• 06 Feb

    DOLORE  DEL  MONDO  E  AMORE  DEL  PADRE

    Tre volte al giorno la liturgia ci fa domandare al Padre, attraverso la preghiera del Signore, di liberarci dal male.

    Chiediamo al Padre che il male non ci sovrasti al punto di dubitare di lui, del suo amore, fino al punto di dire insieme allo stolto del Salmo 14: Dio non c’è! Dio non se ne cura! (v. 1)

    Come credere all’amore di un Dio che si dice Padre di fronte al mistero del dolore e del male che sembrano dilagare sempre più in mezzo a noi sino al punto da sommergere tutto?

    Basti uno sguardo veloce alla cronaca di questi ultimi tempi…

    La liturgia ci ha condotti al Calvario: Se è figlio di Dio, come ha detto, scenda dalla croce… Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso?…

    Accanto a Gesù ci sono due ladroni. Essi rappresentano due modi di affrontare la vita, il dolore, la morte.

    Uno impreca e si beffa di Dio, che non ce la fa a vincere il male. Questi non spera nulla, si accontenta forse di aver goduto la vita per quanto gli ha dato. Di fronte alla croce del Giusto non attende alcun aiuto.

    L’altro ladrone si apre ad una luce diversa, uno spiraglio che fa affiorare un senso diverso, una speranza. Si apre ad una sapienza diversa, che per san Paolo è quella della debolezza di Dio. E’ la stoltezza di un Dio che muore da peccatore accanto al peccatore.

    In Gesù, Dio scende agli inferi, si è fatto estrema debolezza e stoltezza…

    Chi ha visto morire il Figlio sulla Croce ha visto, ha contemplato chi è il Padre e sino a che punto giunge la sua follia d’amore per questa nostra umanità: Gv 14,9 Gli dice Gesù: «Da tanto tempo sono con voi, e non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”?


    LA PEDAGOGIA DELLA STORIA

    Lungo la storia Dio ha preparato il suo popolo alla lettura del Giusto che soffre e che muore perché tutti gli altri si salvino. In queste figure Dio si rappresenta nella sua passione causata dalla resistenza dell’uomo che fatica a voler essere liberato.

    Giuseppe viene venduto, tradito, dai suoi fratelli. Il libro della Sapienza commenta: Dio scese con lui nella prigione, non lo abbandonò mentre era in catene (10,14).

    Di Mosè l’autore della lettera agli Ebrei commenta: Mosè, divenuto adulto, rifiutò di essere chiamato figlio della figlia del faraone, preferendo l’obbrobrio del Cristo piuttosto che godere per breve tempo del peccato (11,26).

    Davide perseguitato è figura del Messia perseguitato. Giosia re giusto e santo viene trafitto a Meghiddo dagli arcieri del faraone egiziano!

    Lentamente la consapevolezza del giusto oppresso e ucciso si fa strada ed impone una riflessione. Inizia a prospettarsi la figura di un Messia-Servo sofferente: ne è conferma la vicenda di Geremia, di Giobbe e di tanti protagonisti dei Salmi.

    Non per nulla Gesù inizia i suoi discepoli al suo mistero pasquale commentando “Mosè, i Profeti e i Salmi” onde far capire che bisognava che lui patisse.

    Il Servo-Figlio è torturato ed ucciso e non vi è nessuno e nulla che fermi la mano del Padre! In lui il Padre stesso muore.

    La debolezza di Dio è arrivata sino a farsi ghermire dalla morte.

    Il Padre in Gesù Messia è Amore che si dona tutto.

    Il corpo di Gesù Giusto sofferente ha sofferto in tutti i giusti dell’Antico testamento e continua a soffrire, a subire violenza e ad essere oltraggiato ed ucciso nei sofferenti e i morti di oggi e di domani.

    C’è un comune destino: quello del mistero pasquale.

    IL MISTERO PASQUALE

    Pesach significa “passare oltre, saltare, passare attraverso”.

    Come risposta al peccato che ha votato alla morte l’uomo e coinvolge la creazione, Dio ha inventato l’economia della redenzione, cioè il faticoso cammino della fede.

    In questo cammino Dio stringe un’Alleanza, salva dallo sterminio i primogeniti del suo popolo passando oltre, fa uscire Israele dalla schiavitù e dall’idolatria facendolo passare attraverso il mare, fa passare il suo popolo attraverso il deserto per condurlo alla terra da lui promessa.

    Cioè egli ha educato il suo popolo facendone la figura esemplare dell’unto del signore, del Messia, anticipandogli in tanti modi le sue sofferenze.

    E’ la sorte di tutti noi, entrare nel medesimo destino del Servo-Messia condividendone il cammino. In lui siamo stati battezzati.

    Pertanto il nostro soffrire da cristiani è segnato dalla partecipazione alle sofferenze di Cristo, anzi in noi egli porta a compimento la sua passione.

    L’amore del Padre che consuma il Figlio consuma ora, ancora, il suo corpo che siamo noi misteriosamente toccati dalla sua incarnazione.

    Così ci sono due modi di soffrire e di morire: o imprecando o amando.

    Nell’amore posso essere distrutto nel corpo con tutto quello che ciò vuol dire, ma ne esco vincitore, in Cristo che con me oggi soffre e muore per condurmi alla gloria.

    Dov’è il Padre in tutto questo, nel dramma di tanti piccoli e giusti violentati, torturati ed uccisi? Dov’era il Padre in quelle ore di tremenda agonia nella quale il Figlio consumava tragicamente la sua giovane vita?

    Il Padre era lì sulla croce dell’obbrobrio del Figlio, scendeva con lui nel buio del sepolcro, era ucciso, è ucciso.

    Non posso più dire che Dio è estraneo al mio dolore da quando il Figlio suo ha assaporato fino all’ultima goccia quel calice che gli era presentato. Calice di dolore e di amore.

    UNA BUONA NOTIZIA

    La buona notizia non è dunque che io sia esentato dalla morte e dalla sofferenza comune a tutti, credenti e non, ma che io posso morire e soffrire nell’amore, nella certezza che il Padre soffre con me, e perciò non mi lascerò schiacciare dal non senso e dalla disperazione. Anzi sarò capace di fare della mia morte e del mio dolore un’offerta.

    L’amore per questa nostra umanità ha fatto sì che Dio assumesse in pienezza la kenosis: affinché nulla andasse perduto.

    Mosso dallo Spirito accetto l’assurdo del soffrire e del morire senza rassegnarmi alla sua negatività, imparo da Gesù e con Gesù a strappare alla morte e alla sofferenza la forza malefica del male e del peccato, ed entrare così nella follia della croce.

    La conclusione è questa: io sono preso dalla passione del padre, divengo come il Padre capace di amare sino a dare il suo proprio figlio, che è tutta la sua vita, solo perché è amore.

    Un amore che corre sempre il rischio di essere rifiutato e disprezzato: il Padre lo ha fatto per chi non poteva dargli nulla in cambio, anzi gli era nemico, e neppure chiedeva e voleva essere liberato.

    Tutto questo lo comprendiamo bene non toglie nulla alla drammaticità del dolore e della morte, anzi addirittura lo acutizza, perché affina la percezione dell’assurdità del dolore dell’Innocente che il Padre consegna all’uomo.

    Occorre preghiera e abbandono affinché il dolore non distrugga. L’abbandono nelle braccia del Padre non lo si improvvisa. Anche Gesù lo dovette imparare, reso perfetto mediante la sofferenza: seppe perciò morire pregando e perdonando e chiedendo con forza la risurrezione.

    Il male non è voluto dal Padre, ma da noi. E questo male non deve mettere in dubbio la paternità di Dio, ma spingerci a rifugiarci in essa: Se anche camminassi in una valle oscura non temerei alcun male perché tu sei con me. So che mi ridarai la vita e non permetterai che il tuo santo rimanga nella tomba.


    Posted by attilio @ 18:56

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