07
Feb
Religione del Padre o illusione?
“Papà”, “Mamma”: le parole più usate, più pronunciate dall’inizio alla fine della vita…
Ma come tutte le parole più usate ed inflazionate, esse rischiano di essere tra quelle sulla quali meno si riflette, con la conseguenza che non si riflette sul loro profondo contenuto.
Padre e Madre sono parole primordiali, essenziali nel loro suono labiale e nel loro significato.
Esse ci riconducono sempre alle nostre radici.
Sono sempre estremamente cariche di memorie affettive piacevoli o dolorose, memorie che permangono nel tessuto della nostra esistenza spesso inconsapevolmente e che fanno da filtro alla percezione di noi stessi, degli altri e dell’ambiente (cfr. il transfert).
Proprio per il carico di vissuto affettivo che la memoria del padre e della madre conserva in ciascuno di noi alcuni filosofi e psicanalisti hanno sospettato che il concetto di Dio Padre, che sta alla base della nostra esperienza religiosa, non sia altro che l’immagine amplificata idealizzata proiettata all’infinito del nostro desiderio e sentimento.
Ovvero Dio Padre non sarebbe che una nostra costruzione mentale originata dalla nostalgia del padre-madre che abbiamo e non-abbiamo avuto.
L’uomo limitato, segnato in se stesso dall’insoddisfazione e dall’angoscia, condenserebbe tutto il suo bisogno di amare e di essere amato, di onnipotenza, di protezione, di regolazione morale (con premio o punizione) su Dio Padre.
Sappiamo che il grande esponente di questa teoria è S. Freud. Nel suo scritto L’avvenire di una illusione, egli sostiene che la religione non è che il condensato delle aspirazione appagate e quindi da far perdurare ad ogni costo e inappagate e quindi da perseguire angosciosamente ad ogni costo dell’uomo.
Dio sarebbe tutto ciò che il padre è o non è stato. L’origine della religione? Un inesauribile dolore per una assenza inguaribile.
Da qui allora la conseguenza che la religione non sia che un ostinato perdurare nell’infanzia, un essere se non altro compensazione di desideri insoddisfatti.
La conclusione per Freud è chiara. La religione (l’illusione) del Padre ci sarà sempre fino a quando ci sarà qualcuno che non riesce a far a meno del padre.
L’uomo adulto è l’uomo che cessa di voler perdurare nella stato di figlio, l’uomo che si svincola da ogni tutela parentale.
E’ l’uomo che si assume in toto la sua vita senza rimpianti di legami nostalgici. Che affronta “virilmente” tutta l’angoscia che la vita porta con sé senza cercare comode vie d’uscita.
E’ l’uomo che si appropria di sé, svincolandosi da ogni mito. Diviene lui il centro di se stesso e di tutto ciò che lo circonda.
Mai prima di Freud, Feuerbach, Nietzsche l’uomo aveva portato così avanti la rivendicazione della sua autonomia di fronte agli dei usurpatori. Una volontà di depodestare il mito di Sisifo.
Questi autori non si accaniscono nel voler dimostrare l’inesistenza di Dio, non ne hanno la necessità.
Perseguono un’altra strada andando alla radici dell’esperienza religiosa scalzandone alla base la legittimità e serietà.
Occorre onestamente riconoscere che molte delle loro critiche mettono realmente allo scoperto le inconsistenze di una certa religiosità.
Ma come porsi dinanzi a queste posizioni a cui la nostra cultura sembra più o meno consapevolmente essersi abbondantemente abbeverata.
Una pista è anzitutto quella di precisare il senso delle parole che usiamo parlando di Dio.
Infatti la religione pullula di caricature di Dio nascoste dietro le medesime parole. Sono idoli mentali che hanno indotto a vere e proprie aberrazioni. Il nostro rischio è di continuare a proiettare su Dio, per appropiarcelo o strumentalizzarlo, le nostre ossessioni e individuali e collettive.
Scriveva già nel IV sec. San Clemente di Alessandria: la maggior parte degli uomini, chiusi nel loro corpo mortale come la lumaca nel suo guscio, trincerati nelle loro ossessioni a guisa di istrici, si formano l’idea del beatissimo Iddio prendendo a modello se stessi.
Occorre una seria consapevolezza che tutti i nostri concetti, tutte le nostre parole possono contenere Dio. Un dizionario non contiene la vita delle parole in esso contenute.
Il mistero infinito di Dio lo posso solo intuire attraverso segni, simboli, metafore che parlano per evocazione, allusioni. E’ questa l’analogia, ovvero l’unica possibilità data all’uomo per poter parlare del mistero in modo legittimo. E’ ad esempio tutto il linguaggio usato dalla liturgia.
Cito un brano esemplare di un grande mistico – teologo che ha fatto della teologia apofatica il motivo maggiore della sua riflessione:
I teologi lodano la divina Origine perché non ha nome alcuno, e intanto perché li possiede tutti…
La lodano perché ha una molteplicità di nomi quando osservano che essa dice di se medesima: Io sono Colui che sono, o anche Vita, Luce, Dio, Verità; e quando coloro che conoscono Dio celebrano con molteplici nomi la Causa universale, ispirandosi ai suoi effetti come Bontà, Bellezza, sapienza… Intelligenza, Anziano di giorni, Giovinezza eterna, salvezza, Giustizia, santificazione, Liberazione… E’ nello stesso tempo nel cuore dell’universo e al di là del cielo, Sole, Stella, Fuoco, Acqua, Soffio, Rugiada, Nuvola, Roccia Assoluta, Pietra in una parola tutto ciò che è niente di ciò che è.
Così questa causa di tutto che supera tutto, è nel contempo l’assenza di nomi che le si addice e tutti i nomi di tutti gli esseri… Essa contiene in sé dall’inizio ogni essere di modo che si può lodarla, e nominarla a partire da ogni essere (Nomi Divini).
L’analogia, con il suo linguaggio simbolico, serve a gettare ponti tra la nostra realtà limitata dallo spazio e dal tempo e la realtà divina che trascendendo ogni cosa è in-dicibile, irraggiungibile.
Questo non significa che i nomi che usiamo per parlare dell’indicibile come Dio, Trinità, Padre, Figlio, Spirito; Amore, Signore, Eterno, Immenso siano in un certo senso gratuiti, impropri, illegittimi. No! Essi sono appropriati ma non di certo esaustivi. Dicono qualcosa, non tutto e non esattamente ciò che intendiamo dire perché il mistero sfuggirà implacabile. Dio è sempre il “Totalmente Altro”.
Sono nomi attinti alla nostra esperienza quotidiana perché è questa sola che può parlare alla nostra vita.
Tornando allora alla denominazione di Dio come Padre dobbiamo dire che se essa fosse soltanto la proiezione di quanto l’esperienza del padre e della madre hanno lasciato in noi, Dio allora non sarebbe che un fantasma, un feticcio da noi inconsapevolmente inventato per far fronte alla nostra fatica di vivere. Sarebbe realmente una “compensazione” alla nostra debolezza e alla nostra paura.
Ma è qui che si innesta la straordinarietà della fede cristiana che attesta che Dio si è rivelato, ha mostrato il suo volto di Padre in un uomo vissuto duemila anni fa in Palestina: Gesù di Nazaret.
Se non avessimo conosciuto in Gesù il Figlio di Dio, il nome di Padre dato a Dio sarebbe se non insensato certamente e immensamente timido e povero.
Qui siamo chiamati a ripercorrere tutta l’esperienza filiale di Gesù come ci è testimoniata dai vangeli.
Ascoltando le parole di Gesù appare evidente che il rapporto che Egli ha col Padre non assume certamente un carattere compensatorio. Non vi sono nostalgie infantili o frustrazioni irrisolte.
E quando Lui stesso suggerisce ai suoi discepoli di rivolgersi al Padre invita ad assumere il medesimo suo atteggiamento.
Da quel momento per il discepolo di Gesù, Dio è Padre con le qualità proprie di ogni vera paternità: amore, sollecitudine, compassione, perdono, fedeltà, sicurezza.
Egli ci conosce, sa le nostre necessità, conta il numero dei capelli del nostro capo, ha cura di noi.
Gesù incoraggia alla fiducia (cfr. Lc 12,32)…
O queste parole posseggono il loro senso e la loro verità oppure l’intero evangelo è privo di senso e di verità.
La denominazione di Dio Padre non elimina la trascendenza e il mistero che la circonda, siamo sempre in un linguaggio analogico, ma permette di stabilire con lui una relazione filiale nel senso più pieno, nella quale diventa spontaneo un atteggiamento di consegna e di fiducioso abbandono.
Certo la paternità di Dio incontra le nostre debolezze e le nostre memorie, ma non nasce da esse, non deve nascere da esse, pena l’instaurarsi di un errato e deviante rapporto con una nostra immagine di Dio che diviene idolo da adorare o abbattere.
Per il cristiano la scoperta della paternità di Dio nasce dalla rivelazione donataci da Gesù “Figlio unigenito, divenuto primogenito di molti fratelli”.
Compensazione e rivelazione possono coesistere nel nostro incontro col Padre dei cieli, a condizione che la sua conoscenza non la si faccia derivare dalla nostalgia del passato, ma dalla parola e dall’esempio di Gesù Cristo. Solo questo incontro purificherà memoria , affetto volontà nella direzione di una sempre più limpida relazione col Padre.
Posted by
attilio @
13:49