Saranno frutto di queste “peregrinatio” i numerosi monasteri fondati da san Colombano e dai suoi discepoli che di fatto, non scordiamolo, rappresentano la prima diffusione monastica sul continente europeo: possiamo trovare infatti la loro presenza non solo in Gallia, Germania, Svizzera, Belgio, Italia ma anche in Ungheria, Groenlandia e fino in Russia nei pressi di Kiev.
Questa evangelizzazione dei monaci irlandesi andò incrociandosi con la simmetrica diffusione monastica benedettina che invece risaliva il continente mentre quella irlandese lo discendeva, dando così vita simultaneamente alla cristianitas medievale europea (la stessa denominazione di Europa data al nostro continente è testimoniata per la prima volta proprio da san Colombano in una sua lettera indirizzata al papa Gregorio Magno).
È possibile affermare che l’opera dei monaci irlandesi di fatto precedette e preparò il lavoro che fu successivamente dei monaci benedettini. Lo spirito di ordine e di organizzazione del filone monastico benedettino non avrebbe potuto probabilmente portare tutti i suoi frutti se non fosse stato preceduto dall’azione ardente, e se vogliamo avventurosa e focosa, dei monaci irlandesi.
A questa loro missionarietà, essendo non voluta come obiettivo primario, mancò l’aspetto organizzativo e il loro metodo missionario rimase troppo individualistico. Questi furono i suoi punti deboli che ne determinarono il veloce tramonto: l’attività missionaria irlandese iniziò a declinare già poco dopo la morte di san Colombano.
Ma ciò nulla toglie al ruolo fondamentale che di fatto essa ebbe nell’evangelizzazione dell’Europa favorendo così la formazione delle sue comuni radici.
Centri di cultura
Non possiamo non accennare infine al ruolo altrettanto fondamentale che il monachesimo irlandese svolse in ordine alla produzione e conservazione del patrimonio culturale della latinità e cristianità. Mentre il resto dell’Europa conosceva il declino della civiltà romana e il buio culturale dei secoli V e VI, l’Irlanda divenne, proprio grazie ai suoi centri monastici, pressoché l’unico luogo in cui la cultura veniva preservata e promossa. Questo fu reso possibile dal fatto che sin dall’inizio i monasteri assunsero la fisionomia non solo di importanti luoghi spirituali ma anche di formidabili centri culturali capaci di irradiare la loro azione non solo in Irlanda, bensì in tutto il continente europeo.
Di fatto i monasteri divennero proprio in quei secoli i primi grandi centri abitati d’Irlanda, trasformandosi non rare volte in vere e proprie cittadelle universitarie a cui approdavano non solo monaci ma bensì anche laici desiderosi di una solida formazione provenienti non solo dall’isola ma anche da tutta Europa. Ciò era molto ben visto se un monaco scrive che i monasteri accoglievano tutti “molto benignamente e davano loro gratuitamente il cibo per il giorno e i libri per studiare, e inoltre li istruivano senza compenso”. Come non ricordare che John Scoto Eriugena insegnante di filosofia a Parigi, e Dagoberto II e Alfredo re di Francia furono tra gli alunni di monasteri irlandesi. E così anche Dungalo monaco a Bangor, che nel 782 divenne preside della scuola palatina la futura università di Parigi, e che fu poi inviato da Carlo Magno a Pavia per dirigervi anche là la scuola palatina che divenne successivamente l’università? Anche lo stesso Alcuino consigliere di Carlo Magno fu educato nell’ambito del monachesimo irlandese.
Uno strumento essenziale che rese possibile tutto questa fecondità culturale fu l’introduzione in Irlanda dell’alfabeto latino e della sua scrittura: anche l’antica cultura celtica quasi completamente affidata alla sola memoria dei bardi veniva così salvaguardata: non possederemmo infatti il vasto patrimonio culturale celtico precristiano se non vi fosse stato l’intervento della cultura monastica. La cultura monastica celtica non distrusse la cultura precedente ma seppe conservarla, purificarla e trasmetterla. Ma non solo: anche la maggior parte dei testi classici storici, poetici e filosofici della latinità sono giunti a noi solo grazie alle trascrizioni avvenute nell’ambito dei monasteri irlandesi a scopo formativo.
Ovviamente lo studio della Sacra Scrittura formava la base di ogni studio e insegnamento. Lo studio dei classici, della grammatica, filosofia, astronomia, aritmetica era in vista dell’approfondimento scritturistico perché, non dimentichiamolo, la scuola monastica era ed è in primo luogo una “scuola” di ascesi e di vita cristiana. Infatti la maggior parte dei primi commentari biblici altomedievali tra il 650 e l’850 furono scritti da monaci irlandesi.
Ma attenzione: la cultura monastica irlandese non fu solo ripetitiva: l’incontro tra la cultura celtica con la cultura latina e la tradizione orientale fece sì che, nei secoli d’oro del monachesimo, in Irlanda nascesse una cultura originale capace di esprimere in modo creativo l’incontro di queste altre culture. Sicuramente l’arte della miniatura esprime emblematicamente la capacità di assumere e rileggere dati culturali celtico-precristiani, latini e orientali in una sintesi di straordinaria bellezza e creatività: basti osservare quei capolavori che sono i manoscritti di Durrow (a. 680) o di Kells (VIII sec.) .
Questa felice simbiosi si riscontra anche nella “Celtic Cross”. È una croce scolpita su pietra composta dall’intersezione di una croce cristiana con un cerchio quest’ultimo simbolo celtico della terra e del sole e dunque del ciclo continuo della vita e della morte. Questo ciclo infinito pregno di angoscia rappresentato dal cerchio trova nel cristianesimo il proprio centro e la soluzione: il Cristo ci appare vincitore e giudice. Sui lati vengono scolpiti generalmente altri elementi: apostoli, santi, scene della vita della Bibbia. Ma non mancano straordinarie riprese di motivi geometrici celtici. Ormai l’accesso alla conoscenza è aperta a tutti, senza quella segretezza iniziatica caratteristica del druidismo..
Conclusione
L’evoluzione del monachesimo celtico fu molto veloce, ma altrettanto veloce fu il suo declino. Già nel 664 l’importante sinodo di Whitby aveva iniziato l’operazione di assimililazione del cristianesimo celtico con la Chiesa cattolica romana: risolvendo a favore di quest’ultima i problemi man mano sorti che rappresentavano motivi di tensione (il ruolo del vescovo, la data della pasqua, la tonsura, il rito del battesimo e dell’ordinazione episcopale, ecc…).
Anche la regola monastica colombaniana ben presto venne di fatto a trovarsi accompagnata e poi sostituita da quella benedettina. Nel XIV e XV secolo molti antichi monasteri irlandesi erano in declino, sia per carenza di disciplina religiosa o per difficoltà economiche, sia per mancanza di monaci: per questo motivo i monasteri vennero per lo più ripopolati con monaci di altra origine, mentre altri furono soppressi. Nel 1862 papa Pio IX soppresse l’ultimo monastero irlandese in Germania.
Ciò tuttavia nulla toglie al ruolo decisivo che, anche se durato pochi secoli, seppe avere anche la cultura monastica celtica in ordine alla costruzione di quella christianitas radice dimenticata della cultura e dell’identità europea. Scrissero nel ‘73 i vescovi irlandesi in occasione dell’entrata dell’Irlanda nell’’Unione Europea: “Anche se la nostra è una piccola nazione, noi non siamo mai andati in Europa mendicando col berretto in mano, ma vi siamo andati ai tempi di san Colombano e San Cataldo con la testa alta, perché avevamo molto da dare e da portare. …La nostra parte in Europa è stata sempre da un punto di vista spirituale e culturale più che politico ed economico, una voce che si leva a favore dei valori perenni e della speranza cristiana”.
Un ruolo decisivo dunque quello del monachesimo irlandese, unitamente a quello di Benedetto, Cirillo e Metodio; un ruolo che speriamo sia riconosciuto anche ufficialmente dalla Chiesa Cattolica con la proclamazione di san Colombano compatrono d’Europa, e un ruolo che venga riconosciuto speriamo anche dalla cultura “laica” che con verità sappia vedere nell’opera di tutte queste grandi figure quella base di valori e ideali forti che hanno permesso alla nostra Europa di crescere nella consapevolezza della sua identità che speriamo non venga relegata ai soli aspetti economici, pena il suo declino.
Appendice: l’abbazia di Borzone fondazione colombaniana?
Vorrei fare un accenno a quello che potremmo definire un contenzioso storico tuttora irrisolto: mi riferisco alla fase di fondazione del monastero di Borzone situato sull’Appennino Ligure, nella Val Sturla, nell’entroterra di Chiavari. La presenza monastica benedettina è certa a partire dal 1184, data in cui i monaci provenienti dall’abbazia francese della Chaise Dieu (dal nome dell’Abbazia madre situata nell’Alvernia e allora già largamente rappresentata in Italia con diverse fondazioni) prendono possesso del monastero e dei suoi territori.
Il periodo antecedente a questa data è invece oscuro mancando una documentazione certa. Ma nello stesso tempo diversi elementi fanno supporre una precedente presenza monastica. Ma di che tipo?
Varie ipotesi sono stante tentate: si trattava di una dipendenza colombaniana di Bobbio o di s. Pietro in Ciel d’Oro a Pavia? Non mancano alcuni che affermano una presenza monastica bizantina o di un insediamento ariano. La stessa datazione dell’edificio della chiesa è tuttora motivo di discussione: si va dal V al XIII secolo! La maggior parte degli studiosi tuttavia data l’edificio intorno all’VIII-IX sec.
Sembra che nel luogo in cui sorge l’abbazia di Borzone i Bizantini avessero eretto al tempo della “guerra gotica”, nella prima metà del VI sec., un baluardo difensivo e doganale sede di un distaccamento militare, a presidio di un itinerario transappenninico (le famose “vie del sale”) che dalla regione rivierasca conduceva in Val Padana. Di questo insediamento militare sembrerebbe rendere testimonianza parte della struttura dell’antica torre campanaria.
Quando e da chi sulle rovine della fortezza bizantina fu edificata la chiesa con annesso monastero col titolo originario di s. Giorgio e successivamente di Sant’Andrea continua, come detto, ad essere motivo di incertezza e discussione storica.
Due documenti, anche se controversi storicamente, attesterebbero la presenza di un nucleo monastico a Borzone di antica data: il primo è del 774 in cui Carlo Magno delimitando la giurisdizione del monastero di Bobbio, il quale nel VIII-IX secolo aveva esteso la sua influenza in tutta la Val Sturla sino al mare, cita Borzone, e il secondo è del 972 in cui Ottone I riconferma la giurisdizione di Bobbio citando espressamente “il monastero e la villa di Borzono“. Ma il primo documento certo che menziona chiaramente il monastero di Borzone è una bolla di papa Callisto II (1119-1124) dell’11 aprile 1120 che ne conferma il possesso all’Abbazia di San Pietro in Ciel d’Oro di Pavia essa pure colombiniana per dotazione del re longobardo Liutprando (712-744). Sembra dunque più che plausibile indicare, come d’altronde un’ininterrotta tradizione locale conferma, che Borzone sia stata all’origine una fondazione colombaniana probabilmente (e stranamente!) dipendente direttamente dall’abbazia di San Pietro in Ciel d’Oro a Pavia.
Le circostanze per cui il nome del monastero di Borzone non compaia negli antichi documenti bobbiesi insieme con l’altra che la bolla papale citi invece Borzone assieme ad altre dipendenze pervenute all’abbazia pavese proporrebbero una datazione dell’origine di Borzone intorno alla prima metà dell’VIII secolo. Se tali ipotesi corrispondono a verità, anche il suo assoggettamento alla ricca e potente abbazia di Pavia potrebbe risalire alle origini, ovvero come detto alla prima metà dell’VIII sec., ad opera dello stesso re Liutprando.
Venendo poi meno a Borzone l’originaria presenza monastica colombaniana l’arcivescovo di Genova Ugo della Volta (1163-1188) accolse, nel 1184, la richiesta di Lantelmo undicesimo abate de “La Chaise Dieu” di poter attuare una fondazione anche in Liguria. Da questa data la storia dell’Abbazia di Borzone si fa finalmente esplicita.
Ma per ora l’“enigma Borzone” permane. Agli storici… l’ardua sentenza.
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