• 22 Feb

    EUCARISTIA

    SPIRITUALITA’ DI UN MISTERO

    padre Attilio Franco Fabris

    1. Eucaristia e memoriale

    Il linguaggio liturgico parla dell’Eucaristia come di Mysterium fidei.

    La ragione apparentemente più logica ed istintiva dice che questa definizione è data dal fatto che l’eucaristia trascende le nostre capacità di comprensione e intendimento umane, e di qualsiasi spiegazione di tipo razionale.

    La ragione vera è un’altra:

    l’eucaristia è Mysterium fidei perché esprime e realizza in misura massima tutta l’opera salvifica che Dio ha messo in atto per l’uomo lungo la storia.

    E’, se possiamo usare questo termine, il compendio, il riassunto di tutta la storia di salvezza: dalla creazione, alla  redenzione, alla parusia.

    Infatti, se la catechesi insegna che i principali misteri della  fede sono l’unità e la Trinità di Dio e l’incarnazione del verbo, nell’eucaristia ritroviamo l’accesso più sicuro, la chiave di volta, al mistero dell’incarnazione e di conseguenza allo stesso mistero trinitario.

    Appare evidente che tutti i racconti dell’istituzione eucaristica hanno a cuore di annunciare in ciò che accadde in quella notte del giovedì santo l’esplicitazione del significato del mistero pasquale (passione, morte, risurrezione). In modo particolare questo lo troviamo nel racconto di Luca (cc. 22).

    Gli apostoli stanno discutendo su chi è il più grande tra loro, e questo proprio dopo che Gesù ha spezzato il pane per loro e ha consegnato il calice. Gesù qui imparte una lezione fondamentale di interpretazione dell’eucaristia:

    “Gesù disse loro: i re delle nazioni le dominano e quelli che hanno autorità u di esse sono chiamati benefattori. Per voi però non deve essere così, ma il maggiore di voi sia come il giovane e chi comanda come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi siede a tavola o colui che serve? Non è forse colui che siede a mensa? Eppure io sono in mezzo a voi come uno che serve” (22, 25-27).

    Non c’è qui solo un invito all’umiltà, vi è invece rivelata l’indicazione del motivo che ha portato Gesù ad istituire l’eucaristia, a darci il punto di vista dal quale deve essere letto il mistero dell’Incarnazione e quindi il Mistero della stessa Trinità.

    Le antiche eresie (es. il docetismo e l’arianesimo) trovavano incompatibile il mistero di Dio con l’incarnazione. Dio non può entrare nel mondo e nella storia, sporcarsi in esso le mani, accettare un’autentica dimensione umana, se lo facesse cesserebbe di essere se stesso.

    Quindi si riteneva che l’incarnazione o fosse una specie di “finta” da parte di Dio di essere uomo (docetismo) , oppure che si trattasse solo di una creatura che esercitasse funzioni divine (arianesimo).

    La semplice ragione umana non riusciva e non riesce ad andare più lontano di queste interpretazioni dei misteri della salvezza. La fede qui non è più accoglienza di una rivelazione che mi supera, ma un tentativo di interpretazione del dato di fatto della fede a partire dai miei piccoli schemi mentali e razionali.

    Ora l’eucaristia sovverte questa distorsione di prospettiva offerta dalla sola ragione umana: il Dio di Gesù Cristo afferma la sua trascendenza, non prendendo le distanze le distanze dagli uomini, ma offrendo la sua Alleanza ad un mondo che l’ha rifiutato. Mi rivela un Dio che manda il proprio Figlio nel mondo non per dominarlo ma per servirlo, consumandola sua vita per esso: Dio infatti ha tanto amato il mondo, che ha dato il Figlio suo Unigenito affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna. Dio infatti non mandò il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. (Gv 3,16-17).

    L’eucaristia è gesto di fedeltà di un Dio che si rivela “servo” nei confronti dell’uomo pur di salvarlo

    Ne ricaviamo tre indicazioni:

    a. La fede accettazione di una logica nuova nella mia vita

    La fede cristiana non consiste solo nell’accettazione di verità che ci trascendono provenienti da una rivelazione divina: essa è anzitutto accettazione di una logica nuova.

    Le “informazioni” ricavate dalla rivelazione, se pur necessarie non sono sufficienti: esse rischiano sempre di essere lette secondo una logica umana che non intacca la vita.

    Non sempre si riflette sul fatto che la prima e radicale conversione del cristiano è quella della fede e che la “metanoia” che essa comporta non è riducibile al rinnovamento del giudizio o al massimo di un comportamento di tipo etico etico, ma è prima di tutto un ribaltamento di prospettiva nella lettura e nell’interpretazione del reale.

    b. Il mistero come evento di salvezza che mi coinvolge

    La nozione di “mistero” inteso come “verità superiore ma non contraria alla nostra ragione, che noi crediamo perché Dio l’ha rivelata” è una nozione riduttiva più vicina alla cultura ellenica che a quella biblica.

    Secondo questa accezione da un lato vi è un Dio che non si lascia scoprire, dall’altro un uomo che vorrebbe saperne di più ma non riesce.

    E’ proprio l’eucaristia ad informarci che il mistero prima di essere una verità da indagare è un veneto di salvezza da cui lasciarsi coinvolgere: è rivelazione di un Dio che vuole attrarci a sé per farci entrare in una logica che supera i nostri piccoli schemi razionali, non è un rebus davanti al quale arrendersi, ma la proposta di entrare in un cammino che umanamente apparirebbe impensabile (del tipo “perdere la vita per salvarla”).

    L’eucaristia ci dice che per arrivare alla conoscenza di Dio bisogna partire dalla storia di ciò che egli ha compiuto per la nostra salvezza, e non dal tentativo di far entrare questa storia negli schemi da noi prefabbricati.

    Se si aggancia il mistero alla storia prima che alla dottrina, l’eucaristia si lascia scoprire anche nel suo aspetto più importante, ovvero nel suo essere “memoriale”.

    c. Eucaristia come memoriale che mi avvolge

    Il ricorrere al termine “memoriale” fa risaltare il fatto che la nostra fede si rifà ad una storia prima che ad una dottrina.

    Ma che cosa è “memoria cristiana”?

    Tutte le religioni positive e primitive danno  un notevole peso alla memoria (profeti, insegnamenti, fondatori, gesta, antenati, riti,…). Ma il ruolo da loro attribuito alla memoria non è mai un gesto di vera fedeltà alla storia.

    Si tratta il più delle volte di una memoria di pura conservazione di alcuni valori irrinunciabili.

    In altre parole: o si tratta di una memoria con una funzione alienante come può essere il tentativo di rendere accettabile il presente con il ricordo del passato (l’”età dell’oro”), o ha la funzione di precludere alla storia qualsiasi apertura al futuro perché si ritiene che l’unica via per godere di un oggi e di un domani soddisfacente è quello di regolare l’oggi e il domani sulla base dell’esperienza di ieri.

    Il memoriale cristiano si colloca al di fuori di queste interpretazioni.

    – Non si tratta di un ricordo nostalgico, ma di un’effettiva ripresentazione dell’evento stesso così da coinvolgere nell’evento stesso coloro che ne fanno memoria.

    – Non si tratta di una memoria di un’esperienza umana meritevole di essere ricordata, ma di un incontro tra Dio e l’uomo la cui validità non può essere giudicata puramente a livello esterno.

    – Non è un ritorno al passato per essere imitato, ma per farne un giudizio salvifico del presente al fine di guardare al futuro.

    Tutti i sacramenti cristiani sono un memoriale, ma in modo particolare questo termine si applica all’eucaristia, in quanto essa esplicita l’economia dell’incarnazione e della salvezza più di ogni altro mistero, e pertanto diventa norma a cui il discepolo deve configurarsi per inserirsi nell’ambito della salvezza tracciato da Cristo.

    San Tommaso ricordava questo in modo esemplare.

    Nell’eucaristia facciamo memoria della passione di Cristo: recolitur memoria passionis eius.

    Da essa attingiamo quella grazia che ci giustifica e salva:  mens impletur gratia.

    Ci è dato un sicuro pegno della gloria futura della risurrezione: et futurae gloriae nobis pignus datur.

    Il memoriale non è dato solo al singolo per permettergli di verificare il suo inserimento nella salvezza, ma è prima di tutto un momento costitutivo della stessa comunità di salvezza.

    Comandando di celebrare l’eucaristia in sua memoria, Cristo ha inteso offrire alla sua comunità la migliore occasione per sottoporsi al giudizio salvifico di Dio, ha voluto dotarla del criterio più valido per verificare fino a che punto essa si edifica ed agisce secondo la logica salvifica che Dio ha introdotto nella storia.


    Eucaristia e memoriale


    * L’eucaristia è Mysterium fidei perché esprime e realizza in misura massima tutta l’opera salvifica che Dio ha messo in atto per l’uomo lungo la storia. E’ la chiave più sicura di interpretazione di tutto il mistero Trinitario e dell’Incarnazione.

    Nella meditazione cerco tali riferimenti.

    * In Lc 22, 14-30 Gesù dona una chiave di interpretazione del mistero eucaristico, il quale a sua volta mi pone dal punto di vista divino nella lettura dell’opera della salvezza. Provo a ripercorrere nella meditazione questo testo.

    * L’eucaristia mi immette nella scelta di accogliere una logica nuova nella mia vita. Non mi offre solo “nozioni” nuove su Dio, ma mi domanda di assumerne il cuore. Essa esige pertanto una metanoia della mia vita che non può risolversi in qualche concetto in più su Dio, ma in uno stile nuovo di vita. Come questo va realizzandosi nella mia vita?

    * L’eucaristia domanda al discepolo un coivolgimento in una storia, quella stessa di Dio e di Gesù. Una incarnazione in questo mondo. Cosa significa questo, cosa comporta?

    * L’eucaristia è memoriale nel quale mi è dato di rendermi presente al dono di Cristo al Padre ai fratelli, di incontrami con Lui, a far sì che esso divemnga criterio di giudizio salvifico sulla mia vita.

    Nella mia partecipazione come questo è presente e operante?

  • 21 Feb

    Il compimento

    Al centro della comunità ecclesiale


    Letture bibliche

    Deuteronomio 12,2-9: la legge della centralità del culto ha lo scopo di far cercare il Signore dove lui ha stabilito la sua dimora, per evitare che ognuno faccia secondo il suo arbitrio.

    Apocalisse 5,1-10: nella visione celeste l’immagine speculare della assemblea eucaristica terrena è data dalla liturgia intorno al Libro e all’Agnello; essa è centrale nella economia di tutte queste «rivelazioni».

    Salmo 26: il salmista trova salvezza e luce nel Signore; sua aspirazione è abitare nella casa del Signore, suo desiderio è camminare sulla via di Dio.

    Giovanni 14,1-13: Gesù si propone come via perché tutti i credenti giungano alla meta, cioè al Padre da lui e in lui rivelato; a chi crede Gesù promette di compiere le stesse opere da lui compiute.


    Catechesi

    Ricercare il centro della comunità ecclesiale è individuare il nucleo che aggrega i credenti in Cristo e li qualifica in quanto discepoli di Gesù, il crocifisso risorto.

    Questo centro ecclesiale deve essere visibile e constatabile, perché ad esso debbono riferirsi i singoli cristiani, deve essere anche condivisibile e partecipabile, perché da esso deve essere strutturata la comunità.

    Inoltre esso deve manifestare sensibilmente ciò di cui ogni cristiano vive – la sua fede in Gesù e il suo impegno evangelico nel mondo -, poiché deve potersi fare unità spirituale fra la vita dei singolo e quella della comunità.

    Se è centro, esso deve essere punto di concentrazione di ciò che la comunità è nella sua più profonda originalità, per preservarla dalla dispersione, e nel medesimo tempo deve essere punto di irradiazione verso l’esterno, per evitare che la comunità si chiuda sterilmente in se stessa.

    In questo contro si deve quindi parlare il linguaggio della intimità, affinché la comunità sia casa ospitale, e contemporaneamente il linguaggio della missione, affinché la comunità sia segno per il mondo.

    Bisogna che in questo centro la vita cristiana dei singoli e quella ecclesiale della comunità trovino modelli, stimoli, aiuti per la realizzazione di sé.  Inoltre il linguaggio che vi si parla – sia verbale che gestuale – deve risultare comprensibile a ogni cristiano appena iniziato alla fede, e quindi introdotto nella conoscenza elementare della storia della salvezza e specialmente della vita di Gesù.

    Se l’attività che può costituire il centro della vita di una comunità ecclesiale deve corrispondere alle caratteristiche sopra enumerate esso non può essere che l’eucaristia.

    Non soddisfano le esigenze descritte, né un programma di spiritualità né un forte impegno sociale né un progetto missionario… tutte attività buone e necessarie ma settoriali e spesso possibili solo a cristiani già maturi (e comunque anche tali attività si possono ricondurre, per quanto concerne la loro animazione interiore, all’Eucaristia).

    L’eucaristia è azione collettiva – implicante però responsabilmente ogni individuo – che si propone con modalità visibili, regolarmente reiterabili e largamente partecipabili.  Non è difficile per un cristiano unirsi a un’assemblea, trovare in essa qualcosa di cui fruire personalmente e da condividere con gli altri.

    Più difficile sarà tessere relazioni comunitarie prima e dopo la celebrazione, in modo che anche nella stessa celebrazione – le azioni rituali risultino significative di una comunità vera e non solo esigitive di questa.

    L’eucaristia è azione che esprime la fede cristiana nelle sue formalità più specifiche: ascolto di Dio che parla, adesione a Cristo crocifisso-risorto, disponibilità allo Spirito Santo, riconoscimento del Dio Uno e Trino che opera nella storia per la nostra salvezza, accettazione dell’impegno di essere testimone della salvezza ricevuta.

    L’eucaristia dona a ciascuno di poter esprimere la propria fede, mettendogli a disposizione forme rituali comuni nelle quali si manifesta la fede della Chiesa.

    L’eucaristia è azione riservata ai credenti riuniti per dire parole e compiere gesti che costituiscono la vita più intima dei cristiani: colloquio con Dio che si intrattiene con essi conversando; scambio di doni in Cristo, per il quale ricevono lo Spirito Santo e si offrono a Dio; banchetto durante il quale condividono il pane di vita e il calice di salvezza gustando la pace, dono del Signore… Eppure questa esperienza così interiormente ricca non li ripiega su se stessi ma apre loro gli orizzonti del Regno nel servizio fratello da esercitare quotidianamente e nella missione da svolgere verso gli altri.

    Ripetuta con regolarità, con variazioni di letture bibliche e orazioni, spesso secondo programmi formativi legati a feste o tempi liturgici, la messa offre a tutti e a ciascuno, secondo i livelli di fede e le esigenze personali, molteplici possibilità di crescita spirituale e di edificazione ecclesiale, conducendo a quella realizzazione di sé in Cristo che è compito della Chiesa.

    Alcune conoscenze elementari di fede e opportune esperienze significative sono sufficienti per inserire un fedele in questa azione e renderlo un attivo partecipante, con il desiderio di arricchire la propria vita cristiana. Contro la facile obiezione che la messa riduce la vita cristiana nell’ambito del culto rituale, è necessario ricordare la dottrina del N.T. sul sacerdozio battesimale, comune a tutti i cristiani (richiamata dal Vaticano Il, LG 10): esso qualifica l’esistenza cristiana nel mondo come donazione di sé a Dio, e quindi ai fratelli, per Cristo e nel dono dello Spirito Santo (Rm 12,1-2; 1 Pt 2,5.9-10). Un momento particolarmente intenso dell’esercizio di tale sacerdozio, per prenderne coscienza e per acquistarne capacità, si ha nella celebrazione liturgica.

    Ciò che si fa ritualmente e simbolicamente nell’assemblea abilita a operare con un certo stile nella vita.  Soprattutto educa la comunità a comprendere che essa esiste non per se stessa ma per dono di Dio, non per attuare un programma proprio ma per realizzarsi secondo il progetto di Dio, non per coltivare proprie sicurezze ma per rendersi disponibile a ciò che Dio dice e vuole.

    Si realizza così lo specifico della fede cristiana che è accentramento da sé per incentrare la vita sulla parola di Dio e sulla sua azione santificante, e quindi rendersi disponibile per «le opere buone che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo» (Ef 2,10).

    Una comunità di Chiesa che pone l’eucaristia al centro delle sue attività, comprende e manifesta di essere:

    – popolo di Dio che esiste nella storia per iniziativa divina, in dipendenza del suo Signore, per la forza dello Spirito Santo;

    – gruppo di credenti che trovano la loro identità specifica in riferimento alla parola che Dio dice sempre nell’assemblea liturgica e al dono di salvezza che Dio di nuovo propone in ogni eucaristia;

    – comunità sacerdotale che dà alla sua vita quotidiana il senso di culto gradito a Dio, e comunità profetica che annuncia agli altri l’amore di Dio continuamente sperimentato.


    Preghiera

    Ti nascondi, o Dio, per farti trovare da chi ha occhi puri e cuore generoso: fa’ che la nostra comunità sappia cercarti in quei segni dove ancora il tuo Cristo parla ed agisce distribuendo salvezza e pace. Per Cristo nostro Signore.

  • 20 Feb

    IL COMPIMENTO

    13. La celebrazione dell’eucaristia


    I concelebranti dell’Eucaristia

    La messa è la più alta azione della nostra vita.  La messa è la più alta azione del mondo. E’ sempre un avvenimento insondabile.  E di questo avvenimento noi siamo gli attori. Infatti, l’eucaristia è una “concelebrazione”: un “celebrare insieme”.

    Tutti i cristiani presenti sono dei concelebranti, in virtù del loro battesimo e della loro confermazione.

    Il prete, l’unico “sacerdote”, è Gesù Cristo. Il sacrificio, l’unico Sacrificio, è quello del Calvario.

    La messa ne è il memoriale, ossia il “richiamo”, ma nei due significati del termine.

    Si richiama un avvenimento del passato e, in questo senso, è un ricordo; ma si richiama anche un soldato sotto le armi, un attore in scena, e allora abbiamo una presenza, una nuova presenza.  L’eucaristia è ricordo e presenza del Calvario.

    Il prete ordinato è investito della grazia e della missione di presiedere e di consacrare l’eucaristia, in virtù del sacramento dell’ordine che ha ricevuto; è segno, sacramento del Cristo-capo.

    Cristo, quindi, offre se stesso e noi con lui; il prete offre Cristo e offre se stesso e l’assemblea con Cristo.  Ma anche il fedele, senza consacrare il pane e il vino, offre Cristo e offre se stesso con lui.

    I battezzati non sono separati dal prete; non sono separati da Gesù Cristo.  Concelebrano con Cristo; concelebrano col prete; concelebrano fra di loro.  Per questo il prete parla al plurale: “Preghiamo……… In alto i nostri cuori”, “Rendiamo grazie”, “Anche noi, tuoi servi (ossia i preti), e il tuo popolo santo con noi, ti presentiamo questa offerta…… ecc.

    E’ Cristo che, rappresentato da noi (vescovi e preti) offre in noi, poiché è la sua parola che consacra il sacrificio da noi offerto…

    Quaggiù tu vedi la sua immagine (nel celebrante dell’altare).  In cielo vedrai il sommo sacerdote eterno e perpetuo di cui su questa terra vedevi le immagini in Pietro, Paolo, Giacomo, Giovanni.. (sant’Ambrogio)

    Con Cristo e con il prete, tutto il popolo “sacerdotale” è attore del dramma della messa, celebrante della santa “liturgia”.

    Il termine “liturgia” (dal greco leitos, “pubblico”, “popolare”, ed ergon, “opera”) significa “opera pubblica”, “azione del popolo”.  “Il nuovo testamento l’adopera in significati diversi, ma sempre in rapporto col servizio cultuale compiuto dalla comunità” (Louis Vereecke).

    La liturgia, quindi, non è una faccenda clericale, ma appartiene a tutta la comunità cristiana.  “Colui che presiede non è il proprietario dell’eucaristia ma celebra per un’assemblea, con essa, ed essa con lui, in comunione con la chiesa universale”.

    Dobbiamo ammetterlo: il prete era, necessariamente, “proprietario dell’eucaristia” quando la celebrava voltando le spalle al popolo, in fondo a un coro, in latino, costringendo così la grande maggioranza dell’assemblea a fare qualche altra cosa o ad annoiarsi.

    Certo, un prete si comporta da “proprietario dell’eucaristia” quando impone all’assemblea delle preghiere o dei gesti arbitrari.  Questo si chiama abuso di potere, perché defrauda i battezzati del loro diritto di concelebrare con lui e in unione con tutta la chiesa.

    Ma ugualmente priva l’assemblea del suo diritto a comprendere, a vivere e a partecipare, chi si limita giuridicamente (e pigramente) ai testi del messale con una comunità che non è portata a “entrarvi”.  Il prete si comporta da “proprietario dell’eucaristia” tutte le volte che non la “dà” ai battezzati concreti che ha davanti.

    E’ proprio questo tipo di prete che genera la noia, quella noia che fu stigmatizzata da Claudel, la noia che svuota le chiese perché è antireligiosa. “Nulla di più antitetico alla religione che la noia.  La religione può nutrirsi di sofferenze, di tristezza, mai di noia”.

    Una ragazza diciassettenne esprime il suo disinteresse: “Non mi sento affatto a mio agio, non mi trovo assolutamente coinvolta nella messa … Non sopporto tutte quelle preghiere ripetute senza che nessuno vi presti attenzione: credo, gloria, in alto i nostri cuori, ecc……”

    E’ la grazia del battesimo a gridare la fame di celebrare veramente, di celebrare personalmente l’eucaristia che costituisce la vita stessa di questo popolo sacerdotale.

    C’è una sola eucaristia, e questa è attestata dalla continuità apostolica.  Celebrata nel I secolo, o nel XII o al giorno d’oggi o fra dieci secoli, l’eucaristia è la medesima, quella dei Cristo morto e risorto.  La spiritualità cristiana non ha altro scopo che quello d’aiutarci a diventare uomini eucaristici.  In ogni cosa, ci dice l’apostolo, fate eucaristia.  Condividendo il pane e il vino dell’eucaristia, diventiamo uomini di ringraziamento, di comunione.  L’eucaristia è il sacramento dei fratello.  Quando ti sei appena comunicato e trovi in strada tuo fratello, questo tuo fratello, diceva Giovanni Crisostomo, è il tuo Dio.  Il mondo è il dono di Dio; come potremmo appropriarcelo? (O. Clément)

    Appunto questa volontà dello Spirito santo di rendere alla chiesa ciò che è della chiesa, ha ispirato al concilio la riforma.

    Affermano i padri del Vaticano II: “La chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma, comprendendolo bene per mezzo dei riti e delle preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano istruiti nella parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo l’ostia immacolata, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui imparino a offrire se stessi, e di giorno in giorno, per mezzo di Cristo mediatore siano perfezionati nell’unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti” (SC 48: E VI, 84).

    Operazione riuscita?  Sì e no.


    “La Messa di sempre”

    Nella chiesa delle origini, dunque, l’eucaristia era celebrata durante un autentico pasto, “la Cena del Signore”, coi fedeli che erano fraternamente seduti attorno agli apostoli.  La si chiamava “la frazione del pane”, in memoria del gesto caratteristico di Gesù: sulla montagna della moltiplicazione dei pani, durante la Cena, a Emmaus…

    Il pasto comune forniva loro l’occasione di rinnovare il memoriale del Signore. Si pensi all’insistenza con cui i vangeli si richiamano a un banchetto.  Così gli apostoli si sono sentiti obbligati a conservare nella misura del possibile il contesto d’un pasto, come il Signore aveva fatto istituendo l’Eucaristia.

    Come si svolgeva questa Cena del Signore?  Non ne abbiamo il rituale esatto.  Ma, attraverso i vangeli e gli atti, ne conosciamo gli elementi principali: insegnamento degli apostoli, preghiera eucaristica, frazione del pane, spartizione del pane e del vino consacrati, salmi d’azione di grazie, il tutto durante un pasto fraterno.  Se eccettuiamo il pasto festivo, ognuno può facilmente riconoscervi i tempi forti della messa di domenica scorsa “La messa di sempre” è tutta qui.

    Si seguiva il rito pasquale ebraico, come certamente fece il Signore alla Cena?  No. Era troppo complicato per potere essere ripreso ogni giorno e anche solo ogni settimana.  E poi, esso era riservato strettamente alla festa di pasqua.  Ma presso gli ebrei c’era l’usanza di un altro pasto rituale, “il pasto del sabato”, una semplificazione di quello pasquale, che si prestava alla celebrazione eucaristica. I vangeli sembrano insinuare che nella tradizione primitiva la Cena dei Signore seguisse questo canovaccio.

    Il banchetto cominciava con un antipasto, preso in piccoli gruppi, in piedi, come in un preambolo d’incontro, d’accoglienza e d’attesa dei ritardatari.  Poi ognuno benediva una coppa di vino: “Benedetto sei tu, Signore nostro Dio, re eterno, che hai creato il frutto della vite!”.  E’ la prima coppa di cui parla s. Luca (22,17), che non è ancora la coppa consacrata. Poi si lavavano le mani dicendo una preghiera, e cominciava il pasto propriamente detto: ciascuno prendeva il proprio posto, mentre non erano più ammessi i ritardatari.

    Veniva portato al presidente del pane.  Il presidente lo benediva (“Benedetto sei tu, Signore nostro Dio, re del mondo, che fai uscire il pane dalla terra!”), lo spezzava e lo distribuiva ai commensali, ricordando Cristo che aveva aggiunto “Questo è il mio corpo”.

    Alla fine del pasto, come ricordano le nostre preghiere eucaristiche, si riempiva la coppa per la terza volta.  Era la “coppa di benedizione”.  Al vino si mescolava una buona metà d’acqua, e il presidente iniziava la grande preghiera:

    – Rendiamo grazie al Signore nostro Dio.

    – Benedetto sia il nome del Signore ora e sempre.

    Dopo un breve dialogo, il presidente continuava da solo la preghiera eucaristica.  A questo punto bisognerebbe porre la coppa consacrata di Luca (22,20).

    “La frazione del pane all’inizio del pasto e la coppa di benedizione alla fine appartengono entrambe al rituale del banchetto sia per la pasqua che per il sabato.  Tuttavia questa forma della celebrazione eucaristica non poté durare molto.  Dobbiamo osservare che né Matteo né Marco insistono sul “dopo il pasto” dei racconti di Luca e di Paolo.  Sembrerebbe che nelle comunità in cui questi due evangelisti lavoravano, le due consacrazioni non fossero più separate da un pasto.  Esse erano accoppiate e poste entrambe o prima o dopo il pasto, secondo le testimonianze che abbiamo, sembra che questi due modi di comportarsi fossero allora in vigore. Le benedizioni sul pane e sul calice furono fuse in una sola preghiera solenne d’azione di grazie, nata dalla formula inizialmente usata sul solo calice.  Così le consacrazioni furono compiute con una sola benedizione” (Jungmann).Evidentemente, nelle comunità palestinesi la lingua usata era l’aramaico; altrove, nelle chiese paoline e a Roma, dove la maggioranza era costituita da immigranti venuti dall’oriente, il greco.  La Cena del Signore, infatti, era celebrata nella lingua di tutti, nella lingua del popolo, in quella dei poveri.  E il popolo cristiano, anche a Roma, parlava greco e non latino.

    Verso l’anno 150 a Roma s. Giustino ci lascia la prima “corrispondenza” della celebrazione eucaristica.  Giustino è un laico, professore di filosofia, un credente che spingerà la sua testimonianza fino al martirio.  In un’opera, che scrive per quelli che non condividono con lui la fede cristiana, soprattutto per gli imperatori, la sua Prima apologia, capitoli 65,66 e 67, ci riporta una duplice descrizione della messa del suo tempo come veniva celebrata a Roma e nei paesi mediterranei orientali e occidentali attraverso i quali questo cristiano d’élite aveva molto viaggiato.  Ecco queste due descrizioni che “sovrapponiamo” in una sola, per amore di semplicità di svolgimento:

    “Nel giorno detto del sole, convengono tutti nello stesso luogo, sia quelli della città sia quelli della campagna.  E, finché il tempo lo permette, si leggono le memorie degli apostoli, oppure le scritture dei profeti, poi quando il lettore ha cessato, chi presiede parla ammonendo ed esortando a imitare sì belli esempi, quindi ci alziamo in piedi e facciamo preghiere ad alta voce, per noi, per i nuovi battezzati e per tutti gli altri cristiani che sono sparsi nel mondo Finite le preghiere ci salutiamo scambievolmente con un bacio. Quindi a colui che presiede ai fratelli si portano del pane e un calice d’acqua e di vino ed egli, dopo averlo preso, innalza lode e gloria al Padre comune, nel nome del Figlio e dello Spirito santo, e lo ringrazia a lungo per averci fatti degni di questi suoi doni.  E quando egli ha terminato le preghiere del ringraziamento, tutto il popolo presente acclama dicendo: ‘Amen’.  Amen in lingua ebraica significa ‘Così sia’.  Poi quando colui che presiede ha fatto il ringraziamento e tutto il popolo ha acclamato, quelli che noi chiamiamo diaconi danno a ciascuno dei presenti una porzione del pane e del vino e dell’acqua, su cui è stato celebrato il ringraziamento, e ne portano agli assenti”.

    E questo cibo si chiama fra noi eucaristia.  Noi infatti non prendiamo questo come un pane e una bevanda comune; noi crediamo che quell’alimento, consacrato per virtù delle parole di preghiera, istituite da lui, è corpo e sangue di quell’incarnato Gesù del quale il sangue e le carni nostre si nutrono per assimilazione. Gli apostoli, nelle memorie da loro stese, che si chiamano evangeli, insegnarono che era stato dato questo comandamento: che cioè Gesù preso del pane e rese grazie disse: “Fate questo in memoria di me: Questo è il mio corpo, e similmente preso il calice e rese grazie disse: Questo è il mio sangue e ne distribuì ad essi soli.. I ricchi, che ne abbiano volontà, danno a proprio piacimento quello che vogliono, e quanto così viene raccolto, si depone davanti a chi presiede. Egli soccorre orfani, vedove, chi per malattia o altra causa è bisognoso, chi è in prigione e gli ospiti che vengono da altri paesi; insomma prendiamo a cuore quanti si trovano in necessità.  Ci raduniamo tutti insieme nel giorno del sole, perché è il primo giorno, nel quale Dio, mutando la tenebra e la materia, creò il mondo, e anche perché Gesù Cristo nostro salvatore, nello stesso giorno, risorse da morte”.

    Attraverso questa testimonianza che è, questa sì!, due volte millenaria, possiamo facilmente cogliere i seguenti punti:

    L’eucaristia è celebrata in greco, lingua nella quale Giustino scrive la sua corrispondenza.  Essa inizia con la liturgia della parola: proclamazione delle scritture, in lettura continuata, tratte dall’antico e dal nuovo testamento; omelia del vescovo; preghiera universale per la chiesa di tutto il mondo; infine g che segna il passaggio dalla parola all’eucaristia propriamente detta.

    Segue la liturgia eucaristica.  Il gruppo è numeroso; non ci si siede più a tavola; in piedi, si sta attorno (circumstantes) a un altare dal quale presiedono il vescovo e il suo presbiterio.  Abbiamo l’offertorio del pane e del vino rosso misto ad acqua, la preghiera eucaristica lungamente improvvisata dal vescovo a partire da qualche linea di forza (lode alla Trinità, racconto dell’istituzione eucaristica, invocazione dello Spirito santo o epiclesi), e il potente ‘Amen’ dell’assemblea; infine la frazione del pane e la comunione di tutti, sotto le due specie (il pane dato nelle mani, il vino bevuto dal calice).  La colletta per i poveri chiude la messa per far calare nella vita quotidiana la “spartizione fraterna”: è questa un’usanza apostolica!

    Il più antico canovaccio di preghiera eucaristica che abbiamo non è quello del “Canone romano” della messa di s. Pio V, ma quello de La tradizione apostolica di sant’Ippolito, del secolo III; che è stata da poco riscoperta e rimessa in uso dal papa Paolo VI (la preghiera II col suo mirabile prefazio).  Prete romano, Ippolito la scrive in greco, perché la chiesa di Roma prega ancora in greco, la lingua del popolo cristiano romano … di ieri.  Ippolito polemizza perfino col papa, perché quest’ultimo fa virare la liturgia verso il latino per seguire il popolo nella evoluzione anche linguistica.  Un “integrista”, questo Ippolito, che dimostrerà il suo vero amore a Cristo col martirio!

    Nella seconda metà del secolo III, dunque, la liturgia romana passa senza troppe scosse dal greco al latino, lingua sempre più universalmente parlata dal popolo.

    Nel IV secolo s’introducono nella messa l’Alleluia dell’evangelo e il Padre nostro.

    Nel V secolo appaiono le tre “orazioni”, o “collette” che ora chiamiamo “orazione d’apertura”, “orazione sulle offerte” e “orazione dopo la comunione”.  Il Kyrie eleison (tratto, per amore dell’unità, dalla liturgia orientale) sottolinea alcune preghiere litaniche all’inizio della celebrazione, e ciò purtroppo a detrimento della preghiera universale che cadrà ben presto nel dimenticatoio.  Il bacio di pace che suggellava questa preghiera universale è portato verso la comunione.  Le messe di piccoli gruppi sono solo un lontano ricordo; siamo passati alle celebrazioni di massa che è necessario animare.  Si organizza così una processione d’offertorio, si solennizzano i movimenti della folla con canti di processione: canto d’entrata, canto d’offertorio, canto di comunione; e nasce il graduale (gradus = gradino).

    Nel VI secolo s. Gregorio Magno arricchisce la celebrazione delle feste con l’introduzione del Gloria in excelsis Deo (“Gloria a Dio nel più alto dei cieli”).  Privilegia e completa una preghiera eucaristica che sostituirà quella de La tradizione apostolicacanone romano”. che l’occidente conoscerà, e solo questo, per quattordici secoli: è la nostra preghiera eucaristica. Da quell’epoca viene solennizzato il prefazio col Sanctus . e altre, molto numerose nella liturgia della Gallia e di Spagna, diventando ben presto “il canone” (canone = regola), “il

    Sfortunatamente, in questo trambusto unificatore, si è perduto di vista lo Spirito santo: il canone romano non contiene nessuna epiclesi (l’invocazione dello Spirito per consacrare il pane e il vino).  Ciò ci verrà rinfacciato, e con ragione, dalla tradizione orientale.

    Nei secoli VII-VIII ecco le luci non più per sola utilità, ma anche come decorazione, e le grandi incensazioni, i paramentilavanda delle mani e l’Agnus Dei; il Credo di Nicea-Costantinopoli sostituisce il simbolo degli apostoli.  In compenso, per dare spazio ai melismi del Sanctus, il “canone “, fino a quel tempo proclamato ad alta voce e anche cantato in gran parte, si attenua nel sottovoce per poi inabissarsi nel silenzio d’un semplice movimento di labbra; e così l’assemblea non saprà nemmeno su che cosa dovrà dire il proprio amen!

    Nel IX secolo la mentalità mistica e simbolistica del medioevo si scatena variando i colori liturgici.

    Nei secoli X-XII la messa è progressivamente appesantita da preghiere che il prete recita a bassa voce: mentre si veste in sacrestia, quindi ai piedi dell’altare, prima del vangelo, durante l’offertorio, prima della comunione, e alle abluzioni e dopo la messa.  Il messale di s. Pio V ne fisserà l’abbondante lista.

    Il XII e il XIII secolo vedono nascere l’Orate fratres, l’elevazione dell’ostia consacrata.  Non ci si comunicava quasi più, ma si voleva vedere l’ostia; una credenza superstiziosa vi legava la certezza di non morire per quel giorno o per quella settimana.

    Nel secolo XIV l’elevazione del calice seguirà quella dell’ostia, e “l’ultimo vangelo”, il prologo di s. Giovanni, fermerà paradossalmente il popolo in chiesa, quando era già stato congedato con l’Ite missa est. Il prete lo recitava, mentre si svestiva, ma siccome gli si attribuiva un potere d’esorcismo, i fedeli ne vollero la recita all’altare.  E s. Pio V lo fece obbligatorio.

    Il domenicano s. Pio V fu papa dal 1566 al 1572.  Sarebbe stato ai nostri giorni un grande realizzatore del Vaticano II, poiché consacrò il suo pontificato a mettere la chiesa al passo col concilio di Trento (15451563).  Di qui fra le altre riforme, quella liturgica promulgata nel 1568 e 1570, imponendo un breviario e un messale uniformi per tutte le chiese occidentali, che non beneficiavano d’una liturgia propria da duecento anni. La sua scelta cadde sul rito romano-franco, perché tale rito era, di fatto, il più diffuso grazie ai francescani.

    Pertanto, i grandi riti orientali (siriaco, caldeo, bizantino, armeno, copto e abissino) erano lasciati alle loro tradizioni.  Questi cristiani, cattolici al pari di noi, continuarono e continuano tuttora a celebrare, in lingue e rituali differenti, “la messa di sempre”.

    In occidente, gli antichi riti (lionese, ambrosiano, mozarabico, carmelitano, domenicano, certosino) conservarono e conservano tuttora il loro volto particolare.  Lo stesso s. Pio V continuò a usare personalmente il rito domenicano e probabilmente non celebrò mai “la messa di s. Pio V”. La riforma di Pio V ebbe un grande risultato: la fine dell’anarchia liturgica.

    Sfortunatamente la partecipazione concreta del popolo al sacrificio diminuì sempre di più, perché si mantenne il latino, la cui comprensione era riservata ai chierici e all’elite.

    Pio XII, nel 1956, ne rimodellò il cuore nella sua liturgia rinnovata del triduo pasquale.

    E poi venne il Vaticano II.


    La riforma conciliare


    Con la costituzione apostolica del 3 aprile 1969, Paolo VI ordinava, per il 30 novembre dello stesso anno, l’entrata in vigore del “messale conciliare” nel testo latino dell’edizione tipica.  Spettava alle conferenze episcopali tradurlo in lingua volgare e determinare la data in cui tale messale tradotto sarebbe entrato in vigore in ogni regione linguistica.  In obbedienza a questa Istruzione e in virtù di questo mandato apostolico, l’episcopato italiano ad esempio, rese obbligatori i testi del nuovo messale a partire dalla Pentecoste del 1973.

    Il concilio aveva precisato due linee di forza della riforma, che dovevano essere perseguite: semplificazione e restaurazione.

    Il movimento spontaneo del fervore e dell’arte (e l’arte è una forma di fervore) porta ad aggiungere, fino all’esagerazione, una cosa bella, ora, un’altra domani, una perla qui, un diamante là, in uno splendore sempre crescente… In questo modo le nostre pure cattedrali romaniche o gotiche del XIII secolo hanno visto le loro consorelle meno antiche sovraccaricarsi col rinascimento fino a esplodere nell’esuberanza del barocco.

    Allo stesso modo si è potuto paragonare la nostra liturgia eucaristica, dalle forme semplici e belle, a una splendida statua che i secoli hanno ornato di vesti preziose, di tuniche multicolori, di veli e di trine, di finissimi ricami, al punto da non sapere più che cosa nascondessero tutte queste aggiunte. La prima preoccupazione, quindi, del concilio fu quella di sfrondare:

    Ma il testo conciliare continua:

    “alcuni elementi, invece, che col tempo andarono ingiustamente perduti, siano riportati alla primitiva tradizione dei padri, nella misura che sembreranno opportuni o necessari”(ivi).

    Così decide che si riprendano la proclamazione continua delle scritture, l’omelia anche nelle messe durante la settimana, la preghiera universale o “preghiera dei fedeli”, la lingua del paese, la concelebrazione, l’invito a comunicarsidue specie.

    La celebrazione dell’Eucaristia

    La Liturgia dell’Eucaristia si svolge secondo una struttura fondamentale che, attraverso i secoli, si è conservata fino a noi. Essa si articola in due grandi momenti, che formano un’unità originaria:

    -la convocazione, la Liturgia della Parola, con le letture, l’omelia e la preghiera universale;

    -la Liturgia Eucaristica, con la presentazione del pane e del vino, l’azione di grazie consacratoria e la comunione.

    Liturgia della Parola e Liturgia Eucaristica costituiscono insieme “un solo atto di culto” (SC 56); la mensa preparata per noi nell’eucaristia è infatti ad un tempo quella della Parola di Dio e del Corpo e Sangue del Signore (cfr. DV 21).

    Non si è forse svolta in questo modo la cena pasquale di Gesù risorto con i suoi discepoli? Lungo il cammino spiegò loro le Scritture, poi, messosi a tavola con loro, “prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro” (Lc 24,13-35).

    Catechismo della Chiesa Cattolica, 1346-1347

    ***

    L’indole sacra e organica della comunità sacerdotale viene attuata per mezzo dei sacramenti e delle virtù. I fedeli, incorporati nella Chiesa col battesimo, sono destinati al culto della religione cristiana dal carattere, ed essendo rigenerati quali figli di Dio, sono tenuti a professare pubblicamente la fede ricevuta da Dio mediante la Chiesa. Col sacramento della confermazione vengono vincolati più perfettamente alla Chiesa, sono arricchiti di una speciale forza dallo Spirito  Santo, e in questo modo sono più strettamente obbligati a diffondere e a difendere con la parola e con l’opera la fede come veri testimoni di Cristo. Partecipando al sacrificio eucaristico, fonte e apice di tutta la vita cristiana, offrono a Dio la Vittima divina e se stessi con Essa; così tutti, sia con l’oblazione che con la santa comunione, compiono la propria parte nell’azione liturgica, non però ugualmente, ma chi in un modo chi in un altro. Cibandosi poi del corpo di Cristo nella santa comunione, mostrano concretamente l’unità del Popolo di Dio, che da questo augustissimo sacramento è adeguatamente espressa e mirabilmente effettuata. Lumen Gentium, 11

    ***

    Come definisco la mia partecipazione alla liturgia eucaristica: è “attiva, consapevole, pia” (cfr SC 48)? Cosa potrei fare per migliorare la mia partecipazione?

    L’eucarestia è azione di tutto il popolo di Dio che è sacerdotale in virtù del battesimo e della confermazione, non è un’esperienza di fede individualista e intimistica. Durante l’eucaristia sento di far parte di un popolo, di un’assemblea? Mi sento unito agli altri? Cosa potrei fare a livello personale e comunitario per migliorare questo aspetto? Cosa proporre?

    La liturgia è esperienza di fede che si colloca all’interno della vita. Deve dialogare con la vita per essere vera e fruttuosa. Cosa fare per migliorare questo aspetto? Cosa proporre?

  • 19 Feb

    IL COMPIMENTO

    12. Finché venga il regno

    Il banchetto nuziale pone termine agli incontri fra fidanzata, non per annullarli, ma per completarli.  Fra gli sposi, infatti, tale banchetto non finirà più: inaugura la loro comunione per sempre.

    Così la cena di Gesù coi dodici (con noi, perché “i dodici” sono la totalità del popolo di Dio) dà compimento a tutti i banchetti di comunione con Dio, quelli del passato e quelli del futuro:

    – quelli del passato lontano delle antiche alleanze il cui culmine l’abbiamo sul Sinai: “Contemplarono Dio, mangiarono e bevettero

    – quelli del passato prossimo, quando “Gesù accolse i peccatori e mangiò con loro”, spezzò il pane “coi suoi discepoli”, o “colmò di beni gli affamati”;

    – quelli del futuro, le innumerevoli “frazioni del pane” della chiesa cristiana fino al banchetto eterno: “Fate questo in memoria di me.  Finché venga il regno” (Lc 22,18-19).

    E fino a quel momento, per tutto questo tempo, Gesù ripete ai suoi: “io sarò con voi, sino alla fine dei tempi(Mt 28,20).

    Senza la presenza reale del risorto al centro delle nostre eucaristie, le nostre messe non potrebbero essere “comunione”, ma solo un sogno sentimentale e vuoto; non potrebbero essere “memoriale”, ossia presenza reale dell’avvenimento pasquale, con tutte le alleanze che l’hanno preparato fin dalla creazione ma semplice e nostalgico ricordo.

    Le nostre messe sono comunione con Dio e con gli altri, perché sono presenza reale di Gesù Cristo.

    Ma quale presenza reale?

    Cristo risorto è presente a tutto il mondo, perché il suo corpo glorificato non è più condizionato dallo spazio e dal tempo: egli è ovunque, opera ovunque, “illumina ogni uomo”, anche chi non ne è cosciente.

    Si istruiscano i fedeli perché conseguano una più profonda comprensione del mistero eucaristico, anche riguardo ai principali modi con cui il Signore stesso è presente nella sua chiesa nelle celebrazioni liturgiche.  E’ infatti sempre presente nell’assemblea dei fedeli riuniti nel suo nome.  E’ presente pure nella sua parola, perché parla lui stesso, mentre nella chiesa vengono lette le sacre scritture. Nel sacrificio eucaristico, poi, è presente sia nella persona del ministro, perché colui che ora offre per mezzo dei ministero dei sacerdoti, è il medesimo che allora s’offrì sulla croce; sia, e soprattutto, sotto le specie (apparenze) eucaristiche.

    In quel sacramento, infatti, in modo unico, è presente il Cristo totale e intero, Dio e uomo, sostanzialmente e ininterrottamente.  Tale presenza di Cristo sotto la specie si dice reale, non per esclusione, quasi che le altre non siano reali, ma per antonomasia. (EM 9: E V 11, 1309).

    Nei sacramenti abbiamo più che una presenza: abbiamo un incontro, consapevole da una parte e dall’altra, mediante una parola onnipotente, un gesto divinizzante: è Cristo che battezza, conferma, assolve, ordina, unisce, mediante il ministero della chiesaTuttavia non è personalmente presente nell’acqua, nell’olio, ma solo mediante la sua azione spirituale: si serve dell’acqua, dell’olio, ecc.

    Nell’eucaristia, invece, Cristo è presente realmente, personalmente, corporalmente, e non solo mediante la sua opera spirituale: “Questo è il mio corpo.  Questo è il mio sangue”.  Il termine “è” della Parola taglia come una spada affilata.

    A chi vorrebbe vedervi solo un paragone, una metafora, come quando Gesù aveva detto “Io sono la vera vite”, dovremmo rispondere con lo stesso Maestro nella sinagoga di Cafarnao (Gv 6,51 ss):

    Io sono il pane vivo disceso dal cielo.  Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno, e il pane che io darò è la mia carne… – Come può costui darci la sua carne da mangiare? – In verità, in verità vi dico: se non mangerete la carne del Figlio dell’uomo… Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna.  Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda… Chi mangia questo pane vivrà in eterno.

    Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?”

    Gli ascoltatori hanno ben capito che questo pane è la carne di Gesù.  Delusi e stomacati, se ne vanno via in massa; gli stessi discepoli “sono scandalizzati”.  Gesù li potrebbe trattenere dicendo: “Ma insomma, capitemi bene: è un modo di dire, un genere letterario, un simbolo”.  No, non dice nulla per trattenerli.  Loro hanno compreso bene: Gesù accentua il senso realistico che ripugna loro.  Non vogliono credere?  Che se ne vadano allora.  La verità rimane: “Questo è il mio corpo; questo è il mio sangue”.  Presenza reale.  L’affermazione di Cristo non lascia adito a dubbi.

    Gesù non dice nulla per spiegare la sua affermazione, per dire cioè il modo con cui è presente.

    Veramente, realmente, sostanzialmentepresente, dichiara il concilio di Trento.  Tre termini che hanno qui il medesimo significato e si rafforzano reciprocamente in una ripetuta affermazione.

    Quando il concilio parla di sostanza e di transustanziazione, non usa il termine  “sostanza” nel senso che gli dava Aristotele e ripreso dalla scolastica del secolo XIII, ma l’usa nel senso tradizionale della teologia.  Fortunatamente, dobbiamo dire, perché il linguaggio d’Aristotele è cosa da iniziati e non ha più corso fra gli uomini d’oggi.  Comunque, non può essere applicato a un corpo glorioso.

    Sfortunatamente, però, la teologia postridentina ha un po’ dimenticato che il corpo realmente presente nell’eucaristia è il corpo del Risorto.

    Nella teologia del XII secolo, in quella del concilio di Trento, come nelle lingue nazionali dal secolo XIV al XX secolo, “sostanza” significa ciò che c’è d’essenziale in una cosa o in un’idea, la realtà profonda d’un essere al di là delle apparenze. Diciamo, ad esempio: “Che cosa ha affermato, in sostanza, l’oratore?”, “Serviteci un Pasto sostanzioso… “

    Ebbene, nell’eucaristia la sostanza del pane e del vino è “convertita” nel corpo glorioso di Gesù Cristo.

    –  Gli elementi fisico-chimici (quanto chiamiamo le “apparenze”, i “fenomeni”, oppure, con un termine obsoleto, le “specie”) non mutano.  Un’analisi fatta in laboratorio mostrerebbe che il pane e il vino, dopo la consacrazione, appartengono come prima, materialmente parlando, all’universo fisico-chimico della biologia vegetale. E ‘falso pertanto affermare: Cristo ha “sostituito” il pane e il vino, come se un corpo glorioso potesse “prendere il posto” di cellule biologiche!  Il concilio di Trento ha rifiutato il termine “sostituzione” ma ha affermato: “la sostanza del pane e del vino è “convertita” nella sostanza del corpo e dei sangue del Signore”: lo sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete… lo sono il pane vivo, disceso dal cielo.  Se uno mangia di questo pane vivrà ‘n eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo… in verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne dei figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita.  Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno.  Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.  Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui.  Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me.  Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono.  Chi mangia questo pane vivrà in eterno. (Gv 6,35-58)

    La sostanza, ossia la realtà profonda ed essenziale d’un essere, ciò che è per voi realmente.  Questa persona, per esempio, non è per te un certo peso tradotto in chilogrammi di materia albuminoide, ma tua moglie, o tuo marito, o tuo figlio, e niente altro.  Un giornale, per te e per me, è veramente, realmente, sostanzialmente l’insieme delle informazione del giorno, e niente altro; per il bottegaio è veramente, realmente e sostanzialmente un pezzo di carta per avvolgere la sua merce, e niente altro; per le termiti d’Africa è veramente, realmente e sostanzialmente un cibo prelibato, e niente altro.  La sostanza è quanto un essere rappresenta per noi: ciò che vi cerchiamo e vi troviamo.

    Ebbene, per i cristiani, il pane e il vino consacrati sono veramente, realmente e sostanzialmente Gesù risorto, perché Gesù stesso l’ha voluto, appunto lui vi cerchiamo e vi troviamo, niente altro.  Mediante il dono del suo amore e la potenza sacramentale della sua Parola, la realtà profonda del pane e del vino è “convertita” in una realtà d’un altro mondo, quello della risurrezione: lo stesso Cristo glorioso.

    Lasciamo stare i miracoli, raccontati nel medioevo, d’ostie sanguinanti o di Bambin Gesù visti nelle mani del prete.  Altro non furono che delle “apparenze” per rinfocolare la pietà.  Poiché il bambin Gesù non esiste più, è diventato adulto; e il suo corpo non sanguina più, nemmeno nell’ostia: è glorioso.

    L’eucaristia è stata istituita per essere mangiata, ci richiama il concilio di Trento. E’ volere di Gesù Cristo che il pane e il vino siano consacrati per essere cibo e bevanda.  Non possiamo disgiungere il “Questo è il mio corpo” dal “Prendete e mangiate tutti!”.

    La tradizione dei primi secoli, come quella ancora viva dell’oriente cristiano, non conoscono la riserva del sacramento dopo la messa se non per il viatico dei morenti e per la comunione dei malati, e non per un culto o una comunione al di fuori della messa.

    Tuttavia, questa permanenza dell’eucaristia è un mistero significativo:

    1)    Esso ci ricorda che l’avvenimento pasquale non è solamente un fatto del passato, ma l’avvenimento permanente della vita celeste di Cristo, risorto e glorificato nell’atto supremo della sua morte d’amore.

    2)    Ci ricorda che la nostra messa del mattino o della domenica ha coinvolto anche noi, in maniera permanente, nella sua morte d’amore

    Un tabernacolo abbandonato, quindi, non è necessariamente un tabernacolo davanti al quale nessuno è inginocchiamo in adorazione, ma piuttosto quello d’una comunità cristiana che non ha nessun membro impegnato, in base alla comunione che ha fatto, in un’opera concreta d’unità e di dono di sé.

    Dovremmo allora parlare d’eucaristia “invalida”, poiché lo scopo del Signore in questo sacramento non è di “convertire” del pane e del vino, ma di “convertire” i nostri cuori e le nostre comunità in modo da essere noi stessi, personalmente e come gruppo cristiano, “il corpo di Cristo”.

    Quando venite a presentarvi a me, chi richiede da voi che veniate a calpestare i miei atri?  Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità. I vostri noviluni e le vostre feste io detesto, sono per me un peso; sono stanco di sopportarli.  Quando stendete le mani, io allontano gli occhi da voi.  Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue.  Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista.  Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate le giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova. (Is 1,12-17)

    Il vero problema è appunto qui.  Non si tratta affatto di sapere se e per quanto tempo, Cristo rimane sacramentalmente presente nel “cuore” di chi s’è comunicato…

    “Quando l’eucaristia è stata consumata, la presenza del Signore non viene a mancare, ma si traspone.  Il sacramento ha terminato la sua funzione, Cristo è dato alla chiesa, il pane non deve essere più mangiato e può cessare d’essere il mezzo di presenza del Signore.  Non c’è ragione per rendere un culto d’adorazione a un’eucarestia che prolungherebbe ancora per un po’ la sua esistenza nel corpo di chi s’è comunicato.  Questo corpo non diventa né ciborio né tabernacolo, ma è ormai esso stesso consacrato nello Spirito santo e diventa a sua volta, assunto nel suo Signore, sacramento della presenza pasquale di Cristo nel mondo. L’eucaristia trasforma sempre maggiormente la chiesa in ciò che già è mediante la fede e il battesimo: la sposa di Cristo, il corpo di Cristo nel mondo”‘(F.X. Durrwell).


    “La certezza bimillenaria”

    Prima di chiudere questo capitolo, vogliamo ascoltare la testimonianza data, nel suo ritiro in Vaticano (1970) davanti al papa e alla curia romana, dal padre Jacques Loew, per qualche tempo scaricatore di porto, passato dall’ateismo alla fede cristiana, e poi prete, domenicano, fondatore della Missione saint-Pierre-saint-Paul e della Scuola della fede a Friburgo: “Vi dicevo stamattina che, quando ero ancora un non credente, ero stato alla Valsainte.  Avevo domandato ai certosini, se volevano accogliermi per qualche giorno di riflessione.  Desideravo veramente sapere se Dio esistesse o no.  Orbene, alla Valsainte mi sono trovato come messo alle strette col mistero dell’eucaristia, al quale io non pensavo per nulla.  E se oggi sono in mezzo a voi, è ben a causa di esso.  Il padre incaricato degli ospiti m’aveva accolto bene.  Mi aveva ascoltato.  Mi aspettavo che mi facesse tutto un discorso apologetico ed ero preparato a questo.  Mi dicevo: “Vai dai preti, ti racconteranno tutto un catechismo”.  Ma lui m’aveva ascoltato e m’aveva semplicemente detto: “Va bene, è sulla buona strada, continui”.  Mi aveva mostrato la cappella: “Se vuole andarci, ci vada pure”.  Quando un ufficio cominciava, io mi mettevo in ginocchio, perché pensavo che fosse il contegno corretto: ma quegli uffici di certosini non finivano mai e, stanco d’essere in ginocchio, alla fine mi sedevo.  Crac!  Era il momento dell’elevazione e tutti si mettevano in ginocchio.  Andavo proprio fuori tempo!

    Era la settimana santa.  Un mattino, durante l’ufficio, a un certo momento vedo i monaci lasciare i loro stalli e venire a schierarsi attorno all’altare dove celebrava il padre abate, poi vedo i fratelli uscire da dietro le grate del coro e venire ugualmente a mettersi attorno all’altare; e infine gli ospiti in ritiro scendere da una scala a chiocciola e andare anche loro a prendere posto in quel medesimo cerchio attorno all’altare.  E io mi trovai solo in un angolo, lontano da tutti, al momento in cui la santa comunione veniva distribuita: era la messa del giovedì santo.  Tutto solo, nella tribuna! E là veramente ho sentito che o quegli uomini, monaci, frati, ospiti in ritiro, erano pazzi – e andavano a inghiottire non so quale pastiglia oppure veramente ero io il cieco che non capiva di che cosa si trattasse.  Ora, vedevo quei certosini, notavo la loro calma, il loro equilibrio, scoprivo uomini capaci di vivere una vita intera nel silenzio e nella solitudine, non potevo dirmi che erano pazzi.  Ero ben obbligato a pensare, anche inconsciamente, che davvero vi era là un non-so-che il quale mi superava, una Presenza santa al di là del visibile.

    Ciò è stato il punto di partenza: non credevo ancora in Dio, ma ormai mi mettevo a cercarlo con la certezza che l’invisibile poteva esistere.  Più tardi Dio si è rivelato a me come una certezza; ma Gesù Cristo non era una leggenda?  Un giorno ho potuto capire che se Dio era Dio, al di là di tutti i nostri limiti, era capace d’amare il mondo fino a dargli il suo Figlio: allora ho creduto al Signore Gesù.

    Ma si poneva ancora una questione: ero stato battezzato cattolico, ma educato vagamente nel protestantesimo; sarei stato cattolico o protestante?  Decisi di frequentare la Cena protestante per vedere com’era, ma ogni volta che domandavo ad amici protestanti o a pastori di spiegarmi che cosa avviene alla Cena, ognuno mi dava una risposta personale: un ricordo,… una memoria,… un pasto fraterno… Ero solo e non vedevo nessun prete (avevo lasciato la Valsainte dopo otto giorni); ma quando leggevo nel vangelo: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”, mi ritrovavo alla Valsainte alla tribuna, solo nell’angolo sinistro, di fronte a tutti quei monaci che, dal tempo di Gesù fino a oggi, ripetevano: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”, e ricevevano con adorazione il corpo di Cristo.

    E se alla fine, con la grazia di Dio e da essa certamente sospinto, ho scelto il cattolicesimo; se, dopo sei mesi di riflessione, sono andato da un sacerdote dicendogli: “Voglio essere cattolico”, è a causa di questo tesoro unico dell’eucaristia e perché solo la chiesa mi sembrava essere fedele al “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”.  Ciò è stato più forte di tutte le mie difficoltà, perché essendo senza fede, educato in una famiglia socialista, capite bene che la chiesa era un boccone grosso da trangugiare con tutte le idee false che si possono avere nella testa: c’era Galileo, c’erano i papi del rinascimento e tante altre cose.  Ma tutto questo non pesava nulla, in conclusione, di fronte alla fedeltà della chiesa cattolica alla parola: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”.  Che niente venga a diluire o a svuotare la certezza bimillenaria di questo tesoro che sostiene e riassume la nostra fede!”.

    La chiesa cattolica non solo ha sempre insegnato, ma anche vissuto la fede nella presenza del corpo e dei sangue di Cristo nell’eucarestia, adorando sempre con culto latreutico, che compete solo a Dio, un così grande sacramento.  Di questo culto s. Agostino scrive: “In questa carne (il Signore) ha qui camminato e questa stessa carne ci ha dato da mangiare per la salvezza; e nessuno mangia quella carne senza averla prima adorata… sicché non pecchiamo adorandola, ma anzi pecchiamo, se non l’adoriaino”. Non solo durante l’offerta dei sacrificio e l’attuazione del sacramento, ma anche dopo, mentre l’eucaristia è conservata nelle chiese e negli oratori, Cristo è veramente I”‘Emmanuel”, cioè il “Dio con noi”.  Poiché giorno e notte è in mezzo a noi, abita con noi pieno di grazia e verità; restaura i costumi, alimenta le virtù, consola gli afflitti, fortifica i deboli, e sollecita alla sua imitazione tutti quelli che si accostano a lui, affinché col suo esempio imparino a essere miti e umili di cuore, e a cercare non le cose proprie ma quelle di Dio.  Chiunque perciò si rivolge all’augusto sacramento eucaristico con particolare devozione e si sforza d’amare con slancio e generosità Cristo che ci ama infinitamente, sperimenta e comprende a fondo, non senza godimento dell’animo e frutto, quanto sia preziosa la vita nascosta con Cristo in Dio e quanto valga stare a colloquio con Cristo, di cui non c’è niente più efficace a percorrere le vie della santità (Paolo VI)

    Finché venga il tuo regno

    Il modo della presenza di Cristo sotto le specie eucaristiche è unico. Esso pone l’Eucaristia al di sopra di tutti i sacramenti e ne fa quasi il “coronamento della vita spirituale e il fine al quale tendono tutti i sacramenti” (s. Tommaso d’A.) nel Santissimo Sacramento dell’Eucaristia è “contenuto veramente, realmente, sostanzialmente il Corpo e il Sangue di nostro Signore Gesù Cristo, con l’anima e la divinità e, quindi, il Cristo tutto intero” (Conc. Trid.) “Tale presenza si dice “reale” non per esclusione, quasi che le altre non siano “reali”, ma per antonomasia, perché è sistanziale, e in forza di essa Cristo, Uomo-Dio, tutto intero si fa presente” (Paolo VI).

    E’ per la conversione del pane e del vino nel suo Corpo e nel suo Sangue che Cristo diviene presente in questo sacramento. I Padri della Chiesa hanno sempre espresso con fermezza la fede della Chiesa nell’efficacia della Parola di Cristo e dell’azione dello Spirito Santo per operare questa conversione. San Giovanni Crisostomo, ad esempio afferma: “Non è l’uomo che fa diventare le cose offerte Corpo e Sangue del Signore, ma è Cristo stesso, che è stato crocifisso per noi. Il sacerdote, figura di Cristo, pronunzia quelle parole, ma la loro virtù e la grazia sono di Dio. Questo è il mio Corpo, dice. Questa Parola trasforma le cose offerte”.

    E sant’Ambrogio, parlando della conversione eucaristica, dice: “Non si tratta dell’elemento formato da natura, ma della sostanza prodotta dalla formula della consacrazione, ed è maggiore l’efficacia della consacrazione di quella della natura, perché, per l’effetto della consacrazione, la stessa natura viene trasformata… La parola di Cristo che poté creare dal nulla ciò che non esisteva, non può trasformare in una sostanza diversa ciò che esiste? Non è minore impresa dare una nuova natura alle cose che trasformarla”.

    E’ oltremodo conveniente che Cristo abbia voluto rimanere presente alla sua Chiesa in questa forma davvero unica. Poiché stava per lasciare i suoi sotto il suo aspetto visibile, ha voluto che noi avessimo il memoriale dell’amore con il quale ci ha amati “sino alla fine” (Gv 13,1), fino al dono della propria vita. Nella sua presenza eucaristica, infatti, egli rimane misteriosamente in mezzo a noi come colui che ci ha amati e che ha dato se stesso per noi (cfr Gal 2,20), e vi rimane sotto i segni che esprimono e comunicano questo amore.

    “Che in questo sacramento sia presente il vero Corpo e il vero Sangue di Cristo “non si può apprendere coi sensi – dice san Tommaso – ma con la sola fede, la quale si appoggia sull’autorità di Dio”. Per questo commentando il passo di san Luca 22,19: “Questo è il mio Corpo che viene dato per voi”, san Cirillo dice: “Non mettere in dubbio se questo sia vero, ma piuttosto accetta con fede le parole del Salvatore: perché essendo egli la verità non mentisce”. Catechismo della Chiesa Cattolica, 1374-1381 (passim)

    La Cena di Gesù con i Dodici è il compimento di tutti i banchetti di comunione con Dio: sia passati che futuri.

    Sino a che la Chiesa camminerà sulle strade del mondo non verrà meno la parola di Gesù: “Io sarò con voi sino alla fine dei tempi” (Mt 28,20).

    Questa sua presenza è nella Chiesa viva reale nel sacramento dell’Eucaristia.

    Cfr     Mt 28,20

    Lc 22,18-20

    ***

    Nell’eucarestia è “veramente, realmente, sostanzialmente” presente il Corpo e il Sangue di Gesù Risorto. Quel pane e quel vino per l’azione dello Spirito santo sono convertiti, trasformati nella loro sostanza: sono Corpo e Sangue del Signore. E’ Gesù che ha voluto questo.

    ***

    L’eucaristia è stata istituita non anzitutto per essere adorata, ma per essere da noi mangiata, consumata. Non possiamo distinguere il “Questo è il mio Corpo” dal “Prendete e mangiatene tutti”.

    E questo mi rimanda al fatto che Cristo vuole entrare nel profondo della mia esistenza per trasformarmi in lui. Sono dalla potenza dello Spirito “cristificato”.

    ***

    La presenza del Cristo nelle specie eucaristiche non è momentanea, essa permane come permane la sua offerta al Padre e a noi. L’eucaristia presente nel tabernacolo mi richiama all’adorazione, alla lode e al ringraziamento, al fare memoria del sacrificio di Cristo, alla preghiera perché la mia vita si trasformi in un dono continuo, costante ai miei fratelli e al Padre.

    Il tabernacolo abbandonato è anzitutto una comunità incapace di vivere l’eucarestia nella carità di ogni giorno.

  • 18 Feb

    IL COMPIMENTO


    11. “Allora ho detto: eccomi”

    Gesù e i suoi apostoli hanno fatto una cena pasquale “classica”?  Nessun evangelista afferma che hanno mangiato l’agnello rituale.  E sappiamo da Giovanni 18,28 che, per l’insieme del popolo, l’immolazione degli agnelli avrebbe avuto luogo, nel tempio, nel pomeriggio del 14 di nisan il venerdì – nell’ora della agonia e della morte in croce di Gesù, il vero agnello pasquale.

    Nulla di straordinario che ci sia stata un’anticipazione del rito. I manoscritti di Qumrán ci rivelano che il calendario legale non era adottato universalmente.  Alcune comunità praticavano delle anticipazioni ufficiose. Forse come a Qumrán e in altre “chiese ebraiche” dell’epoca, Gesù anticipò di un giorno il suo pasto pasquale.  E di ciò nessun discepolo ebbe a meravigliarsi. Gesù aveva i suoi buoni motivi.

    Gesù sembra essere stato molto vicino a un movimento di risveglio religioso assai importante in quel tempo, i battezzatori.  Battezzato di sua volontà da Giovanni Battista, egli stesso ha battezzato in massa attraverso il ministero dei suoi discepoli (Gv 3,22-30; 4,1-2), prima di fare del battesimo il grande rito di aggregazione alla sua chiesa.

    Tali battezzatori si segnalavano per il loro rifiuto di cibarsi di carni sacrificali.

    Come potevano allora praticare il pasto pasquale?  Ciò nonostante erano fra gli ebrei i più vivi e i più spirituali.  Soprattutto dopo l’esilio, si era diffusa l’usanza di “sacrifici di pienezza”, cioè di “piena comunione con Dio e tra i partecipanti”, sacrifici in cui la lode aveva un posto maggiore dello stomaco.

    I responsabili del tempio li tolleravano perché erano molto in voga negli strati popolari.  Questi “pasti eucaristici” – venivano chiamati proprio così – erano pasti cultuali in cui si lodava Dio con salmi di ringraziamento, in cui si implorava e si attendeva la redenzione di Israele, condividendo soprattutto il pane e il vino.

    Ad ogni modo, i racconti evangelici non sono dei reportages, ma una rivelazione teologica.  Dell’evento conservano perciò solo ciò che è nuovo, ciò che è vissuto nell’eucaristia cristiana della loro comunità.  Se non ricordano l’agnello pasquale, non si può trarre la conclusione che non faceva parte del menu, ma che non aveva più alcuna importanza.

    Consacrando il pane e il vino, Cristo elimina ogni traccia di sacrificio animale.

    Morendo sulla croce nell’ora delle immolazioni del tempio, egli alza verso il Padre e sul mondo il corpo donato e il sangue versato dell’unico vero agnello “pasquale”: colui che “passa” effettivamente e “fa passare” verso Dio.

    Egli è sulla tavola, sulla croce, come la perfetta realizzazione di tutti i sacrifici di espiazione, di redenzione, di implorazione, di comunione e di lode tentati attraverso i secoli dagli ebrei e dai pagani. Il suo unico sacrificio pone fine, nel regime dell’amore che inaugura, all’inganno delle sostituzioni.- non si ha più il diritto di vagare altrove alla ricerca della vittima.

    “Poiché è impossibile eliminare i peccati con il sangue di tori e di capri.  Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà” (Ebr 10,4ss).

    Perché “un corpo”? Per essere sacrificato?  No. Ma “un corpo, per fare, o Dio, la tua volontà”.

    Dopo avere detto prima “non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato”, cose tutte che vengono offerte secondo la legge, soggiunge: “Ecco, io vengo a fare la tua volontà”.  Con ciò stesso egli abolisce il primo sacrificio per stabilirne uno nuovo.  Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta dei corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre. (Ebr 10,8-10)

    E’ lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla” (Gv 6,63), ha affermato Gesù, parlando proprio dell’eucaristia.  E con ciò voleva dire: “La mia carne per la vita del mondo non è innanzitutto la materialità della mia morte sulla croce; è lo spirito, cioè l’amore che mi porta a offrirmi liberamente alla morte”. Tale amore fu quello di tutta la sua vita.

    In primo luogo la sua incarnazione: “Io vengo per fare, o Padre, la tua volontà”.  “Entrando nel mondo”.

    Poi, attraverso tutta la sua vita, questo “sì” al Padre non si smentisce mai, non esita, non viene mai meno.  La sua vita “non fu “sì” e “no”, ma in lui c’è stato il “sì” “ (2Cor 1,19).  “Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te” (Mt 11,26): ecco tutta la sua esistenza… “Io faccio sempre le cose che gli sono gradite” (Gv 8,29).  “Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato” (4,34).

    Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce.  Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra d’ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre. (Fil 2,6-11)

    Fino alla morte, e la morte di croce… Perché l’amore resta uguale a se stesso, sia nelle circostanze tragiche, come nel quotidiano con i suoi lavori monotoni e comuni.

    Allo stesso modo, per Gesù, davanti alla tortura.  La morte atroce del crocifisso sarà il sì di ogni giorno: “Non la mia volontà, ma la tua

    Il sacrificio di Cristo, pertanto, non può essere dell’ordine rituale, ma di quello della carità.  Di conseguenza, il sacrificio eucaristico non è dell’ordine rituale ma di quello della carità; nemmeno la comunione eucaristica è dell’ordine rituale, ma è dell’ordine della carità.  Non si tratta di compiere degli atti cultuali, né per lui né per noi.  Siamo di fronte a una trasformazione profonda, interiore, di tutto il nostro essere.  Si tratta d’offrire se stessi con Cristo, in Cristo e per Cristo al Padre nello Spirito santo.

    E’ questo il sacrificio che penetra i cieli!  Con la medesima “elevazione”, il Figlio sale sulla croce e poi ascende nella risurrezione di gloria.  Dio, appunto perché gradisce il suo sacrificio, l’accoglie “alla sua destra” e lo fa Signore del mondo.

    Solo la risurrezione fa della morte di Cristo un “sacrificio” e solo attraverso la risurrezione il Padre manifesta di gradire l’offerta, dimostra che essa “passa”, che è accolta nella piena comunione di Dio.

    L’offerta, così accettata, è “santificata”, “sacrificata”, pienamente “divinizzata”, nel senso che Gesù-Uomo entra nella sua piena potenza di Figlio di Dio (Rm 1,4) e ci trascina dietro a lui.  (Cfr  Is 53,10-12)

    Tutta la portata e l’ampiezza, tutto il movimento unico dei sacrificio di Cristo sono contenuti in un inno cristiano primitivo che ci viene tramandato da s. Paolo in Fil 2,5-11: la spogliazione dell’incarnazione, l’obbedienza del servo per sempre, l’obbedienza fino alla croce.  Per questo Dio l’ha innalzato.

    Nel culto ebraico, il rito della grande espiazione doveva essere ripetuto ogni anno:

    Doni e sacrifici non possono rendere perfetti.  Cristo, invece, _venuto come sommo sacerdote di beni futuri… non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario (= presso il Padre), procurandoci così una redenzione eterna” (Eb 9,9-12).

    Così Cristo, dopo essersi offerto una volta per tutte allo scopo di togliere i peccati di molti…” (v. 28);

    siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre”(10,10).

    Nessuna messa, quindi, rinnoverà questo sacrificio o vi aggiungerà qualcosa.  La messa ci rende presente l’unico sacrificio di Cristo.

    Il sacrificio di Cristo è, pertanto, chiaramente posto nel passato: non abbiamo un’immolazione rinnovata di Cristo per il fatto ch’egli è ridotto sotto apparenze insignificanti, o che lo si mangia e lo si beve, o che il pane è separato dal vino come il corpo dal sangue.  “Una volta per sempre” vuoi dire appunto una volta per sempre! E tuttavia, l’unico sacrificio è realmente presente alla messa, non solamente “rappresentato” sotto il simbolo del pane (corpo dato) e del vino (sangue versato), ma presente, o, se si preferisce, “ri-presente” nel senso di “presente nuovamente”.

    E necessario, infatti, che sia presente.  La salvezza del mondo è nella morte di Gesù, la risurrezione degli uomini è nel suo corpo.

    Ma presente in che modo?

    Sappiamo che la morte fissa eternamente ciascuno nella disposizione in cui essa lo coglie.  Cristo muore nel momento culminante del dono d’amore al Padre e ai fratelli, e quindi è risorto, glorificato per sempre in siffatto stato.  Non esiste altro Cristo che Gesù al culmine della sua vita, della sua morte, del suo amore.  Gesù è glorificato al culmine del suo sacrificio.

    Cristo infatti non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. (Eb 9,24)

    A ogni messa (“Questo è il mio corpo… il mio sangue”) è quindi presente realmente sull’altare nello stato in cui si trova per sempre: accolto e glorificato al culmine dei suo sacrificio. E questo “il sacrificio della messa”…

    Ma a che serve?

    E’ chiaro che, se Cristo è perfetto nel suo amore e nel suo sacrificio, la chiesa non lo è affatto!  Come un masso informe, essa deve essere squadrata a colpi di mazza, lavorata a colpi di scalpello, per diventare conforme al modello divino.

    Gesù, invitandoci a mangiare il suo corpo dato, a bere il suo sangue versato, ci coinvolge nel suo sacrificio.  Ci invita a fare una sola cosa con lui (mangiare!) per entrare con lui nel sacrificio ch’egli stesso fa della propria vita al Padre e ai fratelli: vivere come lui, morire con lui, a fuoco lento forse, ma realmente, concretamente, ventiquattr’ore su ventiquattro.

    Con che cosa mi presenterò al Signore, mi prostrerò al Dio altissimo?  Mi presenterò a lui con olocausti, con vitelli d’un anno?  Gradirà il Signore le migliaia di montoni e torrenti d’olio a miriadi?  Gli offrirò forse il mio primogenito per la mia colpa, il frutto delle mie viscere per il mio peccato? Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio. (Mi 6,6-8)

    Questo il senso delle sue parole troppo dimenticate: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, prenda la sua croce e mi segua”.  Dobbiamo, allora, accettare la parte che Gesù c’invita ad assumere nella sua stessa missione, accettare la sua rinuncia suprema, il suo amore insomma, e la sua gloria.  Non possiamo assolutamente cercare altrove la vittima!

    Bere allo stesso calice, segno del destino comune, simbolizza appunto questo: destino comune fra i partecipanti, ma prima di tutto destino comune con colui di cui si beve il sangue, Cristo, “obbediente al Padre fino alla morte e alla morte di croce”.

    Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini… anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione d’un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo… Ma voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio s’è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua mirabile luce” (1 Pt 2,4-9).

    Se rimaniamo soli, staccati da Gesù, tutti i nostri “sacrifici”, materiali o spirituali, risultano vani, in quanto non c’è che un solo sacrificio per sempre; perché solo nella vita obbediente di Cristo e nella sua morte glorificante, nel suo corpo in una parola, s’opera la salvezza per tutti.  Per questo, come dice s. Pietro, “stringiamoci a lui”, con le nostre mani piene, per così dire, dei nostri “sacrifici spirituali”, in modo da gettarli nel suo sacrificio, dato che egli per primo, con la messa, s’avvicina a noi nello stato glorificato del suo sacrificio.

    Altrimenti egli rimane solo, inutile, poiché il suo sacrificio “una volta per tutte” non può essere “ripresentato” se non per accogliere il nostro.

    Tocca a noi essere questo “sacrificio spirituale”, ossia d’amore, come fu la vita di Gesù, nel compimento della volontà di Dio.  E ancora, dobbiamo “vivere non più per noi stessi”, dobbiamo essere noi stessi “in Cristo un’offerta vivente”, ogni giorno della nostra vita, come chiedono le preghiere eucaristiche:

    “Perché non viviamo più per noi stessi, ma per lui che è morto e risorto per noi, hai mandato, o Padre, lo Spirito santo, primo dono ai credenti, a perfezionate la sua opera nel mondo e compiere ogni santificazione”

    Ecco perché, Signore, “ti offriamo il suo corpo e il suo sangue, sacrificio a te gradito, per la salvezza del mondo.  Guarda con amore, o Dio, la vittima che tu stesso hai preparato per la tua chiesa; e a tutti coloro che mangeranno di quest’unico pane e berranno a quest’unico calice concedi che, riuniti in un solo corpo dallo Spirito santo, diventino offerta viva in Cristo, a lode della tua gloria”.

    “ALLORA HO DETTO: ECCOMI!”

    Nel Nuovo Testamento il memoriale riceve un significato nuovo. Quando la Chiesa celebra  l’Eucaristia, fa memoria della Pasqua di Cristo, e questa diviene presente: il sacrificio che Cristo ha offerto una volta per tutte sulla croce rimane sempre attuale (cfr. Ebr 7,25-27): “Ogni volta che il sacrificio della croce, «col quale Cristo, nostro agnello pasquale è immolato», viene celebrato sull’altare, si effettua l’opera della nostra redenzione” (LG 3).

    In quanto memoriale della pasqua di Cristo, l’Eucaristia è anche un sacrificio. Il carattere sacrificale dell’eucaristia si manifesta nelle parole stesse dell’istituzione: “Questo è il mio Corpo che è dato per voi” e “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi” (Lc 22,19-20). Nell’Eucaristia Cristo dona  lo stesso corpo che ha consegnato per noi sulla croce, lo stesso sangue che egli ha “versato per molti, in remissione dei peccati” (Mt 26,28).

    L’Eucaristia è dunque un sacrificio perché ri-presenta (rende presente) il sacrificio della croce, perché ne è il memoriale e perché ne applica il frutto:

    Il sacrificio di Cristo e il sacrificio dell’eucaristia sono un unico sacrificio. “Si tratta infatti di una sola e identica vittima e lo stesso Gesù la offre ora per il ministero dei sacerdoti, egli che un giorno offrì se stesso sulla croce: diverso è solo il modo di offrirsi”. “In questo divino sacrificio, che si compie nella Messa, è contenuto e immolato in modo incruento lo stesso Cristo che si offrì una sola volta in modo cruento sull’altare della croce” (Conc. Trid.)

    L’Eucaristia è anche il sacrificio della Chiesa. La Chiesa, che è il Corpo di Cristo, partecipa all’offerta del suo Capo. Con lui, essa stessa viene offerta tutta intera. Essa si unisce alla sua intercessione presso il Padre a favore di tutti gli uomini. Nell’Eucaristia il sacrificio di Cristo diviene pure il sacrificio  delle membra del suo Corpo. La vita dei fedeli, la loro lode, la loro sofferenza, la loro preghiera, il loro lavoro, sono uniti a quelli di Cristo e alla sua offerta totale, e in questo modo acquistano un valore nuovo. Il sacrificio di Cristo presente sull’altare offre a tutte le generazioni di cristiani la possibilità di essere uniti alla sua offerta.

    Catechismo della Chiesa Cattolica, 1364-1368

    ***

    La nostra partecipazione al Corpo e al Sangue del Signore Gesù Cristo non tende altro che a trasformarci in quello che riceviamo, a farci rivestire in tutto, nel corpo e nello spirito, da colui nel quale siamo morti, siamo stati sepolti e siamo risorti. S. Gregorio Magno, Disc. XIII

    ***

    Come io, con le braccia distese sulla croce e col corpo spogliato, spontaneamente ofrii me stesso al Padre per i tuoi peccati, cosicché nulla rimase di me che non fosse offerto in sacrificio per placare Dio, così tu pure devi offrirmi volentieri te stesso, come un’ostia pura e santa, ed ogni potere e affetto del tuo cuore, quanto più intimamente puoi. Che altro io ti chiedo? Se non che ti consegni interamente a me? Qualunque cosa tu mi offra, fuori di te, non la curo, perché non ti chiedo i tuoi doni, ma il tuo cuore. Imitazione di Cristo, IV,8.1

    ***

    Morendo sulla croce nell’ora delle immolazioni dei sacrifici nel tempio, Gesù sulla croce alza verso il Padre e sul mondo il suo Corpo donato e il suo Sangue versato, “unico vero agnello pasquale”. Colui che “passa” effettivamente e “fa passare” a Dio.

    Cfr       Ebr 10,4-10

    ***

    Tutta la vita di Cristo, dall’Incarnazione alla morte fu un “sì” incondizionato al Padre. Un rendimento di grazie, un’«eucaristia»

    Cfr       2Cor 1,19

    Mt 11,26

    Gv 4,34; 8,29;…

    Fil 2,6-11

    ***

    Il sacrificio di Cristo pertanto non si colloca ad un livello rituale, ma nell’ordine della carità. Di conseguenza il sacrificio eucaristico non è nell’ordine rituale ma nell’ordine della carità. Non si tratta dunque da parte nostra di compiere puri atti cultuali, né per lui né per noi. Siamo invece posti di fronte ad una trasformazione profonda, interiore di tutto il nostro essere invitato a divenire un’offerta in Cristo, per Cristo, con Cristo al Padre nello Spirito santo.

    Cfr       Mich 6,6-8

    ***

    Tocca a noi essere questo “sacrificio spirituale”, ossia d’amore, come fu la vita di Gesù, nel compimento della volontà di Dio. E ancora, dobbiamo “vivere non più per noi stessi”, dobbiamo essere noi stessi “in Cristo un’offerta vivente”, ogni giorno della nostra vita, come chiedono le preghiere eucaristiche: “Egli faccia di noi un sacrificio perenne a te gradito perché possiamo ottenere il premio eterno”

  • 17 Feb

    PECULIARITA’ DEL
    MONACHESIMO IRLANDESE:
    il terzo tassello delle radici cristiane europee

    di padre Attilio Franco Fabris cp
    Casa di Preghiera Sant’Andrea
    Abbazia di Borzone
    16041 Borzonasca – GE

    Dobbiamo riconoscere che il monachesimo celtico, di cui san Colombano è certamente la figura più significativa, è purtroppo un tesoro sconosciuto. Una trascuratezza abbastanza grave se, come pensano numerosi storici, il monachesimo irlandese dovrebbe essere riconosciuto a tutti gli effetti come il terzo tassello di un mosaico che venne a forgiare dal V al X secolo le radici dell’Europa cristiana.

    La nostra identità culturale europea è certamente frutto del monachesimo benedettino capace di operare una sapiente rilettura della tradizione monastica orientale e della romanità che dal sud risale il continente, è ancora sicuramente frutto della coraggiosa apertura missionaria e capacità di inculturazione nell’Europa dell’est da parte dei santi Cirillo e Metodio, ma anche, come cercheremo di evidenziare, frutto del contributo originalissimo e di certo non marginale che dal nord venne da parte del monachesimo celtico.

    Premesse generali

    A livello storico l’Irlanda rappresenta un caso unico nell’arco dei secoli che vedono la formazione dell’identità del nostro continente. Fu infatti una nazione, l’ultima terra che si apriva sull’oceano, che rimase ai margini della grandi vicende storiche europee soprattutto nei secoli V e VI. Gli stessi romani non conquistarono mai realmente l’isola e questa non fu neppure grandemente interessata dalle grandi trasmigrazioni barbariche che interessarono invece il resto dell’Europa nei secoli che a noi interessano.

    Questa “marginalità” permise il formarsi di una certa autonomia e strutturazione culturale, sociale e religiosa tipica seppur sempre saldamente ancorata alla radice continentale, non riscontrabile nel resto dell’Europa.

    La fede cristiana giunse in Irlanda ad opera di sporadici missionari e di mercanti. Giunse probabilmente dalla Gallia e dalla Scozia già alla fine del IV secolo, se già nel 341 papa Celestino I invia in Irlanda Palladio come primo vescovo “ad Scottos in Christum credentes”, ovvero alle comunità cristiane già presenti sull’isola.

    Ma la conversione totale dell’isola, attuatasi nell’arco di pochi decenni, è da attribuirsi all’opera di san Patrizio (432-461), successore di Palladio. L’evangelizzazione sia di Palladio come di Patrizio avvenne senza traumi: si tratta di un dato abbastanza insolito se non unico, infatti in Irlanda non ci furono missionari martiri. Questo perché il cristianesimo seppe sapientemente avvicendarsi all’antica cultura celtica senza imporre fratture. Come non ricordare ad esempio l’episodio in cui a Patrizio preso da scrupoli e incerto se conservare e utilizzare i poemi pagani appare un angelo che lo consiglia di usarli saggiamente traendone insegnamenti cristiani?

    Sembra che sia stato san Patrizio ad introdurre ufficialmente l’istituzione monastica in Irlanda anche se alcuni storici sostengono l’esistenza di qualche comunità monastica precedente a lui. Patrizio fu un innamorato del monachesimo, si era infatti formato alla sua missione in Gallia nell’importante centro monastico di Lérins. Patrizio arrivato in Irlanda fondò ad Armagh la prima sede vescovile ma unitamente vi volle anche un monastero. Già durante il suo episcopato sorsero nell’isola numerosissimi monasteri ed egli poté gloriarsi, nelle sue “Confessiones” di aver fatto entrare nella vita monastica numerosi “figli e figlie di re”.


    Nascita del monachesimo irlandese

    Nel IV e V secolo il monachesimo nato in oriente aveva già trovato diffusione nell’area del Mediterraneo attraverso numerose fondazioni monastiche sorte soprattutto sulle sue isole tra le quali è da ricordare anzitutto Lérins che fu in quei secoli il centro monastico più importante.

    A partire dal secolo V e VII i monasteri in Irlanda si moltiplicano in modo quasi prodigioso. Questa profusione di fondazioni monastiche, avvenuta in pochissimo decenni, fa sì che si possa affermare che il cristianesimo irlandese abbia di fatto assunto sin dall’origine una matrice essenzialmente monastica.

    Citiamo alcune delle fondazioni monastiche più importanti.

    Intorno al 500 sant’Enda fonda un primo insediamento monastico irlandese nelle isole Aran, che fu in seguito denominata l’”Isola dei Santi”. A questo primo monastero nella stessa zona se ne aggiunsero poi molti altri. Questi monasteri ricopersero un’importanza notevole come scuole di spiritualità monastica a cui accorsero generazioni di aspiranti monaci.

    San Finnian fu invece il fondatore di Clonard, intorno al 500. Egli fu definito il “maestro dei santi d’Irlanda”, in quanto dal suo monastero uscì un folto gruppo di monaci che fu denominato “i dodici apostoli d’Irlanda”  che a loro volta furono fondatori di numerosi monasteri.

    San Cirian intorno al 545 fonda Clonmachnoise, uno dei principali insediamenti monastici d’Irlanda, l’unico a non essere sottoposto ad un legame con uno specifico clan con la conseguenza di svolgere un notevole influsso anche politico.

    Altro grande monastero fu quello di Bangor, presso l’attuale Belfast, fondato da san Cumgall nel 558 e che divenne un famoso centro spirituale e culturale nel quale visse e si formò lo stesso san Colombano.

    San Columba fu il fondatore, nel 563, di un importantissimo monastero irlandese nell’isola di Jona sulle coste scozzesi. Nonostante la sua dislocazione mantenne una forte giurisdizione in Irlanda.

    Non bisogna neppure scordare l’importante presenza di monasteri femminili. La prima fondazione fu opera di santa Brigida discepola di san Patrizio. Il suo monastero ebbe sede ad Ardagh. Seguirono altre fondazioni femminili tra le quali nel 470 del monastero “doppio”, ovvero maschile e femminile,  di Kildare che divenne un grande centro sia culturale che caritativo.

    San Colombano proveniente da Bangor invece fu il grande e primo propagatore del monachesimo irlandese nel continente avendo fondato lui e i suoi discepoli, durante i suoi pellegrinaggi, numerosi monasteri tra i quali occorrerà ricordare Auxerre, Luxueil, San Gallo e Bobbio.

    A tutti questi fondatori e monasteri se ne potrebbero aggiungere moltissimi altri degni di nota a testimoniare dell’enorme vitalità del fenomeno monastico irlandese a partire dal V secolo.

    Una straordinaria espansione

    Questa straordinaria espansione monastica avvenuta nell’arco di pochi decenni, vera peculiarità del monachesimo celtico, fu dunque un successo dovuto a diversi fattori tra cui il favorevole terreno socioculturale e religioso celtico in cui esso venne a stabilirsi.

    La società irlandese era di tipo strettamente patriarcale e tribale. L’economia era legata all’allevamento, alla pesca, e in minor misura, dato il contesto geografico, all’agricoltura. Non dimentichiamo poi le attività commerciali via mare. Non esistevano centri cittadini, si ignorava il concetto di stato. La cultura era di tipo orale, l’alfabeto praticamente sconosciuto (si utilizzava raramente solo quello ogamico).  La popolazione era raccolta in “clan”, ovvero gruppi familiari che includevano non solo la famiglia in senso stretto, ma anche antenati, collaterali, discendenti e parenti acquisiti, comprendendo varie decine di persone a capo di cui stava il capoclan. Più clan formavano una tribù (“tuath” in scozzese). Era al clan – e non all’individuo – che spettava la proprietà della terra: la proprietà privata vi era sconosciuta.  A capo di ogni tribù era posto un re (in gallico “rix”) con pieni diritti di vita e di morte sui sudditi. Accanto poi alla nobiltà troviamo un ruolo rilevante riservato ai “bardi” e ai “druidi”. I “bardi” erano i trasmettitori del sapere del popolo, una sorta di poeti professionisti che venivano istruiti per memorizzare e comporre le tradizioni e i miti. Essi furono stimati e protetti anche nell’epoca cristiana: san Columba più volte prese le loro difese. I sacerdoti “druidi” invece rappresentavano una casta potente e rispettata la cui influenza era non solo religiosa ma anche sociale; spesso erano anche filosofi, scienziati, maestri, giudici e consiglieri del re. La religione da essi coltivata aveva forti caratteristiche naturalistiche legate alla forza misteriose, cicliche e minacciose della natura. Una religione cupa che si scontrò, anche se non con la violenza, già  a partire da san Patrizio con l’annuncio cristiano. Scontri tra druidi e evangelizzatori,e prove di “forza spirituale” sono narrati a lungo nelle vite dei primi santi irlandesi. Anche dalla religione druidica il cristianesimo seppe utilizzare miti e espressioni religiose purificandole e rileggendole alla luce dell’evento cristiano: così ad esempio il valore simbolico delle sorgenti, di alcuni alberi, del fuoco, di alcune isole, e così via. Classico l’esempio del monastero di Kildare dove dieci monache avevano il compito di mantenere vivo perennemente un fuoco considerato sacro.

    Ora, tribù, clan e monastero in certo qual modo tendono ad equivalersi nella loro valenza sociale possedendo strutture organizzative molto simili. In entrambe ad esempio la figura del capoclan e dell’abate, ha un ruolo determinante non solo in vista dell’autorità e del potere ma della propria identificazione. Notiamo a questo proposito un particolare importante: il termine “monasterium”, in celtico “muintir”,  non definisce, come sul continente, il luogo quanto invece la comunità monastica stessa. È un dato che ci permette di comprendere come fondamentale per il monaco celtico fosse la sua appartenenza che si definiva a partire dal gruppo più che da un luogo fisico come è nell’accezione benedettina.

    Tranne qualche sporadico caso, i monasteri venivano fondati a partire da una donazione di terre ad un monaco proveniente da qualche clan, il quale ne diveniva generalmente anche abate istituendovi una sua regola. La successione degli abati prevedeva generalmente che fossero membri della medesima famiglia del fondatore facendo sì che la proprietà terriera rimanesse nell’ambito del clan in ottemperanza alla tradizione celtica che prevedeva il trasferimento del possesso fondiario solo all’interno della medesima famiglia. Questo comportava un forte legame tra monastero e tribù, e non mancano casi (come nella vicenda di san Columba e san Finnian) in cui vediamo monasteri il lotta tra loro perché coinvolti nelle vicende dei clan corrispettivi.  L’insieme delle fondazioni e dei territori facenti capo ad un’abbazia madre costituiva ciò che veniva chiamata “paruchia”: si tratta di una vera e propria circoscrizione di tipo religioso e sociale autonoma e sottomessa all’autorità dell’abate., che si trova di fatto ad avere la responsabilità di una sorta di vera e propria “tribù monastica”.

    L’organizzazione episcopale legata soprattutto al contesto e al ruolo sociale della città fu, almeno nei primi secoli, impossibile importarla in Irlanda nonostante gli sforzi di san Patrizio. Il monastero invece ben s’adattò al carattere sociale celtico: la conseguenza fu che l’abate di fatto venne a prendere il posto giuridico del vescovo al quale non rimase che un semplice ruolo liturgico e sacramentale. Non era raro che l’abate avesse tra i suoi sudditi diversi monaci consacrati vescovi. Scrive san Beda a questo proposito: “Quest’isola suole avere sempre come rettore un abate che è prete, al cui volere non solo tutta la regione è soggetta ma anche, con inusitato ordine gerarchico, gli stessi vescovi, secondo l’esempio di quel primo maestro (san Columba) che non fu vescovo, ma prete e monaco”.

    Tutti i monasteri celtici dovettero così assumersi il compito della cura pastorale delle popolazioni presenti nel loro territorio; questo fece sì che praticamente tutti i monaci fossero anche sacerdoti. Un’altra conseguenza imposta da questo dato di cose fu che la vita di questi monaci non fosse strettamente claustrale, e la “stabilitas”, caratteristica del monachesimo benedettino, non fosse considerata un obbligo monastico fondamentale.

    La struttura del monastero celtico

    Non dobbiamo immaginare un monastero irlandese sullo stile di un tipico monastero medievale. Esso assomigliava maggiormente ai primi insediamenti monastici d’oriente della valle del Nilo denominati laure.

    Anzitutto il luogo dove almeno originariamente sorgeva il monastero era sempre appartato, selvaggio, molto spesso su di un’isola. Alla fine del V sec. san Macan ci lascia una descrizione  sulla qualità del luogo da preferire: un eremitaggio solitario con “una piccola fonte dalle acque chiare, dove tutti i peccati vengono purificati dalla grazia santificante”, un boschetto piacevole “ben protetto dai venti”, con “un ruscello possibilmente ricco di trote e salmoni”, un orticello ben rasato con terra molto fertile, “buona per ogni tipo di frutti”. Un luogo dunque solitario, che faciliti il distacco dal mondo e la contemplazione e che possa assicurare nello stesso tempo il proprio sostentamento.

    Le tecniche di costruzione seguite per erigere il monastero sono quelle della società celtica e così anche la sua struttura: esso è costituito da semplici capanne rotonde di legno o pietra, abitate da due o tre monaci, raccolte attorno ad o più chiese.  Accanto alla chiesa si trova un refettorio con la relativa cucina, una biblioteca con il suo scriptorium, le officine per il lavoro perché il monastero deve sostentarsi autonomamente. Molto spesso unita al monastero troviamo la “Guest House”, la foresteria, dove gratuitamente per tre giorni e tre notti vengono accolti pellegrini e viandanti. Il tutto è circondato da un fossato e una palizzata o muraglia di difesa contrassegnata da grandi croci scolpite nella pietra.

    Solo in epoca più tarda, circa il IX sec., all’interno del recinto del monastero vengono costruire le tipiche torri coniche (ne rimangono circa 80) in pietra alte circa 150 piedi e larghe venti suddivise in sei o sette piani comunicanti da scale a pioli ed illuminate da finestre. Sono strutture difensive erette durante il periodo delle invasioni vichinghe.

    L’abito del monaco consiste in sandali, una tunica bianca (simile a quella dei sacerdoti druidi), un mantello di lana ruvida e un cappuccio. Anche la tonsura (uno dei motivi di tensione con Roma) è diversa: la rasatura dei capelli avviene solo nella parte anteriore del cranio mentre sulla nuca i capelli vengono lasciati crescere (anche questa usanza druidica).

    Circa invece il vitto è previsto un unico pasto dopo nona costituito da pane, legumi, latte e derivati, cereali, pesce. Le bevande consentite sono acqua e birra. La carne è permessa solo in occasioni speciali. Un detto monastico del periodo afferma ironicamente che il pasto consisteva in “pane, acqua,legumi oppure legumi, acqua e pane”.

    La vita monastica

    Ogni monastero adotta una sua regola e le sue consuetudini. Generalmente è lo stesso  fondatore che stabilisce la sua “regola” caratterizzata comunque da elementi comuni e sempre improntata da un grande rigore ascetico. A partire dal 590 la Regola che si affermò maggiormente non solo in Irlanda ma anche sul continente, prima ancora della Regola di san Benedetto, fu la “Regula Monachorum” redatta da san Colombano. Fu composta dal santo durante la sua permanenza nel monastero di Luxeuil, da lui fondato. Essa è articolata in dieci capitoli, è accompagnata dalla Regula Coenobialis suddivisa in due parti: la prima denominata Regula coenobialis Patrum (costoro sono i grandi fondatori monastici irlandesi che lo hanno preceduto) e la seconda Regula coenobialis fratrum. La Regula Monachorum tratta soprattutto delle virtù e della spiritualità del monaco (obbedienza, silenzio, digiuno, disprezzo dei beni terreni, ripudio della vanità, castità, preghiera, discrezione, mortificazione della superbia e dell’orgoglio, buon esempio), ma essa non ci dice quasi nulla circa alcuni aspetti concreti della vita e della struttura della comunità (es. economia, ammissione, elezione dell’abate…). La Regula Coenibialis ci appare invece come un “Penitenziale”, ovvero una raccolta di indicazioni pratiche circa le penitenze cui sottomettere il monaco in caso di mancanze alla regola. L’importanza della Regula Monachorum colombaniana è confermata dal fatto che fu approvata ufficialmente dal concilio di Macon nel 627. Ma già qualche decennio dopo sul continente ad essa fu affiancata la regola benedettina onde mitigarne il rigore. Nel 643 a Bobbio troviamo già la tipica presenza di un monastero dalla “regula duplex”: colombaniana e benedettina.

    La disciplina ascetica monastica veniva assicurata anzitutto dall’obbedienza totale e indiscussa all’abate e dall’esercizio della carità fraterna. Per Colombano la famiglia monastica si costituisce attorno alla figura e al ruolo dell’abate che raduna attorno a sé dei discepoli e costituisce insieme a loro una famiglia. Colombano sempre nella sua Regola, in cui l’obbedienza è posta non a caso al primo e ultimo capitolo, chiede al monaco un’obbedienza pronta e totale perché è chiamato ad imitare “il Cristo che ha obbedito a suo Padre sino alla morte”.

    L’abate veniva assistito nella direzione della comunità spesso molto numerose (non mancarono alcuni centri che giunsero ad avere addirittura più di mille-duemila monaci) da dei “seniores”, generalmente monaci anziani e stimati. Troviamo inoltre le figure dell’ “oeconumus” che si prende cura degli aspetti materiali della gestione della comunità, dello “scriba” probabilmente un segretario, dell’addetto agli ospiti, del cuoco, del dispensiere.

    La liturgia monastica, che vedeva i monaci radunarsi più volte a ore precise in chiesa sia di giorno che di notte, consisteva nella recita dei Salmi e nella s.Messa quotidiana privata. Alcune regole prevedevano la memorizzazione completa del salterio da parte di ciascun monaco. La liturgia veniva cantata su musiche celtiche, accompagnate dal suono della cetra, tipico strumento musicale celtico. L’ufficio notturno era il più prolungato. Colombano nella Regola  prevede sino a tre alzate notturne per la preghiera comunitaria. Da notare anche che numerosi elementi rituali e liturgici furono ripresi direttamente dalla liturgia orientale.

    Una caratteristica devozione monastica irlandese era la recita delle cosiddette “loricae” ovvero lunghe preghiere composte da numerose invocazioni ripetute. Questi testi costituiscono uno dei contributi più originali del cristianesimo celtico (la più famosa rimane quella di san Patrizio) e che si riaggancia per alcuni aspetti alla cultura druidica precristiana.

    Lo stile monastico era di stampo essenzialmente cenobitico ma dalle fonti sappiamo che molti cenobiti fin dal VI secolo lasciavano, con il permesso dell’abate, il cenobio per scegliere la vita eremitica (il loro deséart) per sempre o per tempi limitati. Questo avveniva generalmente in prossimità del monastero stesso o su piccole isole dei dintorni. Non di rado poi in questi eremi sorgevano nuovi monastero come accade ad esempio sulle isole Aran o a Clonfert.

    Lo stile di vita era contrassegnato da un forte rigore ascetico, forse con influssi semipelagiani (non dimentichiamo che Pelagio era di origine bretone). Questo aspetto è nell’immaginario collettivo forse l’elemento peculiare dell’antico monachesimo irlandese. Troviamo negli usi monastici una serie impressionante di pratiche ascetiche e penitenziali: ad esempio la recitazione di tutto il salterio con le braccia in croce (cross fighell), le restrizioni del sonno, l’immersione nell’acqua gelida. Il digiuno era previsto due giorni alla settimana (al mercoledì e al venerdì). In quaresima se ne aggiungevano altri due e uno durante l’avvento e dopo pentecoste. Di Finiann di Clonenagh, maestro di  san Comgall fondatore di Bangor il monastero di Colombano, è scritto: “Il generoso Fintan non consumò nulla nella sua vita se non pane di orzo ammuffito e l’acqua torbida dell’argilla”. Altra usanza ascetica di origine orientale era la ripetizione di numerose genuflessioni o prostrazioni: di un anacoreta si narra ne compisse settecento ogni giorno! Evidentemente l’antropologia che soggiace a tutto questo vede la carne come un nemico da combattere, cosicché la vita del monaco assume inevitabilmente i connotati di uno strenuo combattimento contro le passioni. Si tratta di un accento antropologico diverso da quella che appare nella regola di Benedetto in cui non compaiono e non vengono richieste al monaco imprese ascetiche eroiche ma sarà privilegiata la virtù dell’obbedienza e dell’umiltà. Se da un lato effettivamente vi furono eccessi in merito, non mancò anche un ridimensionamento, talvolta anche critica, delle eccessive penitenze corporali: san Colombano nella sua Regola insiste molto sulla virtù della discrezione: “Coloro che vivono senza discrezione inevitabilmente cadono nell’eccesso, il quale è sempre contrario alle virtù, che stanno in mezzo, tra due eccessi opposti” (Regola, VIII). Ma nello stesso tempo non esita a presentare al monaco un cammino quanto mai esigente, il cui obiettivo fondamentale rimane l’annientamento dell’amore al proprio io che si oppone al comandamento dell’amore di Dio e del prossimo: Il monaco in monastero viva sotto l’autorità di un solo Padre e insieme con molti fratelli, affinché impari da uno l’umiltà, da un altro la pazienza; uno gli insegni il silenzio, l’altro la mansuetudine; non faccia ciò che vuole, mangi ciò che gli è prescritto; non possieda se non ciò che ha ricevuto, compia il lavoro che gli è assegnato; sia sottomesso a chi non vorrebbe; si corichi stanco, sonnecchi camminando e sia costretto ad alzarsi quando non ha ancora finito di dormire; offeso taccia; tema chi gli è preposto al monastero come un padrone, ma insieme lo ami come un padre; creda che qualunque cosa gli comandi, è per lui vantaggiosa; non osi giudicare una decisione dei superiori, lui il cui dovere è obbedire e di compiere ciò che è giusto, secondo le parole di Mosè: Ascolta Israele! (Dt 6,4), con quel che segue” (Regola, X).

    Certamente ci si presenta una vita contrassegnata da un grande rigore ascetico, ma non privo di aspetti di grande tenerezza. San Columba chiamava i suoi monaci “i miei bambini”. Leggendo la regola di san Colombano e le istruzioni è possibile intravvedere il suo desiderio che nella comunità si viva nell’armonia, nel perdono vicendevole e nell’attenzione premurosa a non ferire l’altro con parole o gesti. Nell’XI “Istruzione” Colombano scrive: “L’amore non è una fatica; l’amore è quanto vi è di più dolce, di più salutare, di più sano per il cuore. Se infatti il cuore non è ormai esanime per i vizi, la guarigione per esso sta nell’amare e in ciò che piace a Dio; tuttavia niente è più gradito a Dio che l’amore”.

    Interessante poi vedere come questa stessa tenerezza si allarghi fino a comprendere anche la natura, in particolar modo gli animali. A questo proposito l’aneddotica agiografica presenta tratti che la avvicinano moltissimo al francescanesimo, notevole ad esempio la scena in cui il monaco Giona descrive san Colombano nella “Vita” in cui il santo monaco è presentato quasi un nuovo Adamo nel giardino terrestre prima del peccato: “Un discepolo attestava di aver sovente visto che, quando si ritirava in solitudine per digiunare e pregare, nelle sue passeggiate era solito chiamare a sé gli animali selvatici e gli uccelli; accorrevano essi al suo cenno, e lui li toccava accarezzandoli con la mano. Da parte loro, le fiere e gli uccelli gli saltellavano attorno, al colmo della gioia… Il medesimo testimone assicurava di aver visto spesso quella bestiola che si chiama comunemente scoiattolo, lanciarsi giù, al suo richiamo, dalle cime più alte degli alberi, accovacciarglisi nella mano, saltargli al collo, entrargli in seno e sgusciarne fuori” (cap. XV).

    Altro aspetto peculiare del monachesimo irlandese fu l’usanza della manifestazione-confessione spesso quotidiana dei pensieri e azioni del singolo monaco, fatta al proprio padre spirituale (anmachah). Per facilitare il compito del padre spirituale furono redatti i minuziosi Penitenziali dove ad ogni colpa, ma tenendo conto con sano realismo di tutte le attenuanti e condizionamenti, veniva corrisposta la pena conseguente. A questa prassi si sottomisero non solo i monaci ma poco a poco anche i laici. Dobbiamo riconoscere che i “Penitenziali”, nonostante i loro limiti oggettivi, furono ottimi strumenti di direzione spirituale che permisero di affinare la coscienza morale e religiosa dell’occidente cristiano Ricordiamo che proprio a partire da quest’usanza monastica irlandese andò configurandosi la prassi del sacramento della confessione individuale come è da noi ancora oggi conosciuta e praticata.


    La “Peregrinatio pro Christo” e i suoi risvolti missionari

    Vogliamo accennare ad un aspetto importante relativo all’ascetismo monastico irlandese: la “peregrinatio pro Christo” o “peregrinatio pro amore Dei”. Alcuni cronisti narrano che nell’anno 891 alcuni monaci irlandesi approdarono sulle coste della Cornovaglia dentro un “curragh” senza remi: “essi desideravano – precisa il cronista – esiliarsi per amore di Dio”. Molti monaci irlandesi dal VI al XI secolo abbracciarono la peregrinatio come particolare forma ascetica. Essa era di origine orientale, era denominata xenetèia ovvero vivere da stranieri. Questi monaci decidendo di abbandonare  definitivamente la propria patria sceglievano come loro “diseart” la navigazione lasciandosi trasportare dalle correnti di fiumi o mari; poco importava loro dove sarebbero approdati: l’importante era abbandonarsi alla volontà di Dio.

    Tra i primi monaci pellegrini ricordiamo il monaco San Cataldo, discepolo di san Patrizio, che dopo un pellegrinaggio in Terra Santa divenne vescovo a Taranto, e poi San Columba che accettò sotto obbedienza questa forma ascetico-penitenziale recandosi in Scozia fondandovi il monastero di Jona. Il monaco Giona scrive del suo maestro san Colombano, il più celebre pellegrino per le vie dell’Europa: “Egli fu preso dal desiderio di divenire pellegrino ricordando che il Signore diede questo comando ad Abramo:” Lascia il tuo paese, la tua famiglia e la casa di tuo padre e va verso il paese che io ti indicherò” (Vita I,4).  Sempre nella Vita è scritto: “Avendo riconosciuto che la volontà del giudice clemente è con loro, salirono su una nave e si avventurarono sui flutti lungo rotte sconosciute” (1,4).

    Ma il racconto più famoso e fantastico (ma nulla toglie ad un suo fondamento storico), un vero e proprio bestseller medioevale del IX sec, rimane certamente la “Navigatio Sancti Brandani”. Si tratta di un racconto leggendario che tuttavia reca traccia di un effettivo pellegrinaggio compiuto dall’abate Brandano. Il genere letterario celtico precristiano dell’ “Immram”, ovvero del viaggio fantastico e avventuroso dell’eroe, viene qui utilizzato per descrivere le grandi gesta di un nuovo eroe: il santo, il nuovo eroe della fede. La Navigatio sancti Brandani narra la vicenda del monaco Brandano che con un gruppo di altri dodici monaci (il numero non è casuale e ricorre in altri testi agiografici) lascia il suo monastero imbarcandosi per raggiungere l’Isola dei Beati, una sorta di anticamera del paradiso, che un eremita gli aveva narrato essere al di là del mare. Essi viaggiano per sette anni di isola in isola incontrando meraviglie, pericoli e mostri. Dopo essere sfuggiti alle bocche dell’inferno, un’isola di fuoco attorniata da un mare in ebollizione (probabilmente un vulcano islandese), essi giungono finalmente alla Terra dei Beati. Dopo averne gustato le delizie finalmente tornano, con un viaggio di altri sette anni, portando con sé frutti e pietre preziose.

    L’idea di fondo che sottostà alla scelta del farsi pellegrini verso il regno di Dio vuole essere un rivivere nella propria carne e nella propria storia l’esperienza di fede del grande patriarca Abramo in cammino verso la terra della promessa.

    Una fede dunque che non rimane un assunto di verità astratte a cui aderire solo mentalmente ma che si trasforma in un invito a farne concretamente esperienza.  Illuminante un passo delle Istruzioni di san Colombano: “Occupiamoci dunque delle cose divine per non rimanere legati alle cose umane; e così come veri pellegrini sia sempre presente in noi l’anelito alla patria e la sua nostalgia sempre ci sospinga. I viandanti desiderano ardentemente la fine della via, per cui anche noi, che siamo viandanti e pellegrini, riflettiamo incessantemente sulla meta del cammino, cioè della nostra vita: la meta della nostra via, infatti, è la nostra patria… Non amiamo dunque la via più della patria per non perdere la patria eterna; la nostra patria è tale che è nostro dovere amarla. Conserviamo perciò salda in noi questa convinzione così da vivere nella via come viandanti, come pellegrini, come ospiti del mondo” (cap. VIII).

    Monaci evangelizzatori

    Una conseguenza importante e provvidenziale di queste “peregrinazioni monastiche” verso terre ignote fu che questi monaci pellegrini si trasformarono, si direbbe loro malgrado, in evangelizzatori o rievangelizzatori delle terre sulle quali approdavano divenendo nello stesso tempo propagatori del loro ideale monastico.

    Saranno frutto di queste “peregrinatio” i numerosi monasteri fondati da san Colombano e dai suoi discepoli che di fatto, non scordiamolo, rappresentano la prima diffusione monastica sul continente europeo: possiamo trovare infatti la loro presenza non solo in Gallia, Germania, Svizzera, Belgio, Italia ma anche in Ungheria, Groenlandia e fino in Russia nei pressi di Kiev.

    Questa evangelizzazione dei monaci irlandesi andò incrociandosi con la simmetrica diffusione monastica benedettina che invece risaliva il continente mentre quella irlandese lo discendeva, dando così vita simultaneamente alla cristianitas medievale europea (la stessa denominazione di Europa data al nostro continente è testimoniata per la prima volta proprio da san Colombano in una sua lettera indirizzata al papa Gregorio Magno).

    È possibile affermare che l’opera dei monaci irlandesi di fatto precedette e preparò il lavoro che fu successivamente dei monaci benedettini. Lo spirito di ordine e di organizzazione del filone monastico benedettino non avrebbe potuto probabilmente portare tutti i suoi frutti se non fosse stato preceduto dall’azione ardente, e se vogliamo avventurosa e focosa, dei monaci irlandesi.

    A questa loro missionarietà, essendo non voluta come obiettivo primario, mancò l’aspetto organizzativo e il loro metodo missionario rimase troppo individualistico. Questi furono i suoi punti deboli che ne determinarono il veloce tramonto: l’attività missionaria irlandese iniziò a declinare già poco dopo la morte di san Colombano.

    Ma ciò nulla toglie al ruolo fondamentale che di fatto essa ebbe nell’evangelizzazione dell’Europa favorendo così la formazione delle sue comuni radici.

    Centri di cultura

    Non possiamo non accennare infine al ruolo altrettanto fondamentale che il monachesimo irlandese svolse in ordine alla produzione e conservazione del patrimonio culturale della latinità e cristianità. Mentre il resto dell’Europa conosceva il declino della civiltà romana e il buio culturale dei secoli V e VI, l’Irlanda divenne, proprio grazie ai suoi centri monastici, pressoché l’unico luogo in cui la cultura veniva preservata e promossa.  Questo fu reso possibile dal fatto che sin dall’inizio i monasteri assunsero la fisionomia non solo di importanti luoghi spirituali ma anche di formidabili centri culturali capaci di irradiare la loro azione non solo in Irlanda, bensì in tutto il continente europeo.

    Di fatto i monasteri divennero proprio in quei secoli i primi grandi centri abitati d’Irlanda, trasformandosi non rare volte in vere e proprie cittadelle universitarie a cui approdavano non solo monaci ma bensì anche laici desiderosi di una solida formazione provenienti non solo dall’isola ma anche da tutta Europa. Ciò era molto ben visto se un monaco scrive che i monasteri accoglievano tutti “molto benignamente e davano loro gratuitamente il cibo per il giorno e i libri per studiare, e inoltre li istruivano senza compenso”. Come non ricordare che John Scoto Eriugena insegnante di filosofia a Parigi, e Dagoberto II e Alfredo re di Francia furono tra gli alunni di monasteri irlandesi. E così anche Dungalo monaco a Bangor, che nel 782 divenne preside della scuola palatina  la futura università di Parigi, e che fu poi inviato da Carlo Magno a Pavia per dirigervi anche là la scuola palatina che divenne successivamente l’università? Anche lo stesso Alcuino consigliere di Carlo Magno fu educato nell’ambito del monachesimo irlandese.

    Uno strumento essenziale che rese possibile tutto questa fecondità culturale fu l’introduzione in Irlanda dell’alfabeto latino e della sua scrittura: anche l’antica cultura celtica quasi completamente affidata alla sola memoria dei bardi veniva così salvaguardata: non possederemmo infatti il vasto patrimonio culturale celtico precristiano se non vi fosse stato l’intervento della cultura monastica. La cultura monastica celtica non distrusse la cultura precedente ma seppe conservarla, purificarla e trasmetterla. Ma non solo: anche la maggior parte dei testi classici storici, poetici e filosofici della latinità sono giunti a noi solo grazie alle trascrizioni avvenute nell’ambito dei monasteri irlandesi a scopo formativo.

    Ovviamente lo studio della Sacra Scrittura formava la base di ogni studio e insegnamento. Lo studio dei classici, della grammatica, filosofia, astronomia, aritmetica era in vista dell’approfondimento scritturistico perché, non dimentichiamolo, la scuola monastica era ed è  in primo luogo una “scuola” di ascesi e di vita cristiana. Infatti la maggior parte dei primi commentari biblici altomedievali tra il 650 e l’850 furono scritti da monaci irlandesi.

    Ma attenzione: la cultura monastica irlandese non fu solo ripetitiva: l’incontro tra la cultura celtica con la cultura latina e la tradizione orientale fece sì che, nei secoli d’oro del monachesimo, in Irlanda nascesse una cultura originale capace di esprimere in modo creativo l’incontro di queste altre culture.  Sicuramente l’arte della miniatura esprime emblematicamente la capacità di assumere e rileggere dati culturali celtico-precristiani, latini e orientali in una sintesi di straordinaria bellezza e creatività: basti osservare quei capolavori che sono i manoscritti di Durrow (a. 680) o di Kells (VIII sec.) .

    Questa felice simbiosi si riscontra anche nella “Celtic Cross”. È una croce scolpita su pietra composta dall’intersezione di una croce cristiana con un cerchio quest’ultimo simbolo celtico della terra e del sole e dunque del ciclo continuo della vita e della morte. Questo ciclo infinito pregno di angoscia rappresentato dal cerchio trova nel cristianesimo il proprio centro e la soluzione: il Cristo ci appare vincitore e giudice. Sui lati vengono scolpiti generalmente altri elementi: apostoli, santi, scene della vita della Bibbia. Ma non mancano straordinarie riprese di motivi geometrici celtici. Ormai l’accesso alla conoscenza è aperta a tutti, senza quella segretezza iniziatica caratteristica del druidismo..

    Conclusione

    L’evoluzione del monachesimo celtico fu molto veloce, ma altrettanto veloce fu il suo declino. Già nel 664 l’importante sinodo di Whitby aveva iniziato l’operazione di assimililazione del cristianesimo celtico con la Chiesa cattolica romana: risolvendo a favore di quest’ultima i problemi man mano sorti che rappresentavano motivi di tensione (il ruolo del vescovo, la data della pasqua, la tonsura, il rito del battesimo e dell’ordinazione episcopale, ecc…).

    Anche la regola monastica colombaniana ben presto venne di fatto a trovarsi accompagnata e poi sostituita da quella benedettina. Nel XIV e XV secolo molti antichi monasteri irlandesi erano in declino, sia per carenza di disciplina religiosa o per difficoltà economiche, sia per mancanza di monaci: per questo motivo i monasteri vennero per lo più ripopolati con monaci di altra origine, mentre altri furono soppressi. Nel 1862 papa Pio IX soppresse l’ultimo monastero irlandese in Germania.

    Ciò tuttavia nulla toglie al ruolo decisivo che, anche se durato pochi secoli, seppe avere anche la cultura monastica celtica in ordine alla costruzione di quella christianitas radice dimenticata della cultura e dell’identità europea. Scrissero nel ‘73 i vescovi irlandesi in occasione dell’entrata dell’Irlanda nell’’Unione Europea: “Anche se la nostra è una piccola nazione, noi non siamo mai andati in Europa mendicando col berretto in mano, ma vi siamo andati ai tempi di san Colombano e San Cataldo con la testa alta, perché avevamo molto da dare e da portare. …La nostra parte in Europa è stata sempre da un punto di vista spirituale e culturale più che politico ed economico, una voce che si leva a favore dei valori perenni e della speranza cristiana”.

    Un ruolo decisivo dunque quello del monachesimo irlandese, unitamente a quello di Benedetto, Cirillo e Metodio; un ruolo che speriamo sia riconosciuto anche ufficialmente dalla Chiesa Cattolica con la proclamazione di san Colombano compatrono d’Europa, e un ruolo che venga riconosciuto speriamo anche dalla cultura “laica” che con verità sappia vedere nell’opera di tutte queste grandi figure quella base di valori e ideali forti che hanno permesso alla nostra Europa di crescere nella consapevolezza della sua identità che speriamo non venga relegata ai soli aspetti economici, pena il suo declino.


    Appendice: l’abbazia di Borzone fondazione colombaniana?

    Vorrei fare un accenno a quello che potremmo definire un contenzioso storico tuttora irrisolto: mi riferisco alla fase di fondazione del monastero di Borzone situato sull’Appennino Ligure, nella Val Sturla, nell’entroterra di Chiavari. La presenza monastica benedettina è certa a partire dal 1184, data in cui i monaci provenienti dall’abbazia francese della Chaise Dieu (dal nome dell’Abbazia  madre situata nell’Alvernia e allora già largamente rappresentata in Italia con diverse fondazioni) prendono possesso del monastero e dei suoi territori.

    Il periodo antecedente a questa data è invece oscuro mancando una documentazione certa. Ma nello stesso tempo diversi elementi fanno supporre una precedente presenza monastica. Ma di che tipo?

    Varie ipotesi sono stante tentate: si trattava di una dipendenza colombaniana di Bobbio o di s. Pietro in Ciel d’Oro a Pavia? Non mancano alcuni che affermano una presenza monastica bizantina o di un insediamento ariano. La stessa datazione dell’edificio della chiesa è tuttora motivo di discussione: si va dal V al XIII secolo! La maggior parte degli studiosi tuttavia data l’edificio intorno all’VIII-IX sec.

    Sembra che nel luogo in cui sorge l’abbazia di Borzone i Bizantini avessero eretto al tempo della “guerra gotica”, nella prima metà del VI sec., un baluardo difensivo e doganale sede di un distaccamento militare, a presidio di un itinerario transappenninico (le famose “vie del sale”) che dalla regione rivierasca conduceva in Val Padana. Di questo insediamento militare sembrerebbe rendere testimonianza parte della struttura dell’antica torre campanaria.

    Quando e da chi sulle rovine della fortezza bizantina fu edificata la chiesa con annesso monastero col titolo originario di s. Giorgio e successivamente di Sant’Andrea continua, come detto, ad essere motivo di incertezza e discussione storica.

    Due documenti, anche se controversi storicamente, attesterebbero la presenza di un nucleo monastico a Borzone di antica data: il primo è del 774 in cui Carlo Magno delimitando la giurisdizione del monastero di Bobbio, il quale nel VIII-IX secolo aveva esteso la sua influenza in tutta la Val Sturla sino al mare, cita Borzone, e il secondo è del 972 in cui Ottone I riconferma la giurisdizione di Bobbio citando espressamente “il monastero e la villa di Borzono“. Ma il primo documento certo che menziona chiaramente il monastero di Borzone è una bolla di papa Callisto II (1119-1124) dell’11 aprile 1120 che ne conferma il possesso all’Abbazia di San Pietro in Ciel d’Oro di Pavia essa pure colombiniana per dotazione del re longobardo Liutprando (712-744).  Sembra dunque più che plausibile indicare, come d’altronde un’ininterrotta tradizione locale  conferma,  che Borzone sia stata all’origine una fondazione colombaniana probabilmente (e stranamente!) dipendente direttamente dall’abbazia di San Pietro in Ciel d’Oro a Pavia.

    Le circostanze per cui il nome del monastero di Borzone non compaia negli antichi documenti bobbiesi insieme con l’altra che la bolla papale citi invece Borzone  assieme ad altre dipendenze pervenute all’abbazia pavese proporrebbero una datazione dell’origine di Borzone intorno alla prima metà dell’VIII secolo. Se tali ipotesi corrispondono a verità, anche il suo assoggettamento alla ricca e potente abbazia di Pavia potrebbe risalire alle origini, ovvero come detto alla prima metà dell’VIII sec., ad opera dello stesso re Liutprando.

    Venendo poi meno a Borzone l’originaria presenza monastica colombaniana l’arcivescovo di Genova Ugo della Volta (1163-1188) accolse, nel 1184, la richiesta di Lantelmo undicesimo abate de “La Chaise Dieu” di poter attuare una fondazione anche in Liguria. Da questa data la storia dell’Abbazia di Borzone si fa finalmente esplicita.

    Ma per ora l’“enigma Borzone” permane. Agli storici… l’ardua sentenza.


    BIBLIOGRAFIA  ESSENZIALE

    Giona di Bobbio, Vita di san Colombano e dei suoi discepoli, a cura di i. Biffi e a. Granata, Milano 2001.

    J. Le Goff, Il Medioevo. Alle origini dell’identità europea, Ed Laterza

    O. Loyer, Les chrétientés celtique, Paris 1965

    L. Dattrino, Il primo monachesimo, Roma 1984, pp. 64ss.

    San Patrizio, Gli scritti di san Patrizio. Alle origini del cristianesimo irlandese, Roma 1985

    K. Bihlmayer-H.Tyechle, Storia della Chiesa, Vol. I, pp. 285-6 Brescia 1986

    A. Magnani, La navigazione di San Brandano, Palermo 1992

    C. H. Lawrnce, Il monachesimo medievale-Forme di vita religiosa in occidente, Cinisello Balsamo, 1993

    San Colombano, Istruzione e Regola dei monaci, Seregno 1997

    T. Cahill, Come gli irlandesi salvarono la civiltà. La storia mai raccontata del ruolo eroico dell’Irlanda dal crollo romano alla nascita dell’Europa medievale, Roma 1997
    H. Absconditus, Dio è corazza dei forti-Testi del cristianesimo celtico (VI-X sec.), Rimini 1998

    P. Deseille, Il vangelo nel deserto, Qiqaion, 2000, pp. 109-114

    G. Iorio, Terra di san Patrizio, storia dell’Irlanda medievale, Rimini 2005

    J. J. O’ Riordain, I primi santi d’Irlanda – vite e spiritualità, Milano 2005

    AA.VV, San Colombano abate d’Europa, Forlì 2007

    M. Pacaut, Monaci e religiosi nel medioevo, Mulino, 2007

    O. Garbarino, La vicenda architettonica della chiesa dei ss. Giorgio e Andrea di Borzone e alcune riflessioni sui caratteri delle plebs militari longobarde in Monaci, milites e coloni, Genova, 2000

    D. Citi, Guida all’abbazia di Borzone, Genova 1994

  • 17 Feb

    IL COMPIMENTO

    10. “Come io vi ho amato,

    così amatevi anche voi gli uni gli altri”


    “Io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”.  Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me”.  Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga” (1Cor 11,23-26).

    Questo racconto di s. Paolo è la più antica testimonianza che possediamo sull’ultima cena. Fu scritto intorno agli anni 55-57, prima del vangelo di Marco. E’ perciò molto importante.

    Questo testo si trova al centro di un vasto contesto che ha per scopo il reprimere un abuso sacrilego che si era introdotto, presso i Corinzi, nella celebrazione dell’agape cristiana.

    La partecipazione all’eucaristia sa di sacrilegio, se manca la preoccupazione per il pane degli uomini. Il segno suona falso nella misura in cui non viene posto il problema di sapere, se il pane è guadagnato nella giustizia o a detrimento del pane degli altri.

    Il cristiano, che dovesse accostarsi all’eucaristia senza preoccuparsi della giustizia e dell’amore nel lavoro, sarebbe vittima d’uno spiritualismo tanto pericoloso per la coscienza quanto il materialismo

    Questo sacrilegio – l’unica comunione sacrilega che la Scrittura colpisce direttamente – non consiste nell’aver rotto il digiuno o divagato su “pensieri cattivi”. E’ il sacrilegio di aver rotto la pace e la comunione fraterna! Di aver trascurato il fratello bisognoso.

    “Non posso lodarvi per il fatto che le vostre riunioni non si svolgono per il meglio, ma per il peggio.  Innanzitutto sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi, e in parte lo credo.  E’ necessario infatti che avvengano divisioni tra voi, perché si manifestino quelli che sono i veri credenti in mezzo a voi.  Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. (Invece di radunarvi insieme e di mettere tutto in comune nell’uguaglianza), ciascuno, quando partecipa alla cena, prende prima il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco.  Volete gettare il disprezzo sulla chiesa di Dio e far vergognare chi non ha niente? Ricordatevi che cosa state compiendo, secondo l’insegnamento che vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane, lo spezzò… Chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore.  Chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna” (1Cor 11,17-29).

    I primi cristiani erano entrati con gioia (At 2,42ss; 4,32ss), forse anche con un po’ di ingenuità, nelle esigenze che l’eucaristia comporta: condividevano tutto e tutto mettevano in comune.  E la messa non era una “cerimonia” fuori della vita; era un pasto fraterno in cui ciascuno portava ciò che poteva e dove, nella condivisione della parola, degli inni rituali e dei viveri, venivano consacrati e “spezzati” per ciascuno il pane e il vino: il corpo e il sangue del Signore.

    La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune… Nessuno infatti era tra loro bisognoso, perché quanti possedevano campi o case, li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno. (At 4,32-35)

    L’eucaristia era chiamata la “frazione del pane”, in ricordo del gesto abituale e caratteristico di Gesù.  Questa idea della condivisione, infatti, era totalmente naturale, quasi automatica, per coloro che credevano al Corpo donato e al Sangue versato del Salvatore, presenti nel pane e nel vino.

    In seguito, si sono costruite chiese meravigliose e organizzate stupende liturgie. Ma Cristo non ha offerto il suo unico sacrificio nello sfarzo, bensì in un realismo spoglio e terribile: nella nudità del suo corpo ferito e trafitto: “Questo è il mio corpo spezzato.  Questo è il mio sangue versato”.  Questa è la messa, la nostra messa; oppure non è nulla, per noi, come per lui.

    Cristo non si è accontentato di parole.  Per questo ha istituito i sacramenti, soprattutto l’eucaristia, in simboli molto vicini alla vita di ogni giorno: perché i sacramenti devono cambiare la vita.

    Si prende il pane, lo si spezza, lo si condivide, perché il Signore ha istituito il sacramento dell’eucaristia affinché noi, divenuti veramente una cosa sola con Gesù sacrificato, condividiamo poi, con tutti, quanto è rappresentato dal pane e dal vino, tutto ciò che procura nutrimento e gioia agli uomini, tutto ciò che fa vivere e vivere bene, tutto ciò che rende felici e liberi.

    Senza dubbio lo dicevano anche i Corinzi, ma facevano il contrario.  C’erano i ricchi e i poveri, e disprezzo dei poveri da parte dei ricchi.  Allora Paolo interviene: “Non è più un’eucaristia!”.  Perché?  “Perché vi sono divisioni tra voi”.  E disuguaglianza clamorose: “Uno ha fame, l’altro è ubriaco”.

    Paolo non biasima i destinatari per un errore concernente la dottrina.  Rimprovera loro di non comprendere le implicazioni che l’eucaristia comporta nella vita del cristiano e della comunità.  La frazione del pane consacrato, atto di fede nel sacrificio di Gesù, è anche, in maniera indissolubile, un atto di perdono e di condivisione.

    Delle due l’una: o Dio è un dio ingiusto che dà l’abbondanza alla Svizzera e le carestie al Pakistan o al Brasile (ma sappiamo d’altra parte che Dio è il Padre di Gesù Cristo, che ha rifiutato l’ingiustizia e ha dato la sua vita per tutti gli uomini); oppure Dio vuole che tutti gli uomini sazino la loro fame, ma vuole anche che noi partecipiamo al suo disegno di salvezza.  Sappiamo che Dio non farà piovere dei pani sugli indiani o gli africani. Il solo mezzo che Dio ha scelto per nutrire quelli che hanno fame è che noi, a corto termine, li aiutiamo a fare a meno di noi mediante l’istruzione, l’acquisto delle loro risorse a prezzo remuneratore e facendo dei prestiti a lungo termine e a basso interesse.

    I ricchi di Corinto credono di poter ricevere con i loro fratelli poveri il corpo di Cristo, pur rifiutando di condividere con essi i loro beni.  Ma questo è impossibile.  Non si può ricevere il Cristo condiviso (anche se non diviso: è tutto in tutti), senza condividere ciò che si possiede.  Non si può mangiare insieme lo stesso “pane”, senza essere veramente fratelli, senza rinunciare ai propri privilegi, senza vivere un’alleanza nell’amore, senza formare realmente “un solo corpo”.  Altrimenti, “si mangia il pane e si beve il calice del Signore in modo indegno, diventando così rei del corpo e del sangue del Signore”.

    L’apostolo è forse un po’ troppo severo? I ricchi di Corinto mancano gravemente ai loro doveri sociali.  Ma ciò è sufficiente per affermare che “gettano il disprezzo sulla chiesa di Dio” e che la loro messa “non è più un mangiare la cena del Signore”?

    Crediamo che Paolo, ispirato dallo Spirito santo, abbia ben pesato le parole: ai suoi occhi e agli occhi di Dio, la tenacia dei rancori, il rifiuto della condivisione, l’egoistico mantenimento dei privilegi, comportano una rottura della comunione con Cristo e i cristiani.

    “Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?  Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (10,16-17).

    La non-condivisione porta perciò la contraddizione al cuore stesso del sacramento.

    Ci si preoccupa molto dell’ortodossia della dottrina, dell’uniformità liturgica.  Potrebbe essere un comodo alibi, se non si è prima ancora più esigenti per una conversione evangelica!

    Si celebrano troppe messe i cui partecipanti vivono consapevolmente o meno situazioni di ingiustizia, di rifiuto, di non perdono, di divisione… che è un rifiuto della condivisione, al punto che s. Paolo si rifiuterebbe di riconoscere in esse la cena del Signore… Che cosa ne pensa lo Spirito?

    Nello stesso ordine di esigenze eucaristiche, troviamo altre indicazioni ancor più brucianti del ferro arroventato portato da Paolo sulle piaghe di Corinto… e sulle nostre.

    S. Giovanni, che ha annunciato e commentato così a lungo il pane di vita (6,22ss), ci sorprende per il suo silenzio sull’istituzione di questo sacramento.  Ci sorprende ancor di più per il fatto che lo sostituisce con un racconto sconvolgente che ne precisa l’impatto: dove porta una vera eucaristia?

    “Mentre cenavano, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre” e perciò di dare il colpo definitivo; “sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani”, che cosa fa Gesù con le sue mani?  “Gesù si alza da tavola e, preso un asciugatoio, se lo cinge attorno alla vita; poi comincia a lavare i piedi dei discepoli” (Gv 13,1-5).

    Lavare i piedi degli altri?  Un lavoro da schiavi!  Anzi, neppure: non lo si poteva imporre a uno schiavo ebreo.  E che dire d’un maestro che lava i piedi ai discepoli?  Follia impensabile!  Invece no: lezione profetica, lezione di cose:

    Voi mi chiamate maestro e Signore e dite bene, perché lo sono.  Se dunque io, il signore e il maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri.  Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi.  In verità, in verità vi dico: un servo non è più grande del suo padrone” (13 -16).

    Pagare di persona, nei servizi più umili e più pesanti: questo è lasciar vivere in sé il Cristo che si è mangiato, “corpo donato, sangue versato per molti”.

    Subito dopo, attorno alla tavola eucaristica, i dodici arriveranno a litigare per il primo posto.

    “Chi è il più grande tra voi”, dirà Gesù, “diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve.  Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve?  Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,24-27).

    Perciò “chi vuol essere il primo tra voi, sarà il servo di tutti.  Il figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,44-45).

    E’  il “Servo” annunciato da Isaia 53

    S.  Paolo riassume così la legge eucaristica della lavanda dei piedi: “Mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri (Gal 5,13).

    “Figlioli, ancora per poco sono con voi… Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri.  Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,31ss).

    Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati.  Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici.  Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando… Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri. (Gv 15,12-17)

    Questo “gli uni gli altri” ‘ ripetuto attorno alla prima tavola eucaristica, rinvia ai partecipanti della stessa tavola eucaristica.

    Si amano essi tra loro?

    Perché è questo il “segno” della “chiesa una”.  Non ce n’è un altro.

    “COME IO VI HO AMATI, COSI’ AMATEVI ANCHE VOI GLI UNI GLI ALTRI”

    Coloro che ricevono l’Eucaristia sono più strettamente uniti a Cristo. Per ciò stesso, Cristo li unisce a tutti i fedeli in un solo Corpo: la Chiesa. La Comunione rinnova, fortifica, approfondisce questa incorporazione alla Chiesa già realizzata mediante il Battesimo. Nel Battesimo siamo stati chiamati a formare un solo corpo. L’Eucaristia realizza questa chiamata: “Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il Sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il Corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1Cor 10,16-17)…

    L’Eucaristia impegna nei confronti dei poveri. Per ricevere nella verità il Corpo e il Sangue di Cristo offerti per noi, dobbiamo riconoscere Cristo nei più poveri, suoi fratelli (cfr. Mt 25,40).

    Tu hai bevuto il Sangue del Signore e non riconosci tuo fratello. Tu disonori questa stessa mensa, non giudicando degno di condividere il tuo cibo colui che è stato ritenuto degno di partecipare a questa mensa. Dio ti ha liberato da tutti i peccati e ti ha invitato a questo banchetto. E tu, nemmeno per questo, sei divenuto più misericordioso (s. Giovanni Crisostomo).

    Catechismo della Chiesa Cattolica, 1396-1397

    ***

    L’eucaristia è segno di condivisione di fede e di vita, non si possono disgiungere questi due elementi. Divenuti una cosa sola con Cristo sacrificato, condividiamo poi, con tutti quanto è rappresentato dal pane e dal vino: ovvero la vita. E’ sacrilega dunque l’eucaristia celebrata nella divisione, nel rifiuto, nel disprezzo dell’altro.

    Cfr       1Cor 11,17-29

    1Cor 10,16-17

    At 4,32-35

    ***

    San Giovanni riportando il racconto dell’ultima cena, presenta l’eucaristia attraverso il gesto della lavanda dei piedi e della consegna del comandamento nuovo. E’ questa la sua grande catechesi sull’eucaristia.

    Cfr       Gv 13,1-16

    Gv 15,12-17

    Lc 22,24-27

    Mc 10,44-45

    Gal 5,13

  • 16 Feb

    IL COMPIMENTO

    9. NUOVA ED ETERNA ALLEANZA CON I “DODICI”

    L’eucaristia è il sacramento dell’amore di Dio.

    Con una convinzione esultante e non sradicabile prendiamo coscienza  che Dio crea l’universo solo per unire a sé nell’amore tutti gli uomini.  Per renderli partecipi di tutta la sua vita, compresa la divinità.  Per diventare egli stesso partecipe di tutta la loro vita di uomini,

    Questo è il grande amore: un matrimonio, l’alleanza. Dio si incarna per sposare l’umanità.

    Viene a cercare la sua povera fidanzata là dov’essa è, dove non può non essere: nella condizione di creatura; per “farla passare” alla condizione divina. E’ “la pasqua”! Insieme “passano da questo mondo al Padre”; e lo sposo conduce, innalza la sposa: “Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato, siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato; poiché tu mi hai amato prima della creazione del mondo” (Gv 17,24).

    L’antico testamento, attraverso il quale ci viene raccontata la storia in cui Dio e l’uomo si cercano, s’incontrano, fanno conoscenza, si frequentano, si fidanzano, diventano “sposi” nel senso di “promessi”, questo testamento è nell’ordine delle preparazioni: non ci lascerà a metà strada in questa storia d’amore; è l’aurora dell’incarnazione di Dio e, con e in Gesù, avranno luogo le nozze eterne.

    C’è un vecchio libro di Fornari, sempre bello da leggersi che dice, cominciando la storia del Cristo, press’a poco così: “Gesù è giunto a noi come un uomo che viene da lontano e in un primo momento s’odono i suoi passi come un rumore appena percettibile, poi sempre più sicuri sino a che si comprende ch’egli è presente tra noi”.  Ecco la storia della redenzione che possiamo ritrovare riaprendo il Libro che è rimasto troppo a lungo chiuso per noi: l’antico testamento con i suoi personaggi, con le sue approssimazioni che annunciano il Cristo che s’avvicina a noi. (Paolo VI)

    Si tratta dunque d’un vero e proprio matrimonio?

    Si tratta dell’unico matrimonio vero e proprio! Gli altri – anche i nostri più bei matrimoni terreni – ne sono soltanto una pallida e lontana immagine, una scintilla della “fiamma di Jahvé”, dice il Cantico dei Cantici.  Dio si incarna per sposare l’umanità nel senso più forte del termine, cioè per fare eternamente con essa un unico essere, un’unica carne:

    I due formeranno una carne sola”

    “lo sono nel Padre e voi in me e io in voi” (Gv 14,20).

    Non con un abbraccio passeggero e, tutto sommato, superficiale, in cui ognuno resta esterno all’altro, ma con una sorta di fusione che è comunione intimissima tra due esseri. Il desiderio dell’amore è la fusione: sussistere unicamente per donarsi, per “passare” totalmente all’altro, per lasciarci consumare dall’altro, diventando in qualche modo suo cibo, il pensiero del suo spirito, il cuore del suo cuore, la carne della sua carne; e reciprocamente, accogliere totalmente l’altro, perché nulla di lui mi resti estraneo, perché egli formi un tutt’uno con me.  Fusione, senza confusione.

    Il gesto dell’amore, il bacio, è già più simbolico del mangiare e del bere: è meno pregnante.  Il mangiare e il bere sono i simboli più forti dell’intimità.  E l’intimità di coloro che si amano non è forse il primo cibo?  Non è la vita stessa?

    Il desiderio dell’amore è la fusione, senza confusione; ed è questo il desiderio di Dio stesso, folle d’amore per l’umanità.

    Così, il famoso testo biblico e il grande mistero che esprime: “I due formeranno una carne sola” – non riguardano innanzitutto i matrimoni dei figli e delle figlie di Adamo.  “Lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesaproclama s. Paolo (Ef 5,31-32).

    Purtroppo, l’ardente desiderio dell’amore umano – formare un tutt’uno – non si realizza mai completamente e definitivamente.  Per fondersi veramente, sarebbe necessario morire a questo corpo che divide più di quanto unisca.

    Soltanto Cristo, poiché è Dio, può fare un’unica cosa con l’umanità sua fidanzata; solo lui può essere per lei la carne della sua carne, donandosi a lei come un “vero cibo”.

    E’ necessario, certamente, ch’egli muoia allo stato corporale di questo mondo; ma al di là della morte, nella sua condizione di risorto, può donarsi come cibo e bevanda, poiché tutte le barriere umane sono abolite per il corpo glorioso.  L’uomo e Cristo diventano così veramente uno: l’uomo mangia Dio e così sono due in una sola carne.

    Che tutti siano una sola cosa.  Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu m’hai mandato.  E la gloria che tu hai dato a me io l’ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola.  Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me. (Gv 17,21-23)

    Il pasto eucaristico è innanzitutto questo: comunione con Dio.

    Non si tratta perciò di condividere solo e in primo luogo il pane e l’amicizia con i fratelli: questa via orizzontale è chiusa e breve.  Chiusa per la giustapposizione impermeabile dei corpi; breve per la piccolezza dei nostri cuori.

    La realtà primaria dell’eucaristia, che non dobbiamo mai dimenticare, consiste nel fatto che essa è in primo luogo una fusione, senza confusione, di Dio con l’uomo.

    La seconda consiste nel fatto che si tratta dell’”uomo”, d’ogni uomo, e non solo di me.  Dio s’è incarnato, unendo a sé personalmente l’uomo chiamato Gesù, allo scopo di sposare l’intera umanità attraverso l’uomo Gesù.

    Cristo muore e risorge, facendosi cibo per diventare la carne della carne di tutta l’umanitàL’incarnazione non si conclude nel Cristo, ma in tutta l’umanitàDio s’è fatto uomo perché l’uomo diventasse Dio.  Ogni uomo!

    A tavola con i dodici

    Dopo l’ingresso trionfale in Gerusalemme, Gesù, per non essere arrestato e ucciso prima della “sua ora”, passa le notti in casa dei suoi amici di Betania o nel giardino del Getsemani.  Durante il giorno, le folle entusiaste dei pellegrini accorsi per le feste pasquali lo mettono al riparo da un colpo di mano.  Per quattro giorni conduce questa vita sfibrante e braccata. Venuto il giovedì – che sarà il primo giovedì santo – in segreto per non dare a Giuda utili informazioni, Gesù manda Pietro e Giovanni incontro all’uomo con la brocca d’acqua, un amico, che gli aprirà la “grande sala con i tappeti già pronta” per i pasti festivi (Mc 14,12-15).

    Essi devono infatti preparare un pasto festivo, quello della più gioiosa festa ebraica: la pasqua.

    Venuta la sera, Gesù giunse con i dodici” (Mc 14,17) nella sala preparata per il pasto pasquale.

    Dodici persone sono intorno a Gesù: “amici”, eccetto Giuda, che Gesù inviterà a lasciare l’assemblea prima dell’eucaristia; degli iniziati, “a cui egli ha fatto conoscere tutto ciò che ha udito dal Padre” (Gv 15,15).  Non ci si comunica in qualunque disposizione di coscienza e di fede.  “Voi siete mondi, ma non tutti“, ha detto Gesù (Gv 13, 10).

    E non ci si comunica da soli.  “L’eucaristia non è semplicemente un ‘mangiare Cristo’; è un ‘mangiare Cristo insieme. Questo ‘insieme’ è già quello del semplice pasto umano, dove il cibo condiviso lega i commensali e spesso li riconcilia.

    Nel sacramento dell’altare questo cibo è Gesù Cristo e Gesù Cristo stesso unisce i credenti, egli che è ricevuto da tutti senza essere diviso: “Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo?  E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?  Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1Cor 10,16-17).  Alla mensa di Dio, è Gesù Cristo che ci unisce e non primariamente il fatto di essere insieme” (Raymond Didier).

    “Venuta la sera”, dunque, “Gesù giunse con i dodici”.  Non si dice: con Maria e i cugini di Nazaret… La pasqua normale si celebrava in famiglia, con un agnello immolato ogni dieci persone.  Che cosa vuol indicare il Signore alla sua chiesa?  Certamente: “Il tuo parentado è più vasto: ogni uomo è tuo fratello, perché ogni uomo è mio fratello“.

    Durante la vita pubblica, Cristo ha preso le distanze dalla sua famiglia secondo la carne.  Solo nella fede si scopre e può essere vissuta l’unica fraternità che Gesù Cristo riconosca e che sia degna del cuore universale di Dio… Ci si ricordi l’episodio riferito da Luca (8,19ss): “Fu annunziato a Gesù: ‘Tua madre e i tuoi fratelli sono qui fuori e desiderano vederti’.  Ma egli rispose: ‘Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica”

    La cena di Gesù, dunque, non è un pasto familiare, ma un pasto comunitario.  La grazia filiale della salvezza ci deve far passare dal gruppo “naturale”, “chiuso”, a una chiesa “aperta” radunata dalla fede in Gesù, dall’amore per Gesù, dall’amore vicendevole di tutti per tutti, dall’accoglienza del primo venuto, dell’ultimo venuto, di ogni stirpe, lingua, popolo, nazione… di ogni età!

    Ma perché dodici, non di più, né di meno?

    Questo “dodici” è il numero simbolico della pienezza.  Giacobbe ebbe dodici figli, da cui uscirono le dodici tribù che costituirono la totalità dei popolo di Dio fino a Gesù.  Ma Israele era solamente il nucleo del popolo definitivo di Dio, l’umanità, come la ghianda è solo il seme della quercia.  Gesù, venuto per radunare tutti gli uomini nella sua alleanza d’amore, scelse dodici apostoli come embrione del popolo allargato: dello stesso popolo, ma universale.

    Poi venne uno dei sette angeli che hanno le sette coppe piene degli ultimi sette flagelli, e mi parlò: “Vieni, ti mostrerò la fidanzata, la sposa dell’agnello”.  L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio.  Il suo splendore è simile a quello d’una gemma preziosissima ‘ come pietra di diaspro cristallino.  La città è cinta da un grande e alto muro con dodici porte; sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele.  A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte.  Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’agnello. (Ap 21,9-14)

    Ecco perché questo “dodici” è così importante per la chiesa fino a che essa resta in Giudea: è significativo, per il mondo ebraico, della missione universale della chiesa, dell’amore universale di Dio, dell’offerta universale della salvezza e dell’eucaristia.  Subito dopo l’ascensione del Signore, il primo atto ufficiale di Pietro è quello di proporre l’elezione di uno che prende il posto di Giuda (At 1, 15ss).  Così, essi saranno dodici per la pentecoste e per la partenza missionaria verso “la totalità” degli uomini.

    Tutta l’umanità, dunque, è invitata, con i dodici, attorno alla tavola eucaristica.  Tutti sono presenti al dono dell’amore.  Il sangue del calice che tutti bevono “è il sangue dell’alleanza, versato per molti” (Mt 26,28; Me 14,24), offerto quindi ai “molti”, alla moltitudine: “Prendete e bevetene tutti”.  Gesù non è forse stato “formato e stabilito come alleanza del Popolo”, della moltitudine (Is 42,6)?

    Il termine “molti“, ripreso dagli evangelisti dell’ultima cena, corrisponde al “tutti” di cui parla s. Paolo a proposito della redenzione (Rm 5,15 ss): ambedue traducono il termine “moltitudine”, che è come un termine tecnico della bibbia per designare la totalità degli uomini e, nello o, il legame di parentela umana che li rende membri della stessa famiglia.

    L’eucaristia pasquale di Gesù e della chiesa raduna dunque sì una famiglia, secondo la tradizione ebraica, ma si tratta di tutta la famiglia umana.  E’ il senso teologico di quella meravigliosa immagine, dopo la moltiplicazione dei pani: quando tutti si furono saziati, si raccolsero dodici ceste di pezzi avanzati!  Chi aveva portato le ceste?… E perché dodici? E per chi tutto questo pane miracoloso avanzato e raccolto?  Per tutta l’umanità di tutti i secoli, per voi, per me, per la moltitudine, per la totalità. Dodici è la cifra biblica della pienezza.

    Gesù, dopo una notte passata in preghiera sul monte, aveva “scelto e costituito” i dodici, come ci dice Marco (3,13-19) che ce ne dà la lista, con Pietro a capo.  Sono gli stessi dodici, soltanto loro, che si trovano ora riuniti per l’istituzione eucaristica e a cui Gesù dirà: “Tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi.  Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti” (Gv 15,15-16).  Solo a essi dirà: “Fate questo in memoria di me“.,

    Siamo qui al livello della libertà di Dio e del suo Cristo.  Il Signore è giunto all’ora del suo testamento, al vertice della sua alleanza.  Testamento, alleanza: sono “disposizioni” che hanno valore solo nella piena libertà. Gesù dice dunque ai dodici: lo ‘dispongo’ per voi del regno, come. il Padre ne ha ‘disposto’ per me.  “Siederete in trono a giudicare le dodici tribù di Israele” (Le 22, 29-30), cioè: voi governerete il popolo di Dio.

    “Per questo”, dichiara il Vaticano II, “i presbiteri sono consacrati da Dio, mediante il vescovo, in modo che, resi partecipi in modo speciale del sacerdozio di Cristo, nelle sacre celebrazioni agiscano come ministri di colui che ininterrottamente esercita la sua funzione sacerdotale in favore nostro nella liturgia, per mezzo del suo Spirito… Con la celebrazione della messa offrono sacramentalmente il sacrificio di Cristo” (PO 5: EV I, 1252).

    Il ministro manifesta che l’assemblea non è proprietaria del gesto che essa sta per compiere, che essa non è padrona dell’eucaristia: la riceve da un altro, il Cristo vivente nella chiesa.  Pur continuando a essere membro dell’assemblea, il ministro è anche l’inviato che significa l’iniziativa di Dio e il legame della comunità locale con le altre comunità nella chiesa universale” (Accordo ecumenico di Dombes sull’eucaristia).

    la nuova ed eterna alleanza con i Dodici

    La celebrazione del sacrificio eucaristico è totalmente orientata all’unione intima dei fedeli con Cristo attraverso la comunione. Comunicarsi è ricevere Cristo stesso che si è offerto per noi. Catechismo della Chiesa cattolica 1382

    ***

    L’eucaristia riunisce le nostre vite divise nella divinizzazione uniforme, e mediante l’adunanza deiforme dei separati, ci fa dono della comunione e dell’unione a Colui che è Uno. Dionigi Areopagita

    ***

    L’eucarestia è segno vivo dell’amore con cui Dio ama ciascuno di noi, e desidera che entriamo in comunione di vita con lui per sempre. Essa è “matrimonio-alleanza”.

    Cfr.      Gv 17.24

    Gv 14.20

    Ef 5,31-32

    ***

    Nella sua condizione di risorto Gesù può donarsi come cibo e bevanda per noi, infatti le barriere strettamente umane sono già abolite nel suo corpo glorioso. L’uomo e Cristo diventano così veramente uno: l’uomo mangia Dio e così sono due in una sola carne

    Cfr.      Gv 17,21-23

    1Cor 10,16-17

    ***

    Gesù celebra la cena con gli apostoli: non è un pasto familiare ma comunitario. E’ la Chiesa composta da coloro che hanno seguito Gesù, è la comunità radunata dalla fede in lui: aperta all’accoglienza di chiunque voglia condividere la sua esperienza.

    Nei dodici sono invitati tutti coloro i quali aderiranno all’annunzio della morte e risurrezione del Signore: costituiscono il nuovo popolo santo di Dio dilatato fino agli estremi orizzonti

    Cfr.      Lc 8,19ss

    Ap 21,9-14

    ***

  • 15 Feb

    LE PREPARAZIONI

    8. Le quattro notti


    Nello spirito degli ebrei contemporanei di Cristo – e di conseguenza nello spirito degli apostoli e di Gesù stesso – la pasqua non commemorava soltanto la notte dell’uscita dall’Egitto.

    La tradizione teologico-liturgica ebraica vi aveva aggiunto il “memoriale” di altre tre notti, di altre tre “nascite”, riassumendo così, come vedremo, tutta la storia della salvezza, dalla creazione fino alla fine del mondo.

    Infatti nella versione aramaica della bibbia, quella stessa che leggeva Gesù (il Targum palestinese), Esodo 12,42 era commentato dal famoso Poema delle quattro notti. Eccone la traduzione:

    Quattro notti sono state iscritte nel “Libro dei Memoriali”:

    La prima notte fu quella in cui Jahvé si manifestò sul mondo per crearlo; il mondo era deserto e vuoto e le tenebre ricoprivano l’abisso.  La parola di Jahvé fu la luce e questa cominciò a brillare, la chiamò: prima notte.

    La seconda fu quando Jahvé si manifestò ad Abramo, che aveva cento anni, e a Sara che ne aveva ottanta perché si adempisse la scrittura: forse Abramo può generare e Sara partorire?

    Isacco aveva trentasette anni, quando fu offerto sull’altare. I cieli sono discesi, si sono abbassati, e Isacco ne vide le perfezioni; e tali perfezioni oscurarono i suoi occhi.  E la chiamò: seconda notte.

    La terza notte fu quando Jahvé apparve agli egiziani nel cuor della notte: la sua mano (sinistra) uccideva i primogeniti degli egiziani e la sua destra proteggeva i primogeniti d’Israele, perché si adempisse ciò che la scrittura dice: Israele è mio figlio, il mio primogenito.  E la chiamò: terza notte.

    La quarta notte (sarà) quando il mondo arriverà alla sua fine per essere dissolto; i gioghi di ferro saranno spezzati e le generazioni dell’empietà saranno distrutte.  E Mosè uscirà dal deserto e il re messia dall’alto dei cieli…

    E’ la notte della pasqua per il nome di Jahvé, notte stabilita e riservata per la salvezza di tutte le generazioni d’Israele.

    Il tempo durante il quale gli israeliti abitarono in Egitto fu di quattro-centotrent’anni.  Al termine dei quattrocento-trent’anni, proprio in quel giorno, tutte le schiere del Signore uscirono dal paese d’Egitto.  Notte di veglia fu questa per il Signore per farli uscire dal paese d’Egitto.  Questa sarà una notte di veglia in onore del Signore per tutti gli israeliti, di generazione in generazione. (Es 12,40-42)

    Gesù la sera della risurrezione disse ai suoi discepoli stando in mezzo a loro: “Sono queste le parole che vi dicevo quando stavo ancora con voi: bisogna che si compiano, tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei profeti e nei salmi”.  Allora aprì loro la mente all’intelligenza delle scritture e disse: “Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme.  Di questo voi siete testimoni”. (Le 24,44-48)

    “Non è certamente di poca importanza, se vogliamo comprendere il mistero eucaristico, riflettere che, per gli apostoli presenti all’ultima cena e più ancora per Cristo, la festa ebraica che intendevano celebrare commemorava, a dire il vero, tutta la storia della salvezza – passata e futura – com’è raccontata nelle nostre bibbie cristiane, dal primo versetto della genesi: “In principio Dio creò il cielo e la terra’, fino all’ultimo versetto dell’apocalisse: “Vieni, Signore Gesù” (Stanislas Lyonnet).

    Ma dobbiamo allora porci due domande:

    La pasqua celebrata da Gesù è un “memoriale”.  Che cosa vuol dire?

    Essa “commemorava” tutta la storia della salvezza. Come?

    Il Targum palestinese, che abbiamo appena letto, dà testimonianza di tutto ciò che la festa pasquale era, al tempo di Gesù, per la fede tradizionale del popolo di Dio: si commemoravano “le quattro notti” della storia della salvezza iscritte nel “libro dei memoriali”.  Che cos’è questo “Libro dei memoriali”, o dei “ricordi”?

    E’ un modo di parlare molto concreto, come quando noi diciamo: “Prendo nota di questo nella mia memoria”, o “Scrivo il tuo nome nel mio cuore”.

    Si tratta di quei “libri celesti” senza pagine in cui Dio “registra” i nomi dei suoi amici, le opere del suo amore per il suo popolo, le persone e le cose che “non vuole dimenticare”.

    Nella liturgia, questi “memoriali” sono un richiamo sia per gli uomini, sia per Dio:

    –   un richiamo per gli uomini dei benefici di Dio operati nel passato; per ridestare in loro il ringraziamento e la fedeltà;

    –   un richiamo per Dio di tutto ciò che ha operato; perché si ricordi del suo amore.

    Il ricordo di Dio non è però mai una semplice evocazione del passato, corrisponde sempre a un nuovo intervento del suo amore. Dio non “rumina” i suoi ricordi, ne rende nuovamente attivo il beneficio; ne continua la grazia, attuale, perenne.

    Quando perciò Dio “si ricorda”, avviene qualcosa: viene creata una nuova situazione o restaurata un’antica.

    Celebrare un “memoriale” del passato significa provocare un evento reale nel presente, e non una semplice evocazione.

    La pasqua del nuovo testamento, l’eucaristia, riveste perciò anche questo duplice aspetto dinamico di ringraziamento da parte dei cristiani e di impegno salvatore da parte di Dio.

    Quando diciamo che l’eucaristia è un memoriale, siamo nell’alveo della teologia pasquale di Gesù e del suo tempo.

    La messa è un memoriale.  Memoriale di che cosa?  Della morte e della risurrezione di Gesù Cristo: “Fate questo in memoria di me”, “celebrando il memoriale della morte e risurrezione del tuo Figlio…”.

    Il Signore Gesù ha insistito nel presentare la cena come “la pasqua”; ha orchestrato gli avvenimenti in modo che la cena e il suo sacrificio coincidessero con la pasqua ebraica.  La pasqua ebraica non è perciò sostituita, ma assunta, “portata a compimento” dalla pasqua cristiana. Con l’eucaristica siamo nel cuore della “notte pasquale”.

    In “memoriale” dell’uscita dall’Egitto (Es 1 1,4ss e 12,6), la pasqua si celebrava di notte. Il Signore istituì dunque l’eucaristia sul far della notte: “venuta la sera” (Mt 26,20; Mc 14,17): “Era notte” (Gv 13,30); “il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane…” (1Cor 11,23).

    La notte è sorella della morte. E’ il “luogo” dei banditi di ogni specie (Gb 24,13ss), l’immagine dell’oscura potenza del peccato, di satana e del male (Lc 22,53; Gv 1, 5; 1Ts 5,4-8; At 26,18; Col 1,13).

    Lo stesso Poema delle quattro notti raduna, nel memoriale della notte pasquale, le quattro grandi tappe della storia della salvezza, ciascuna delle quali è, a suo modo, una creazione, una nascita, una liberazione: quattro grandi tappe da cui sorgono, sempre più “nuovi”, una nuova umanità, “cieli nuovi e terra nuova”.

    1.    “In principio Dio creò il cielo e la terra”, completamente nuovi. Fu la nascita dei mondi, dei viventi, dell’uomo e della donna.  La “genesi”. Prima tappa redentrice, perché strappò l’universo alla notte, alla morte del nulla.  Ogni eucaristia ne è il “memoriale”.

    2.    “Memoriale” inoltre di Abramo, quando Dio parlò a quest’umanità pagana.  E’ l’aurora della prima rivelazione, la nascita (spirituale) del primo “amico di Dio”, la creazione d’una stirpe spirituale di credenti; l’umanità salvata nasce dalla cenere sterile e ancor più dalla fede di Abramo; “ri-creazione” di Isacco, risuscitato in un certo senso sull’altare del suo sacrificio.

    3.    “Memoriale” inoltre – soprattutto – della creazione d’Israele come popolo.  “Dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito” (Es 4,22).  La sua nascita è la liberazione dall’Egitto: “nasce” nella notte della pasqua in cui, protetto dal sangue dell’agnello, nutrito dalla sua carne, si mette in cammino verso la terra promessa.  “Saranno dimenticate le tribolazioni antiche… Ecco infatti io creo nuovi cieli e nuove terre; non si ricorderà più il passato” (Is 65,16s).

    4.    Infine, la pasqua ebraica annunciava e la pasqua di Gesù inaugurava la quarta notte: quella del messia atteso.  Gli “ultimi tempi”, creati sulla croce, nati dal fianco squarciato, mentre il cielo si oscura prefigurando una notte, annunciano e affrettano il giorno definitivo del Signore, l’ottavo giorno, la parusia.

    S. Paolo collega proprio gli “ultimi tempi” al mistero eucaristico: “Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga” (1Cor 11,26).

    E s. Paolo può fare questo collegamento, perché prima di lui l’ha fatto il Signore stesso: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio” (Lc 22,15-16).

    (“nell’attesa della tua venuta…”ci fa proclamare la liturgia subito dopo il momento della consacrazione).

    Sarà allora la creazione “definitiva”, la nascita piena degli uomini e del mondo finalmente liberati (cfr. Rm 8,18ss).  “Secondo la promessa di Dio”, dice s. Pietro, “noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia” (2 Pt 3,13).

    Il contesto pasquale, che Cristo ha voluto per il suo sacrificio e per la cena, dona al mistero eucaristico tutta la sua dimensione di abbraccio dell’intera storia della salvezza:

    “Io sono l’alfa e l’omega, dice il Signore Dio, Colui che è, che era e che ‘ viene, l’onnipotente” (Ap 1,8).

    Come l’ago magnetizzato è rivolto verso il polo, anche a distanza di migliaia di chilometri, così l’antico testamento è rivolto verso la persona del Cristo” (Jacques Loew), verso le nostre eucaristie.

    LE QUATTRO NOTTI

    Secondo la Sacra scrittura, il memoriale non è soltanto il ricordo degli avvenimenti del passato, ma la proclamazione delle meraviglie che Dio ha compiuto per gli uomini (cfr Es 13,3). La celebrazione liturgica di questi eventi, li rende in un certo modo presenti e attuali. Proprio così Israele intende la sua liberazione dall’Egitto: ogni volta che viene celebrata la Pasqua, gli avvenimenti dell’Esodo sono resi presenti alla memoria dei credenti affinché conformino ad essi la propria vita.

    Nel Nuovo testamento il memoriale riceve un significato nuovo. Quando la Chiesa celebra l’Eucaristia, fa memoria della Pasqua di Cristo, e questa diviene presente: il sacrificio che Cristo ha offerto una volta per tutte sulla croce rimane sempre attuale (cfr. Ebr 7,25-27): “Ogni volta che il sacrificio della croce, col quale Cristo, nostro agnello pasquale, è stato immolato, viene celebrato sull’altare, si effettua l’opera della nostra redenzione” (LG 3).

    Catechismo della Chiesa Cattolica, 1363-1364

    * Il memoriale riveste un duplice richiamo:

    –   richiamo per l’uomo affinché non dimentichi i benefici operati da Dio, facendo suscitare in lui la lode e il ringraziamento, e la fiducia che Dio come ha agito nel passato farà lo stesso per il futuro.

    –   Richiamo per Dio perché si ricordi del suo amore, della sua misericordia. Quando Dio “si ricorda” quel ricordo genera un evento reale nel mio presente. La grazia dell’evento mi è resa sempre disponibile.

    Nella mia esperienza di cammino di fede vivo la dimensione del memoriale nel suo duplice aspetto?

    * L’eucaristia è memoriale della morte e risurrezione del Signore:

    –   mi richiama l’evento salvifico operato da Cristo a beneficio di tutti noi

    –   richiama il Padre a rendere disponibile ogni volta che la si celebra la grazia di quella morte e risurrezione.

    Cosa comporta questa riflessione per la mia vita?

    * La pasqua cristiana, l’eucaristia rappresenta il sunto, il compendio, la realizzazione di tutte le altre “pasque” veterotestamentarie. Ringrazio il Signore di darmi la frazia di poter vivere il mistero dell’eucaristia: l’economia nuova che riassume tutta la storia di Israele. Sono consapevole di questa grazia?

    * Un’ulteriore dimensione dell’eucaristia, pasqua cristiana, è la sua dimensione aperta al futuro di Dio: attendiamo cieli nuovi e terra nuova. Se l’eucaristia compendia le pasque antiche così essa preannuncia, prefigura, fa pregustare la pasqua definitiva: quando il regno di Dio sarà tutto in tutti.

    Vivo quest’attesa?

  • 14 Feb

    LE PREPARAZIONI


    7. Sacramento della Pasqua

    L’eucaristia, “sacramento dell’alleanza”, è anche il “sacramento della pasqua”.

    E’ il secondo aspetto della realtà eucaristica. Che cosa vuol dire?

    Questo termine – la pasqua – è come le vecchie monete di uso quotidiano: iscrizioni e immagini non sono più leggibili.  Non si sa più qual è l’origine precisa del termine che designa la festa più popolare degli ebrei e dei cristiani.  “Passaggio del Signore”? O dell’angelo sterminatore che “salta” le abitazioni segnate con il sangue?  “Passaggio” del mar Rosso? “Passaggio” verso il deserto?…

    “Saltare”, “passare”, poco importa: ebrei e cristiani sapranno che “pasqua” è il nodo della loro salvezza.


    1. “Mangiare questa pasqua con voi”

    Gesù è impaziente: il giovedì santo, affermerà: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione” (Lc 22,15).

    Per istituire l’eucaristia, aspetterà proprio la settimana della pasqua ebraica di quell’anno in cui l’odio è maturo per ucciderlo.

    Quando ormai il pericolo è imminente, “Gesù non si fa più vedere in pubblico tra i giudei; si ritira nella regione vicina al deserto, in una città chiamata Efraim, dove si trattiene con i suoi discepoli” (Gv 11,54).

    Quando la pasqua è però vicina, Gesù riappare; con passo deciso va incontro alla morte e trascina con sé gli apostoli impauriti.  Hanno luogo allora la provocatoria manifestazione delle palme, la cacciata dei venditori dal tempio, lo scontro aperto con i suoi avversari.

    Molti dei giudei che erano venuti da Maria (sorella di Lazzaro), alla vista di quel che egli aveva compiuto, credettero in lui… Allora i sommi sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio… e da quel giorno decisero di ucciderlo.  Gesù pertanto non si faceva più vedere in pubblico tra i giudei; egli si ritirò di là nella regione vicina al deserto, in una città chiamata Efraim, dove si trattenne coi suoi discepoli.  Era vicina la pasqua dei giudei e molti dalla regione andarono a Gerusalemme prima della pasqua per purificarsi.  Essi cercavano Gesù e stando nel tempio dicevano tra loro: “Che ve ne pare?  Non verrà egli alla festa?”.  Intanto i sommi sacerdoti e i farisei avevano dato ordine che chiunque sapesse dove si trovava lo denunziasse, perché essi potessero prenderlo. (Gv 11,45-57)

    E’ la sua ora.  E’ lui che fissa questa data della pasqua per il suo compimento: l’ora pasquale, né prima, né dopo.  Non ci si deve ingannare: il sangue che egli verserà è “il sangue dell’alleanza”, “il sangue dell’agnello” pasquale, il sangue annunciato dal rituale antico.

    Egli stesso indica esplicitamente il suo riferimento alla pasqua ebraica: “Voi sapete che fra due giorni è Pasqua e che il Figlio dell’uomo sarà consegnato per essere crocifisso” (Mt 26, 1).

    Manda Pietro e Giovanni a preparare quella pasqua ebraica, che dovrà essere l’ultima cena: “Andate e preparate per noi la pasqua, perché possiamo mangiare” (Lc 22,7).

    Durante il pasto, Gesù sottolinea la situazione della pasqua che sta per celebrare: non la abolisce, ma al contrario la porta “a compimento”, la “completa”. E il mezzo di questo “compimento” è l’eucaristia che istituisce: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio. “E preso un calice… Poi preso un pane…” (Lc 22,15ss).

    La cena del giovedì santo e il sacrificio del venerdì sono dunque, insieme, la pasqua ebraica in via di “compimento” verso la pasqua “che verrà ” alla fine dei tempi.

    Com’è possibile ignorare questi collegamenti? Che cosa comprendiamo del “Cristo, nostra pasqua, che è stato immolato” (1Cor 5,7), se non sappiamo ciò che ha riempito il cuore di Cristo e degli apostoli durante quell’ultima e prima pasqua del giovedì santo?  Che cosa era per loro la Pasqua?

    2. La pasqua primaverile e pastorizia

    Questa festa di origine cananea risale senza dubbio a molto tempo prima dell’esodo dall’Egitto.  Ha la stessa età della primavera, dei greggi e dei pastori.  E’ il “sacrificio di Abele”.

    “In origine, la pasqua è una festa di famiglia.  La si celebra di notte, nel plenilunio dell’equinozio di primavera, il 14 del mese di abib o delle spighe (chiamato nisan dopo l’esilio).  Si offre a Dio un animale giovane, nato nell’anno, per attirare le benedizioni divine sul gregge.  La vittima è un agnello o un capretto, maschio, senza difetti; non gli si deve spezzare alcun osso.  Il suo sangue è posto, in segno di preservazione, all’ingresso di ogni dimora” (DTB).

    La sua carne è mangiata con rispetto in segno di comunione con Dio.  Forse il termine “pasqua” deriva da una “festicciola” sacrificale attorno all’agnello, o al fuoco.

    L’Esodo darà poi a questa festa il suo significato definitivo: la pasqua nomade diventerà la pasqua ebraica. Ricorderà l’uscita dall’Egitto, la liberazione “con braccio potente”, l’alleanza rinnovata sul Sinai…

    Sarà la festa, sempre attuale, dell’onnipotenza e dell’amore di JHWH, per il passato, per il presente e per il futuro.

    3. Affamato, schiavo, straniero

    Abramo era nomade nel Negheb. E’ il “paese asciutto”, la regione meridionale della Palestina.  “Venne una carestia nel paese e Abramo scese in Egitto per soggiornarvi, perché la carestia gravava sul paese” (Gen 12, 1 0).  In tempi migliori, poi, tornerà in Canaan e vi prospererà.

    Ma suo nipote Giacobbe e la sua famiglia vi patiscono nuovamente la fame. Mangiare, mangiare per vivere, è sempre la prima verità umana… e sacramentale. Ripartono dunque per l’Egitto dove Giuseppe li sistema nel delta del Nilo.

    Là gli ebrei (= “quelli che vengono da altrove”, gli “stranieri”) vivono in pace e si moltiplicano per quattrocento anni. Verso il 1310 a.C., il faraone Seti I inizia a sviluppare il delta per la coltura intensiva del grano e la costruzione di città-deposito per il suo commercio.  Il successore Ramses II ricorre alla schiavitù: gli ebrei sono costretti a lavorare duramente.

    Affamato, schiavo, in una terra straniera: questa è la situazione del popolo di Dio seicento anni dopo Abramo.  Proprio quella del figlio “prodigo” di cui parlerà Gesù (Lc 15) per caratterizzare la condizione dell’uomo bisognoso di salvezza.

    Nella notte però spunta una luce.

    4. Colui che è presente

    Per fede Mosè appena nato fu tenuto nascosto per tre mesi dai suoi genitori, perché videro che il bambino era bello; e non ebbero paura dell’editto del re.  Per fede Mosè, divenuto adulto, rifiutò d’essere chiamato figlio della figlia del faraone, preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio piuttosto che godere per breve tempo del peccato.  Questo perché stimava l’obbrobrio di Cristo ricchezza maggiore dei tesori d’Egitto; guardava infatti alla ricompensa.  Per fede lasciò l’Egitto, senza temere l’ira del re; rimase infatti saldo come se vedesse l’invisibile. (Eb 11,23-27)

    Un giorno, Mosè vede un sorvegliante egiziano che colpisce uno dei suoi fratelli ebrei.  Ribellatosi a tale angheria, Mosè colpisce a morte l’egiziano e deve fuggire nel deserto di Madian (Arabia Saudita).  Là mentre pascola il gregge sulle pendici del Sinai, (chiamato anche Oreb), esperimenta Dio come presente in un roveto ardente.  Il Signore gli dice:

    “Ho osservato la miseria del mio popolo.  Sono sceso per liberarlo… e per farlo uscire verso un paese bello e spazioso.  Va’. lo sarò con te… (il mio nome è) lo sono colui che sono” (Es 3,7ss).

    E’ il nome del Dio della storia: Jahvé, Emmanuele, “Dio-con-noi”…

    Dio è colui che è, “è colui che è presente” per agire.  Propone perciò la fede attraverso atti storici che cambiano l’avventura umana. Sarà questa la caratteristica fondamentale del cristianesimo autentico.  Dio non può rinnegare se stesso.

    Anche Gesù si presenterà come “colui-che-viene”.  Che viene per che cosa?

    “lo sono ‘Cristo’, dice Gesù, “ho ricevuto l’unzione per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione, per rimettere in libertà gli oppressi” (cfr. Lc 4,18ss).

    “Io sono” (Gv 8,58), “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20), dice Cristo.  Ed è l’eucaristia che in primo luogo, assicura sacramentalmente questa presenza.

    Se non è presenza reale, e perciò presenza attiva, liberante, buona novella ai poveri, agli oppressi, non è più la presenza di Dio, ma il sonnifero dei privilegiati, degli incoscienti e dei linfatici.  Il Dio dell’eucaristia è in testa a un cammino di liberazione.  Comunicarsi significa partire, “camminare al seguito di”, più che adorazione e culto.  Il cammino del popolo “al seguito di” Jahvé, il cammino del cristiano “al seguito di” Gesù, nella povertà, nell’impegno, fino alla morte, sono la forma della stessa fede, sono lo stesso movimento, che continua.

    La comunione deve concludersi con la domanda di Saulo caduto a terra sulla via di Damasco: “Che devo fare,  Signore?” (At 22, 1 0; cfr. 9,6).

    5. L’agnello di Dio

    “lo sono il Signore!  Vi sottrarrò ai gravami degli egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi libererò con braccio teso” (Es 6,6).

    “Alla liberazione creatrice commemorata dalla pasqua e al carattere laborioso, oneroso della grande opera divina, corrisponde il titolo di “redentore”, già dato a Jahvé nell’antico testamento.  Il redentore è colui che redime uno schiavo e ne fa così un uomo libero.  Cf. per esempio, Lv 27,13,19 e 3 1; Is 44,23 o 48,20.  Ma l’applicazione a Dio salvatore del termine non conoscerà affatto sviluppi arricchenti prima dei nuovo testamento” (L. Bouyer)

    Ha allora inizio, contro gli oppressori, una serie di fatti molto colorita: le piaghe d’Egitto.  Una serie di sciagure in cui si legge chiaramente l’azione di Jahvé per forzare la mano al faraone.

    La piaga ultima e decisiva, la morte dei primogeniti, quella che effettivamente salverà Israele, coincide con il pasto dell’agnello pasquale e ne è il frutto (Es 12).

    Tale pasto comprende circostanze ed elementi “tipici”, che sono riconosciuti e rivissuti nell’eucaristia.

    E’ una grande partenza, di notte.  Ogni famiglia si prepara in silenzio, febbrilmente, con la cintura ai fianchi, i sandali ai piedi e il bastone in mano (Es 12,1 1).

    La nostra eucaristia è ancora un “passaggio”, una ” pasqua”, un esodo? Dovrebbe esserlo.  Noi non siamo di quaggiù!  Non siamo sedentari, insediati, ma nomadi.  La comunione è un cibo di viaggio, un pasto di tappa, per camminare senza venir meno fino al termine della traversata.  “Dio mio, sarà per questa notte?”.

    Si è scelto un agnello senza difetto. Uno per famiglia.  Lo si immola senza spezzargli alcun osso.  Il suo sangue, sulle porte, farà sì che siano “saltati”, quando passerà” l’angelo sterminatore.  La morte entrerà in ogni casa, che non sarà segnata con il sangue dell’agnello.

    Si mangerà la carne dell’agnello con il pane che, per la fretta, il popolo non avrà avuto il tempo di far fermentare, e con erbe amare, in contrasto con le cipolle d’Egitto che saranno rimpiante durante la traversata del deserto.

    La pasqua è un mistero a cui deve partecipare “tutta l’assemblea della comunità d’Israele” (12,6), e a cui, per altro verso, possono partecipare solo i membri di questo popolo (12,43-44).  Chi se ne astiene, si esclude dal popolo di Dio.

    L’israelita stesso può prendervi parte solo in unione con la totalità del suo popolo.  La Pasqua non è un rito individuale. Il popolo è salvato insieme, in uno stesso e unico “passaggio” dall’idolatria e dalla schiavitù alla libertà del deserto e all’alleanza con Dio: celebra e celebrerà continuamente la sua salvezza nel rito efficace dell’agnello pasquale…

    Cristo crocifisso è il vero agnello pasquale.  Paolo lo celebra come “nostra pasqua immolata” (1Cor 5,7).  Pietro ci ricorda che siamo stati “liberati con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia” (1 Pt 1, 19).  Giovanni Battista lo presenta come “l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29).  L’evangelista Giovanni sottolinea che i giudei hanno celebrato la pasqua la sera del venerdì santo; hanno perciò immolato l’agnello nel pomeriggio, proprio nell’ora della morte di Gesù; e conclude il suo racconto su un dettaglio che fa, dell’immolazione dell’agnello, una profezia di quella di Gesù: “Questo avvenne perché si adempisse la scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso” (19,36).  Nell’Apocalisse, infine, il salvatore ci è presentato per una trentina di volte come un agnello immolato e sempre vivo, in piedi, e signore della storia (cap. 5-7).

    Uno dei vegliardi allora si rivolse a me e disse: “Quelli che sono vestiti di bianco, chi sono e donde vengono?”.  Gli risposi: “Signore mio, tu lo sai”.  E lui: “Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide coi sangue dell’agnello.  Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio notte e giorno nel suo santuario; e colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro.  Non avranno più fame, né avranno più sete, né li colpirà il sole, né arsura di sorta, perché l’agnello che sta in mezzo al trono sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita.  E Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi”. (Ap 7,13-17)

    L’agnello di Dio, nel suo sacrificio pasquale, nella sua cena pasquale: questa è la messa…

    Un popolo muore, perché non mangia la carne dei Figlio dell’uomo e non beve il suo sangue.  Un popolo ha la vita eterna, perché mangia la sua carne e beve il suo sangue (Gv 6,53ss).

    Un mondo sfugge ai colpi dello sterminio, perché le sue “porte” sono bagnate con il sangue dell’agnello.

    Di qui deriva il dialogo che precede il nostro accostarci alla mensa dell’agnello pasquale:

    Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi!

    Ecco l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo.


    6. La traversata del deserto


    Sotto i colpi dello sterminatore, l’Egitto lascia la presa e Israele fugge.  Solo Dio poteva – e solo Dio può – strappare il suo popolo alla schiavitù e all’idolatria.  L’ha fatto attraverso il “vaglio” del deserto.

    Il deserto è il “passaggio” necessario verso la terra delle promesse.  Per gli ebrei, fu il periodo del meglio e del peggio: del meglio per il cammino con Dio, la povertà senza attaccamento, l’alleanza del Sinai; del peggio per gli sguardi indietro verso le pentole dell’Egitto, il vitello d’oro, la prostituzione e le apostasie (Nm 20-25).

    Infedeltà dell’uomo, della chiesa, pazienza e perdono di Dio.  Questi tratti duraturi, ciclici, rimarranno, fino alla fine dei tempi, le caratteristiche del cammino della coppia dell’alleanza: l’uomo e Dio.

    La liberazione non ha mai termine; le purificazioni del deserto sono sempre da ricominciare; le misericordie gratuite del Signore non si stancano; la terra promessa è sempre da conquistare…

    Tutto questo “passaggio”, inaugurato con la pasqua ebraica, che apre il ciclo dell’esodo, continua e si consumerà nella pasqua della nuova ed eterna alleanza. E’ la pasqua eucaristica di cui la prima era soltanto la figura.  La carne dell’agnello e il pane azzimo della prima pasqua dell’esodo saranno sostituiti, durante il cammino, dalla manna miracolosa e piena d’ogni dolcezza”.

    Sfamasti il tuo popolo con un cibo degli angeli, dal cielo offristi un pane già pronto senza fatica, capace di procurare ogni delizia e soddisfare ogni gusto.  Questo tuo alimento manifestava la tua dolcezza verso i tuoi figli; esso s’adattava al gusto di chi lo inghiottiva e si trasformava in ciò che ognuno desiderava. (Sap 16,20-21)

    Cesserà di cadere solo dopo la celebrazione della prima pasqua nella terra promessa.  Tuttavia, era soltanto un’immagine: “I vostri padri“, dirà Gesù, “hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti“.  Ed ecco la realtà: “Se uno mangia il pane vivo, disceso dal cielo, vivrà in eterno” (Gv 6,49).

    7. Il pasto e il sangue dell’alleanza

    La traversata del deserto è segnata dal più grande evento della storia ebraica: il rinnovamento dell’alleanza.  Un tempo, essa era stata stipulata con un amico, Abramo; ora è ripresa con il popolo dei suoi discendenti, per farne pienamente “il popolo di Dio… un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Es 19,6).

    Il Signore dà a Mosé per il popolo, le “dieci parole” (il “deca-logo”) e il codice dell’alleanza. Il popolo acconsente.  Resta da suggellare il patto nella forma dovuta (Es 24).

    Con un sacrificio, certamente, perché uno dei contraenti è la fonte della vita e d’ogni cosa.  Ma questo sacrificio sarà inserito in un rito di alleanza.

    Mosè… costruì un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d’Israele.  Incaricò alcuni giovani tra gli israeliti d’offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione, per il Signore.  Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare.  Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo.  Dissero: “Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo!”.  Allora Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: “Ecco il sangue dell’alleanza, che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!” (Es 24,4-8)

    Si tratta di diventare “fratelli di sangue”, “sposi di sangue”.

    Il sangue delle vittime è perciò sparso sia sull’altare che rappresenta Dio, sia sul popolo raffigurato da dodici stele: ormai un unico sangue, un’unica vita circolano nelle due parti contraenti e fanno, di due, come un solo essere vivente…

    Nelle vene del Figlio di Dio diventato figlio di Abramo, circolerà infatti un solo sangue, che sarà il sangue dell’ebreo e il sangue di Dio.  Un vero sangue d’uomo sarà il vero sangue di Dio.  E’ “il sangue dell’alleanza”  versato nell’unico sacrificio, il sacrificio della croce e della messa.  Il sangue del pasto eucaristico:  “Prendete e bevetene tutti, questo è il calice del mio sangue versato”.

    Un pasto eucaristico è presente anche all’alleanza del Sinai.  Dopo l’aspersione col sangue, Mosè, Aronne e i settanta anziani di Israele salirono sul Sinai.  “Essi videro Dio e tuttavia mangiarono e bevvero” (Es 24,1 1).  Come avvenne questo incontro?  Non lo sappiamo.  Ci sono però nel racconto due annotazioni di estrema importanza:

    – il popolo è l’invitato di Dio per un pasto gioioso che stabilisce la comunione tra i partecipanti e Dio;

    – questa comunione è l’inizio della visione di Dio.


    8. Alleanza e legge


    L’alleanza conclusa con il popolo del Sinai è profondamente diversa da quella conclusa con Abramo, almeno a un primo esame.  Questa era incondizionata, senza contropartita; quella del Sinai comporta il decalogo e il codice dell’alleanza.

    Si tratta di provocare la responsabilità dell’uomo, d’educare alla libertà questo popolo-neonato.

    A molti secoli di distanza, per l’esperienza fatta e per opera dello Spirito santo che lo ispirava, s. Paolo comprenderà che l’uomo è perduto, se si afferra solamente all’alleanza mosaica, per il fatto che egli è radicalmente peccatore.  Al di là delle sue opere, al di là della fedeltà ai precetti, l’uomo ha accesso alla salvezza solo nella alleanza di pura grazia, di pura amicizia, stabilita con Abramo e realizzata con la morte e la risurrezione di Gesù Cristo.

    Un testamento legittimo, pur essendo solo un atto umano, nessuno lo dichiara nullo o vi aggiunge qualche cosa.  Ora è appunto ad Abramo e alla sua discendenza che furono fatte le promesse.  Non dice la scrittura: ,le ai tuoi discendenti”, come se si trattasse di molti, ma “e alla tua discendenza”, come a uno solo, cioè Cristo.  Ora io dico: un testamento stabilito in precedenza da Dio stesso, non può dichiararlo nullo una legge che è venuta quattrocentotrenta anni dopo annullando così la promessa.  Se infatti l’eredità s’ottenesse in base alla legge, non sarebbe più in base alla promessa; Dio invece concesse il suo favore ad Abramo mediante la promessa (Gal 3,15-18)

    Il sacramento più grande potrà essere solo quello della più grande misericordia:      il sacramento dell’amore di Dio.

    Un grande monaco del secolo XI esprime molto bene il cuore di Cristo quando scrive: “Lo spirito è pronto, ma la carne è debole”, disse il creatore e il conoscitore della carne e dello spirito.  Per questo, avendo conosciuto la nostra debolezza, egli che ci ha creati, e avendo saputo la nostra impotenza di uomini fragili e disarmati a resistere al forte e all’armato, se non ci protegge colui che è più forte, ci ha donato, contro l’odio implacabile dell’antico avversario, la protezione invincibile del pane quotidiano… Egli che scruta i cuori con bontà, ha saputo ugualmente che la nostra strada di corruzione era tenebrosa e sdrucciolevole e che nessun uomo poteva percorrerla senza danno.  Per questo, poiché ogni giorno siamo esposti ai pericoli, ogni giorno cadiamo, ogni giorno siamo malati, si è degnato di offrirci la sua presenza ogni giorno nel mistero del suo corpo e del suo sangue, affinché da questa presenza siamo liberati, sollevati, e avviati alla convalescenza”  (Francon d’Afflighem).

    SACRAMENTO DELLA PASQUA

    “Il Signore, avendo amato i suoi, li amò sino alla fine. Sapendo che era giunta la sua Ora di passare da questo mondo al Padre, mentre  cenavano, lavò loro i piedi e diede loro il comandamento dell’amore (Gv 13,1-17). Per lasciare loro un pegno di questo amore, per non allontanarsi mai dai suoi e renderli partecipi della sua Pasqua, istituì l’Eucaristia come memoriale della sua morte e della sua risurrezione, e comandò ai suoi discepoli di celebrarla fino al suo ritorno, costituendoli “in quel momento sacerdoti della Nuova Alleanza”.

    Gesù ha scelto il tempo della Pasqua per compiere ciò che aveva annunziato a Cafarnao: dare ai suoi discepoli il suo Corpo e il Suo sangue.

    Celebrando l’ultima Cena con i suoi Apostoli durante un banchetto pasquale, Gesù ha dato alla pasqua ebraica il suo significato definitivo. Infatti la nuova Pasqua, il passaggio di Gesù al Padre attraverso la sua Morte e la sua Risurrezione, è anticipata nella Cena e celebrata nell’eucaristia, che porta a compimento la pasqua ebraica e anticipa la pasqua finale della Chiesa nella gloria del Regno”.

    Catechismo della Chiesa Cattolica, 1337-1339-1340

    ***

    La pasqua ebraica celebra la salvezza del popolo ebraico dalla strage dell’angelo sterminatore dei primogeniti egiziani. Il sangue dell’agnello asperso sugli architravi delle porte fa sì che il popolo eletto abbia la vita.

    In quella notte gli ebrei mangiano della carne di quell’agnello: in fretta perché la liberazione è imminente.

    Quel sangue e quell’agnello prefigurano il sacrificio di Cristo: il sacrificio che apre le porte della vita  al popolo salvato.

    Cfr.:  Es 12; 1Pt 1,19; Gv 1,29

    ***

    Lungo il cammino nel deserto ha luogo la solenne stipulazione dell’alleanza tra JHWH e il suo popolo. Un’alleanza stipulata nel sangue di un agnello asperso sull’altare e sul popolo ad indicare ormai una imprescindibile comunione di vita e di destino.

    Nel sacrificio eucaristico quel sangue è il sangue del Figlio di Dio dato a noi come bevanda: un’indissolubile comunione di vita e di destino.

    Cfr.: Es 24

    ***

    L’eucaristia ci si presenta dunque come pasqua, cammino da intraprendere dietro a Cristo, condividendo con lui il suo destino, nella fede che attraverso la sua morte perverremo alla sua risurrezione. L’eucaristia non ci ripiega, non ci ferma: al contrario mette in cammino, ci prospetta una direzione e una meta.

    Se il sacramento nella nostra vita personale e comunitaria non riveste tale dinamismo a che serve, quale il suo valore per noi?

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