IL RITO E I SUOI CONTENUTI
La celebrazione della Messa si divide in due parti: Liturgia della Parola e Liturgia Eucaristica. Tuttavia queste due parti sono intimamente connesse perché, in forma diversa, ci presentano un unico Cristo: è lui il contenuto ultimo delle Scritture e del segno sacramentale. Diceva Origene (+253): “È preparato a mangiare il Verbo del sacramento chi ha mangiato il Verbo della Scrittura”.
Questo corpo centrale della Messa è preceduto da un prologo (riti iniziali) e concluso da un epilogo (riti conclusivi).
Riti iniziali
Comprendono tutto ciò che si svolge dall’ingresso fino alla proclamazione della Parola. Hanno il carattere di esordio, di introduzione e di preparazione. Il loro scopo è quello di far sì che i fedeli, riuniti insieme, costituiscano una comunità, e si dispongano rettamente ad ascoltare la Parola di Dio e a celebrare degnamente l’Eucaristia. Concretamente essi si articolano così:
a) Il popolo si raduna. Il fatto di radunarsi esprime e realizza il mistero della Chiesa, che è “un popolo radunato”, e rende presente Cristo in mezzo ai suoi riuniti nel suo nome (Mt 18,20). Tutto questo è una epifania della Chiesa.
La celebrazione comincia già quando i fedeli escono di casa e si avviano verso la chiesa.
b) Accesso dei ministri all’altare. Canto di ingresso.
c) Con il saluto iniziale il sacerdote apre il dialogo con l’assemblea e annuncia alla comunità radunata che il Signore è presente.
d) Il celebrante invita tutti a compiere insieme l’atto penitenziale che si conclude con l’assoluzione del sacerdote (Dio onnipotente abbia misericordia di noi…).
L’atto penitenziale sottolinea un’esigenza di fondo: per accostarsi al Dio tre volte Santo è necessaria la purificazione interiore del cuore per fare spazio alla grazia di Cristo.
e) Segue il “Signore pietà” e nei giorni festivi il “Gloria”.
f) Questi riti trovano il loro culmine e la loro conclusione con la preghiera chiamata colletta.
Essa ha lo scopo di raccogliere la preghiera interiore dei singoli in una formula comunitaria in cui viene espressa l’indole della celebrazione, il significato della festa o della circostanza che li ha riuniti in assemblea.
Liturgia della parola
La Chiesa è una comunità in ascolto. Il popolo di Dio è chiamato ad ascoltare Cristo: è lui infatti, presente, che parla al suo popolo quando nella chiesa si leggono le Scritture. Essa deve accoglierne le parole e rispondergli con la preghiera e il canto. Il dialogo viene poi sancito da un sacrificio: è il sangue di Cristo che sigilla la “nuova ed eterna alleanza”.
Il dialogo si snoda nel modo seguente:
a) Letture. È Dio che parla. L’iniziativa parte sempre da lui, perché da lui vengono la verità e la salvezza. Non è solo la lettura di un libro. È una parola viva, perché è Cristo glorioso, presente che parla. Essa è forza divina di salvezza. Ogni domenica ha tre letture: dal profeta, dall’apostolo, dal vangelo. Nel ciclo triennale di letture vengono presentate tutte le pagine centrali della Bibbia. Le acclamazioni del popolo “Gloria a te, o Signore” e “Lode a te, o Cristo” sono rivolte a Cristo realmente presente e parlante.
b) Dopo le singole letture non è imposta, ma è raccomandata, una pausa di riflessione e di preghiera silenziosa.
c) Canto o preghiera responsoriale. È la risposta comunitaria attinta normalmente dai salmi e dai cantici della Scrittura perché “solo Dio parla bene a Dio” (Pascal).
d) L’omelia commenta la Parola, la adatta alla situazione degli ascoltatori, li aiuta ad accoglierla e ad “entrare” pienamente nella celebrazione.
e) Il “Credo” è un sì gridato con gioia a Dio. Esprime l’adesione alla Parola ascoltata. Questa obbedienza alla Parola ascoltata è la migliore preparazione al sacrificio, la cui anima è un atto di suprema obbedienza al Padre.
f) La preghiera universale o dei fedeli. Il suo carattere è appunto l’universalità. Deve contemperare le esigenze locali con quelle della Chiesa universale e di tutto il mondo secondo questo quadruplice schema: la santa Chiesa, coloro che ci governano, quelli che si trovano in necessità, tutti gli uomini. La formulazione di queste invocazioni si dovrà muovere tra questi tre poli:
1) La tematica delle letture proclamate.
2) La necessità della Chiesa e del mondo.
3) Gli avvenimenti e le necessità della Chiesa locale.
Liturgia eucaristica
Per comprendere bene questo rito è essenziale riferirsi alla Cena. Chi volesse vedere corrispondenze visibili tra i gesti della Messa e la tragedia del Golgota si metterebbe su una strada sbagliata. Il contenuto è il sacrificio di Gesù, ma la forma rituale è quella di un banchetto gioioso, allietato dalla presenza del Risorto.
Ecco le principali componenti del rito:
a) Preparazione dei doni. Prima di tutto si prepara l’altare collocandovi l’occorrente. Quindi si portano le offerte e si depongono sopra l’altare. È bene che siano recate dai fedeli in forma processionale, mentre si esegue un canto adatto. Questo serve ad esprimere la parte attiva che ognuno prende al sacrificio. Il pane e il vino sono il simbolo di tutto il creato. Presentiamo a Dio questi doni come per affermare il suo sovrano dominio su tutte le cose. E poiché essi sono “frutto del lavoro dell’uomo” sono anche offerta della nostra esistenza in un gesto d’amore.
b) Preghiera eucaristica. È il centro della celebrazione ed è la chiave per afferrare la portata del rito.
Eccone gli elementi:
1- Il Prefazio. Un inno di ringraziamento e di lode esultante al Padre per tutta l’opera di salvezza che ha realizzato per noi.
2- Il “Santo”, che è il grido di gioia e di riconoscenza, cantato o proclamato da tutti a conclusione dell’inno di ringraziamento.
3- L’epìclesi (invocazione, preghiera) con cui si chiede al Padre di santificare i doni con l’effusione dello Spirito Santo trasformandoli nel corpo e sangue di Cristo e di santificare coloro che li riceveranno.
4- Il racconto dei gesti compiuti e delle parole dette da Gesù nella Cena, quando istituì il sacramento della sua Pasqua e diede ai discepoli l’ordine di perpetuarlo.
5- L’anàmnesi (ricordo, commemorazione) con cui la Chiesa celebra il memoriale della Pasqua di Cristo (passione, morte, resurrezione e ascensione) in attesa della sua venuta gloriosa.
6- L’offerta con cui la Chiesa presenta Cristo al Padre e se stessa con lui per portare a perfezione i suoi figli nell’unione con Dio e tra di loro.
7- Le intercessioni (ricordati…) per tutti i membri della Chiesa cattolica, per i defunti e per i presenti.
8- La formula finale di glorificazione a Dio che il popolo conclude con un amen corale. Questo amen è la ratifica dell’intera assemblea a tutta la grande preghiera.
L’asse dominante che attraversa tutta la preghiera e la sostiene è l’azione di grazie: la proclamazione, nel giubilo e nella fede, delle meraviglie di Dio. In fondo si dice a Dio: Tu che hai fatto tutto questo nella storia della salvezza, compilo nuovamente ora per mezzo di questi segni sacramentali. Tutto ciò che Dio ha compiuto in favore degli uomini in passato confluisce in questi segni sensibili ove si rende presente Cristo con tutte le ricchezze del suo regno.
c) Riti di comunione:
1- La preghiera del Signore, il Padre nostro. È sempre stata considerata la preghiera classica di preparazione alla comunione. In questo momento ci sentiamo tutti fratelli intorno alla mensa dell’unico Padre.
2- L’abbraccio di pace. Significa l’unità dei cuori. Deve eliminare tutti gli spazi di indifferenza che separano i fedeli e trasformare la vicinanza fisica in un segno di unanimità spirituale.
3- La frazione (o spezzamento) del pane. Riproduce il gesto di Cristo che nella Cena spezzò il pane e attraverso questo gesto fu riconosciuto dai discepoli di Emmaus (Lc 24,35).
4- La comunione è la comune unione a Cristo. È questo il frutto ultimo dell’Eucaristia, ed è l’anima stessa della Chiesa. Ci vuole la Chiesa per fare l’Eucaristia, ma soprattutto ci vuole l’Eucaristia per fare la Chiesa.
È desiderabile che le ostie a cui si comunica siano consacrate nella stessa Messa affinché la comunione appaia meglio come partecipazione al sacrificio che si sta celebrando. Il silenzio che ne segue è carico di tensione spirituale perché segna il momento personale di incontro con il Salvatore.
5- Il rito della comunione termina con una preghiera del celebrante a nome di tutti. Esprime il grazie di tutti e chiede che il mistero celebrato produca i suoi frutti lievitando e trasfigurando la vita quotidiana.
Riti conclusivi
Comprendono un saluto, una benedizione e il congedo dell’assemblea: “La Messa è finita; andate in pace”.
Il che significa: Il rito è concluso, ma ora comincia la celebrazione nella vita. Andate per le strade del mondo e siate in mezzo a tutti i testimoni della morte e della resurrezione di Cristo con la parola, con l’azione e con la vita.
Contenuti del rito
Ogni rito, parola o gesto, deve essere capito, diversamente non serve ed è destinato a cadere. Ci sono alcuni punti particolarmente importanti che vogliamo ricordare.
• La celebrazione della Messa costituisce il centro di tutta la vita cristiana sia per la Chiesa universale che per quella locale e per i singoli fedeli.
• La Messa è il culmine sia dell’azione con cui Dio santifica il mondo in Cristo, sia del culto che gli uomini rendono al Padre per mezzo di Cristo.
• Tutte le azioni sacre e ogni attività della vita cristiana sono in stretta relazione con la Messa, da essa derivano e ad essa sono ordinate.
• Nella Messa il popolo di Dio è chiamato a riunirsi insieme sotto la presidenza del sacerdote, che agisce in persona di Cristo. Per questa riunione, soprattutto, vale la promessa di Cristo: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20).
* Cristo è realmente presente nell’assemblea dei fedeli riunita nel suo nome, nella persona del ministro, nella sua parola e in modo sostanziale e permanente sotto le specie eucaristiche.
* Nell’ultima Cena Cristo istituì il sacrificio e convito pasquale per mezzo del quale è reso di continuo presente nella Chiesa il sacrificio della croce, allorché il sacerdote che rappresenta Cristo Signore compie ciò che il Signore stesso fece e affidò ai discepoli perché lo facessero in memoria di lui.
* La Messa è il memoriale della morte e della risurrezione del Signore: sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità, convito pasquale, nel quale si riceve Cristo, l’anima viene colmata di grazia e ci è dato il pegno della gloria futura.
* L’Eucaristia è anzitutto azione di Cristo, cioè intervento di Dio nella vita degli uomini. Cristo è il supremo atto divino; egli ricapitola in sé tutta la storia sacra e condensa in sé tutta la salvezza. Cristo è tutto l’agire di Dio.
* Cristo è presente in ogni eucaristia. È una presenza dinamica che assume varie forme, tutte però reali, esprimenti l’unico Cristo. È lui che parla quando si leggono le Scritture, è lui che prega nel suo popolo, è “in sua persona” che il ministro agisce: dunque le Scritture, il popolo e il ministro diventano segni della sua presenza viva. Vertice della sua presenza il pane e il vino che diventano Cristo presente in forma sostanziale e permanente.
* L’Eucaristia è anche azione della Chiesa ossia del popolo di Dio. La chiesa è “il Cristo diffuso e comunicato (Bossuet): è proprio nel suo agire che si rende presente l’azione di Cristo. Il soggetto della celebrazione non è la Chiesa astratta e lontana: è quella porzione concreta del popolo di Dio che è lì radunato per celebrare il memoriale del Signore. L’agire di tutti è uno strumento e un riflesso dell’azione di Cristo. Tutto il popolo quindi è soggetto della celebrazione: è il protagonista che si pone davanti a Dio come il popolo ebraico ai piedi del Sinai: perché il dialogo e l’alleanza avvengono tra Dio e il suo popolo.
* L’assemblea concretamente fa quello che ha fatto Cristo quando ha celebrato la prima Eucaristia. Cristo ha fatto una cena, quindi l’Eucaristia è un rito conviviale. Egli prese il pane e il calice: è la preparazione dei doni; rese grazie: è la grande preghiera eucaristica; lo spezzò: è la frazione del pane; lo diede ai suoi discepoli: è la comunione. Non è esclusa neppure la liturgia della parola: nella cena Cristo ha parlato lungamente nel grande discorso sacerdotale che alla fine si traduce in preghiera al Padre. La cena eucaristica è straordinariamente densa di intimità, di fraternità e di letizia quali si hanno o si devono avere attorno a ogni desco familiare. Ma il suo contenuto trascende quello di ogni banchetto. Riproduce la cena, ma contiene la croce. Non si rende presente l’atto della morte e della risurrezione di Cristo, che sono avvenute una volta per sempre, ma il contenuto di salvezza di quell’evento.
* * *
Il rito per essere vero deve afferrare l’uomo reale presente alla celebrazione, diversamente non serve a nulla e a nessuno. La liturgia è fatta per gli uomini e non gli uomini per la liturgia. Il culto sale a Dio passando per il cuore dell’uomo: è lì l’altare della celebrazione, è lì che Dio trova la sua gloria. Tutto il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento è un passaggio dall’esterno all’interno.
La partecipazione esteriore è solo segno di quella interiore. Ci vuole una partecipazione intima e personale che produca un frutto di grazia nel cuore dell’uomo. Il fine della liturgia è il bene spirituale dei fedeli; il modo è una ricerca fatta insieme da tutte le parti in causa. La creatività può essere la migliore e la peggiore delle cose: dipende dall’uso che se ne fa. L’apertura al futuro non è mai chiusura al passato: l’albero non cresce di più se si tagliano le radici. È la grande via dell’autenticità che risolve tutti i problemi. Ci vuole un cuore impregnato di Vangelo: allora la parola di Dio sulle labbra prende un sapore nuovo. Ci vogliono gesti che nascono dal cuore: allora diventano davvero espressivi del divino e sono in grado di contagiare.
La creatività più feconda è quella che nasce da un cuore in preghiera che si è preparato alla celebrazione liturgica. Questa creatività deve nascere unicamente dallo zelo pastorale che è amore per i fratelli.
PARTECIPAZIONE ATTIVA, COSCIENTE, PIENA
Il solo modo di capire l’Eucaristia è quello di inserirsi nel suo svolgimento e di sintonizzare ad essa le nostre energie spirituali: la capisce solamente chi la vive.
L’Eucaristia è un’azione, non uno spettacolo a cui si assiste, sia pur pregando. È un’azione di cui noi siamo gli attori ma in cui Cristo è il protagonista. Le parole con cui Cristo l’ha istituita non sono: “Dite questo in memoria di me” o “Ricordate, proclamate, meditate, ecc.”, ma “Fate”.
Di conseguenza il modo di parteciparvi è quello di un’azione. Tutti i fedeli devono agire con il celebrante. “I fedeli non assistano come estranei e muti spettatori a questo mistero di fede, ma comprendendolo bene per mezzo dei riti e delle preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente” (Conc. Vat. II SC 48).
La Messa è un’azione comunitaria. Per partecipare alla Messa è dunque necessario creare la comunità. Non basta che la gente entri in chiesa e ciascuno prenda posto accanto all’altro, per avere una comunità. Si può avere una moltitudine di piccoli mondi chiusi: ciascuno coi suoi pensieri, i suoi sentimenti, i suoi problemi che alzano un muro di indifferenza e di separazione da tutti gli altri. Bisogna abbattere questo muro, lasciar penetrare gli altri in noi, sentire le loro gioie e le loro sofferenze come nostre; in una parola: amare. Bisogna che ciascuno senta di non essere solo davanti a Dio, ma cellula viva del corpo di Cristo che è la Chiesa.
Per lungo tempo i fedeli sono stati abituati a una preghiera individuale, ad essere raccolti, a chiudere gli occhi, a mettere il viso tra le mani per stare raccolti. Nessuna meraviglia se oggi molti si trovano a disagio quando si chiede loro di essere attivi, parlanti, fusi in una preghiera collettiva.
Non si prega solo con l’anima, ma anche con la voce, con l’atteggiamento e con tutto l’essere. La serie di atti che si compiono in chiesa (gesti, parole, atteggiamenti) sono autentica preghiera. Nella liturgia hanno particolare importanza il guardare e l’ascoltare. La Messa è un’azione, ma non è un’azione muta. Implica dei gesti e delle parole e anzitutto la parola di Dio.
Ora la Parola è fatta per essere ascoltata. La liturgia non vuole che la Parola sia ridotta a una lettura. Se così fosse basterebbe distribuire dei libri e tutti, sacerdoti e fedeli, si sprofonderebbero in una lettura silenziosa: ne risulterebbe un circolo di lettori, un club del libro. Agli apostoli non è stato detto di scrivere la parola di Dio, ma di proclamarla. La Parola letta non dà il senso vivo della presenza di un Altro. Le manca quella forza che solo una voce umana le può conferire. Tutte le parole veramente belle, veramente solenni, vogliono essere ascoltate dalla viva voce e non lette. E alla messa c’è assai più che delle parole belle e solenni: c’è la parola di Dio. E questa Parola, nella sua proclamazione autentica, risuona viva ed attuale in tutta la sua divina efficacia. Bisogna ascoltarla.
Si deve indurre l’assemblea ad ascoltare i testi sacri e, per ottenere questo, il tono della proclamazione deve essere all’altezza del messaggio. I messalini e i fogli in uso sono cosa ottima per prepararsi alla Messa durante la settimana e come testi di meditazione e di preghiera. Ma il loro uso abituale durante la celebrazione spesso distoglie dal seguire i riti e dalla partecipazione comunitaria. Il messalino letto privatamente durante la Messa non può sostituire la proclamazione autentica della Parola.
Se la Messa è un banchetto, una cena, parteciparvi significa prendere parte a questa mensa. L’atto supremo della partecipazione alla Messa, quello che li riassume tutti, è la comunione. La comunione è anzitutto essenzialmente questo: la partecipazione al mistero della cena e della croce: comunione e sacrificio sono indissolubilmente uniti. Occorre fare una revisione del modo di concepire e vivere la comunione. Essa ci inserisce in un mistero immenso, di cui la croce costituisce il centro, ma che abbraccia anche tutta la grande storia sacra, dalla creazione all’ultima venuta del Cristo.
La Messa rende presente tutto questo grande mistero e la comunione inserisce ogni fedele nel suo dinamismo vitale. Gli incontri con Cristo nella comunione non possono essere chiusi in un individualismo angusto o in forme devozionalistiche.
L’uomo è una unità vivente e quindi tutto l’uomo deve pregare, corpo e anima. Quindi le tre posizioni più comuni (in piedi, in ginocchio, seduti) sono atteggiamenti comunitari che esprimono modi di essere e di pregare.
Lo stare in piedi è segno di rispetto e di disponibilità attiva.
Lo stare in ginocchio evoca l’atteggiamento di umiltà: ci si fa piccoli, ci si dimezza, si china il capo, si dice concretamente: “Mio Dio, tu sei grande e io sono piccolo, sono un nulla”. Ma bisogna che col corpo si inchini e si pieghi anche l’anima: solo allora il gesto è umiltà, verità e adorazione.
Lo stare seduti non è una posizione di comodo: è l’attitudine dell’attenzione raccolta e rispettosa verso Dio che parla.
I gesti e gli atteggiamenti comunitari sono connaturali alla nostra psicologia umana, associano il corpo ai sentimenti dell’anima ed esprimono questi stessi sentimenti in stile comunitario.
Ogni celebrazione deve essere autentica preghiera. Nessuno ha mai condotto gli altri a una esperienza vitale senza esserci passato per primo. Ne consegue che tutti gli animatori della celebrazione, sacerdoti e laici, devono prepararsi e prepararla non solo sotto l’aspetto esecutivo o “spettacolare”, ma soprattutto nei suoi contenuti spirituali. L’Eucaristia domenicale è il cuore della settimana: tutto deve partire da lì e tutto vi deve tornare: programmi di ogni genere e impegni di ogni specie. Il prete deve essere un “mistagogo”: ha il compito di prendere i fedeli per mano e condurli incontro al Cristo presente nel mistero. Ciò che è detto del sacerdote vale, con le debite precisazioni, anche per tutti gli animatori della Messa: lettori, ministranti, suonatori, cantori …
Il presidente della celebrazione deve educare gli altri con il suo stesso modo di pregare. La sua presenza deve emanare forza spirituale, sicurezza e calma composta. Deve essere tra la sua gente come uno che veramente crede e prega e non come uno che dice di credere e recita delle preghiere. Uno che dà vita alle parole e ai riti che si compiono. Un “capo” spirituale si affina e si attrezza pregando: poi effonde sull’assemblea quello che ha attinto nella contemplazione. Lo Spirito si serve di lui per illuminare le menti, infiammare le anime e suscitare desideri fattivi di santità.
Non sa che farsene Dio di un culto che non impegna, che non provoca una opzione concreta, che non afferra la vita con i suoi problemi e le sue aspirazioni, e il cuore con tutta la gamma dei suoi sentimenti. Le invettive profetiche contro il formalismo del culto conservano una attualità drammatica. Dio non vuole il sangue dei tori, ma il cuore dell’uomo. Il culto non ha valore in sé, ma per le energie, la fede e l’amore che le persone vi impegnano e vi fanno confluire.
Per evitare il pericolo del formalismo, degli atteggiamenti falsi e vuoti è indispensabile avere la percezione viva del Risorto, presente nel cuore dell’assemblea. La preghiera non sgorga dal cuore, se non quando si avverte la sua divina presenza. Non si dialoga con un assente. Come i polmoni si muovono a contatto con l’ossigeno dell’aria, così l’intimo dell’uomo si muove a contatto di questa presenza percepita nella fede. Dio, in quel momento, cessa di essere un “Egli” di cui si parla e a cui si pensa, e diventa un “Tu” a cui ci si rivolge.
Soprattutto nell’Eucaristia questa presenza del Risorto raggiunge il massimo grado di intensità. È una realtà stupenda non mai scoperta e assimilata a sufficienza.
Nei segni del pane e del vino il Risorto si rivela come una presenza realissima e sostanziale che perdura anche al di là nella celebrazione, nel tabernacolo. Attraverso il gesto sacramentale che è azione personale di Cristo si rivela come presenza dinamica. Attraverso la proclamazione della sua Parola, in cui Cristo presente annunzia oggi il suo vangelo, si rivela come una presenza parlante. Attraverso il celebrante che agisce “in persona di Cristo”, si rivela una presenza personale. Attraverso il popolo, in cui Cristo stesso prega, si rivela come una presenza incarnata nella Chiesa.
Questo è il cuore del mistero dell’assemblea: tutta la densità orante del suo clima dipende dalla percezione viva, commossa, esultante di questa presenza. In nessun altro spazio e tempo l’incontro con Cristo è più facile e più pieno che nella Messa. Sant’Ambrogio diceva di incontrarsi con Cristo a faccia a faccia nei suoi sacramenti e ne percepiva quasi l’alito del suo respiro (praesentiae eius flatum aspirare).
I primi cristiani sapevano che quando la comunità si radunava per spezzare il pane Egli veniva in mezzo a loro. Il loro pensiero correva spontaneamente alla sera di Pasqua in cui il Risorto appare in mezzo ai suoi per consolarli ed incoraggiarli ma soprattutto per donare loro il suo Spirito ed inviarli in missione al mondo intero.
La loro esperienza deve diventare la nostra. Questa presenza deve essere il centro focale che galvanizza l’assemblea e la fa prorompere in preghiera. Nulla è più importante per rendere viva una celebrazione. Ci vorrà per questo una fede altrettanto viva. Abbiamo il torto di ridurre spesso la fede all’accettazione piena di un certo numero di verità. L’essenziale della fede consiste invece nella capacità di percepire la presenza misteriosa e nascosta del Signore nelle realtà della Chiesa e del mondo; soprattutto nei sacramenti e nell’assemblea riunita che rappresentano il culmine di tutta la vita ecclesiale.
Chi crede così, sa incontrarsi con Lui, “respira” la sua presenza, e la preghiera diventa il respiro della sua vita.
Nella celebrazione della Messa risuona la parola di Dio ed è Lui che parla quando nella Chiesa si leggono le Scritture. Bisogna imparare a mettersi in ascolto. Questa è una componente irrinunciabile della preghiera. Se la preghiera è dialogo con Dio, è chiaro che dovremmo lasciare a Lui l’iniziativa della Parola. La nostra preghiera non potrà essere altro che un’umile risposta a quanto Lui ci ha detto. Senza un religioso ascolto della Parola non c’è preghiera cristiana. Il popolo di Dio è un popolo in ascolto. Tale ascolto esige che abbiamo ben chiari alcuni principi di fede.
1- Cristo è presente nella sua parola. È Lui che la pronuncia ora. Perciò la liturgia della Parola non è la lettura di un libro, ma l’ascolto di Qualcuno. “È come se vedessimo la sua bocca” (san Gregorio Magno). Cristo fa risuonare viva la voce del Vangelo e in Lui il Padre “viene con molta amorevolezza incontro ai suoi figli e discorre con essi” (Conc. Vat. II, Dei Verbum n. 21). L’acclamazione “Lode a te, o Cristo” esprime la fede in questa presenza.
S. Agostino commenta il versetto 3 del salmo 50 (49) “Viene il nostro Dio e non sta in silenzio” così: “Il lettore è salito al suo posto: è Cristo che non tace. Il predicatore parla: se parla secondo verità, è Cristo che parla. Se Cristo tacesse, io non sarei qui a dirvi queste cose. Ma anche sulla vostra bocca egli non tace: quando cantavate, era Lui che parlava. Egli non tace: è necessario che noi l’ascoltiamo, ma con l’orecchio del cuore; perché è troppo facile ascoltare con quello della carne”.
2- Cristo parla oggi e interpella oggi il suo popolo e in esso ciascuno degli ascoltatori. Ognuno deve dire: “È a me che parla!”. Bisogna sentirsi interpellati personalmente. La Scrittura è tutta intera per noi: per tutti e per ciascuno. Risponde ai problemi personali e ai bisogni concreti di ciascuno.
Non è vero che Dio ha parlato soltanto una volta: Dio parla adesso, parla sempre. Nelle parole della Bibbia è presente lo Spirito di Dio che ringiovanisce e attualizza continuamente il messaggio. “La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12).
Il vangelo è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede (Rm 1,16). Nessuno ha dunque il diritto di mettersi di fronte alla Parola in atteggiamento da spettatore disinteressato. Nessuno può fare lo gnorri e dire: “Parla con me?”.
3- Cristo domanda oggi una risposta. Una risposta a noi, a me. Esige una risposta che metta in movimento tutte le mie energie vitali: obbedienza, amore…
La risposta avviene a due livelli:
a) a livello di parole e di sentimenti: ed è la preghiera;
b) a livello di atti: ed è tutta la vita.
Anzitutto si risponde con la preghiera. Dicevano gli antichi: quando leggiamo è Dio che ci parla; quando preghiamo, siamo noi che rispondiamo. Nella liturgia questo dialogo avviene in modo comunitario. Dio parla attraverso le letture. Ognuno dà la risposta personale nella pausa di silenzio meditativo che dovrebbe sempre seguire. Poi si risponde coralmente attraverso il canto responsoriale. Per imparare a pregare bisogna guardare alla “Chiesa in preghiera”: e la liturgia non è altro che questo. È il metodo classico su cui si deve modellare il nostro colloquio personale al di là dell’azione liturgica.
Ma non basta rispondere a parole. Ci vuole la concretezza degli atti. Bisogna rispondere con tutta la vita. L’udire deve tradursi in ubbidire. Ai piedi del monte Sinai, a Dio che parlando aveva proposto l’Alleanza, tutto il popolo rispose insieme e disse: “Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!” (Es 19,8). L’ascolto diventa sterile, se la vita non si lascia modellare dalla Parola.
Bisogna imparare ad entrare nelle celebrazioni con queste disposizioni. La pratica ci sembra tanto lontana da questo ideale. Spesso la Parola non è colta sulle labbra di Cristo e perciò risuona nel vuoto, in un’assemblea che naviga nella apatia e nella noia. Entra da un orecchio ed esce dall’altro senza scalfire neppure l’epidermide dello spirito e lasciando il tempo che trova. Al più è vista come una vaga istruzione religiosa. Non suscita la preghiera, non stimola l’impegno di vita. “Basta prendere una parola di lì (dalla Bibbia) per avere un viatico per tutta la vita” (s. Giovanni Crisostomo); e da noi i fedeli escono di chiesa con il cuore vuoto.
Quale meraviglia se durante la settimana muoiono di fame o sono sopraffatti dalle chiacchiere degli uomini? Quando riusciremo a creare delle assemblee in ascolto del Dio vivo, allora non ci mancheranno i mezzi per contagiare il mondo intero.
Percepire la presenza viva del Cristo, entrare nel colloquio con Dio mediante la Parola: sono indicazioni importantissime per rendere la celebrazione viva e pregata. Ma da sole non bastano. Non è solo questione di percepire una Presenza e una Parola: bisogna entrare in un dramma, il dramma della salvezza. La liturgia è un evento. Le grandi meraviglie compiute da Dio nella storia della salvezza si prolungano nei sacramenti della Chiesa. Nell’evento pasquale, che è la sintesi suprema di tutto l’agire di Dio, tutte le meraviglie del passato sono rese contemporaneamente presenti. E la Pasqua di Cristo è il contenuto di ogni atto liturgico e di ogni sacramento. Nelle nostre celebrazioni ogni evento rivive: tutto si compie ora. La liturgia non si ripiega sul passato: celebra l’oggi della nostra salvezza. È vero che questo “oggi” non ci sarebbe se non ci fosse la magnifica storia di “ieri”; e che ci sentiamo spinti irresistibilmente verso il “domani” che attendiamo. Ma la storia di ieri è resa ora presente in pienezza; e quella di domani è anticipata nel mistero. La liturgia, soprattutto nella Messa, riassume tutte le dimensioni del tempo, tutta la storia della salvezza nelle sue varie fasi. Occorre trasporre tutto in chiave di attualità. Devo sentirmi implicato nell’evento che si celebra perché è qui presente per afferrare la mia vita. Oggi Cristo rinasce nella mia vita, oggi muoio con lui, risorgo con lui, salgo al cielo e siedo alla destra del Padre con lui, oggi scende su di me il suo Spirito…
Dio stringe oggi la sua alleanza con noi come in passato l’ha stretta con i nostri padri. Tutto quello che si fa e si dice oggi è parola ed evento attuale; si prolunga in noi e deve trovare in noi, ora, qui, una nuova attuazione. Ricordiamo che i sacramenti sono azioni di Cristo, Cristo che agisce e ci salva, qui, oggi.
Facciamo qualche esempio concreto. Nel culmine dell’Eucaristia si rievoca la cena del Signore: “Nella notte in cui fu tradito, Egli prese il pane …”. Si usano i verbi del passato e sembra che si racconti una storia. E così è, infatti. Ma non è tutto. Mentre è raccontata quella storia si traduce in realtà. È Cristo che, ora, prende il pane nelle sue mani, ripete i gesti della cena e si dona a noi sotto il segno del pane spezzato. Esattamente come quella sera, ormai lontana nel tempo.
Nella IV domenica di quaresima si legge il vangelo del cieco dalla nascita. Al momento della comunione si canta: “Il Signore unge i miei occhi; ed io vado, mi lavo, ci vedo e credo a Dio”. Cosa significa? Quello che è accaduto al cieco in quel giorno, accade ora a me: gli occhi della mia fede sono illuminati, la mia vita intraprende un nuovo cammino alla ricerca del volto di Dio.
La Messa non è uno spettacolo più o meno suggestivo: si entra in un dramma, si è afferrati dal mistero di Cristo, si esce dalla celebrazione rinnovati.
Il segno sacro è un elemento sensibile che esprime e contiene una realtà interiore di grazia: un fatto esterno che vuole arrivare soprattutto al significato e al contenuto delle cose. Dobbiamo esaminarci sulla esecuzione di tali segni (segno di croce, genuflessione, scambio della pace, ecc.). Lo stile di questi gesti sacri dev’essere degno della celebrazione e non fare magra figura messo a confronto con la recita dell’ultimo teatrino ambulante. Si tratta di realtà divine espresse in figura e in gesto umano. Dal nostro gesto deve trasparire l’azione di Cristo che agisce in noi.
Quando una genuflessione diventa un gesto frettoloso e meccanico, mentre lo sguardo vaga altrove in cerca di un posto a sedere, come potrà essere un “segno” della nostra fede adorante Cristo presente? Se al battesimo la veste bianca non è né veste, né bianca, come pretendiamo che esprima la bellezza radiosa di un’anima che ha rivestito internamente Cristo?
Quando non c’è coerenza tra ciò che esprimiamo all’esterno con parole o con gesti e ciò che sentiamo e viviamo nell’intimo, siamo bugiardi. C’è il rischio che le bugie più grosse le diciamo proprio a Messa. Sarebbe una tragica farsa.
L’obiettivo ultimo non è fare dei bei gesti, ma la grazia che trasforma il nostro cuore: anche la presenza di Cristo è ordinata a questo. Ad ogni gesto esterno deve corrispondere una attitudine interiore, un frutto di preghiera e di grazia. Se mi batto il petto, bisogna che esprima nell’intimo tutto il mio pentimento sincero. Se stringo il mio fratello in un abbraccio cordiale, devo sentirmi con lui in comunione d’amore. Se pronuncio formule di preghiera, bisogna che il cuore si accordi con la voce, perché le formule pronunciate con le labbra non sono la preghiera, ma solo mezzi di preghiera. Altro è recitare preghiere, altro è pregare. Se canto, non sarò un semplice esecutore di musiche: pregherò cantando, sintonizzando il grido del mio cuore con quello dei fratelli.
L’Eucaristia deve essere il cuore delle nostre giornate perché è il centro di ogni attività dello spirito.
È il centro di tutta la storia della salvezza perché lì si rende presente il passato di questa storia e in qualche modo è anticipato perfino il futuro. È il punto di convergenza di tutte le attività della Chiesa: il suo fulcro, il suo cuore. È il centro della attività spirituale. L’iter terreno di Gesù sfocia sul Calvario e intorno a quel perno gravita tutta la sua vita. Così è per ogni cristiano. Ogni itinerario spirituale deve sboccare nell’Eucaristia.
La Messa è il nodo di tutte le strade dello spirito. Da questa ricchissima fonte bisogna attingere la vita spirituale.
L’atto più grande che un uomo possa fare a questo mondo è quello con cui, sotto l’impulso dello Spirito santo, prende la sua vita tutta intera e la presenta a Dio in gesto di offerta e di amore. È il gesto che ci lega più direttamente e più strettamente a Dio.
Questa offerta a Dio nell’amore ha un intimo rapporto con l’Eucaristia, perché l’Eucaristia rende presente l’offerta che Cristo fa al Padre della sua vita, per salvare noi. Vivere l’Eucaristia è unire il nostro gesto di offerta al suo.
Celebrando la sua offerta, impariamo ad offrirci anche noi. Celebrare l’Eucaristia senza questa disposizione a mettere la nostra vita nelle mani del Padre è offrire non un sacrificio vivo, ma un sacrificio cadavere, una Eucaristia senza vita.
“Nell’Eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua e pane vivo che mediante la sua carne vivificata dallo Spirito santo e vivificante dà la vita agli uomini i quali sono invitati e indotti a offrire assieme a lui se stessi, il proprio lavoro e tutte le cose create” (Conc. Vat. II, PO n. 5). Chi è capace di vivere il suo sacrificio spirituale in unione con quello di Cristo vive l’Eucaristia.
Ogni Eucaristia rende presente la suprema offerta che Cristo fa di se stesso al Padre. Egli è sempre stato pienamente disponibile alla volontà del Padre: entrando nel mondo (Eb 10, 5-9) e durante tutta la sua esistenza, facendo della volontà del Padre il suo cibo (Gv 4, 34) e donando la sua vita sul Calvario in un gesto totale d’amore. Ogni Eucaristia ci rende presente, in tutta la sua freschezza ed efficacia, questa adesione e questo amore al Padre: è l’atto supremo di religione che mai sia stato compiuto.
Ogni altro atto ha valore solo in quanto è collegato ad esso. Ogni offerta di sé a Dio, per aver valore, deve essere agganciata a questa.
La Messa è l’insieme di due oblazioni: quella di Cristo sull’altare e quella del cristiano che si offre insieme con Cristo sullo stesso altare e prolunga questa offerta in tutta la sua vita. Solo chi crede in Cristo può offrire se stesso a Dio. Credere infatti è “entrare in Lui” (s. Agostino), diventare parte integrante del suo Corpo.
Nella Messa questo possiamo vederlo significato nell’acqua unita al vino “segno della nostra unione con la vita divina di colui che ha voluto assumere la nostra natura umana”.
La Chiesa è un “essere insieme”, è una comunità di persone. Ciò esige che per fare l’Eucaristia ci sia una vera comunità. La celebrazione sarebbe radicalmente falsata se lì ci fosse, anziché una comunità, una accozzaglia di gente. È lì nell’Eucaristia che ogni giorno si costruisce la comunità, è lì che devono essere distrutti diffidenza, incomprensione, antipatie e tutto il resto. È una scuola d’amore. Il segno della pace, per essere autentico, deve essere segno di un amore che non si arrende mai.
Quindi, da una parte ci vuole la comunità per fare l’Eucaristia e dall’altra è nell’Eucaristia che la comunità si costruisce e si cementa sempre più.
Ogni comunità cristiana ha queste quattro linee di forza: il modello è la comunità primitiva, quella di Gerusalemme; la sorgente è l’Eucaristia; il centro focale è la presenza di Cristo attorno a cui si stringe; il vincolo che la cementa è l’amore.
Chi vive l’Eucaristia quotidiana si sente ogni giorno con le spalle al muro e viene “costretto” dall’evidenza dei fatti a riconvertirsi a Dio e ai fratelli. Non può andare all’Eucaristia con un fratello al quale non rivolge la parola o col quale non si sente unito fraternamente e riconciliato. È questione di sincerità e di autenticità.
Liturgia della parola e liturgia eucaristica sono l’unica mensa della Parola di Dio e del Corpo di Cristo. La Chiesa è una comunità in ascolto, il cristiano è uno che ascolta la parola di Dio e la osserva (Lc 11,28). Ogni giorno il Signore parla e la vita cristiana è una risposta, un sì, ripetuto con gioia. La Parola ascoltata durante la Messa deve essere la lampada che guida e illumina i nostri passi ogni giorno. È noto che la prima vocazione monastica, quella di s. Antonio abate (+356), è nata proprio dall’ascolto della parola di Dio nella celebrazione eucaristica. “Un giorno mentre si recava, com’era sua abitudine, alla celebrazione eucaristica, andava riflettendo sulla ragione che aveva indotto gli apostoli a seguire il Salvatore, dopo aver abbandonato ogni cosa… Meditando su queste cose entrò in chiesa proprio mentre si leggeva il vangelo e sentì che il Signore aveva detto a quel ricco: “Se vuoi essere perfetto, va’ vendi quello che possiedi, dallo ai poveri, poi vieni e seguimi e avrai un tesoro nei cieli” (Mt 19,21).
Allora Antonio, come se quelle parole fossero state lette proprio per lui, uscì subito dalla chiesa, diede in dono agli abitanti del paese le proprietà che aveva ereditato dalla sua famiglia…
Partecipando un’altra volta all’assemblea liturgica, sentì le parole che il Signore dice nel vangelo: “Non vi angustiate per il domani” (Mt 6,34). Non potendo resistere più a lungo, uscì di nuovo e donò anche ciò che gli era rimasto… Egli lavorava con le proprie mani: infatti aveva sentito proclamare: “Chi non vuol lavorare, neppure mangi” (2Ts 3,10). Con una parte del denaro guadagnato comperava il pane per sé, mentre il resto lo donava ai poveri… Era così attento alla lettura che non gli sfuggiva nulla di quanto era scritto, ma conservava nell’animo ogni cosa al punto che la memoria finì per sostituire i libri. Tutti gli abitanti del paese e gli uomini giusti, scorgendo un tale uomo lo chiamavano amico di Dio e alcuni lo amavano come un figlio, altri come un fratello (dalla “Vita di s. Antonio” scritta da s. Atanasio, vescovo).
Antonio aveva capito che era Cristo che parlava, e parlava a lui, e voleva da lui la risposta quel giorno.
Voi capite che cosa accadrebbe nelle nostre giornate, se vivessimo così la liturgia della Parola! È il Risorto vivente che è lì, e quelle cose le dice a me! Quelle cose che ha detto, le vuole da me, oggi! Allora la vita si rovescia, si converte. “Dire di sì al Signore che parla è essere salvati” (s. Bernardo).
Poi c’è la seconda parte della celebrazione: la liturgia eucaristica. Il segno è un banchetto che esprime la comunione con Cristo e con i fratelli. Il rito conviviale è accompagnato da una grande azione di grazie, da cui deriva il nome di tutta la celebrazione: eucaristia.
“Rendiamo grazie al Signore nostro Dio” non è solo un ringraziare. È anzitutto uno sguardo contemplativo fissato su una persona, Cristo, con tutto quello che ha fatto. È spalancare gli occhi, ammirare e sentirsi il cuore riempito di gioia. Poi è lodare e dire: “Signore, quanto sei grande! Quanto sono mirabili le tue opere! Cosa potevi fare di più per noi?”. È un invito a fare di tutta la vita un canto e dare, nella preghiera, la prevalenza alla lode.
Ogni cristiano deve essere un contemplativo, cioè uno che sa spalancare lo sguardo sulle cose meravigliose che Dio ha fatto, sa stupirsene e, pieno di gioia, sa cantare. Il credente canta perché ha bisogno di cantare.
Ha bisogno di cantare perché la lode è al centro della sua preghiera. “Il cantare è l’atteggiamento tipico di chi ama, dell’innamorato: cantare amantis est” (s. Agostino). Si canta e si loda sempre, in ogni circostanza, in ogni luogo e si rende grazie di tutto. Questo atteggiamento ricco e molteplice è riassunto nel termine liturgico “rendere grazie”. Si è scelta una espressione fuori uso per conservare tutta la ricchezza originale che significa molto di più del nostro ringraziare.
S. Agostino chiama l’Eucaristia “il sacramento della memoria”. Che cos’è questa memoria? È la rievocazione di tutta l’opera della salvezza. Se uno ci chiedesse: “Perché andate a Messa?”, la risposta dovrebbe essere questa: “Per ricordare che Cristo ha donato la vita per noi e la dona in questa Eucaristia…”. La dona al presente. Infatti questa memoria è di tipo particolare. Non è un puro ricordo psicologico; è una memoria che rende presente la cosa ricordandola: è una memoria efficace. Questa stupenda storia di salvezza, nell’atto in cui la ricordiamo, diventa reale. Ricordiamo nuovamente il momento culminante della Messa: “Prese il pane, lo spezzò… Prese il calice…” Sembra che sia solo il racconto di una storia passata. In realtà, mentre la storia viene raccontata, diventa vera, perché è Lui che prende il pane ancora nelle mani, lo spezza e lo dona a noi.
La vita spirituale è fatta soprattutto di memoria. Non si tratta tanto di capire. Capire è il primo passo. Si tratta di ricordare. Questo ha un peso enorme nella vita spirituale. Questa memoria eucaristica è efficace non solo nel pane e nel vino nei quali produce la presenza di Cristo, ma efficace nelle mie giornate. Bisogna prolungare nella giornata ciò che abbiamo celebrato nella Messa. Quella memoria deve passare dall’ambito della celebrazione a quello della vita.
Nella Messa offriamo al Padre il Cristo presente e insieme con Lui offriamo anche noi. La Messa è una scuola nella quale si impara ad offrirsi: offrirsi a Dio in chiesa e al fratello nella vita.
Nella Messa si prega, si intercede per tutti, per la Chiesa e per il mondo. Bisogna che impariamo a pregare sempre così, a dare alla nostra preghiera una dimensione cattolica. “Non trascura nessuno chi prega per tutti” (s. Agostino). Allarghiamo il respiro della nostra preghiera perché non diventi bolsa. Bisogna avere la mente e il cuore aperti alle grandi intenzioni ecclesiali: questo ci aiuta a dare respiro cattolico alla nostra preghiera. La nostra comunità locale non deve diventare un ghetto, ma una scuola di universalità ecclesiale.
Il momento della comunione è la conclusione di tutta la vicenda eucaristica. L’Eucaristia è una cena: “Beati gli invitati alla cena del Signore”. Fare la comunione non è soltanto accogliere dentro di noi il Signore che ci fa visita.
Fare la comunione è inserirsi nel mistero che c’è in quel banchetto. In quel banchetto c’è la croce e la risurrezione di Cristo, il Cristo morto e risorto. Fare la comunione significa inserirsi in questo dramma. Ciò è molto impegnativo! Accogliere una visita, dopo tutto, non esige molto: basta fare un po’ di pulizia e mettere un mazzo di fiori sul tavolo. Ma essere inseriti nella Pasqua è un’altra cosa. È la solidarietà totale con Cristo: egli viene in me per ripetere dentro di me e con me quello che ha fatto sul Calvario. Bisogna essere disponibili a morire con Lui per risorgere con Lui. Immergiamo in Lui il nostro morire quotidiano perché diventi vita, Pasqua di risurrezione.
Nella Messa trova il suo massimo rilievo la tensione escatologica: “Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua resurrezione nell’attesa della tua venuta”.
“Nella liturgia terrena noi partecipiamo, pregustandola, a quella celeste, che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme, verso la quale tendiamo come pellegrini” (Conc. Vat. II, SC n. 8). Rinnovare la cena del Signore “nell’attesa della sua venuta” è un’attitudine di vigilanza, di gioiosa aspettativa, di pregustamento delle realtà celesti, di intima comunione con l’assemblea dei santi in cielo, raccolta intorno al Cristo.
Nella liturgia della festa di tutti i santi rendiamo grazie a Dio dicendo: “Oggi ci dai la gioia di contemplare la città del cielo, la santa Gerusalemme che è nostra madre, dove l’assemblea festosa dei nostri fratelli glorifica in eterno il tuo nome. Verso la patria comune noi, pellegrini sulla terra, affrettiamo nella speranza il nostro cammino…” Questa tensione verso la santa Gerusalemme del cielo è molto decelerata o addirittura volutamente frenata: non vorremmo arrivare mai!
È urgente ricuperare, al livello concreto della vita, questo valore cristiano. L’attesa della venuta del Signore era vivissima nella prima generazione cristiana.
La celebrazione della Messa deve diventare una veglia di attesa e di speranza. I due eventi entro cui si muove l’esistenza cristiana sono la risurrezione di Cristo e il suo ritorno alla fine dei tempi (la parusia).
L’Eucaristia viene a collocarsi su questa linea continua che va dal mistero pasquale di Cristo alla parusia.
I primi cristiani hanno l’esperienza di una presenza viva del Risorto, nel momento in cui la comunità celebra la Messa. Egli viene nel seno della comunità riunita. Si stringono attorno al Risorto invisibilmente presente, in attesa di contemplarlo a viso scoperto nella gloria del suo avvento.
Da questa presenza attuale, sperimentata nel mistero, sgorga la gioia (At 2,46).
Colui che viene nella Chiesa riunita per spezzare il pane è quello stesso che tornerà nella parusia per compiere ogni cosa. Questa presenza misteriosa costituisce un ponte fra le due sponde della Chiesa: quella pellegrina e quella della Patria.
Per rinnovare lo spirito e il clima della celebrazione dobbiamo rituffarci nel clima della celebrazione primitiva, quella della Chiesa nascente, esuberante di energie, carica di tensione spirituale, stimolata dal ricordo vivo della presenza del Signore. Riusciremo forse a eliminare le nostre stanchezze e a desiderare con lo stesso ardore la venuta del Signore. Sentiremo come loro di essere inseriti in una storia che sbocca nell’eternità e ci lasceremo trascinare dal suo movimento.
È quello che ci chiede il Signore attraverso un testo del canone ambrosiano: “Ogni volta che farete questo lo farete in memoria di me: predicherete la mia morte, annunzierete la mia risurrezione, attenderete con fiducia il mio ritorno, finché di nuovo verrò a voi dal cielo”.
L’Eucaristia è il cuore della Chiesa e la pupilla dei suoi occhi. Deve diventare il cuore della vita di ogni fedele e di ogni comunità: tutto lo sforzo ascetico, tutte le attività di apostolato devono confluire lì, e da lì attingere la loro ispirazione e la loro energia conquistatrice.
Ogni domenica deve vedere radunata intorno all’altare una vera famiglia di figli di Dio, consapevole di costituire “un popolo di sacerdoti”, intelligentemente attiva con l’anima e con il corpo “per attingere il vero spirito cristiano dalla sua prima e indispensabile fonte, che è la partecipazione attiva ai sacrosanti misteri e alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa” (S. Pio X, 22/11/1903).