• 30 Dic

    ANDRE’ LOUF


    LA DIMENSIONE APOSTOLICA E CONTEMPLATIVA


    DELLA VITA RELIGIOSA


    Conferenza del novembre 1983 in occasione della Sessione nazionale dei Vicari episcopali per gli istituti dei religiosi e delle religiose di Francia. Pubblicata in Vie consacrée  3 (1985), pp. 147-164

    Distinguere tra contemplativi e attivi?

    Qualche settimana fa, ricevendo il programma di quest’as­semblea, ho preso visione del titolo definitivo del mio interven­to, e mi sono accorto – avventura che talvolta tocca al malcapi­tato relatore – che si era verificato uno slittamento tra l’argomento che mi era stato originariamente proposto – o per lo me­no che avevo forse troppo frettolosamente capito, in ogni caso, quello che avevo preparato – e l’argomento che figurava invece sul programma definitivo: ‘La dimensione apostolica e contem­plativa della vita religiosa”.

    In un primo momento, infatti, mi era sembrato di capire che si attendesse da me una testimonianza sul modo in cui i con­templativi e le contemplative, ed essi soli, cercano di vivere que­sta duplice dimensione, contemplativa e apostolica allo stesso tempo, della loro vita; e che un altro religioso, presumibilmente appartenente agli “attivi”, ci avrebbe parlato di questa stessa duplice dimensione all’interno della sua specifica esperienza di una vita più impegnata nel servizio.

    Fatta questa riflessione, ho finito poi per rallegrarmi dell’inat­teso slittamento. Rimanevo intenzionato a partire, nella mia te­stimonianza, da un certo tipo di vita contemplativa – e come potrei fare altrimenti, dal momento che è quella dove sono nato all’esperienza spirituale?  Ma una testimonianza del genere sarebbe stata poi tanto differente da quella di un religioso impegnato nella vita detta apostolica? Certamente il quadro esterio­re, il terreno d’azione, il ritmo di vita possono differire notevol­mente, ma questi non sono altro che segni di un’esperienza inte­riore, che si sviluppa a livello della vita battesimale e di fede, e che è comune a tutti, un’esperienza interiore che, a una certa profondità, dovrebbe lasciar cadere le distinzioni e le catalogazioni esteriori tra attivi e contemplativi. Possibile che non ci sia a priori, in qualche ambito, un terreno comune, una fonte con­divisa da tutti?

    Formulando questa domanda in piena semplicità davanti a voi, sin dal mio esordio, sono cosciente di scoprire già le mie carte e di prendere posizione su quello che seguirà. In realtà, più si approfondisce l’esperienza del credente, e si cerca di discerne­re qualcosa di quella misteriosa vita detta spirituale o interiore -ma che importa la scelta più o meno felice, più o meno anti­quata dei termini, quando si tratta della vita stessa di Dio e del suo soffio che si muove nelle nostre viscere? -, più si cerca di discernere questa vita, più velocemente crolla e anzi svanisce il confine che una certa comodità di linguaggio ci porta sempre a tracciare tra due generi di vita, o tra due tempi forti di una stes­sa esperienza: vita attiva e vita contemplativa.

    In fondo, venendo a testimoniare davanti a voi oggi, è forse questo ciò che più mi sta a cuore di dirvi, ed è anche per questa via che sarò portato a uscire un po’ dall’ambito dei contemplati­vi in senso stretto, per parlare dell’insieme della vita religiosa, così come la sento al cuore della mia personale vocazione di mo­naco. Ed è anche per questo che potrò perdonare a chi di dove­re lo slittamento avvenuto tra l’argomento proposto all’inizio e quello che è stato fissato alla fine sul programma, e persino dar­gli ragione.

    Se poi mi occorresse un motivo supplementare per motivare questo slittamento, farò allusione a un sentimento d’imbarazzo, che forse avrete incontrato nel vostro ministero a servizio della vita religiosa: quell’imbarazzo che la maggior parte dei contem­plativi e delle contemplative provano quando li sì vuole insignire di questo titolo. Un disagio che non si spiega soltanto con la fine di un certo trionfalismo di quella che soleva definirsi la par­te migliore, smorzato, qui come altrove, nella chiesa. Non espri­me neanche la diffidenza oggi di moda verso un termine so­spettato di neoplatonismo da una parte dell’intellighenzia, an­che credente – i contemplativi sono generalmente gente troppo semplice per aver sentore di simili scaramucce. No, essi credono profondamente al loro genere dì vita. Anche alla contemplazio­ne, nel senso in cui ne parla loro un’antichissima tradizione. Ma si sentono a disagio quando si pretende di definire tutta la loro vita con quello che non ne costituisce che una dimensione, fon­damentale e importante certo, ma che essi sentono peraltro così fragile, direi quasi precaria. Una dimensione che non è affatto alla loro portata, perché è pura grazia. Chi oserebbe presentare se stesso come “contemplativo” o “specialista in contemplazio­ne”? E poi la contemplazione non è qualcosa che appartiene lo­ro in modo esclusivo; infatti ci sono certamente più contempla­tivi al di fuori dei monasteri che all’interno. Infine essa rischia di sminuire altri aspetti non meno importanti della loro espe­rienza di credenti.

    Questo malessere dei contemplativi di fronte al titolo che si conferisce loro esprime a suo modo come la distinzione tra vita contemplativa e vita attiva, riguardo al vissuto di tutti i giorni, non sia completamente adeguata. Forse le due si raggiungono in un fondamento comune che sarebbe importante esplorare. Tuttavia resta una distinzione comoda, e non vorrei neanche rinun­ciarvi. Tanto più che, contrariamente al Codice di diritto canonico del 1917, quello attualmente in vigore autorizza ufficial­mente, sulle orme del concilio, il fatto di essere “interamente or­dinati alla vita contemplativa”.

    I contemplativi dal punto di vista canonico

    Un Codice di diritto canonico non tratta, certo, della contem­plazione nel senso teologale del termine, sulla quale il diritto non ha alcuna competenza, ma della vita contemplativa “canonica”, che il diritto può e deve talora regolamentare con certe modalità.

    Sono molto contento che il nuovo Codice abbia voluto farlo. Il diritto non esiste per reprimere o per opprimere. La sua fun­zione primaria è quella di liberare, di rendere possibile, dì fa­vorire ciò che si deve realizzare, e anche proteggerci da quanto potrebbe danneggiare tutto ciò. E’ normale che il Codice preci­si alcune condizioni perché una vita religiosa, che si vuole contemplativa, possa esserlo a pieno titolo all’interno delle struttu­re ecclesiali.

    Soffermandoci per qualche istante, se siete d’accordo, sui ca­noni che affrontano l’argomento, potremo mettere a fuoco una delle costanti, non solo di quella vita che è detta contemplativa, ma, io credo, di ogni vita religiosa.

    Se non erro, la dizione istituto interamente ordinato alla vita contemplativa compare due volte nel nuovo Codice. Prima al ca­none 667, che tratta della clausura. Quest’ultima, è importante notarlo, è richiesta a tutte le forme di vita religiosa; nei mona­steri di vita contemplativa sarà più stretta. E anzi, quando si tratta di monache contemplative, questa clausura sarà papale, vale a dire che le norme che la regolano saranno messe a punto o approvate dalla santa sede in prima persona. Dunque ecco già una delle costanti di ogni vita religiosa, ma che è particolarmen­te evidenziata dai contemplativi: il religioso comincia con il prendere una certa distanza nei confronti del mondo. Egli ap­partiene a quella porzione della chiesa che deve rimanere addos­sata al deserto.

    La seconda menzione di una vita religiosa “interamente ordina­ta alla vita contemplativacompare nella sezione seguente, dedi­cata all’apostolato dei religiosi. Si tratta del canone 674, un ca­none densissimo, la cui ispirazione teologica, e persino le fonti letterarie, si rifanno a molti documenti conciliari:

    “ Gli istituti interamente ordinati alla vita contemplativa occu­pano sempre un posto eminente nel corpo mistico di Cristo: essi infatti offrono a Dio un eccelso sacrificio di lode, arric­chiscono il popolo dì Dio con i frutti preziosi della santità, mentre con il proprio esempio lo stimolano e con una miste­riosa fecondità apostolica lo estendono. Perciò, per quanto urgente sia la necessità dell’apostolato attivo, i membri di tali istituti non possono essere chiamati a prestare l’aiuto della lo­ro opera nei diversi ministeri pastorali”.

    Questo secondo canone riguarda il carattere propriamente apo­stolico della vita contemplativa, un’apostolicità che è detta particolare e misteriosa, legata al dato del deserto, simboleggiato da un ritiro e dalla clausura, che la chiesa vuole sia rispettata.

    Questi due canoni offrono spunto alle due articolazioni del­la mia conferenza: dapprima il deserto, quello che in esso deve avvenire; poi la fecondità apostolica che da esso scaturisce, misteriosamente, certo, come dice il diritto, ma anche secondo de­terminati criteri, che si verificano anche altrove nella chiesa, se­condo una dinamica che esprime forse ciò che vi è dì più profon­do, ma anche di più comune a ogni esperienza cristiana.

    Addossati al deserto

    La chiamata al deserto è inscritta nel cuore della chiesa, e non sotto forma di nostalgia per un passato glorioso, ma come unica condizione per un futuro in cui Dio continui ad agire con altrettanta potenza. Il deserto è una struttura teologica fondamentale della chiesa che non potrà certo essere privata di valore prima del ritorno di Gesù alla fine dei tempi.

    E questo da sempre. È il luogo dove la chiesa nasce e cresce. In Abramo, chiamato alla vita nomadica, in Mosè e nel popo­lo liberato dall’Egitto, sospinto sulle strade di un interminabile esodo, di deserto in deserto, il popolo dì Dio ha camminato at­traverso il tempo. Il deserto resta inscritto nella sua memoria, popola i suoi ricordi, è presente nei suoi progetti. A ogni tornan­te della storia di salvezza, vi furono ebrei che vennero ricondotti nel deserto per rivivervi la Pasqua e preparare un nuovo passaggio. Gesù, a sua volta, al momento d’inaugurare la sua missione, è guidato irresistibilmente dallo Spirito di Dio in solitudine, co­me tutti i suoi padri, che sapevano per esperienza come le strade di Dio si preparino nel deserto, e come sia in esso che vengono concepiti i frutti dello Spirito.

    La chiesa stessa, ancora oggi, continua a restare addossata al deserto. In esso affonda le sue radici come in un terreno di Dio, nella terra materna dell’esodo e della Pasqua. In esso ha le sue retrovie, a partire dalle quali può operare. La chiesa non esita, in certi momenti, a battere in ritirata nel deserto, a manifestare una distanza, a raccogliersi un istante per maturare le parole da pronunciare di fronte agli uomini con tanto più vigore, dato che le avrà prima intese dalla bocca di Dio. Essa può allora sembrare marginale, suscitare stupore, provocare persino odio, quell’odio evangelico che Gesù le ha promesso da parte del mondo. Ma non potrà mai dubitare che il deserto dei profeti e di Gesù sia in qualche modo il luogo che le si addice, nel quale viene incessantemente convocata per assumere in pieno la sua dimensione e la sua consistenza.

    Ora, questa porzione di deserto che non dovrebbe essere estranea a nessuna vocazione cristiana è assunta in modo particolarmente significativo dalla vita religiosa e come imperativo ancor più pressante, conformemente a una tradizione che risale ai primissimi tempi della chiesa, dai monaci, quegli uomini e quelle donne che chiamiamo contemplativi

    Ma a quale scopo? Che cosa succede nel deserto? Succede davvero qualcosa? Sì, è importante che qualche cosa succeda, che accada un evento a colui che vi si ritira.

    Paragonare il deserto cristiano a un rifugio dove ci si mette al riparo da certi pericoli sarebbe parlarne con un pò di leggerez­za; così come sarebbe avventato usare a proposito di esso – cosa che è stata fatta – l’immagine della serra le cui condizioni pri­vilegiate permetterebbero lo schiudersi e la maturazione particolarmente precoce di fiori e frutti spirituali. Non si viene nel deserto per stare tranquilli, per godere di una certa pace, che si presume faciliti quella che speravamo essere una vita d’intimi­tà con Dio. Immagini troppo liriche, un po’ inerti e nettamente inadeguate del deserto cristiano.

    Nè riparo, nè rifugio, nè serra: il deserto è piuttosto un cro­giolo nel quale, grazie a un certo fuoco, che può essere nello stesso tempo quello delle passioni e quello dello Spirito santo, uscirà un metallo nobile, purificato dalle sue scorie, dove vedrà la luce una nuova lega, audace, originale, sconosciuta fino a quel momento. O, per osare un’immagine della biologia e della Bib­bia nel contempo, il deserto è una matrice dove, nei dolori inevitabili di un parto, verrà alla luce un nuovo essere, l’uomo nuovo,  creato in Gesù Cristo nella giustizia e nella santità.

    Rinascere alla comunione

    Se dovessi dare una definizione più moderna del deserto della vita religiosa, la prenderei volentieri dal titolo dì un libro scritto da un celebre psichiatra americano e dedicato agli ospedali psi­chiatrici: Un luogo in cui rinascere. E’ anche la definizione della chiesa, e, al tempo stesso, quella di ogni comunità religiosa.

    Ma di quale nascita o rinascita si tratta? Questo nuovo essere sarà un essere di comunione, e ciò in un duplice senso: la comu­nione fraterna e la comunione con Dio.

    Dapprima qualche parola sulla comunione fraterna, perché poi vorrei soffermarmi di più sull’altra comunione. Dio non chiama mai nessuno a rimanere solitario. Neppure l’eremita, e direi: soprattutto non è il caso dell’eremita, che è chiamato a di­ventare un essere comunionale di primissimo piano, secondo il celebre adagio del vecchio Evagrio Pontico: “Separato da tutti e unito a tutti”. Dio chiama a una comunità, a una chiesa concre­ta, anche nel deserto. E’ nel deserto, secondo la testimonianza della Bibbia, che la prima qahal-ekklesìa è stata costituita. Que­sto termine viene reso nel latino della Vulgata con congregatio, parola che Benedetto applicherà alla comunità monastica e che, grazie a lui, avrà una fortuna eccezionale, visto che fa parte an­cora oggi del vocabolario corrente della vita religiosa.

    Vorrei solo attirare la vostra attenzione sull’importanza del canone 602 che, nel nuovo Codice, fa immediatamente seguito ai tre consigli evangelici di obbedienza, di povertà e di celibato. Esso riguarda la vita fraterna, alla quale il legislatore ha voluto dedicare questa posizione di rilievo:

    “La vita fraterna propria di ogni istituto, per la quale tutti i membri sono radunati in Cristo come una peculiare famiglia, sia definita in modo da riuscire per tutti un aiuto reciproco nel realizzare la vocazione propria di ciascuno. I membri poi, con la comunione fraterna radicata e fondata nella carità, sia­no esempio di riconciliazione universale in Cristo”.

    Una delle testimonianze principali che offre la vita religiosa ovunque si presenti è quella della riconciliazione che Cristo ope­ra tra i fratelli di una stessa chiesa. Già soltanto a questo titolo, prima ancora di proferire una parola o di istituire delle opere, essa è apostolica. Essa esprime e realizza la chiesa.

    Un luogo di povertà

    La riconciliazione tra fratelli a sua volta ne suppone un’altra, quella di ognuno con il Signore, in un incontro per il quale il de­serto offre un terreno particolarmente adatto, anzi: il luogo spe­cifico, poiché è il luogo teologico in cui Dio ha scelto di condur­re il suo popolo per donarsi a lui.

    Ma perché proprio il deserto? Non che questo renda le cose più facili, eliminando un certo numero di ostacoli distraenti – vi ho già fatto allusione. Ma perché il deserto è chiamato a provo­care la crisi e direi quasi a forzare l’evento che Dio vuole suscita­re in ciascuno dei suoi figli.

    E in che modo il deserto provoca l’evento? La Bibbia descrive il deserto come una “terra secca, assetata e senz’acqua“. Colui che vi si avventura, sempre guidato dallo Spirito di Dio a meno di non essere temerario, generalmente non sospetta a quale pro­va si espone. La luna di miele è di brevissima durata. Ben presto restano solo la desolazione, l’isolamento, la mancanza di viveri e di nutrimento terreno e, nel contempo, il cielo di piombo, la sabbia arida o, nei deserti del nord, la nebbia impenetrabile e la pioggerella desolante, Dio che si sottrae, talora per giorni e anni. Ma soprattutto l’uomo stesso che si stanca, che si scoraggia, a volte crolla, costretto com’è a vivere ridotto ai minimi termini, facendo giorno dopo giorno l’esperienza cocente della sua po­vertà, della sua debolezza, della sua radicale impotenza – aldilà di tutto quello che avrebbe potuto supporre, della sua eviden­te inutilità.

    Numerosi e svariati sono i campi in cui questa debolezza può manifestarsi in me, ma il fatto è che essa si manifesta sempre – ed è la tattica della santa astuzia di Dio – là dove sono più vulnerabile, nel mio punto debole, dove sono totalmente sguarnito, al limite estremo e quasi mortale della mia debolezza, dove non resta più che una sola speranza: quella di abbassare finalmente le armi e di capitolare davanti a Dio, cioè di presentarmi, di ab­bandonarmi alla sua misericordia, accettando di cedere il testi­mone alla grazia nel luogo e nel momento preciso in cui ero sul punto di sprofondare.

    Descrivendo in questo modo la crisi provocata dal deserto, e che prelude all’evento, non sto calcando la mano, anzi peso ciascuna delle mie parole. Sarebbe facile illustrarla con l’aiuto di numerosi passi tratti dalla più antica letteratura monastica, che purtroppo oggi incorre troppo spesso nel sospetto di asceti­smo volontaristico a oltranza, mentre offrirebbe le pagine più belle e antiche su quella che ora chiamiamo povertà o infanzia spirituale.

    Tutti questi umili tentativi di ascesi, lungi dall’essere prodez­ze delle quali l’uomo possa vantarsi, non hanno che un solo fi­ne: la frantumazione del cuore di colui che si arrischia su questa via. “Frantumazione del cuore” è l’espressione antica: syntribè tés kardìas, contritio cordis. Che cosa significa? Attraverso l’espe­rienza del deserto il futuro asceta è a poco a poco guidato alla constatazione che la vita che egli voleva fare è del tutto superio­re alle sue forze. A cominciare dal celibato, e continuando con le veglie, i digiuni, il lavoro, senza dimenticare la vita fraterna e il sostegno da dare agli altri. Lasciato a se stesso, egli è radicalmente incapace di tutto questo. Dio viene a frantumare lo specchio del suo ideale di perfezione nel quale amava gettare ogni tanto uno sguardo furtivo. Ma soprattutto Dio ha frantumato il suo cuore. Egli è ridotto a una cosa così insignificante, e non sa più come uscirne.

    Questa crisi colpirà anche, e anzi soprattutto, la preghiera, dalla quale si era aspettato tanto, e perfino la fede. Prima di di­ventare esultanza, la preghiera attraversa anch’essa un deserto dal quale Dio apparentemente è assente, ma che è l’anticamera obbligatoria di ogni contemplazione cristiana. Sarebbe inutile volerselo risparmiare. Non esiste una scorciatoia per raggiungere Dio, nè una preghiera senza fatica, senza attesa, senza un’umile pazienza che non ha fine. Questo svuotamento può andare mol­to lontano e svelarci nel più profondo di noi stessi dei mostri che avremmo preferito non risvegliare. Nella preghiera, purché lo sforzo sia perseverante, la chiesa, e soprattutto il contemplativo, si trovano di fronte alla loro parte di ateismo, quell’ateismo che non è lo specifico dei non credenti, ma che ciascuno porta dolo­rosamente al fondo di se stesso. Per quanto possa apparire curio­so,  prima di essere esperto in cose di Dio, il monaco è soprattut­to esperto in ateismo. Egli si riscopre fratello accanto a tutti co­loro che dubitano e che non riescono ancora ad abbandonarsi alla dolcezza di Dio. Conosce per esperienza questo crogiolo della fede, e come in esso operi la mano di Dio, spogliando l’uomo di tutti i suoi idoli. Nel contemplativo che affronta la sua notte, la chiesa accetta la prova della fede in tutto il suo spessore.

    Altri preferiranno descrivere questa prova del deserto con immagini diverse: la nube o la notte, ma che si riferiscono tutte alla stessa esperienza spirituale. Essa colpisce l’uomo fin nelle sue radici, mettendo a nudo delle zone talmente sensibili e vulnerabili della sua personalità che visibilmente egli sembra talora sfiorare di passaggio lo squilibrio, il tipo di follia che porta in potenza nel suo psichismo. Certe manifestazioni della famosa acedia (akedìa) che un Evagrio, grande maestro del deserto, ana­lizzerà nei dettagli, si avvicinano in modo curioso ai sintomi di quel crollo interiore che oggi chiamiamo “depres­sione nervosa”.

    Se si rende necessario a questo punto l’aiuto di una guida esperta per verificare a ogni istante come sia lo Spirito santo a  spingerci a tali strenue difese, c’è da meravigliarsi, e ancor meno da aver paura. Perché la salvezza è allora vicinissima. Più che mai Dio salverà. Ridotti alla nostra estrema debolezza, a una specie di punto morto,  siamo infine pronti a consegnarci, a cedere il testimone alla grazia misericordiosa e infinitamente potente.

    Un luogo in cui rinascere

    Dio ha ora le mani libere per agire, e la sua opera è sempre un miracolo, la meraviglia dell’uomo nuovo, ricreato in Gesù Cristo. Nella sua Vita di Antonio, Atanasio descrive dettagliata­mente l’atrocità delle tentazioni ch’ebbe a subire il padre dei monaci, fino al giorno in cui Dio intervenne in suo favore. Antonio, da lunghi anni recluso nella propria tomba, che era la sua forma di solitudine, ne esce e si presenta dinanzi alla folla mera­vigliata. Ed ecco come il vescovo di Alessandria descrive, con accenti di forte emozione che sfiorano il lirismo, quest’uomo nuovo che si ferma sulla soglia del suo deserto. Va riletto con un briciolo di humour, ma che non sminuisce in nulla la pregnanza del vocabolario usato: “Il corpo di Antonio aveva l’aspetto abituale e non era né in­grassato per mancanza di esercizio fisico, né dimagrito a cau­sa dei digiuni e della lotta contro i demoni. Era tale e quale l’avevano conosciuto prima che si ritirasse in solitudine, E anche il suo spirito era puro, non appariva triste né svigorito dal piacere, né dominato dal riso o dall’afflizione. Non provò turbamento al vedere la folla; non gioiva perché salutato da tanta gente, ma era in perfetto equilibrio, governato dal Verbo, splendore della sua natura”.

    Parafraso un po’ nel tradurre l’ultima espressione della frase (en tò Katà physin), tenendo conto che la natura, per i padri gre­ci, è l’uomo nuovo, l’uomo restaurato a partire dalla sua caduta, e che ha raggiunto la pienezza della sua umanità in Gesù Cristo. Dietro una descrizione della quale alcuni particolari oggi posso­no stupire, non c’è dubbio infatti che sia proprio questo ciò che Atanasio vuole dirci: per Antonio, il deserto è stato un luogo in cui rinascere, il sepolcro della solitudine è divenuto il sepolcro pasquale di Cristo, insieme al quale Antonio è risuscitato. Sulle orme di Cristo, l’uomo di Dio è molto semplicemente l’uomo nello splendore della sua natura, secondo il disegno di Dio. Ma a prezzo di quali prove! Perciò il nuovo essere va descrit­to più che con il vocabolario filosofico nel quale si lascia un po’ trascinare Atanasio, con l’aiuto di un vocabolario soteriologico, il vocabolario della salvezza, dove si fa sempre menzione del peccato perdonato, dell’accecamento guarito e delle piaghe le cui cicatrici resteranno per sempre come nel corpo risuscitato di Gesù, ma per attestare ormai la vittoria di Dio e la sua grazia.
    L’ ascesi del contemplativo – e ogni ascesi cristiana  – è quindi in primo luogo l’ascesi di un povero, quel povero che non cesse­rà mai di essere anche se un giorno, superata questa tappa deci­siva, si sentirà infine completamente pacificato, dopo esser stato demolito e ricostruito da cima a fondo, per pura grazia. Egli ha sfiorato l’abisso della misericordia. Ha imparato a cedere davan­ti a Dio, a deporre la sua maschera e le sue armi. Si è trovato disarmato di fronte a lui, senza disporre più di nulla per difendersi dal suo amore. E’ veramente spoglio e nudo. Si è disfatto delle sue virtù, dei suoi progetti di santità. Conserva faticosamente soltanto la propria miseria per dispiegarla davanti alla misericor­dia. Dio è divenuto veramente Dio per lui, e soltanto Dio, cioè colui che lo salva dal suo peccato. Egli finisce anzi per riconci­liarsi con quel peccato, per essere felice della propria debolezza. Della sua perfezione ormai si disinteressa: essa non è che panno immondo agli occhi di Dio (cf. Is 64,5). Le sue virtù le possiede solo in Lui: sono le sue ferite, ma curate e guarite dalla miseri­cordia. Non può che rendere gloria a Dio che lavora in lui e con­tinua senza sosta a fare meraviglie.
    Anche tra i suoi fratelli è un uomo nuovo
    , cioè un amico tene­ro e dolce, che non si lascia irritare dai difetti e che si mostra comprensivo di fronte alle debolezze. Perché è il primo a diffidare enormemente di se stesso, ma a confidare follemente in Dio, completamente aggrappato alla misericordia e all’onnipo­tenza di quest’ultimo.
    Contempla qualcosa di più preciso riguardo a Dio? Lo cono­sce ormai meglio? Se gli si ponesse la domanda in questa forma non saprebbe come rispondere e probabilmente risponderebbe in modo negativo. Ha sempre l’impressione di essere immerso nella stessa notte opaca. E tuttavia qualcosa è cambiato in lui. Una nuova sensibilità si è a poco a poco risvegliata. Uno strano presentimento lo abita. Egli non conosce né Dio, né Cristo, ma si sorprende ormai a immaginarli, a riconoscerli quasi, ad assa­porare una presenza, e non soltanto nella preghiera o ruminando la parola di Dio, ma anche altrove, sui volti sofferenti o gioiosi negli avvenimenti che si succedono e nei quali adesso discerne una trama e un disegno. Ora non soltanto sa perché deve in certi momenti perseverare a lungo nella preghiera, ma comincia a sen­tire come d’istinto ciò che deve fare o dire in altri momenti, co­me deve comportarsi. Perché non vola più con le proprie ali, né a suo rischio e pericolo. Viene portato sulle ali di un altro. E’ come sospinto dall’interno. Scopre di essere misteriosamente guidato: “Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, sono figli di Dio” (Rm 8,14). Egli non ha che da consegnarsi. Un altro è all’opera in lui. Un altro fa in lui meraviglie ed egli coglie nel più profondo di se stesso il suo appello, al limite del percepibile, come un mormorio che è preghiera incessante, una specie di unzione – come dice Giovanni (cf. 1Gv 2,27) – che gli insegna giorno per giorno tutto quello che deve fare.

    Un luogo che attira la folla

    Cercando di descrivervi qualche tratto di quest’uomo nuovo – contemplativo e attivo – che nasce nel deserto, vi sarete resi conto che mi sono già inoltrato nella seconda parte del mio intervento: la dimensione apostolica della vita religiosa. Niente di strano, perché è inseparabile dalla prima. Per quale motivo, al­trimenti, Antonio si sarebbe deciso un giorno, senza apparente esitazione, a uscire dalla propria reclusione e a rompere il silen­zio? Molto semplicemente perché davanti alla porta c’era una folla. Una folla di gente venuta da lontano e che reclamava a gran voce una parola da quell’eremita che fino a quel momento era quasi sepolto vivo. Ed eccoci, forse per la prima volta, di fronte a un fenomeno che si ripeterà all’infinito per tutta la storia della vita monastica e religiosa, e che illustra a meraviglia l’inevitabile correlazione tra vita contemplativa e vita attiva, nonché il dina­mismo interno che armonizza l’una con l’altra. Nella maggior parte dei casi non è il contemplativo a darsi da se stesso la mis­sione e la vocazione di lasciare il deserto per annunciare la Paro­la agli altri. Nella letteratura monastica antica un simile deside­rio viene anzi denunciato come una tentazione del maligno. Ma al contrario, è lo stesso popolo di Dio che riconosce colui che ha ricevuto la Parola per la gente e che esce dalla città per assedia­re, per così dire, il deserto e forzare le porte della clausura.
    In tal modo s’instaura nel cuore della chiesa un continuo andirivieni tra il deserto e la città. Il monaco sembra fuggire la città, ma non appena è andato fino in fondo al deserto, non ap­pena comincia a dare qualche frutto, la città si affretta ad andar­sene anche lei e a fuggire presso di lui, sulle stesse orme, mendi­cando da lui una parola, raccomandandosi a lui e alla sua benedizione.
    Questo fenomeno, che nella storia si è verificato tante volte e che ancor oggi si rinnova, ricorda al monaco due cose: in primo luogo l’importanza permanente della tappa del deserto in ogni vita religiosa, contemplativa e apostolica. Solo chi è stato tra­sformato dal deserto, solo l’uomo nuovo diventa questo amante che attira a sé irresistibilmente il popolo di Dio.
    La seconda cosa è che esiste da qualche parte un luogo in cui il confine tra il deserto e il mondo scompare: i monaci non devo­no ritornare nel mondo, e neanche il mondo deve ritirarsi nel deserto
    . Esiste un luogo nel quale le due realtà non si pongono più come un’alternativa. In un Antonio, in ogni uomo di Dio, il deserto e il mondo coincidono in qualche punto: questo luogo è la chiesa. La chiesa è inviata al mondo, e tuttavia essa non ap­partiene al mondo, non vi si stempera, non si conforma ad esso. Può affrontare il mondo per proclamare la Parola proprio perché resta sempre fermamente addossata al deserto. Questo vale an­che per la vita religiosa, con la sua duplice dimensione contem­plativa e apostolica.

    Una “misteriosa fecondità apostolica”

    Vorrei dire ancora qualcosa sulla dimensione più propriamente apostolica a partire da quella che è la mia esperienza: l’esperienza monastica. In primo luogo, pensando a coloro che fanno una vita contemplativa in senso stretto, vorrei cercare di precisare con poche parole in che cosa e in che modo essi pure si sentano pienamente apostolici.
    Insistendo sulla necessità di un intreccio dinamico tra con­templazione e azione nella stessa esistenza cristiana, forse ho dato l’impressione di credere che tutti i contemplativi, sull’esempio di un Antonio o di un Benedetto, siano chiamati a lasciare un giorno la loro clausura per dire una parola. Vi dico su­bito che non è questo il mie pensiero. In realtà, come afferma chiaramente il canone 674 che vi ho citato all’inizio, da sempre sono esistiti, ed esistono ancora, contemplativi, monaci e mona­che, che non sono chiamati a condividere esplicitamente la loro esperienza con i fratelli e che la chiesa intende proteggere con la sua legislazione canonica da ogni ingerenza inopportuna che vada in senso contrario Essa lo fa, dice, in nome di una misteriosa fecondità apostolica inerente alla vita contemplativa, della quale vuole garantire l’autenticità.
    Da sempre queste vocazioni contemplative sono rimaste molto appartate. Il loro irradiamento esterno sull’esempio di quello della vergine Maria, è stato quantitativamente poca cosa. Spesso si riduceva a una semplice presenza ma di straordinaria qualità. In particolare, la nostra chiesa latina ha, specie nel XIV e nel XV secolo, una tradizione di eremiti e persino di reclusi nel senso stretto del termine, che nella maggior parte dei casi, a giudicare dalle vestigia letterarie che ne rimangono, fu realmente di qualità. Ci furono anche realizzazioni meno felici, che spiegano un certo numero di abusi e un rapido declino fino al concilio di Trento, che per questo si sentì autorizzate a passarli sotto silenzio nei suoi testi ufficiali; e fino ai nostri giorni, in cui lo statuto canonico di eremita, riconosciuto come facente par­te dello stato di vita consacrata, è appena stato reintrodotto dal nuovo Codice.
    Ma in cosa consiste la “misteriosa fecondità apostolica” della vita contemplativa? Bisogna certamente tener conto della pre­ghiera d’intercessione che i contemplativi considerano quasi co­me il loro incarico particolare: “Essi pregano – talora si dice – per coloro che non pregano”. Allo stesse modo, è lecito prendere sul serio il loro desiderio spesso esplicito di “fare penitenza per co­loro che non ne fanno”. Ma tutto questo resterebbe insufficien­te, anche se avessimo oggi a nostra disposizione una teologia più approfondita dell’intercessione o della penitenza-riparazione ri­spetto a quella sulla quale siamo ancora obbligati a ripiegare.
    La stessa osservazione vale per il ruolo di esempio che indubi­tabilmente è giocato da una comunità di contemplativi. Perché tutte queste cose – pregare, fare penitenza, dare un esempio – sono ancora nell’ordine dell’agire, mentre la fecondità specifica della vita contemplativa deriva anzitutto dal suo essere, dall’evento che il contemplativo ha vissuto, da quell’antropologia in atto che è stata la sua Pasqua nel crogiolo del deserto, dall’uomo nuovo che per pura grazia egli è diventato. È questo che importa per la storia della salvezza oggi, perché il regno venga fin da ora, senza che egli sappia né come né perché. Perciò è questa la ra­gione ultima per la quale le sue veglie notturne o mattutine si fanno carico dell’attesa latente in tanti cuori umani; per la quale il suo digiuno esprime la fame di Dio che tortura l’umanità, sen­za che questa lo sappia; per la quale la sua obbedienza è vera­mente la Pasqua di Cristo che si prolunga fino a oggi; e per la quale il suo celibato, che egli non sbandiera più trionfalmente degli altri, allarga a poco a poco il suo cuore sino ai confini dall’universo.
    Perché ora egli ama in modo completamente diverso. Durante la prova del deserto il suo cuore si è frantumato; ma più ancora, per usare un’immagine di un altro santo, si liquefatto. E’ divenuto quel cuore liquido dei santi di cui parla il Curato d’Ars,  cuore di pietra trasformato in cuore di carne, che abbraccia l’intero universo e che fa di essi dei fratelli universali.  Egli non è più altro che bontà e misericordia, a immagine di quelle che ha potuto incontrare un giorno. E sente d’istinto come sia importante, non soltanto per lui ma per la chiesa universale, che egli perseveri nel rimanere la dov’è, nell’occupare quel posto che Dio gli ha assegnato. Giacche lo sa, ben al di la della sua inutilità apparente: al cuore della chiesa, sua madre, egli è l’amore.
    Questa convinzione di sostenere misteriosamente il mondo non nasce con Teresina di Lisieux, ma risale a un’epoca lontana del monachesimo: ne è testimone questo strano testo di un recluso palestinese del VI secolo al quale era stato rivelato che il mondo del suo tempo era sostenute da tre oranti eccezionali:

    “Ci sono tre uomini perfetti davanti a Dio  che hanno ricevuto il potere di sciogliere e legare, rimettere i peccati e di non rimetterli. E stanno ritti sulla breccia per impedire che il mondo intero venga distrutto in un attimo: grazie alle loro preghiere Dio castigherà con misericordia …  Le preghiere di questi tre si uniscono per accedere all’altare sublime del Padre delle luci. Essi si rallegrano gli uni con gli altri ed esultano insieme nei cieli.  Sono Giovanni a Roma, Elia a Corinto e un altro nell’eparchia di Gerusalemme. E io credo che otterranno quella grande misericordia. Sì la otterranno. Amen “

    Il dono del discernimento

    Ritornando ora alla vita apostolica dei religiosi cosiddetti at­tivi – cioè di quelli che in qualche modo si presume abbiano at­traversato la tappa del deserto e, dopo esserne stati trasformati, siano rinati al mondo, vorrei, come conclusione, dire qualcosa su quello che forse è il dono essenziale di questo uomo nuovo restaurato nel deserto. Voglio parlare del discernimento spiri­tuale.
    Questo dono consiste in una nuova sensibilità capace di per­cepire l’invisibile nel visibile nell’esperienza contemplativa come nell’esperienza attiva. Percepire il mormorio dello Spirito che grida in noi “Abba”, “Padre”, e riconoscere la pulsione inte­riore di quello stesso Spirito che invita dolcemente a passare all’azione, non dipende da due organi spirituali distinti. E’ lo stes­so cuore, ormai in stato di veglia, a spiare, a scrutare lungamente e ad ascoltare, e al quale è dato di captare l’azione interiore dello Spirito santo, sia che lo Spirito preghi in noi, sia che ci inviti a compiere l’opera del Padre.

    Nella psicologia dell’uomo nuovo questa capacità di discerne­re lo Spirito è, in un certo senso, più importante dei doni della preghiera o dell’impegno apostolico. Infatti questi ultimi dipen­dono strettamente dall’influsso dello Spirito e dalla capacità del soggetto di cogliere correttamente tale influsso. Che egli si lasci afferrare dalla preghiera, o che acconsenta a essere inviato per la testimonianza apostolica, ciò è sempre opera del medesimo Spi­rito. E’ sempre da una medesima unzione che Bernardo si face­va guidare, come dice mirabilmente di lui il suo primo biografo quando scrive che l’abate di Clairvaux portava a compimento ogni  unctio magistra avendo come maestro e come guida l’unzio­ne interiore dello Spirito santo.
    Al contrario, nulla di più sterile, e al limite di più rischioso, che pretendere di darsi alla preghiera, o credersi inviati a testimoniare, per quanto sia grande la generosità che si ostenta in  tale missione, se si è perso il contatto interiore con lo Spirito, se si è incapaci di lasciarlo emergere in sé e di percepirlo
    . Ogni vita contemplativa vera, ogni vita apostolica autentica sarebbero in questo caso compromesse.

    Si comprende così in che senso Ignazio di Loyola pretendesse di rimanere un contemplativo nell’azione, lui che aveva esitato per lunghi mesi tra una cella di certosino e la Compagnia che avrebbe poi fondato. Non è che egli richieda ai suoi compagni chi sa quale ginnastica mentale che li obblighi a mescolare la meditazione alle loro sollecitudini apostoliche. Egli si aspetta molto semplicemente da loro, nel pieno del servizio e dell’azione, che conservino l’orecchio interiore attento ai movimenti dello Spirito nel più profondo del loro cuore. Il discepolo di Ignazio – ma si potrebbe dire altrettanto di ogni credente – parla e agi­sce ascoltando ciò che avviene all’interno di se stesso, prestando attenzione ai movimenti del proprio cuore; ora, in quel cuore Ignazio pensava – facendo eco a tutta la tradizione monastica – che solo il desiderio di Dio (o la sua volontà) dovesse sopravvi­vere, una volta che il discepolo fosse divenuto indifferente a tut­ti i propri desideri superficiali; cioè quelli che, nella maggior parte delle persone, ingombrano il davanti della scena, e soffo­cano il desiderio di Dio nei riguardi dell’uomo. Eppure non è proprio questo desiderio di Dio a fondare e costituire la nostra più specifica e più ricca identità?

    L’esame di coscienza ignaziano va compreso come una fase appartenente a questo stesso processo spirituale, ovvero qualcosa che è ben al di là di ciò che è divenuto in seguito, quando l’esa­me di se stessi è caduto vittima per certi versi di un moralismo volontaristico che lo ha trasformato in una specie di bilancio dei peccati e delle buone opere, in un conteggio dei profitti e delle perdite. L’esame di coscienza, molto più semplicemente è quel momento di silenzio interiore, di deserto ritrovato, che permette di auscultare il cuore in stato di veglia, mentre registra fedelmente l’istinto divino della grazia, i movimenti dello Spirito santo dentro di sé, per regolare su di essi tutto l’agire umano. E’ dunque poi così differente dalla preghiera che, essa pure, ha bi­sogno dell’orecchio interiore per mettersi all’unisono con i ge­miti delle Spirito? Il contemplativo nella preghiera e il contem­plativo nell’azione s’incontrano in questo ascolto e in questo sguardo interiore, in questa sensibilità nuova dell’uomo nuovo, che la tradizione chiama la diàkrisis o discretio: il discernimento spirituale. Condizione indispensabile perché il credente – sia che preghi, che lodi Dio o che gli renda testimonianza – riman­ga innestato sull’agire stesso di Dio.

    Il discernimento spirituale è quindi come un terreno comune tra le due dimensioni di ogni vita religiosa e di ogni vita cristia­na, la dimensione contemplativa e la dimensione apostolica. En­trambe hanno origine dalla stessa realtà spirituale, dotata di un orecchio il cui timpano vibra all’unisono con il minimo mormo­rio dello Spirito, e dotata anche di uno sguardo in grado di per­cepire i primi barlumi della presenza del Signore. E’ il discer­nimento spirituale. Dalle origini della vita monastica e religiosa, è il loro tesoro nascosto, e forse anche – questa è una mia con­vinzione profonda – ciò che esse hanno di più prezioso da offri­re alla chiesa di oggi.

    Il tesoro nascosto nel cuore

    Giunti alla fine del nostro itinerario, riprendiamo la questio­ne che ci siamo posti all’inizio circa la distinzione tra vita contemplativa e vita attiva: “Non c’è a priori, in qualche ambito, un terreno comune, una fonte che esse condividono?”. Sembre­rebbe proprio di sì. Per un’altra via siamo giunti alla stessa fonte che l’istruzione su ‘La dimensione contemplativa della vita reli­giosa” segnalava come punto di partenza di ogni vita spirituale, descrivendola così: “Il cuore, considerato come il santuario più intimo della persona, nel quale vibra la grazia di unità tra interiorità e attività”.
    Questa stessa istruzione ricordava anche come il fine principale della formazione alla vita religiosa sia quello di “immergere il religioso nell’esperienza di Dio”, allo scopo di favorire “ la compenetrazione reciproca tra interiorità e attività, in modo ti le che la coscienza di ciascuno coltivi il primato della vita nello Spirito Santo”. E altrove, essa così definiva quello che abbiamo chiamato discernimento spirituale:  “Più il religioso si aprirà alla dimensione contemplativa, più si renderà attento alle esigenze del regno, sviluppando intensamente la sua interiorità teologale, proprio perché osserverà gli eventi con quello sguardo di fede che lo aiuterà a scoprire ovunque l’intenzione divina”
    In effetti, per tutto il tempo in cui l’esperienza del regno in­veste solo la superficie del nostro essere, viviamo la duplice dimensione contemplativa e attiva come una frattura, a volte ad­dirittura come un’antinomia insormontabile. Ma nella misura in cui questa stessa esperienza penetra in noi a livelli sempre più profondi, la nostra comprensione di Dio e del suo regno si sem­plifica e si unifica. A un certo livello d’interiorità, le strade dei credenti non possono più contrapporsi, e meno che mai esclu­dersi: contemplativi e attivi si avvicinano
    straordinariamente, fino a somigliarsi come due fratelli. E la “parte migliore” allora non è pii dall’una o dall’altra sponda. Essa è ovunque, è il teso­ro nascosto al cuore di ogni vocazione.

  • 27 Dic

    André Louf

    LA VITA CONTEMPLATIVA

    Tratto da: André Louf, LA VITA SPIRITUALE – ed. Qiqajon, Comunità di Bose – a cui rimandiamo per l’approfondimento.

    Trent’anni di aggiornamento hanno permesso alla vita con­templativa maschile di comprendere meglio se stessa e di rendersi più leggibile agli altri. La sua struttura esteriore si è tra­sformata, alcune osservanze sono state semplificate, alcuni ritmi allentati: nell’insieme si è verificato un ritorno al gusto dell’es­senziale.

    Il cambiamento più importante, però, è avvenuto all’interno dei cuori. Se il contemplativo continua sempre a rallegrarsi, per quanto indegno ne sia, di aver ricevuto il dono di quella che nor­malmente si è convenuto di chiamare la “parte migliore”, egli la inquadra ormai diversamente. Men che mai è tentato di farsi avanti nella chiesa, ai primi posti, per così dire. Egli ritrova il suo vero posto, quello del pubblicano dell’evangelo, proprio in fondo, e si unisce alla sua invocazione – abbi pietà di me, pecca­tore – che Benedetto gli ha affidato come formula della preghie­ra perfetta e continua. Egli è stato condotto a questo da un’e­sperienza approfondita della sua vocazione alla contemplazione. Ma in cosa è consistita questa esperienza?

    Un posto in fondo alla chiesa, dicevo, e tuttavia sempre al cuore della chiesa, ora più che mai. E in primo luogo là dove la chiesa, al seguito del popolo ebraico nel suo esodo, e del suo Mae­stro Gesù durante il suo digiuno, si ritrova sempre, nel deserto, nel luogo delle sue origini, là dove Dio la convoca “per parlarle al cuore … e per fidanzarla a sé per sempre” (cf. Os 2,16.22). Nei suoi contemplativi, incessantemente in ascolto della Parola e da essa quotidianamente rigenerati, la chiesa, anche se rivolta al mondo e pienamente inserita in esso, si trova nel contempo sempre addossata al deserto. Questo dialogo amoroso tra la chie­sa e il suo Sposo, al quale alcuni sono votati in modo esclusivo, è la sola cosa che le garantisca l’autenticità del suo messaggio.

    Perciò l’ascolto assiduo della parola di Dio, nella liturgia ce­lebrata in comune o in quella liturgia privata che è la lectio divina, è ormai divenuta l’occupazione principale del contemplati­vo, la sorgente alla quale egli alimenta la sua preghiera. Parola ascoltata, amorosamente ruminata, pazientemente assimilata, e che finisce per ripercuotersi in azione di grazie, in lode e in­tercessione, a volte anche in condivisione con quelli che vengo­no a richiedergli una parola. Il contemplativo è la Parola dive­nuta preghiera.

    E’ una strada lunga, perché questa vita nel deserto e questo esodo non sono di tutto riposo. Come Gesù, il contemplativo è stato condotto nel deserto per esservi tentato dal divisore. Non vi è altra porta d’accesso alla contemplazione cristiana, ed essa è particolarmente stretta. La prima prova gli viene proprio dalle condizioni di quel deserto che si è generosamente scelto creden­do di trovarvi la via sicura per il suo scopo, cioè le diverse forme di quella che tradizionalmente viene chiamata ascesi: il digiuno, le veglie, la solitudine, il silenzio.

    Queste pratiche ascetiche esistono in molte altre religioni, ma non ci si inganni su questo punto: alla luce dell’evangelo e nella persona di Gesù cambiano completamente di significato. Esse non facilitano più nulla, e ancor meno possono meritare, ciò che può essere solo un dono assolutamente gratuito dell’Amore. Es­se ormai servono solo a una cosa – quella che il novizio meno si aspettava – a scavare sempre di più l’abisso della sua totale po­vertà davanti all’offerta di Dio. Ben lungi dal fornire l’occasio­ne per uno sfoggio di abnegazione, l’ascesi cristiana è destinata a divenire il luogo della sconfitta del contemplativo, dove solo la grazia di Dio trionfa, mettendo in evidenza la radicale debo­lezza dell’uomo nella quale può finalmente dispiegarsi la poten­za della grazia. Il contemplativo finisce per sperimentare molto concretamente fino a che punto tutte le sue buone opere non siano altro che miracoli della grazia.

    Non vi è via più dolorosa e che sottoponga a una spoliazione più radicale: quella dell’umiltà evangelica. Molti contemplativi si fermano per strada ritenendo che la loro supposta virtù sia in­compatibile con un tale abbassamento ai propri occhi, e a volte anche agli occhi degli altri. Tuttavia non vi è altra via che que­sta, dove il contemplativo impara che non è migliore dei suoi fratelli, che è un peccatore perdonato quanto e più di loro, e che, per poter accedere alla contemplazione in modo forse più agevo­le rispetto ai suoi fratelli, deve raggiungere coloro ai quali Gesù ha promesso che avrebbero preceduto tutti nel suo regno. Egli diventa così la chiesa dell’umile e gioioso pentimento.

    Umiltà tanto più radicale in quanto tocca il contemplativo fin nel desiderio stesso che costituisce il cuore della sua vocazione, quello di vedere e di conoscere Dio. Un Dio che sembra nascon­dersi nell’inguaribile debolezza che egli vive, che si sottrae co­stantemente a una tale povertà. Un Dio che sembra così lonta­no, un Dio che, in certi momenti, gli sembra come “morto”, inesistente, un miraggio, proiezione all’infinito dei propri desi­deri.

    Il contemplativo si trova allora nel cuore del suo deserto, o della sua notte oscura, e anche del mistero di Gesù: “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34). Notte che può essere breve, ma che a volte si prolunga, apparentemente senza fine, a discrezione della grazia di Dio, a misura di ogni vo­cazione individuale. Più di ogni altro credente il contemplativo diventa allora un “esperto in ateismo”. Crede? Forse… ma senza credere, a lui sembra. Non ci capisce più niente, salvo una cosa: che il Dio al quale pensava di credere non era che un semplice idolo, più o meno inventato da lui, o forgiato da una cultura an­cora vagamente impregnata di cristianesimo; e che il vero Dio, il Dio di Gesù Cristo, è completamente altro e verrà altrove; e so­prattutto che egli non deve più cercare di raggiungerlo con i suoi sforzi, ma che basta attenderlo senza stancarsi, e lasciarsi affer­rare da lui, nell’ora che a lui piacerà.

    E’ in questo abisso dell’umiltà, come lo chiamava Ruusbroec, che si può verificare il miracolo, che Dio diventerà “percepibile dal suo cuore”, che a poco a poco egli potrà “gustare fino a che punto il Signore è dolce”. Più che mai il contemplativo diventa allora parte della chiesa che intravvede già un poco le gioie del cielo. “Ma di notte”, come diceva Giovanni della Croce, o me­glio, di notte in notte e di chiarore d’aurora in chiarore d’aurora, quasi incollato alla parola di Dio, lampada sui suoi passi, e dol­cemente sedotto da essa, come dalla stella del mattino, finché il pieno sole non venga a inondare della sua luce la chiesa intera.

    Di quest’avventura spirituale resta da sottolineare un ultimo elemento – e non secondario, perché io parlo qui a nome delle famiglie religiose -: essa si svolge in una comunità di fratelli, una comunità che diventa così forzatamente nel contempo scuo­la di umiltà e via di contemplazione. Come pretendere infatti di amare Dio senza amare i propri fratelli? Schola caritatis, scuola dell’umile amore e scuola di contemplazione, la comunità con­templativa si presta così a diventare, a Dio piacendo, una mi­cro-chiesa che Dio si è scelto e che offre a se stesso, perché vi sia celebrato già un inizio delle nozze tra suo Figlio e la sposa che egli si è riscattata. E Dio la offre anche al mondo, affinché essa lasci intravvedere, in una specie di anticipazione, quella che sarà la nostra comune gioia per i secoli.

    In conclusione, vorrei ancora suggerire alcune complicità esi­stenti tra la vita contemplativa, così intesa, e certe sfide rivolte alla chiesa di oggi.

    Nell’essere semplicemente quello che è, senza pretendere di più, la vita contemplativa può risvegliare, nel credente come nel non credente, il desiderio di comunione con Dio che sonnecchia nel suo cuore.

    Purificato dai suoi falsi dèi, il contemplativo si sente vicino a tutti coloro che sono nel dubbio e in ricerca, e particolarmente a coloro che si credono atei.

    Egli è vicino in modo particolare ai peccatori, tentati di spro­fondare nella disperazione, e che spesso vengono a bussare alle sue porte, perché egli ha una qualche esperienza della misericor­dia sconvolgente di Dio, e sa che il gioioso pentimento è l’unica strada per conoscere fino a che punto noi siamo amati, per il peccatore come per il giusto.

    La vita contemplativa può attestare l’esistenza di una “tecni­ca”, se mi perdonate la parola, propriamente evangelica al servi­zio della contemplazione, che deve esser conosciuta e vissuta per se stessa prima di poter dialogare utilmente con altre tecni­che non cristiane.

    Questa vita è una meravigliosa scuola di discernimento nella quale, nel corso dell’avventura contemplativa, s’imparano a ri­conoscere le vere consolazioni dello Spirito al di là di tanti altri desideri che si agitano nel cuore. Essa costituisce anche un pos­sibile spazio di dialogo fra la tradizione spirituale della chiesa e certe acquisizioni delle scienze umane.

    Infine, è per eccellenza un luogo ecumenico nel quale i cercatori di Dio delle tradizioni cristiane d’occidente e d’oriente pos­sono incontrarsi e, al di là delle barriere teologiche, comunicare fra loro. Ma questo vale anche per i cercatori di Dio e i mistici di tutte le religioni non cristiane.

    Per terminare: due apoftegmi moderni.

    Un monaco ortodosso visitando una trappa confessava di avervi scoperto “un angolo di ortodossia nella chiesa latina”. Meglio ancora: un giovane mu­sulmano, trovandosi recentemente nella stessa situazione, con­fessava: “Ho finalmente trovato dei veri musulmani”.


  • 23 Dic

    Thomas Merton

    MEMORANDUM
    PER UN RINNOVAMENTO DELLA VITA MONASTICA

    Tratto da Thomas Merton, UN VIVERE ALTERNATIVO – ed. QIQAJON COMUNITA’ DI BOSE
    a cui rimandiamo per l’approfondimento.

    La vocazione monastica è un carisma ascetico, non una chia­mata a un’attività specifica nella chiesa e per la chiesa. Il monaco è chiamato “fuori da questo mondo» per cercare veramente Dio attraverso il silenzio, la preghiera, la solitudine, la rinuncia, la compunzione e la semplicità. Anche nella sua forma cenobiti­ca (che non deve essere considerata l’unica forma) la vita mona­stica mantiene qualcosa dell’atmosfera del deserto, di una vita solo con Dio. L’opera del monaco è cercare Dio sopra ogni cosa e cercare lui solo.

    Nel riformare la vita monastica si dovrebbe prestar attenzio­ne, in primo luogo, a mantenere o ristabilire il carattere specifi­co della vocazione monastica. Non può essere la vita religiosa attiva il punto di riferimento per valutare la vita monastica, e gli ordini monastici non dovrebbero essere equiparati agli altri isti­tuti religiosi, clericali o meno.

    La comunità monastica non esi­ste per la salvaguardia di qualche opera apostolica o educativa, neppure come fine secondario. Le attività del monaco non sono giustificate dalla loro efficacia pratica, ma solo per la loro atti­nenza alla sua vita di solitudine con Dio. Hanno valore nella mi­sura in cui sono consone a una vita fuori da questo mondo, che è nel contempo una vita di compassione per coloro che restano nel mondo e di preghiera per la salvezza del mondo.

    Nell’attuale fase di riflessione generale sull’aggiornamento nel­la chiesa, coloro che hanno un ruolo nel rinnovamento della vita monastica non devono essere sviati da una legittima ammirazione per altri carismi, estranei al monachesimo. Certe innovazio­ni, che pure sono segno di una vita autentica e di un rinnovamento apostolico, da viversi in contatto vitale con il mondo e in solidarietà con lo spirito secolare di quest’epoca, non devono es­sere viste come appropriate alla riforma monastica solo perché utili e buone in se stesse.

    Peraltro, il concetto di “vita contemplativa pura”, specialmen­te in senso giuridico, non necessariamente si addice alla vocazione monastica, nella quale possono e dovrebbero esistere casi, in via eccezionale, di apertura al mondo e di contatti con singoli o gruppi attraverso un apostolato informale e piuttosto personale, mediante l’ospitalità, conferenze per piccoli gruppi o la pa­ternità spirituale. Questi contatti restano però un’eccezione. Nessuna comunità monastica dovrebbe essere obbligata a consi­derarli come normali e ordinari.

    La principale preoccupazione nel riformare il monachesimo dovrebbe essere la chiarificazione dei fondamenti monastici attraverso un ritorno alle fonti, così da poter recuperare autentici­tà e purezza e liberarsi da tutto ciò che vi è estraneo. Ma questo non sarà effettivamente possibile se verranno considerate come normative quelle istituzioni monastiche che sono attive più che dedite a una vita contemplativa. La vita monastica, così com’è vissuta oggi nelle grandi comunità impegnate nell’educazione o in altre opere non è del tutto normale, dal momento che in tali comunità lo spirito di solitudine e la vita di preghiera sono l’ec­cezione più che la regola.

    Una riforma monastica non è pertanto autentica o effettiva se consiste principalmente in certi ritocchi della liturgia e dell’osservanza regolare, con esortazioni a un maggior spirito di pre­ghiera e a una più diligente osservanza del silenzio e della clau­sura. Se la vita entro le mura claustrali è una vita di agitazione e di grande attività, non sarà un mero rafforzamento della disci­plina a renderla più monastica. Nemmeno una maggior enfasi sullo “stile familiare” sortirà l’effetto desiderato, perché può addirittura finire per incrementare lo spirito di attivismo e di effi­cientismo e condurre il monaco sempre più lontano da una vita di silenzio e di preghiera.

    Di conseguenza, quando le strutture monastiche ordinarie tendono, in realtà, a frustrare alcune delle profonde aspirazioni della vocazione monastica, sarebbe un grave errore considerarle come una norma. Questo non significa che tali tipi di strutture co­munitarie non siano realmente degne di ammirazione e non siano utili alla chiesa. Non si tratta di criticarle o di insinuare che non siano comunità ferventi e che non conducano una vita regolare. Bisogna però riconoscere che una genuina riforma monastica va fondata altrove. E’ perciò importante che quando alcuni membri di queste comunità cercano una forma di vita monastica più pura e autentica, in comunità che già esistono, o nella solitudine, o addirittura in comunità da fondare, non ne siano impediti solo per­ché le loro aspirazioni non sembrano accordarsi con quanto è con­siderato “normale” nelle grandi e consuete strutture monastiche dei nostri giorni. Il fatto che una nuova proposta di vita monasti­ca non si adatti al modello che è normalmente seguito in numero­si monasteri, fiorenti e ben stabilizzati, non significa che sia peri­colosa o indesiderabile. La norma va cercata nell’autentica tradi­zione monastica, adattata alle particolari necessità del nostro tempo. Una certa percentuale di “rischio” va sempre messa in conto quando si scommette su qualche forma sperimentale.

    I superiori dei monasteri dovrebbero essere solleciti nel rico­noscere e nell’incoraggiare nei loro monaci ogni desiderio innovativo e genuino per una più profonda vita di preghiera e per un ritorno a più pure forme monastiche. L’abate è un padre spiri­tuale e non soltanto un amministratore. Non è semplicemente il capo di un’organizzazione che ha la responsabilità di far lavora­re gli uomini per gli obiettivi della comunità. Egli è responsabile davanti a Dio della crescita e della reale santificazione dei suoi monaci. Quando, perciò, costoro credono di dover ricercare una vita di preghiera più pura, più solitaria e più fervente, non si do­vrebbe impedire loro di sperimentarne la reale possibilità. Non dovrebbero essere scoraggiati nel loro tentativo, e ancor meno ridicolizzati, ma piuttosto aiutati in vari modi a verificare le pro­prie capacità e la fondatezza della loro autentica vocazione. For­se uno può condurre una vita di preghiera più pura e più intensa nell’ambito di una comunità numerosa di tipo tradizionale. A un altro si può concedere di vivere separato dalla comunità in modo temporaneo o permanente, in obbedienza al suo abate. Altri possono aver bisogno di trasferirsi in nuove comunità o an­che avere il permesso di vivere soli come eremiti. Tutte queste possibilità dovrebbero essere riconosciute come legittime e praticabili. In questo modo, a nessuno sarebbe impedito di speri­mentare un’aspirazione presumibilmente seria. Il fatto che altri possano esserne “influenzati” non costituisce “scandalo”. Può essere, semmai, di edificazione.

    Il fatto di vivere separato dal mondo quale uomo di Dio con­sente al monaco un’esperienza e un’ autorevolezza particolari nelle cose spirituali, a condizione però che tenga realmente fede alla sua vocazione. Perciò un apostolato monastico – che ha un carattere suo proprio – non si giustificherà se riproduce unica­mente, in ogni aspetto, l’attività degli ordini dediti alla predicazione o del clero secolare. Un monaco invischiato nelle tensioni organizzative di una normale e ininterrotta vita attiva non può vivere in verità il suo essere monaco, e il suo apostolato, per quanto utile possa essere, perde il suo carattere specifico. Un ve­ro apostolato monastico dovrebbe perciò sempre essere “occa­sionale” nel suo genere e non soggetto a eccessive pressioni o a costanti, ininterrotte richieste. Dovrebbe sempre essere il tra­boccare di una profonda vita di silenzio e di preghiera.

    Il mona­co non ha l’obbligo di condividere direttamente con gli altri, at­traverso la parola o l’azione, i “frutti della contemplazione”. Se pertanto egli abbandona la propria solitudine senza ragione, al fine di assumersi un’attività, non può contare sulle grazie parti­colari che sostengono altri, ufficialmente impegnati in opere di apostolato. D’altro canto, se il monaco, in modo diretto o indi­retto (per esempio, attraverso gli scritti), è in grado di raggiun­gere le anime, il suo apostolato sarà efficace nella misura in cui sgorga in modo spontaneo e manifesto dalla sua vita monastica.

    Che il singolo monaco raggiunga “il mondo” o meno, il mona­stero stesso può sempre offrire agli uomini un luogo di medita­zione nella pace, dove possono cercare una direzione spirituale e ore di preghiera nella quiete, beneficiando dell’ospitalità, tradi­zionale obbligo della vita monastica.

    La stessa formazione dovrebbe essere in funzione della vita monastica e non seguire semplicemente le norme tracciate per gli ordini religiosi di vita attiva e per i seminari. Il periodo di noviziato dovrebbe essere più lungo che non in altri ordini, e dopo il noviziato la formazione dovrebbe proseguire con studi di sacra Scrittura, liturgia, ascetica, patristica e altri temi attinenti alla vita monastica, In caso di ammissione al presbiterato (cosa tradizionalmente considerata eccezionale per un monaco), il pia­no di studi dovrebbe rispondere alle necessità della vita mona­stica e non si dovrebbe obbligare il monaco a seguire per intero quello del seminario, pensato per i presbiteri impegnati nella vi­ta attiva.

    La vita monastica è una vita di amore per Dio e per l’uomo. L’aspetto sociale della vita monastica è perciò molto importante, ma non va sopravvalutato a detrimento dello spirito di pre­ghiera e di solitudine. L’apostolato del monaco non deve necessariamente essere confinato alla preghiera e all’intercessione, ma se nella sua attività il monaco imita semplicemente quanto può essere fatto, in modo migliore, da altri ordini o dal clero secolare, il suo apostolato perde il suo significato e la sua ragion d’essere.

    Vi è d’altronde urgente bisogno di un vero apostolato mona­stico all’interno del monachesimo stesso. Ad esempio, i ritiri e le conferenze nei monasteri dovrebbero essere tenuti da monaci profondamente permeati dello spirito della tradizione monastica piuttosto che da membri di ordini attivi, i quali non sono a co­noscenza dei particolari problemi e bisogni della vita monastica.

  • 22 Dic

    Thomas Merton

    INCONTRO CON LA VITA MONASTICA

    Tratto da Thomas Merton, UN VIVERE ALTERNATIVO – ed. QIQAJON COMUNITA’ DI BOSE a cui rimandiamo per l’approfondimento.

    Incontro e interrogativi

    La vita è fatta di incontri. Un vero incontro stimola domande e risposte. Quando incontri uno straniero interessante, ti scopri attento e curioso. Chi è costui? Cerchi di scoprire qualcosa del mistero della sua identità e della sua storia. Se poi ispira fiducia, se sembra una persona di esperienza e profondità non comuni, cominci ad aprirti a lui e a condividere con lui il segreto della tua stessa vita. In questo senso, un incontro personale vero non porta solo una conoscenza dell’altro ma anche una più profonda comprensione del proprio io.

    Incontrare non una persona ma una comunità religiosa – una comunità monastica – è un’esperienza insolita. Non solo perché una comunità monastica è un insieme di uomini davvero unico e originale, con una caratterizzazione religiosa e storica che desta interesse e sfida la mentalità moderna, ma anche perché l’incon­tro con una tale comunità ha regole e limiti propri.

    Puoi osservare gli edifici, ascoltare i monaci in coro. Puoi par­lare a un fratello in portineria. Puoi fare un ritiro nello spazio ri­servato agli ospiti, visitare gli ambienti del monastero, parlare con il foresterario o con il responsabile dei ritiri. Ma subito ap­paiono le restrizioni. Alle donne non è permesso varcare la so­glia. Gli uomini possono farlo ma non è concesso loro di dialo­gare con tutti i monaci. Di fatto, i membri della comunità che non hanno incarichi speciali, li vedi raramente da vicino. Perché queste restrizioni? Perché i monaci conservano fra di loro il silenzio e si astengono dal parlare agli esterni? Perché i monaci stanno in clausura invece di insegnare e predicare e svolgere al­tre attività che sono normalmente congiunte con una vita dedi­cata a Dio?

    Ad ogni modo, che genere di vita conducono questi uomini silenziosi? Sono felici? Trovano la loro esistenza in monastero maggiormente significativa o rimpiangono segretamente non solo i piaceri e i vantaggi del mondo esterno ma anche le sue re­sponsabilità, le sue sfide e le sue conquiste?

    Monachesimo oggi

    La vita monastica è una vita di rinuncia e di servizio totale e diretto nei confronti di Dio, per amor suo. Può essere considera­ta ancora come qualcosa che un uomo del XX secolo può ragione­volmente intraprendere? E’ solo una fuga? E’ rifiuto della compa­gnia degli altri uomini, misantropia, evasione, delusione?

    Un monaco deve comprendere le ragioni che lo hanno portato in monastero e riesaminarle di tanto in tanto nel suo cammino vocazionale. Ma un atteggiamento difensivo, apologetico non si accorda con la vita monastica. Non è del monaco tentare di con­vincere tutti affinché giustifichino la sua vita. Egli si aspetta soltanto di essere preso per quello che è, di essere giudicato per quello che è e non perde tempo nel cercare di convincere gli al­tri, o anche se stesso, di essere qualcosa di speciale.

    Il monaco si occupa più di Dio e di coloro che da Dio sono amati che non di se stesso. Non cerca di giustificarsi a proprio vantaggio confrontandosi con altre persone: piuttosto osserva con un unico sguardo se stesso e tutti gli uomini, alla luce dei grandi e importanti fatti che nessuno può fuggire. Il fatto di una morte inevitabile che pone fine alle battaglie e alle gioie della vi­te. Il fatto che il significato della vita sia solitamente oscuro e appaia talvolta impenetrabile. Il fatto che la felicità sembri al­lontanarsi da un numero sempre maggiore di persone mentre il mondo in se stesso diviene più prospero, più confortevole, più sicuro delle proprie capacità. Il fatto del peccato, questo cancro dello spirito, che distrugge non solo il singolo e i suoi desideri di felicità ma intere comunità e perfino nazioni. Il fatto dei con­flitti umani, dell’odio, della violenza, della distruzione, della ri­bellione, della falsità, dell’uso indiscriminato del potere. Il fatto che certi uomini si rifiutino di credere in Dio perché ritengono ciò “irragionevole”, e si abbandonino poi, di fatto, irrazional­mente, a forme di fede più meschine: credono ciecamente a un mito secolare – razzismo, comunismo, nazionalismo – o a uno delle migliaia dì altri miti che oggi acriticamente si accettano.

    Il monaco non sfugge questi fatti che lasciano perplessi. Si pone di fronte ad essi così come si pone di fronte al vuoto religioso che c’è nel mondo moderno. E’ consapevole che per molti, “Dio è morto”. Sa che questa apparente “morte” di Dio è, in realtà, espressione di un profondo fenomeno moderno: l’incapa­cità dell’uomo a credere, la morte della fede soprannaturale. Sa che i semi di questa morte sono anche dentro di lui, perché mal­grado sia un credente, deve anch’egli talvolta riscontrare in se stesso la possibilità dell’infedeltà e del fallimento. Più di chiunque altro comprende che la fede è puro dono di Dio e che nessu­no sforzo può dare all’uomo un merito per vantarsi agli occhi di Dio.

    Cos’è questa cosiddetta “morte di Dio”? In realtà è la morte di alcune possibilità di vita presenti nell’uomo. E’ la morte del coraggio spirituale che, nonostante tutte le negazioni e le prote­ste del pensiero comune, osa impegnarsi irrevocabilmente a cre­dere in un principio divino della vita. E’ la morte apparente di ogni capacità di concepire come valida questa possibilità, di rag­giungerla, di aggrapparvisi, di obbedire ai suggerimenti dello Spirito e di abbandonare il nostro cuore e la nostra mente all’e­vangelo di Gesù Cristo.

    Un monaco ha compiuto questo abbandono, ne conosce il prezzo e sa che questo non lo preserva dai dubbi e dai conflitti dell’uomo moderno. Ma crede di possedere la chiave per affron­tarli, e di poter dare un senso alla propria vita, valido non solo per sé ma per chiunque. Scopre questo senso nella fede, e non negli argomenti sulla fede. Certamente la fede non si oppone alla ragione. Si può mostrare come essa sia ragionevole, sebbene non possa essere razionalmente “provata”. Ma una volta che si crede, si comincia a essere in grado di capire il significato profondo della propria fede e a coglierne la validità anche per gli altri. Sia la fede che questa ulteriore comprensione sono speciali doni di Dio.

    Cos’è un monaco?

    In quasi tutte le grandi religioni del mondo troviamo gruppi di uomini e donne che si separano dalla vita ordinaria della società, si assumono particolari e seri impegni e si dedicano sopra ogni cosa a un unico fine: comprendere e praticare sempre più profondamente la propria religione.

    Nell’induismo, attraverso una purificazione ascetica e misti­ca, il monaco cerca la liberazione dal circolo terreno del tempo e dall’inganno dell’apparenza. Nel buddismo cerca l’illuminazio­ne nel fondo del proprio essere. Nel giudaismo, poco prima del­la venuta di Cristo, i monaci di Qumran vivevano la profezia veterotestamentaria con una profonda dimensione escatologica. Nell’islam, sebbene i sufi non siano monaci, hanno sempre cercato una profonda esperienza estatica di unione con Dio. Nel cristianesimo il monaco cerca innanzitutto di vivere la propria fede secondo l’evangelo di Gesù Cristo, rinunciando a se stesso, portando la propria croce e seguendo Cristo. Si unisce a Gesù nel nascondimento degli anni trascorsi a Nazaret lavorando, o lo segue nel deserto condividendo la preghiera solitaria del Mae­stro.

    La vita monastica, secondo la tradizione cattolica, è concepita quale risposta all’appello evangelico di Gesù Cristo alla peniten­za e alla preghiera. Tutti i cristiani cercano di salvare la propria anima seguendo Cristo. Tuttavia, i monaci, prestando una particolare attenzione ai comandi del Maestro, cercano di osservare più da vicino e più fedelmente alcune sue parole, quali:

    State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel (ulti­mo) giorno non vi piombi addosso improvvisamente… Ve­gliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza di comparire davanti al Figlio dell’uomo (Lc 21,34-36),

    Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi (Mt 19,21). Se qualcuno vuoi venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Quale vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima? (Mt 16,24-26).

    Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo ame­rà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui… Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamen­ti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore (Gv 14,23; 15,9-10).

    La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune (At 4,32).

    Il monaco prende estremamente sul serio l’evangelo. Median­te la sua fede in Cristo, si impegna a sviluppare una speciale con­sapevolezza delle possibilità e dei rischi spirituali della vita uma­na. “State bene attenti ...”. La vita monastica è una vita che, per mezzo della disciplina e della rinuncia, libera l’uomo dalla disattenzione e dall’irresponsabilità, dall’insensibilità spirituale e dalla mancanza di libertà che sopraggiungono quando ci si im­merge negli affanni, nei piaceri e nella ricerca di sé.

    Il monaco si sforza di apprendere quello spirito di sacrificio at­traverso il quale, affidandosi a Cristo e alla sua vicinanza e po­tenza, potrà liberarsi da se stesso, perdere la preoccupazione per la propria vita e  per la propria realizzazione, al fine di abbandonarsi a un più profondo, invisibile principio. Lo Spirito santo, quale fonte di luce e di vita, si rende misteriosamente presente all’uomo che, per amore di Cristo, non cerca più di avere come guida il      proprio capriccio e la propria volontà.

    Il monaco si sforza di penetrare il significato profondo di tut­te le parole di Cristo, di conservarle nel cuore notte e giorno, meditandole (cf. Lc 2,19).

    Il monaco cerca l’unione con Cristo attraverso l’amore obbe­diente e fedele. Crede che attraverso l’amore rimane in Cristo e Cristo rimane in lui (cf. Gv 13,1-5). Quest’unione misteriosa del cristiano con Cristo può divenire – e di fatto diviene – davvero molto più di una questione di fede cieca. Nella vita mona­stica, la fede si apre alla luce di una comprensione spirituale, che è comunque proporzionata all’umiltà e alla purezza di cuore del monaco (cf. Mt 5,3-12).

    Purezza di cuore

    La disciplina della vita monastica è tutta orientata verso un unico fine: far crescere la “purezza di cuore“, che è una dimensione di pace, altruismo, umiltà, disinteresse verso i modelli e le preoccupazioni di una vita dominata da affanni che rendono schiavi.

    La purezza di cuore non è però il risultato di un impegno indi­vidualistico, un qualcosa raggiungibile solo con l’introspezione, l’analisi del proprio io e i più seri sforzi per progredire spiritual­mente, senza curarsi delle necessità degli altri. La purezza di cuore, secondo la tradizione monastica, non può svilupparsi senza un’umile fraternità nella carità di Cristo. Questa è la ra­gione per cui la vita monastica comunitaria, con i suoi costanti richiami al servizio disinteressato e alla carità, è il mezzo princi­pale per portare il cuore dell’uomo a uno stato di pace, dolcezza, fede e semplicità.

    Il monaco, tuttavia, vive la sua vita comune in uno spirito di solitudine interiore. Ecco perché in alcuni monasteri, come quelli cistercensi, viene dato un particolare risalto al silenzio e alla preghiera.

    La vita nel silenzio e nella preghiera non dovrebbe mai creare un senso di conflitto tra l’amore di Dio e l’amore del fratello. Quando questi si intralciano e l’uno impedisce l’altro, è segno che non si conduce una vita da vero monaco, in modo pieno e maturo, con spirito di fede. Ma, concretamente, può essere mol­to difficile imparare a fare una vita comune fraterna e allo stesso tempo meditare e adorare Dio nel proprio cuore. Uno dei segni della vocazione cistercense è la capacità di riconciliare queste due linee apparentemente conflittuali in una vita di silenzio e di semplicità tra fratelli.

    Preghiera, lode e lavoro

    Il monaco è un uomo di preghiera e di lode. La sua vita di pre­ghiera è basata sulla liturgia della chiesa, il canto dei salmi e il sacrificio eucaristico.

    Per il monaco, la liturgia è la via regale per andare a Dio. Questa è la ragione per cui Benedetto disse che “niente è da preferirsi all’opera di Dio” (opus Dei: RB 43,3). Centro della litur­gia è la celebrazione eucaristica, il memoriale del sacrificio di Cristo, vittima e sommo sacerdote in mezzo al popolo che si è eletto.

    Per capire realmente che cosa sia la liturgia, dobbiamo comprendere la vera natura del cristianesimo. Che cos’è il cristianesimo se non il mistero di Cristo in noi, il mistero di Cristo nella sua chiesa, il mistero della nostra salvezza e dell’unione con Dio in Cristo Gesù?

    Paolo ci mostra il vero significato del “mistero taciuto per se­coli eterni ma ora rivelato” (Rm 16,25-26). E’ il mistero della no­stra incorporazione a Cristo. E’ il disegno eterno e santo di Dio Padre che ci salva in Cristo suo Figlio, per “benedirci con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo… poiché egli ci ha fat­to conoscere il mistero della sua volontà, secondo la sua benevolenza … per ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo co­me quelle della terra” (Ef 1,3.9-10).

    La “ricapitolazione” di ogni cosa in Cristo significa la pneu­matizzazione dell’intera creazione attraverso il contatto con la sacra umanità del Verbo. L’Uomo-Dio Cristo Gesù regna nei cieli. Ma è presente e agisce sulla terra nei membri del suo corpo, la chiesa. Chiunque è incorporato a Cristo attraverso la fede e il battesimo condivide la sua figliolanza divina e con lui entra nel mistero della sua vita e potenza.

    Ora, è per la forza della sua croce che siamo salvati, e la no­stra vita in Cristo nasce dalla compartecipazione alla sua morte e risurrezione. Ma la croce e la risurrezione di Cristo sono più che una memoria storica. Sono una realtà presente, resa mistica­mente attuale dalla liturgia, o dall’ “azione sacra” che chiamia­mo messa. Questa è un mistero sacro, un’azione divina e umana dove Dio e l’uomo condividono un’unica festa di amore, di sa­crificio e di riconciliazione.

    Gesù promise chiaramente che sarebbe stato presente nella sua chiesa in modo reale e oggettivo, come sua guida, santificatore e maestro, ma in modo speciale nella più concreta e più spi­rituale di tutte le azioni: il suo sommo sacrificio sacerdotale.

    Gesù Cristo è allora nostro sacerdote e nostra vittima, ed è lui che offre misticamente la messa fra di noi, davvero presente tra i credenti di oggi proprio come lo era tra i suoi discepoli all’ulti­ma cena.

    Da questo grande centro dell’eucaristia, la liturgia si irradia per santificare ogni momento della giornata attraverso le ore canoniche dell’ufficio divino, il sacrificio di lode della chiesa.

    L’uomo ha un corpo e un’anima ed entrambi devono svolgere il proprio compito ogni giorno. Il corpo deve essere nutrito e co­perto, e a questo fine l’uomo deve lavorare con le proprie mani, arare il terreno, spaccare la legna, prendersi cura del bestiame, farsi degli abiti, riscaldare la propria casa e arredarla con sempli­cità. Ma più importante è il nutrimento dell’anima, mediante lo studio, la lettura, la meditazione e la contemplazione delle cose divine.

    L’uomo deve allora innalzare il suo spirito a Dio nel rin­graziamento, nella preghiera, nella penitenza e nell’adorazione. Nessuno di questi aspetti viene trascurato in monastero. La regola di Benedetto tiene in grande conto la natura umana e si cu­ra di dare all’uomo una vita sana e felice, che Benedetto chiama “scuola del servizio divino” (RB, Prol. 45). Sono certo presenti la fatica e il sacrificio ma ancor più vi è la soddisfazione di un compito svolto bene. E alla fine, al di sopra dì tutto, c’è la gioia soprannaturale di chi ha donato tutto il suo tempo e i suoi pen­sieri a Dio e vive come figlio fedele del suo Padre celeste.

    La comunità monastica

    La vita monastica comunitaria ha per modello quella dei di­scepoli riuniti attorno al Maestro. La comunità ha quale suo ve­ro capo Cristo. La fede, per mezzo dello Spirito santo, guida il monaco verso di lui e gli dona forza, consiglio, sostegno, stimolo e coraggio. Ma il Maestro si rende visibilmente presente tra i suoi discepoli attraverso una figura umana, l’abate. Eletto dalla comunità, l’abate è un monaco maturo e ricco d’esperienza, ca­pace di presiedere la vita del monastero e di prendersi cura delle necessità spirituali e materiali dei monaci. Secondo il voto emes­so, tutti i monaci gli obbediscono in spirito di fede, e sotto la sua guida compiono il lavoro che è loro richiesto per il bene comune.

    Alcuni monaci diventano presbiteri e tra questi vi è chi svol­gerà i necessari ministeri sacramentali, spirituali, o di insegnamento, in comunità o presso gli ospiti. Tuttavia, non si ordina uno presbitero solo perché svolga un lavoro.

    Altri in comunità restano monaci senza ricevere gli ordini sa­cri. Essi possono scegliere se dedicare un tempo maggiore alla preghiera corale e allo studio, oppure al lavoro manuale. Ma tut­ti i membri della comunità pregano, lavorano manualmente e leggono o studiano. Le proporzioni variano da monastero a mo­nastero.

    In passato esistevano chiaramente due distinte categorie di monaci: i coristi e i fratelli conversi. Dal punto di vista canonico questi ultimi erano a un diverso livello rispetto ai primi. Ma ora la condizione è stata unificata: tutti hanno gli stessi diritti e so­no giuridicamente equiparati. Resta la diversità dei ministeri, dal momento che alcuni sono attratti maggiormente dal lavoro manuale che non da quello intellettuale e altri sono meglio dota­ti per il servizio del coro. Il vero ideale monastico non ha mai presentato una rigida uniformità: al contrario, deve esservi spa­zio per una diversità di doni e di carismi e nessuno deve tentare di comprimere gli uomini in uno schema per il quale non sono dotati dalla natura o dalla grazia.

    Uomini di ogni genere, professione, carattere, di ogni livello sociale e di ogni razza e nazione, si legano assieme in monastero con vincoli di fede e carità. Per esperienza hanno imparato che sono tutti figli di uno stesso Padre celeste. Qui non esistono distinzioni razziali o sociali. Tutti sono uno in Cristo e tutti posso­no unirsi al canto del salmista: “Ecco com’è buono e soave che i fratelli vivano insieme” (Sal 133,1).

  • 16 Dic

    Thomas Merton

    PRINCIPI DI BASE DELLA
    SPIRITUALITÀ MONASTICA

    Tratto da Thomas Merton, UN VIVERE ALTERNATIVO – ed. QIQAJON COMUNITA’ DI BOSE a cui rimandiamo per l’approfondimento.


    Il monaco che cessa di domandarsi: “Amice, ad quid venisti?” forse ha cessato di essere monaco.

    Il monaco, uomo di preghiera, deve imparare che attraverso le sue preghiere, attraverso la benedizione che la presenza di un monastero riversa tutt’attorno, il mondo viene santificato e av­vicinato a Dio.

    Le cose materiali che ci circondano sono sante a causa dei nostri corpi, i quali sono san­tificati dalle nostre anime, che a loro volta sono santificate dalla presenza del Verbo che le inabita.

    Il Nuovo Testamento ci mette continuamente in guardia con­tro la stoltezza di un tipo di contemplazione e di ascesi pura­mente umane, che generano un’illusione di santità e di sapienza ma non possono unirci a Dio né con lui riconciliarci. L’ascesi umana e le tecniche mistiche non possono salvarci dai nostri peccati. Ci tengono lontano da Dio e anzi ci separano ancor più, perché la loro illusione genera in noi una falsa fiducia e un falso orgoglio. Sono centrate sull’uomo, non su Dio; mirano a glorifi­care l’uomo, non Dio.

    Chi, dunque, cerchiamo in monastero? Non solo Dio, nostro Padre e creatore, perché anche se lo cerchiamo non possiamo trovarlo senza Cristo. Cerchiamo Cristo, nostro salvatore e re­dentore, nel quale siamo riconciliati con il Padre.


    La vocazione monastica è indubbiamente una delle più belle nella chiesa di Dio. La “vita contemplativa”, come viene solita­mente definita la vita degli ordini monastici, è una vita intera­mente dedicata al mistero di Cristo, per vivere la vita di Dio che si dona a noi in Cristo. E’ una vita totalmente abbandonata allo Spirito santo, una vita di umiltà, di obbedienza, di solitudine, di silenzio, di preghiera in cui si rinuncia ai propri desideri e alle proprie abitudini per vivere nella libertà dei figli di Dio, guidati dallo Spirito santo che parla attraverso i superiori, la regola e le ispirazioni interiori che la sua grazia ci dona. E’ una vita di totale oblazione a Dio, in unione a Gesù, che per noi è stato crocifisso ed è risorto dai morti, e che vive in noi attraverso il suo Spirito santo.

    Ma per quanto bella, semplice ed esaltata possa essere questa vita – come ci mostra la tradizione dei padri del monachesimo -, i monaci sono esseri umani, e la fragilità umana tende sempre ad abbassare e distorcere la pienezza di quanto ci è donato da Dio. Soprattutto questo è motivo di rammarico: il vedere persone piene di buona volontà e generosità che abbracciano la vita mo­nastica solo per ritrovare la loro buona volontà che si è dissipata in futilità e routine. Anziché vivere la vita monastica nella sua purezza e semplicità, si tende sempre a complicarla e a perver­tirla con i nostri punti di vista limitati o con i nostri desideri troppo umani. Si dà un’enfasi esagerata ad alcuni aspetti parzia­li della vita, sbilanciandone così l’equilibrio complessivo. Oppu­re si cade in quella miopia spirituale che coglie solo le minuzie e perde di vista l’unità organica in cui si è chiamati a vivere. In una parola, per comprendere adeguatamente le regole e le osser­vanze della vita monastica, si deve sempre avere presente il vero significato del monachesimo. Per non rimanere confusi dai mez­zi che ci sono donati, dobbiamo sempre metterli in relazione al loro fine.

    Solo alla luce del mistero di Cristo possono essere colte le grandi finalità della vita monastica. Cristo è il centro del vivere monastico. Cristo ne è la fonte e il fine. E’ lui la via del monaco, come anche la sua meta. Le regole, le osservanze monastiche, le pratiche dell’ascesi e la preghiera devono sempre essere integra­te in questa dimensione superiore. Devono sempre essere viste come parti di una realtà vivente, come manifestazioni di una vita divina e non come elementi di un sistema, semplici espressio­ni di mero dovere. Il monaco compie qualcosa di più che confor­marsi a degli ordini e a dei comandi che non riesce a capire: egli abbandona la sua volontà al fine di vivere in Cristo. Rinuncia a una libertà di livello inferiore per una superiore. Ma perché que­sta rinuncia sia fruttuosa e valida, il monaco deve essere consa­pevole di quanto sta facendo.

    Cosa cerchi?

    Se vogliamo vivere da monaci, dobbiamo tentare di capire co­sa sia effettivamente la vita monastica. Dobbiamo tentare di raggiungere le fonti da cui essa è scaturita. Dobbiamo conosce­re le nostre radici spirituali, per poterle affondare più profondamente nel terreno.

    Ma la vocazione monastica è un mistero. Non può quindi essere esaurientemente espressa in una formula chiara e concisa. E’ un dono di Dio e non la comprendiamo appena la ricevia­mo, poiché tutti i doni di Dio, specialmente quelli spirituali, hanno in sé qualcosa della sua intimità e del suo mistero. Dio si rivelerà a noi nel dono della nostra vocazione ma lo farà con gradualità.

    Non deve sorprendere se trascorriamo tutta la nostra vita di monaci approfondendo sempre più il mistero della nostra voca­zione, che è vita nascosta con Cristo in Dio (cf. Col 3,3). Se sia­mo veri monaci dovremo infatti costantemente riscoprire cosa significhi essere monaco e non esauriremo mai la pienezza di si­gnificato della nostra vocazione.

    Quando entriamo in monastero possiamo avere o non avere una precisa coscienza sul perché abbiamo lasciato il mondo. Pos­siamo dare una risposta, più o meno chiara, alla domanda: “Per­ché sei venuto qui?”. Ma questa è una di quelle domande che dovremmo porci continuamente nel corso della nostra vita mo­nastica: “Cosa stai facendo qui? Perché sei venuto qui?”. Non che sia una domanda di cui non conosciamo la risposta, ma ten­diamo a dimenticarla. È una domanda che ci mette davanti un significato e un’urgenza nuovi, man mano che avanziamo nella vita.
    Talvolta esitiamo a porci questa domanda temendo che possa minare le fondamenta della nostra vocazione. Ma è una di quelle domande che non dovrebbero mai essere eluse. Se la prendiamo seriamente, rafforzeremo la nostra vocazione. Se la eludiamo, anche con un santo pretesto, possiamo aprire la strada all’inde­terminazione della nostra vocazione. Il monaco che cessa di domandarsi: “Amice, ad quid venisti?” (RB 60,3; cf. Mt 26,50) forse ha cessato di essere monaco.

    Quali sono le risposte che diamo alla domanda: “Perché sei venuto qui?”. Noi rispondiamo: “Per salvarmi l’anima”, “Per condurre una vita di preghiera”, “Per far penitenza dei miei peccati”, “Per donarmi a Dio”, “Per amare Dio”. Sono risposte sufficientemente buone, risposte religiose, cariche di significato non solo per quanto affermano ma anche per ciò che implicano. Perché, sulle labbra di un cristiano, alcune affermazioni devo­no, alla fine, significare molto più di quanto dicono all’inizio. In se stesse sono la prova di buone disposizioni soggettive ma non portano in alcun modo a una comprensione piena della vita mo­nastica. Perché la vita monastica non è definibile soltanto dal fatto che ci consente di salvarci l’anima, di pregare, di far peni­tenza, di amare Dio. Tutte queste cose possono essere realizzate fuori del monastero e sono vissute da migliaia di persone. Il monachesimo cristiano non è neppure adeguatamente defi­nito come ricerca di perfezione. In Giappone, ad esempio, uno zen buddista può entrare in monastero per cercare una vita ritira­ta e una disciplina spirituale. Forse sta cercando la realtà più alta. Sta cercando la “liberazione”. Ora, se noi entriamo in monaste­ro per cercare la realtà più alta, per cercare la perfezione, dob­biamo nondimeno renderci conto che per noi questo significa qualcosa di più di quanto possa significare per uno zen buddista.
    La nostra vita monastica deve perciò crescere per rendere più chiara e specificamente cristiana l’idea del fine per cui lottiamo. Ha molto più senso affermare, come fa Benedetto, che noi ve­niamo in monastero per cercar Dio (cf. RB 58,7), che non affermare che veniamo per cercare una perfezione spirituale. Il fine che cerchiamo non è soltanto qualcosa di interiore a noi stessi qualche dote personale da aggiungere, qualche nuovo valore. E’ Dio stesso che cerchiamo.

    Dire: “Perché sei venuto qui?” è la stessa cosa che dire: “Che cosa significa cercare Dio? Come sai se lo stai cercando o meno? Come puoi dire la differenza tra cercarlo e non cercarlo, quan­do, di fatto, egli è un Dio nascosto, Deus absconditus?”. Quando Mosè parlò a Dio dicendo: “Mostrami il tuo volto”, il Signore rispose “Nessuno può vedermi e vivere (cf. Es 33,18-20). Ep­pure Gesù ci dice che la vita eterna è conoscere l’unico vero Dio e colui che egli ha mandato, Gesù Cristo (cf. Gv 17,3). Questa conoscenza di Dio, che è la vita eterna, non la si può ottenere con la semplice speculazione. Noi giungiamo a conoscere Dio per il fatto di essere nati da lui e di vivere in lui. Non possiamo conoscerlo veramente soltanto attraverso la lettura, lo studio e la meditazione. Possiamo arrivare a conoscere Dio solo divenendo suoi figli e vivendo come tali. “A quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uo­mo, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1,12-13).

    Possiamo vivere da figli di Dio, possiamo conoscere Dio solo se viviamo nella carità. “Amati, amiamoci gli uni gli altri, per­ché l’amore è da Dio, e chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio” (lGv 4,7). Ma questa carità non è il semplice amore naturale per l’altro. Non diventiamo figli di Dio per il solo fatto di vivere insieme in una società che si dedica a uno scopo comu­ne, condividendo con altri degli interessi comuni. Non fanno così anche i pagani (cf. Mt 5,46)? La carità che ci unisce è la carità di Cristo, nel senso stretto di un amore esercitato dal cuo­re di Cristo e non nel senso generico di un amore copiato dal suo. Al mandatum noi cantiamo: Congregavit nos in unum Christi amor. E’ l’amore del cuore di Cristo per noi (e non il nostro amore per lui) che ci ha riuniti assieme. Non potremmo amarlo, se egli non ci avesse “amati per primo” (1Gv 4,19). Noi diventiamo figli di Dio rinascendo in Cristo – attraverso il battesimo – e viviamo, cresciamo e portiamo frutto solo “ri­manendo in Cristo”. “Rimanete in me e io in voi. Come il tral­cio non può far frutto da sè stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me” (Gv 15,4). Arriviamo così al cuore della nostra vocazione monastica.

    La nostra vita monastica è una vita in Cristo, una vita attra­verso la quale rimaniamo in Cristo, condividendo la sua vita, partecipando alla sua azione, unendoci a lui nel suo culto al Padre. Cristo è la nostra vita. È lui il senso pieno della nostra vita, l’intera sostanza della vita monastica. Niente ha più significato, in monastero, se dimentichiamo questa grande verità centrale.

    Ma chi è Gesù? E’ il Figlio di Dio, è il Verbo che si fece carne e abitò fra noi (cf. Gv 1,14). La vita monastica, come tutta la vi­ta cristiana, la vita della chiesa, prolunga il mistero dell’incarna­zione sulla terra e ci consente di accogliere nei nostri cuori, con abbondanza, la luce e la carità di Cristo. Veniamo in monastero per cercare Cristo, con il desiderio di poterlo trovare e conoscere, e arrivare così a vivere in Cristo e per mezzo di lui. E non ap­pena incominciamo a trovarlo, incominciamo al tempo stesso ad accorgerci che stavamo già vivendo in lui e per mezzo di lui, per­ché “egli ci ha amati per primo“.

    Il Verbo si fece carne

    Tutto il significato della vita monastica scaturisce dal mistero dell’incarnazione. Veniamo in monastero, guidati dallo Spirito santo, per cercare la vita eterna. La vita eterna è la vita di Dio, donataci in Cristo. Veniamo a cercare verità. Cristo disse: “Io sono la verità” (Gv 14,6). Veniamo a cercare vita. Egli è la via e la vita. Veniamo a cercare luce. Egli è “la luce del mondo” (Gv 8,12). Veniamo a cercare Dio. In lui “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9). In Cristo Dio si è rivelato a noi e si è donato a noi: “Il Verbo si fece carne e abitò fra noi e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14).

    In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo, perché noi avessi­mo la vita per mezzo di lui” (1Gv 4,9).
    La domanda: “Perché sei venuto qui?” è allora la domanda di Gesù nel giardino dell’agonia: “Chi cercate?” (Gv 18,4). Cer­chiamo Gesù di Nazaret, il Cristo, il Figlio del Dio vivente, che per amore nostro discese dal cielo, morì sulla croce e risuscitò dai morti e siede, vivo, alla destra di Dio Padre, dando a noi pienezza con la sua vita e guidandoci per mezzo del suo Spirito, così che egli vive, respira, lavora, agisce e ama in noi.

    Lo scopo della nostra vita è allora crescere nell’unione con il Cristo risor­to, vivere sempre più profondamente la vita del suo corpo, la chiesa, continuare sulla terra l’incarnazione che manifesta l’a­more di Dio per gli uomini, al fine di poter condividere, con Cristo, nei cieli, la gloria di Dio. Il Verbo si fece carne. Verbum caro factum est. Questa verità è la pietra angolare della nostra vita monastica. Non è solo una ve­rità che conosciamo e sulla quale, di tanto in tanto, meditiamo. E’ una verità che deve diventare la nostra vita. L’intera nostra esistenza e tutte le nostre attività devono essere impregnate della luce che da essa scaturisce: quella luce è la stessa luce di Dio. Il Verbo è lo splendore della gloria del Padre (cf. Eb 1,3). E’ l’immagine del Dio invisibile (Col 1,15) e il modello di tutta la creazione di Dio. Tutte le cose, tutti gli esseri viventi, tutta la creazione inanimata, tutti gli spiriti e le intelligenze sono creati in lui, sono sostenuti in lui, vivono in lui e per mezzo di lui. “Per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili, Troni, Dominazioni, Principati e Potestà: tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui” (Col 1,16-17).
    Quando Benedetto vide tutta la creazione radunata assieme “come in un unico raggio di splendore, vide tutte le cose nella luce del Verbo, senza il quale niente è stato fatto di ciò che esiste” e che “illumina ogni uomo che viene nel mondo” (Gv 1,3.9). Questo è il fine a cui tendiamo: vedere la gloria del Verbo incar­nato, “gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14). Cerchiamo di vedere, conoscere e amare tut­te le cose in lui: il mondo, gli angeli, i nostri fratelli, il Padre e lo Spirito santo. Questa è la risposta alla domanda: “Perché sei ve­nuto qui? Chi cerchi?”.

    Egli è il Tutto. E per poter vedere colui che è il Tutto, dobbia­mo conoscerci e trovarci in lui. Dobbiamo trovare ogni cosa in lui e in ogni cosa lui. Dobbiamo trovare il Padre in lui. Il Verbo si fece carne. Incarnazione! Egli prese per sé un corpo e un’anima umani, così che il Verbo dimorò fra noi come uomo. Il Verbo non assunse la carne per finzione, come un semplice abito che avrebbe potuto essere tolto e gettato via. Divenne un uomo. Gesù, un uomo, è Dio. Il suo corpo è il corpo di Dio. La sua car­ne è talmente colma della luce e della potenza di Dio da essere completamente e interamente divina. E questo Uomo-Dio, Gesù Cristo, è diventato per noi il nostro nuovo mondo, una nuova creazione, in cui tutte le cose devono essere “ricapitolate”.

    Dom Vonier dice: “Possono adeguatamente apprezzare l’in­carnazione solo coloro per i quali l’umanità di Cristo è la mera­viglia delle meraviglie, una superba creazione in cui ricevono il proprio essere, in cui vivono, lavorano, muoiono, in cui sperano di risorgere e in cui trovano la pienezza della divinità come quando Mosè si imbatté nel roveto ardente”. Gesù non assunse la natura umana solo al fine di morire per noi sulla croce ed elevarci al di sopra della “materia”. La sacra umanità di Cristo, che regna e agisce nei cieli, è un principio permanente di santificazione, in grado di spiritualizzare tutto ciò con cui è messa in contatto, attraverso la sua chiesa.

    Se il Verbo si fece carne e se il corpo di Cristo rimane una fonte permanente di santificazione, allora la creazione non è cattiva. Quando creò il mondo, “Dio vide che era cosa buona” (Gen 1,4.10…), perché venne creato in Cristo e prese vita per mezzo suo. Se la nostra vita è una ricerca di Gesù, il Verbo che si è fatto carne, dobbiamo prendere coscienza che non bisogna agire come i mistici pagani, che ripudiano il mondo visibile co­me una pura illusione, e come coloro che interrompono ogni contatto con le cose sensibili e materiali. Al contrario, dobbia­mo imparare a guardare e a rispettare la creazione visibile che ri­specchia la gloria e le perfezioni del Dio invisibile. La creazione visibile è mantenuta in essere dal Verbo. Ma il Verbo stesso è entrato nella creazione per esserne la corona e la gloria. Il re divino è entrato nella sua stessa creazione con un corpo che è il punto più alto di tutte le cose create. Il corpo di Cristo è qualcosa di più grande e più meraviglioso di tutta la creazione angelica, perché è ipostaticamente unito al Verbo, e Paolo ci ricorda che dobbiamo preferirlo a tutti gli angeli: “Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo. Perché in lui abita corporal­mente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,8-9). Se pertanto cerchiamo Gesù, il Verbo, dobbiamo essere capaci di vederlo nelle cose create attorno a noi: nelle colline, nei campi, nei fiori, negli uccelli e negli animali che ha creato, nel cielo e negli alberi. Dobbiamo esser capaci di vederlo nella natu­ra. La natura non è un ostacolo al nostro contatto con lui, se sap­piamo osservarla nella giusta luce.
    La chiesa, nella sua liturgia, fa uso di elementi materiali per­ché sa che questi parlano con eloquenza di Dio: luci, incenso, abiti, musica. Soprattutto usa elementi materiali non solo come simboli ma come mezzi attraverso i quali viene direttamente ap­plicata alle nostre anime la grazia di Dio: i sacramenti. Il Verbo che si fece carne continua a rendersi presente nel suo perfetto sacrificio, sotto le specie consacrate del pane e del vino. Se dobbiamo vivere da cristiani, quali membra del Verbo in­carnato, dobbiamo ricordare che la stessa vita dei nostri sensi è stata elevata e santificata dalla grazia di Cristo; dobbiamo impa­rare a usare i nostri sensi per vedere, udire e apprezzare gli aiuti sacramentali alla santità che la chiesa ci dona. Di qui il ruolo dell’arte, del canto, e così via, come componenti della liturgia. Dobbiamo saper usare la nostra immaginazione quando leggia­mo le Scritture. Dobbiamo far eco agli esseri viventi e a quelli inanimati, che proclamano tutti la sapienza e la gloria di Dio, loro creatore. Dobbiamo, prima di tutto, guardare tutte le cose materiali al­la luce del mistero dell’incarnazione. Dobbiamo avere rispetto per tutta la creazione, perché il Verbo si è fatto carne.
    Ci è possibile rispettare le cose umili e materiali perché la chiesa, il corpo di Cristo, resta in mezzo al mondo per santifi­carlo e spargere su ogni cosa la potenza delle benedizioni di Dio. Paolo dice: “Tutto ciò che è stato creato da Dio è buono e nulla è da scartarsi, quando lo si accoglie con rendimento di grazie. Per­ché esso viene santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera” (1Tm 4,4-5).

    Il monaco, uomo di preghiera, deve imparare che attraverso le sue preghiere, attraverso la benedizione che la presenza di un monastero riversa tutt’attorno, il mondo viene santificato e av­vicinato a Dio. Deve gioire per il fatto che attraverso la sua unio­ne nascosta con Cristo permette a ogni cosa di farsi più vicina al proprio fine ultimo e di dar gloria al proprio creatore.

    Il monaco deve guardare alla comunità monastica come a Cri­sto, presenza visibile e vivente nel cuore della sua creazione, presenza che benedice il paese circostante e tutte le cose che i monaci toccano e usano, portandole a unirsi a noi nella lode a Dio attraverso il suo Figlio incarnato. Le cose materiali che ci circondano sono sante a causa dei nostri corpi, i quali sono san­tificati dalle nostre anime, che a loro volta sono santificate dalla presenza del Verbo che le inabita. L’universo creato è un tempio di Dio, e il nostro monastero è come se ne fosse l’altare, la comunità il tabernacolo; e Gesù stes­so si rende presente nella comunità, offrendo il suo culto d’amore e di lode al Padre e santificando le anime e tutte le cose.

    Ne consegue che nella vita monastica i nostri sensi sono edu­cati ed elevati, non certo distrutti. Ma questa educazione necessita una disciplina. Se i nostri occhi devono essere gli occhi dell’“uomo nuovo” (Cristo), non devono più guardare alle cose con i desideri e i pregiudizi dell’“uomo vecchio”. Devono essere pu­rificati dalla fede, dalla speranza e dall’amore. Mentre mortifica i nostri sensi, l’ascesi monastica fornisce loro una vita nuova in Cristo, così che impariamo a vedere, udire, sentire, gustare… come Cristo, e perfino i sensi vengono allora spiritualizzati.

    La parola della croce

    Quanto è stato detto non è che un’introduzione al vero mi­stero della nostra vocazione monastica. Dio creò il mondo e vide che tutte le cose erano buone, perché sussistevano nel Ver­bo. Il Verbo si fece carne e dimorò fra noi, e noi abbiamo visto in lui la gloria di Dio (cf. Gv 1,14). Ma basta questo? Se così fosse, allora l’uomo non dovrebbe far altro che seguire i propri istinti naturali, usare delle cose create, e con facilità e sponta­neità troverebbe la via che porta a Dio. Ma non è così.

    Vi sono molti ostacoli alla “spiritualizzazione” della nostra vita. Per di­ventare “uomini nuovi” dobbiamo lottare, combattere e anche morire.
    Siamo uomini decaduti, e il mondo con noi. L’uomo e il mon­do sono stati resi schiavi dal principe delle tenebre, e sono af­fondati nell’errore e nel peccato. Ora, il peccato ha precluso la possibilità all’uomo di ritrovare la via verso Dio.
    Sebbene gli attributi di Dio siano chiaramente visibili nella creazione, l’uomo, precipitato nelle tenebre per colpa propria, non riconosce più Dio. “Sebbene conoscessero Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma han­no vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa, perché mentre si dichiaravano sapienti, sono di­ventati stolti” (Rm 1,21-22).
    Il Nuovo Testamento ci mette continuamente in guardia con­tro la stoltezza di un tipo di contemplazione e di ascesi pura­mente umane, che generano un’illusione di santità e di sapienza ma non possono unirci a Dio né con lui riconciliarci. L’ascesi umana e le tecniche mistiche non possono salvarci dai nostri peccati. Ci tengono lontano da Dio e anzi ci separano ancor più, perché la loro illusione genera in noi una falsa fiducia e un falso orgoglio. Sono centrate sull’uomo, non su Dio; mirano a glorifi­care l’uomo, non Dio. Paolo, nella Lettera ai Romani, dopo aver additato i misteri pagani e gli altri riti, quindi la legge e l’ascesi dei giudei, escla­ma che niente di tutto ciò può liberare l’uomo dal peccato e ri­conciliarlo con Dio. Per dimostrarlo, egli cita le parole dei salmi, che così spesso cantiamo:

    Giudei e greci, tutti sono sotto il dominio del peccato, come sta scritto: Non c’è nessun giusto, nemmeno uno, non c’è sa­piente, non c’è chi cerchi Dio! Tutti hanno traviato e si sono pervertiti; non c’è chi compia il bene, non ce n’è neppure uno. La loro gola è un sepolcro spalancato, tramano inganni con la loro lingua, veleno di serpenti è sotto le loro labbra, la loro bocca è piena di maledizione e di amarezza. I loro piedi corrono a versare il sangue; strage e rovina è sul loro cammino e la via della pace non conoscono. Non c’è timore di Dio davanti ai loro occhi (Rm 3,9-18; cf. Sal 14,1-3; 3,10; 140,4; 10,7; Is 39,7-8; Sal 36,2).

    Paolo conclude: “Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio” (Rm 3,23). E l’Antico Testamento ci parla di un mondo che nella sua malvagità reca dolore a Dio, al punto che Dio minaccia di distruggerlo:

    Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male. E il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo. Il Signore disse: Sterminerò dal­la terra l’uomo che ho creato: con l’uomo anche il bestiame e i rettili e gli uccelli del cielo, perché sono pentito di averli fat­ti (Gen 6,5-7).

    Parole come queste imprimono una tremenda urgenza alla no­stra ricerca di Dio, di Cristo. Noi cerchiamo il Verbo incarnato non solo quale creatore e modello di tutte le cose, ma soprattut­to quale redentore, quale salvatore del mondo.
    Il monaco deve sempre essere consapevole che senza Cristo non vi sarebbe salvezza, felicità, gioia, perché l’uomo sarebbe irrevocabilmente separato da Dio, che è la fonte della vita e del­la gioia. Deve comprendere, soprattutto, che senza Cristo assolutamente inutile è lo sforzo umano di piacere a Dio. L’uomo non può salvarsi da solo, senza Cristo, per quanto eroici possano essere i suoi sacrifici. Ma una volta che si guarda al sacrificio della croce come alla nostra vera salvezza, allora anche il più pic­colo atto di carità diviene prezioso e ha valore agli occhi di Dio: perfino un bicchiere di acqua fresca (cf. Mt 10,42).
    Il monaco deve essere consapevole della santità infinita di Dio e dell’offesa che il peccato reca a tale santità. La consapevo­lezza della santità di Dio e dell’offesa del peccato ci danno il ti­more di Dio, che è il principio della sapienza (cf. Sap 11,10); senza di esso non possiamo incominciare a pregare come la chie­sa vorrebbe che facessimo, perché non abbiamo un vero senso delle realtà spirituali. Nello stesso tempo, però, dobbiamo avere una fiducia sconfinata nella croce di Cristo.

    Ecco, dunque, la nostra situazione: senza Cristo siamo com­pletamente separati da Dio, non abbiamo accesso a lui, se non attraverso i riti della religione naturale che non possono, da soli, salvare le nostre anime (ma sappiamo che, per i meriti della pas­sione di Cristo, Dio donerà la sua grazia a chiunque agisce fa­cendo quanto può per vivere secondo la luce della propria co­scienza). Con Cristo e in Cristo, tutta la nostra esistenza è tra­sformata e santificata, e i più piccoli atti d’amore hanno il loro valore di espiazione del peccato.

    Abbiamo bisogno di un salvatore nel quale rinascere a vita nuova, per salire al cielo. Dio ha tanto amato il mondo da darci il suo Figlio come salvatore (cf. Gv 3,16). Quanto più apprezzia­mo questo fatto, quanto maggiore è la nostra riconoscenza e fiducia, tanto più entreremo nella conoscenza di Dio in Cristo e lo serviremo con tutto il cuore. Gesù disse: “Nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo. E come Mosè innalzò il ser­pente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,13-15). Tutti gli uomini hanno bisogno di un salvatore e tutti lo han­no ricevuto in Cristo, che è morto affinché tutti possano essere salvati. Tutti “sono giustificati gratuitamente dalla sua grazia per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù” (Rm 3,24).

    Chi, dunque, cerchiamo in monastero? Non solo Dio, nostro Padre e creatore, perché anche se lo cerchiamo non possiamo trovarlo senza Cristo. Cerchiamo Cristo, nostro salvatore e re­dentore, nel quale siamo riconciliati con il Padre. O meglio, cer­chiamo il Padre in lui, perché, come dice Paolo: “Dio ha real­mente riconciliato a sé il mondo in Cristo” e Cristo “è morto per tutti, perché tutti coloro che vivono non vivano più per se stessi, ma per lui, che è morto ed è risuscitato per loro” (2Cor 5,19.15). Noi cerchiamo Cristo crocifisso quale nostra redenzio­ne, nostra forza, nostra sapienza, nostra vita in Dio (cf. 1Cor 1,23-24.30).
    Questo non lo possiamo pienamente comprendere se non comprendiamo l’amore e la compassione di Cristo per noi, verso la nostra debolezza. Erano i pelagiani che vedevano la croce solo come una sfida e un’ispirazione, non come una forza, una fonte di vita e di energia. Cristo non è semplicemente un sublime eroe che dobbiamo imitare con ogni sforzo; egli è un salvatore amore­vole disceso al nostro livello per donarci la sua forza. Egli ha vo­luto identificarsi con la nostra debolezza nel Getsemani e sulla croce.

    Noi cerchiamo Gesù non solo come salvezza individuale, per­sonale, ma come salvezza e unità di tutto il genere umano. La solidarietà originale dell’uomo, da cui dipende la nostra piena felicità e realizzazione, è stata distrutta dal peccato, e l’uomo non può trovare pace e unità in se stesso, o nella società, finché non si è riconciliato con Dio in Cristo. Cristo è la nostra pace: con gli altri, con noi stessi, con Dio. Lo cerchiamo perciò come il salvatore del mondo, il principe della pace, colui che ristabili­rà l’unità del genere umano nel suo regno di pace.
    La redenzione che Gesù è venuto a portare è stata offerta a tutti attraverso la sua morte in croce: noi riceviamo la nostra re­denzione morendo e risorgendo misticamente con lui; poiché uno è morto per tutti, allora tutti sono morti” (2Cor 5,14).

    Il monaco che prega nel timore di Dio e lo ringrazia per l’infi­nito amore con cui ha mandato suo Figlio per redimerci, prende coscienza non solo che Gesù è morto per lui individualmente, ma è morto per tutta la chiesa; che ha amato la chiesa ed è venuto per unire tutto il genere umano a Dio in un’unione di spirito con il Padre, in se stesso: “Cristo ha amato la chiesa e ha conse­gnato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola” (Ef 5,25-26). Questa è “la parola della croce“. Essa è “stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che sono salvati per noi, è potenza di Dio” (1Cor 1,18). Questa parola è il cuore di tutta la nostra vita di preghiera e di penitenza.

    Se comprendiamo queste cose, comprenderemo l’ufficio divi­no e capiremo per cosa stiamo pregando. Nei salmi non faccia­mo che contemplare, nel mistero, la grande realtà della nostra redenzione in Cristo. Noi ringraziamo continuamente Dio per quella redenzione, e intercediamo per la chiesa intera e per colo­ro che non conoscono Dio. Supplichiamo Dio di perdonare il peccato e di salvare coloro che sono immersi nelle tenebre del peccato. Supplichiamo di poter giungere tutti alla visione della sua gloria, così che il suo Cristo possa essere glorificato in noi.
    Inoltre comprendiamo come sia Gesù stesso, che prega in noi, a continuare, attraverso il nostro ufficio divino, la sua opera di redenzione del mondo. Nell’ufficio, e soprattutto nell’eucari­stia, il monaco è unito a Gesù salvatore.

    Figli della risurrezione

    Cristo, morto sulla croce e risorto dai morti, “non muore più” (Rm 6,9). Siede alla destra del Padre ed è diventato per noi uno “spirito datore di vita” (1Cor 15,45). Come Adamo, plasmato dalla mano del creatore, doveva esse­re il capo del genere umano e il primogenito della vita naturale, così Cristo, quando entrò nella sua gloria per mezzo della risur­rezione, divenne il capo di un’umanità nuova, unita a lui in un unico corpo mistico e vivificata dal contatto con la sua sacra umanità, ora divenuta uno “spirito datore di vita”. Ciò equiva­le a dire che l’umanità del Verbo, il quale regna nei cieli come “Cristo” o “Unto” del Padre, invia nelle nostre anime e nei no­stri corpi lo spirito divino.

    La nostra vita monastica non consiste solamente nell’avere Gesù come salvatore da ringraziare e adorare, come presenza esterna a noi: è una vita costantemente nutrita dal contatto spi­rituale con l’umanità glorificata di Cristo salvatore – vivente in noi attraverso la sua grazia, che è il principio della nostra vita so­prannaturale -, “spirito datore di vita”.

    Il nostro punto di contatto con il Salvatore risorto è la fede nella sua croce. Attraverso la fede noi sottomettiamo interamen­te le nostre menti e i nostri cuori a lui e alla carità, forza della vita divina. La carità diviene allora il principio di una nuova laboriosità, quella delle opere buone, per mezzo delle quali servia­mo il Dio vivente; siamo allora “purificati dalle opere morte (Eb 9,14), e le cose che facciamo acquistano un carattere total­mente nuovo e spirituale in Cristo. Esse danno gloria a Dio, edi­ficano il corpo di Cristo e ci procurano una crescita nell’unione con lui, che è la nostra santità.

    Il contatto con l’umanità risorta di Cristo è la vera santità. Crescere nella santità è crescere nella nostra unione con il Cristo risorto. Ma Cristo vive e agisce nella sua chiesa. Crescere nell’u­nione con la chiesa, partecipare più profondamente alla vita di preghiera della chiesa, alla sua vita sacramentale, alle altre sue attività, ci offre una più intima partecipazione alla vita, al pen­siero e alla preghiera di Cristo stesso. La vita di un monaco è im­mersa nelle profondità della vita della chiesa in Cristo. Il mona­co è essenzialmente un vir ecclesiae.

    La nostra vita spirituale è la vita dello Spirito di Cristo nella sua chiesa. E’ la vita che fluisce dal contatto con Cristo quale “spirito datore di vita”. Avere una vera vita spirituale è allora pensare, amare e agire non soltanto come Cristo avrebbe agito in una siffatta situazione, ma come realmente agisce, attraverso la sua grazia, in noi, in questo preciso momento. E’ vivere e agire con il pensiero della chiesa, che è il pensiero di Cristo.

    In altre parole, la nostra vita in Cristo non si riduce a un’imi­tazione esterna, a una riproduzione morale del modello offertoci da Gesù negli evangeli. Non si tratta semplicemente di legge­re una “Vita di Cristo” e poi, con le nostre forze, con la nostra ingegnosità e con la nostra buona volontà, di mettere in pratica, umanamente, ciò che leggiamo. Tali sforzi sono necessari, ma finché non raggiungono un piano totalmente soprannaturale re­cano poco frutto al nostro spirito.
    La nostra vita in Cristo, le nostre azioni in Cristo sono quelle in cui Cristo, vivente in noi mediante la sua grazia, ispira il nostro pensare e il nostro agire attraverso gli impulsi del suo santo Spirito di amore, che sgorga dalle profondità della nostra anima.
    Parlando di questa vita spirituale come sapienza divina, Paolo afferma che non possiamo conoscere le cose di Dio finché non riceviamo lo Spirito di Dio, che ci dona un profondo discerni­mento dei segreti nascosti nel pensiero e nella volontà di Dio (cf. 1Cor 2,9-12). Essere così edotti e mossi dallo Spirito santo è avere “il pensiero di Cristo” (1Cor 2,16). Ma la sapienza dello Spirito che ci dà “il pensiero di Cristo” è del tutto opposta all’altra sapienza, la sapienza della “carne” e dell’ “uomo natura­le” che “non comprende le cose dello Spirito di Dio: esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giu­dicare solo per mezzo dello Spirito” (1Cor 2,14).

    Gesù aveva insistito sulla necessità di rinascere alla vita dello Spirito, perché “è lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla” (Gv 6,63). “Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è spirito” (Gv 3,6). E Paolo aggiunge: “Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato. Chi semina nel­la sua carne, dalla carne raccoglierà corruzione; chi semina nello Spirito, dallo Spirito raccoglierà vita eterna” (Gal 6,7-8). Siamo dibattuti in un aspro conflitto tra la carne e lo Spirito. Gesù ci ha liberati dal peccato ma non dalla debolezza e dalla concupiscenza della carne. Dobbiamo riprodurre nella nostra vi­ta la croce di Cristo, cosicché, morti sacramentalmente al pecca­to attraverso il battesimo e la penitenza, possiamo dunque met­tere a morte il peccato nella nostra carne frenando i nostri desi­deri malvagi e le cattive inclinazioni. Questo è il fondamento dell’ascesi monastica.

    Pertanto, tutta la vita monastica implica un obbligo a disci­plinarci e a rinunciare a noi stessi al fine di vivere nello Spirito di Cristo e per mezzo suo. La vita ascetica è a un tempo posi­tiva e negativa, ma è l’elemento positivo il più importante. Paolo riassume tutto il significato dell’ascesi cristiana in frasi come questa; “Camminate nello Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne” (Gal 5,16). Si osservi che dapprima dice: “Camminate nello Spirito”; è il lato positivo dell’a­scesi. La parte negativa segue come logica conseguenza, come effetto immediato: “non sarete portati a soddisfare i desideri della carne. Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri. Se viviamo dello Spirito, cam­miniamo anche secondo lo Spirito (Gal 5,24-25). Così dunque, fratelli, noi siamo debitori, ma non verso la car­ne per vivere secondo la carne; poiché, se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere della carne, vivrete (Rm 8,12-13).
    Si noti l’espressione “debitori verso la carne”. La carne è co­me un usuraio: ci dà un poco per poi prenderci tutto, e costante­mente aumenta la presa su colui che è in suo potere, esigendo una sottomissione servile sempre maggiore.

    Ma cosa intende Paolo per “opere della carne”? Quando la Bibbia parla di carne e di spirito, non intende opporre nell’uo­mo l’elemento materiale a quello spirituale, come se il corpo fos­se cattivo e solo l’anima fosse buona. L’uomo intero è “carne” se il suo corpo e le sue passioni egoistiche dominano la sua anima. L’uomo intero è spirito se la sua anima è soggetta allo Spirito di Cristo e il suo corpo è soggetto alla sua anima. Vivere “nello Spirito” non significa perciò vivere senza un corpo. Si­gnifica soffrire la tentazione e la prova. Significa fatica e tutte le normali condizioni della vita dell’uomo sulla terra. “L’inclinazione della carne è morte” (Rm 8,6) e ci porta a ogni genere di peccato. Non solo ai peccati della sensualità e della passione carnale, ma anche ai peccati contro la fede: stre­goneria, magia, superstizione, idolatria; soprattutto ai peccati contro la carità, peccati che ci dividono dai nostri fratelli: invi­dia, inimicizia, gelosie, dissensi, fazioni, divisioni, odio e perfi­no omicidio (cf. Gal 5,19-21). Le opere della carne maggior­mente sottolineate da Paolo sono quelle che dividono il corpo di Cristo in fazioni: “Dal momento che c’è tra voi invidia e discordia, non siete forse carnali e non vi comportate in maniera tutta umana?” (1Cor 3,3). Così anche Giacomo: “Se avete nel vostro cuore gelosia amara e spirito di contesa, non vantatevi e non mentite contro la verità. Non è questa la sapienza che viene dall’alto: è terrena, carnale, diabolica” (Gc 3,14-15).

    I farisei erano asceti, eppure le loro erano “opere morte”: essi vivevano “nella carne” ed erano nemici della croce di Cristo. L’azione dello Spirito santo nella nostra vita produce gioia e pace, ci unisce ai nostri fratelli, e, per poter far questo, lo Spiri­to ci insegna l’obbedienza e l’umiltà. Ciò spiega la grande im­portanza di queste fondamentali virtù nella regola di Benedetto. Nello studio e nell’osservanza della regola dobbiamo prendere coscienza che la funzione di queste virtù non è tanto quella di acquistare meriti per le nostre anime ed esercitarci nell’autodi­sciplina, quanto piuttosto di unirci a Cristo nel suo corpo, la chie­sa. Sono virtù senza le quali non possiamo cominciare a osserva­re il suo comandamento di “dimorare in lui”.

    L’ascesi benedettina, fatta di silenzio, solitudine, umiltà, la­voro manuale, preghiera liturgica, è tutta tesa a unirci al Cristo mistico e agli altri nella carità, e il suo scopo è condurre le no­stre anime a essere totalmente guidate dallo Spirito santo. La via benedettina dell’umiltà nella vita comune è precisamente la via migliore per aiutarci a “camminare nello Spirito”. Lo stesso Be­nedetto lo afferma (cf. RB 7,67-70). Se seguiamo il nostro legislatore monastico, gusteremo il frut­to dello Spirito che è “carità, gioia, pace, pazienza, benevolen­za, bontà, fede, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22).

    Nella sua regola Benedetto mostra chiaramente che tutto lo scopo della vita benedettina è formare Cristo in noi, permettere allo Spirito di Cristo di compiere, nelle nostre esistenze, azioni degne di Cristo. Noi imitiamo la sua obbedienza e la sua umiltà quando, come lui, possiamo dire in verità: “Sono venuto non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha manda­to” (Gv 6,38; cf. RB 7,31-33, secondo gradino dell’umiltà). Riviviamo la sua passione quando, come lui, ci facciamo “obbe­dienti fino alla morte” (Fil 2,8; cf. RB 7,34, terzo gradino dell’umiltà), quando sopportiamo ogni cosa con pazienza e perseve­ranza per amor suo (cf. RB 7,35-43, quarto gradino dell’umiltà) e quando, come il nostro divin Salvatore, siamo ridotti a nulla, “un verme e non un uomo” (Sal 22,7; cf. RB 7,51-54, settimo gradino dell’umiltà). Dopo aver asceso tutti i gradini dell’umil­tà, il nostro cuore sarà svuotato del proprio io, e Dio stesso pro­durrà la somiglianza di Cristo in noi per azione del suo Spirito, che porta gioia e consolazione in ogni aspetto della vita monasti­ca: è la delectatio virtutum che “il Signore si degnerà di mostra­re, con l’azione dello Spirito santo, nel suo servo ormai purifica­to dai vizi e dai peccati” (RB 7,70).

  • 14 Dic

    La Preghiera di Gesù nella Spiritualità esicasta

    di PLACIDE DESEILLE

    Testo originale: La Prière de Jésus dans la Spiritualité Hésychaste © 1995 Monastère Saint Antoine-le-Grand, Traduzione dal francese del prof. G. M. – Palermo 2005


    1. Le origini del metodo

    2. La sobrietà spirituale e l’invocazione del nome di Gesù

    3. Tecnica corporale

    4. Conclusione

    Da una trentina d’anni, numerose pubblicazioni hanno rivelato agli Occidentali un metodo di vita spirituale familiare ai cristiani d’Oriente, il cui momento principale è dato dall’invocazione ripetuta incessantemente:“Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore ”. A ragione  parliamo di metodo di vita spirituale: perché la Preghiera di Gesù non può essere considerata una semplice orazione giaculatoria paragonabile a quelle raccomandate dalla pietà cattolica, anche se il metodo occidentale delle “aspirazioni” possa collegarsi allo stesso filone tradizionale risalente ai Padri del deserto. Ma la Preghiera di Gesù è inseparabile da una dottrina di vita spirituale che i cristiani bizantini e slavi considerano volentieri il cuore dell’ortodossia: l’esicasmo. Perciò, se si vuole cogliere il significato e la portata dell’invocazione del Nome di Gesù nella spiritualità ortodossa, è indispensabile conoscere le grandi linee di questa dottrina.

    1. Le origini del metodo

    La via esicasta poggia su un doppio fondamento:

    1.la dottrina della deificazione dell’uomo in Cristo, così come formulata dai Padri della Chiesa greca,

    2. l’insegnamento pratico dei Padri del deserto sulla custodia del cuore e la preghiera continua.

    Messi di fronte alle eresie trinitarie e cristologiche, i grandi vescovi e i teologi dell’Oriente elaborarono una dottrina che non era puramente speculativa, ma coinvolgeva profondamente una concezione del destino spirituale dell’uomo. Come ripeteranno instancabilmente di fronte ai negatori della consustanzialità del Verbo o delle due nature di Cristo, se il Verbo non è Dio, l’uomo non può essere divinizzato; se una natura umana integrale non è stata unita “senza separazione né confusione” alla natura divina in Cristo, l’uomo non può più essere salvato e divinizzato. Divinizzazione che veniva concepita in maniera estremamente realistica, non indubbiamente come unione ipostatica di ogni persona umana con l’essenza divina, ma come una compenetrazione vitale dell’agire increato di Dio, alla guisa e nel prolungamento della deificazione della natura umana di Cristo.

    Le controversie cristologiche, conducendo i Padri a mettere in luce il ruolo soteriologico della carne di Cristo, ebbero altre due conseguenze, invero connesse.

    1.      Da una parte, il pensiero bizantino, di fronte alle tendenze spiritualiste che il cristianesimo alessandrino aveva ereditato dall’ellenismo, prese sempre più coscienza che ad essere salvato è l’uomo nella sua interezza: la deificazione non è riservata solo all’anima, ma si estende pure al corpo, come manifestato dallo splendore corporale di Cristo sul Tabor.

    2.      D’altra parte, fu più vivamente percepita l’importanza dei segni sacramentali e liturgici, che estendono sino a noi l’azione deificatrice della carne di Cristo. Le catechesi battesimali dei Padri ci trasmettono i primi echi di quella mistica sacramentale, che resterà una delle costanti della spiritualità orientale.

    Negli ambienti monastici dei primi tempi, la dottrina della deificazione dell’uomo era pure presente, ma vi appariva sotto una luce un po’ diversa. Si metteva meno l’accento sulle basi cristologiche e sacramentali che sull’aspetto esperienziale. Il santo monaco, l’abba del deserto, era un uomo deificato, pneumatoforo, attraverso il quale la presenza dello Spirito nella creatura si manifestava visibilmente; nel segreto della preghiera, egli faceva l’esperienza di quella Presenza che trasfigurava il suo essere. Ma questa esperienza deificante richiedeva innanzitutto lunghi combattimenti di ascesi, la vigilanza del cuore, l’assiduità della preghiera. Era facile la tentazione di confondere la divinizzazione del cristiano mediante la grazia con l’esperienza mistica, cioè con le sue contraffazioni sottili o grossolane; misconoscere anche il valore insostituibile dei sacramenti, i cui effetti non sono immediatamente percepibili, e riconoscere efficacia solo allo sforzo ascetico, o tecniche di preghiera che favoriscono una esaltazione mistica di bassa lega. Il colmo fu superato nelle cerchie monastiche toccate dall’eresia messaliana, nella quale l’autentica esperienza della dolcezza di Dio sfiorava le aberrazioni più pericolose.

    Toccò al lavoro dei maestri spirituali del V secolo – precisamente un Marco l’Eremita e un Diadoco di Fotica – cernere il buon grano dalla zizzania e formulare una dottrina in cui l’ autentica esperienza mistica, distinta dalle sue immaginarie contraffazioni, veniva riconosciuta come l’effusione normale della grazia battesimale, ma dove la vita sacramentale e liturgica veniva collocata alla base di tutta l’opera della salvezza.

    Marco l’Eremita scrive: “Coloro che sono stati battezzati in Cristo hanno ricevuto misticamente la grazia, ma essa opera in loro nella misura in cui essi compiono i comandamenti… Chi è stato battezzato nella fede ortodossa ha ricevuto misticamente tutta la grazia. Ma ne ha la certezza soltanto dopo, praticando i comandamenti”.

    La “certezza” (pleroforia), l’ “opera” della grazia, indicano qui l’aspetto esperienziale della divinizzazione, il gusto di Dio e delle cose di Dio; la “pratica dei comandamenti” è secondo Evagrio il Pontico il termine tecnico per indicare l’insieme dello sforzo ascetico dell’uomo, la cooperazione della sua libertà all’opera della grazia. E Diadoco di Fotica, utilizzando la distinzione frequente nei Padri tra l’ “immagine” e la “rassomiglianza” di Dio nell’uomo, descrive così i due tempi della divinizzazione: “Col battesimo della rigenerazione, la santa grazia ci conferisce due beni, uno dei quali supera infinitamente l’altro. Essa ci elargisce il primo immediatamente; infatti ci rinnova nell’acqua stessa e fa brillare tutti i lineamenti dell’anima, cioè l’immagine di Dio, cancellando in noi ogni traccia del peccato. Quanto all’altro, per produrlo essa attende il nostro contributo, quella è la rassomiglianza. Quando dunque l’intelletto, in un sentimento profondo, avrà cominciato a gustare la bontà dello Spirito Santo, dobbiamo sapere che allora la grazia comincia a dipingere, per così dire, la somiglianza sopra l’immagine… così dunque, giorno dopo giorno, il nostro uomo interiore si rinnova nel gusto della carità, e trova nella perfezione di essa la sua pienezza”.

    Nel quadro di questa dottrina ha il suo posto la Preghiera di Gesù: il mezzo, privilegiato da tutta la tradizione esicasta, di prendere coscienza della presenza di Cristo che abita nei nostri cuori sin dal battesimo; per mezzo suo si compirà la “pratica dei comandamenti”.

    2. La sobrietà spirituale e l’invocazione del nome di Gesù

    Nei Padri del deserto, il metodo preconizzato per “procurare la propria salvezza”, cioè per raggiungere il pieno sviluppo della vita spirituale, comportava due elementi:

    1. da una parte, i “lavori corporali” – digiuni, veglie, austerità di ogni tipo, lavoro manuale –

    2. dall’altra la custodia del cuore, che implicava insieme una incessante lotta spirituale contro “i pensieri” – cioè le cattive suggestioni seminate nel cuore dai demoni – ed una instancabile assiduità nella preghiera.

    Consultato sull’importanza a riguardo di questi due elementi, l’Abate Agatone dichiarava: ”L’uomo è simile ad un albero: il lavoro corporale rappresenta le foglie, mentre la custodia dell’interiore è il frutto. Ebbene, la Scrittura dice: Ogni albero che non produce buoni frutti sarà tagliato e gettato sul fuoco. È chiaro dunque che ogni nostro sforzo deve riguardare il frutto, cioè la custodia dello Spirito; tuttavia abbiamo bisogno della coperta e del manto delle foglie: cioè il lavoro corporale”.

    Sarà quello l’insegnamento dei maestri dell’esicasmo: non cesseranno di raccomandare innanzitutto di stare attenti a se stessi, di entrare nel proprio cuore; o, secondo l’espressione di San Giovanni Climaco, di “circoscrivere l’incorporale (lo spirito) nel corpo”, anziché lasciarsi disperdere fuori.

    In effetti il cuore dell’uomo, nel senso biblico del termine, designa la fonte segreta da cui procede la vita spirituale più profonda, fatta di quelle inclinazioni spontanee e di quel senso intimo delle cose che coinvolgono tutto il suo essere. Nel battesimo, quel cuore è stato ricreato dallo Spirito, che ha inciso la sua legge e l’ha penetrato con la sua unzione; in altri termini, c’è iscritta un’attrazione per il bene capace di trionfare su tutte le sollecitazioni del male, e un senso di Dio e dei suoi misteri in virtù del quale il cristiano non dovrebbe più avere bisogno d’insegnamento esterno, poiché quella unzione lo istruisce pienamente (cfr. 1Gv 2, 27). Ma di fatto, queste energie divine sono in lui solo allo stato germinale e richiedono la cooperazione (sinergia) della grazia e della nostra libertà per espandersi in una direzione divenuta spontanea di tutti i movimenti del nostro psichismo verso Dio (apàtia) ed un’esperienza intuitiva e gustosa della Presenza divina (contemplazione, teoria).

    Inoltre, il battesimo lascia sussistere in noi altre seduzioni, vestigia del peccato, che la grazia ci dà il potere di combattere, che tuttavia restano temibili. Se l’uomo lascia fuggire il suo spirito (o “intelletto” nous) attraverso i sensi del corpo e portarsi senza controllo verso gli oggetti esterni, fornirà nutrimento a quelle tendenze centrifughe, le sveglierà, e si esporrà ad acconsentire ad esse. Per questo non è neppure necessaria la presenza degli oggetti esterni: basta che, con l’aiuto dei demoni, nasca nell’anima il ricordo di oggetti capaci di darci una soddisfazione egoista, e la volontà cederà alla passione suscitata in quella maniera. L’uomo vivrà allora in una sorta di sogno ad occhi aperti, in un mondo irreale dove il bene e il male, il vero e il falso, saranno apprezzati solo in funzione delle proprie tendenze affettive.

    A questa perniciosa ebbrezza spirituale, i Padri oppongono la “sobrietà” e la vigilanza già raccomandate da San Pietro in un testo ripreso spesso dai maestri dell’esicasmo: “siate sobri, vegliate. Il vostro avversario, il Diavolo, gira attorno, come leone ruggente, cercando la preda” (1 Pietro 5, 8).

    La sobrietà spirituale (nepsis), è pertanto l’attività dello spirito che veglia e lotta per restare padrone di sé durante l’assalto dei pensieri che si sforzano di fargli perdere la sua lucidità interiore. Essa implica innanzitutto un’attenzione senza falle e un discernimento degli spiriti al quale potrà supplire, nei principianti, solo l’aprirsi al Padre spirituale: “La sobrietà, è una sentinella immobile e perseverante dello spirito sulla porta del cuore, per distinguere sottilmente coloro che si presentano, ascoltare i loro propositi, spiare le manovre dei nemici mortali, riconoscere l’impronta demoniaca che, attraverso l’immaginazione, tenta di devastare il nostro spirito. Condotta validamente, questa operazione ci darà, se lo vogliamo, un’esperienza molto sentita della lotta interiore”.

    A questa vigilanza, già i Padri del deserto consigliavano di aggiungere la ripetizione di un’invocazione, composta di una sola breve formula (“preghiera monologica”). Con questa pratica si spezzeranno i pensieri contrari alla potenza vittoriosa di Cristo, presente appena invocato; allo stesso tempo, essa permetterà di opporre al “ricordo del male” il “ricordo di Dio”, che nei nostri autori la presa di coscienza di quei lineamenti divini e di quel senso intimo delle cose di Dio scritte nell’anima col battesimo. A questo metodo, Cassiano, benché non conoscesse l’invocazione del Nome di Gesù, dava già una formulazione quasi definitiva: “Ogni monaco volto al ricordo continuo di Dio deve abituarsi a mormorare interiormente e a ripassare incessantemente nel suo cuore la formula che vi darò, e cacciare con essa la moltitudine di altri pensieri, perché potrà resistere solo se si libera di tutte le preoccupazioni e sollecitazioni del corpo. A questa dottrina siamo stati iniziati dai rari Padri vissuti dopo i più antichi, e la diamo pure solo a rari privilegiati, che abbiano veramente sete di conoscerla. Per conservare continuamente il ricordo di Dio, dovete dunque tenere costantemente presente nel vostro spirito questa santa formula: Dio mio, vieni in mio aiuto; Signore, affrettati a soccorrermi (sal 69,2). Questo versetto non è stato scelto in tutta la Santa Scrittura senza un motivo. Esso esprime tutti i sentimenti che la natura umana può concepire, si addice perfettamente in tutti gli stati e in tutte le tentazioni. Vi si trova l’invocazione di Dio contro tutti i pericoli, l’umiltà di una umile e pietosa confessione, la vigilanza che procede da attenzione e paura continue, la considerazione della nostra fragilità, la fiducia di essere esauditi, la certezza di un soccorso sempre presente e pronto ad intervenire. Perché chi invoca costantemente il suo Protettore ha la certezza di averlo sempre presente”.

    In questo eccellente testo ci sono già – ante litteram – i due elementi fondamentali della Preghiera di Gesù: l’umile confessione della nostra miseria, che unicamente ci può aprire alla grazia, e nella quale per questo motivo i Padri del deserto vedevano l’unica via di salvezza e il legame stretto stabilito tra l’invocazione e la presenza intima del Signore.

    Introdurre però nella formula della preghiera monologica il nome stesso del Signore Gesù, costituirà un apprezzabile progresso. Diadoco di Fotica, dando al termine di “meditazione” il suo antico significato di rimuginare una parola o una formula, si presenta come uno dei primi testimoni di questa “invocazione del Signore Gesù”, che è anche una “meditazione del suo santo e glorioso Nome”: “Quando gli chiudiamo tutte le uscite col ricordo di Dio, l’intelletto esige assolutamente da noi un’opera che debba soddisfare il suo bisogno di attività. Gli si deve dunque dare come sola occupazione il “Signore Gesù” che risponde interamente al suo fine. Nessuno infatti – è scritto – dice ‘Gesù è Signore’ se non è nello Spirito Santo (1 Cor. 12, 3). Che per tutto il tempo, in maniera esclusiva, contempli quella parola nei propri tesori e non si distragga verso alcuna fantasticheria. Infatti, solo coloro che nella profondità del proprio cuore meditano costantemente quel santo e glorioso nome, possono vedere infine anche la luce del proprio intelletto. Perché, sostenuto dal pensiero con una forte attenzione, esso consuma, in un sentimento intenso, tutta la sozzura che ricopre la superficie dell’anima; e invero, il nostro Dio – è detto – è un fuoco che divora (Dt. 4, 24). A seguire, poi, il Signore sollecita l’anima verso un grande amore della sua gloria. Perché quando persiste, con la memoria intellettiva, nel fervore del cuore: quel Nome glorioso e così desiderabile impianta in noi l’abitudine di amarne la bontà senza che ormai nulla vi si opponga. Eccola dunque la perla preziosa che si può comprare vendendo tutti i propri beni, per godere, una volta scoperta, una gioia ineffabile“.

    Diadoco, qui, vuole dire che il Nome di Gesù – come i versetti della Scrittura che gli antichi monaci amavano rimuginare in una meditazione incessante – possiede un’efficacia eccezionale capace di svegliare nel cuore l’amore divino in esso nascosto, in virtù del battesimo, come una scintilla sotto la cenere. Con la forza d’urto dell’invocazione, il gusto di Dio e delle cose di Dio si fa sentire e trionfa sulle false dolcezze del peccato. Lo spirito potrà allora “vedere la sua propria luce”, espressione evagriana che indica la contemplazione e significa che lo spirito, prendendo coscienza esperienziale dell’inclinazione che lo spinge verso Dio, gusta qualcosa di Dio stesso, poiché questo fascino è la manifestazione della presenza divinizzante di Cristo e del suo Spirito nell’uomo.

    Più avanti, Diadoco mostra l’intima connessione che deve stabilirsi tra l’invocazione formulata dallo spirito dell’uomo e l’aspirazione dello Spirito Santo che si lascia poco a poco sentire in fondo al cuore: “Allora effettivamente, l’anima ha la grazia stessa che medita e che grida con essa il “Signore Gesù”, come una madre insegnerebbe al suo bambino la parola “papà” ripetendola con lui fino al punto che, al posto degli altri balbettii infantili, lo avrà condotto all’abitudine di chiamare distintamente il padre, anche durante il sonno. Per questo l’Apostolo dice: «Similmente così, lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; perché, quale sia il modo giusto di pregare noi non lo conosciamo, ma lo Spirito stesso intercede sovranamente per noi con gemiti ineffabili (Rm. 8, 23)»”.

    Questa abitudine della preghiera, che si protrae “anche nel sonno”, è cosa ben diversa di un semplice riflesso automatico creato dalla ripetizione dei gesti. È il frutto di una pienezza interiore, di una perfetta unione di tutte le energie dell’anima messe al servizio della carità e animate da essa. Il costante ricordo di Dio al quale l’esercizio dapprima laborioso della Preghiera di Gesù conduce, risulta meno da un susseguirsi di gesti quanto piuttosto da uno stato del cuore, da un orientamento, divenuto spontaneo e stabile, verso Dio. È, come dice il Patriarca Callisto in un breve trattato che si classifica tra i più eccellenti della Filocalia, “un’acqua viva e zampillante che sgorga dall’anima come da una sorgente perenne. Essa abitava l’anima di Ignazio il Teoforo e gli faceva dire: «Quello che ho dentro non è il fuoco avido della materia, è l’acqua che opera e parla»”.

    3. Tecnica corporale

    Elemento fondamentale del metodo esicasta è dunque la preghiera monologica: Signore, Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore!” Formula che indubbiamente, al tempo di Diadoco di Fotica, non era ancora costituita nella sua integralità e che del resto potrà essere abbreviata “secondo le forze e lo stato di colui che prega”; in alcuni, si ridurrà anche al solo Nome di Gesù.

    Ma alla pratica dell’invocazione bisogna aggiungere alcune condizioni più esterne.

    La prima – l’unica che la tradizione più antica cita esplicitamente – è il ritiro nella solitudine e nel silenzio, lontano da ogni agitazione mondana. Sicuramente, in epoca molto più tarda, alcuni spirituali si applicheranno a dimostrare che pure i laici possono ricavare grande profitto dalla Preghiera di Gesù. Le origini del metodo restano tuttavia monastiche e contemplative; esso è stato creato da uomini votati a testimoniare l’assoluto di Dio e che vedevano nella solitudine il migliore ausilio all’esichia interiore. Gregorio Palamas descrive così il clima originario della pratica della Preghiera: “Quando lo spirito si abbandona alla sua propria energia che consiste nel ritorno e nella vigilanza su se stesso, quando, con questa energia, trascende se stesso, potrà unirsi a Dio. Ecco perché chi vuole vivere passionalmente con Dio, fugge la vita soggetta a condanna. Sceglie la vita monacale, estranea al matrimonio, preferisce abitare senza agitazione e preoccupazione nel santuario dell’esichia, lontano da ogni rapporto esterno. Lì, nella misura del possibile, scioglie la sua anima da ogni legame materiale e lega il suo spirito alla preghiera ininterrotta a Dio. Con essa si concentra interamente su se stesso e trova un mezzo nuovo e misterioso per salire al cielo; cosa che si può chiamare l’inafferrabile tenebra del silenzio iniziatore”.

    Alla vita nel ritiro, la tradizione esicasta ha aggiunto in seguito la pratica di una postura del corpo determinata da un certo controllo del respiro. Le prime descrizioni scritte sistematiche pervenuteci datano del XIII secolo, ma diversi indizi permettono di pensare che quel metodo psicofisico esistesse, almeno in uno stato rudimentale, già in epoca più antica. L’assoluta necessità del controllo di un Padre spirituale esperto giustifica il carattere dapprima orale della tradizione su questo punto; le stesse descrizioni letterarie non pretendono del resto supplire all’iniziazione dal vivo, e restano incomplete. Gregorio Palamas, che dovette difendere il metodo contro le facili accuse degli avversari, commenta così: “Vedi, Fratello: Giovanni [Climaco] ha mostrato che basta esaminare il problema in modo umano, neppure spirituale, per vedere che è assolutamente necessario rimandare o mantenere lo spirito dentro il corpo quando si decide di appartenere veramente a se stessi e di diventare monaco meritando quel nome, secondo l’uomo interiore. D’altra parte, non è fuori luogo insegnare, soprattutto ai principianti, di osservare se stessi e rimandare il proprio spirito dentro se stessi per mezzo dell’inspirazione. … Un uomo sensato non vieterebbe, infatti, a nessuno di ricondurre dentro sé, mediante certi procedimenti, il proprio spirito che ancora non si contempla in sé. Coloro che hanno iniziato da poco questa lotta vedono continuamente il loro spirito fuggire: riunito a fatica; è necessario per loro dunque ricondurlo a sé anche continuamente; nella loro inesperienza, non si rendono conto che nulla al mondo è più difficile da contemplare e più mobile dello spirito. Per questo certuni raccomandano ad essi di controllare l’andirivieni del respiro e di trattenerlo un poco, al fine di trattenere così lo spirito vigilando sul respiro, finché con l’aiuto di Dio abbiano fatto dei progressi fino a quando abbiano interdetto il loro spirito a tutto ciò che lo circonda e lo abbiano purificato, e che essi possano ricondurlo veramente ad un raccoglimento unificato. Si potrà constatare che questo è un effetto spontaneo dell’attenzione dello spirito, perché l’andirivieni del respiro diventa tranquillo al momento di ogni riflessione intensa, soprattutto in coloro che, in corpo e spirito, si trovano in stato di riposo … Colui che cerca di fare rientrare il proprio spirito in sé per spingerlo non al movimento in linea dritta [verso l’esterno], ma al movimento circolare e infallibile [del ritorno in se stesso], anziché girare gli occhi di qua e di là, non avrebbe maggior profitto a fissarli sul petto o sul proprio ombelico come punto di appoggio? Perché non solo si raccoglierà così esteriormente su se stesso, finché gli sarà possibile, conformemente al movimento interiore che egli cerca per il suo spirito, ma ancora, dando una tale postura al proprio corpo, manderà verso l’interno del cuore la potenza dello spirito che scende attraverso la vista verso l’esterno”.

    Questa disciplina corporale si fonda in definitiva sulla concezione biblica della composizione umana. Tutto l’essere deve partecipare alla vita spirituale, poiché è tutto l’essere, corpo e anima che deve ricevere la salvezza. La mentalità biblica, unita all’esperienza tradizionale, aveva reso i maestri spirituali dell’Oriente cristiano attenti a non separare lo spirito dal corpo e a simbolizzare gli atteggiamenti dell’anima con gesti corporali, per permettere “l’integrazione armonica di tutto il nostro essere nella sua ascesi verso Dio”. E checché se ne dica delle esagerazioni e delle semplificazioni pericolose a cui il metodo esicasta ha dato talora adito, essi almeno sapevano che il loro metodo non poteva avere un ruolo puramente regolamentativo di fronte ad una esperienza che rimane essenzialmente un dono della grazia:

    “È la grazia divina che corona l’invocazione monologica rivolta a Gesù Cristo con fede viva, in tutta purezza, senza distrazione, col cuore. Non è l’effetto puro e semplice del metodo naturale della respirazione praticata in un luogo tranquillo e buio. Certo che no! I santi Padri, inventando quel metodo, non vi hanno visto che un ausilio, se così si può dire, per raccogliere lo spirito, per ricondurlo a sé dalla sua abituale distrazione e procurare l’attenzione. Grazie a queste disposizioni nasce nello spirito la preghiera costante, pura e senza distrazione… Per te, figlio mio, se desideri trascorrere giorni felici e «vivere in modo incorporale nel tuo corpo» vivi seguendo la regola che ti ho illustrata”.

    4. Conclusione

    La nostra conoscenza sulle origini del metodo esicasta ha troppe lacune per potere determinare se esistono rapporti di influenza tra esso e le spiritualità musulmane, indù o buddiste che predicano pure l’invocazione del Nome divino unita ad una tecnica respiratoria. Una simile influenza non avrebbe nulla in sé che debba sminuire il metodo: le leggi dello psichismo umano sono universali, e la grazia, lungi dal distruggere la natura, ne assume il dinamismo trasfigurandolo. E soprattutto, la tecnica è qui sostenuta da una dottrina che ci sembra, nei migliori rappresentanti, autenticamente biblica e cristiana. Senza la fede nei dogmi della creazione dell’universo spirituale e materiale, della salvezza attraverso la grazia in Cristo, della resurrezione del corpo, della deificazione mediante i sacramenti, l’insegnamento che i “santi Padri neptici” ci hanno trasmesso sulla preghiera del cuore sarebbe incomprensibile.

    Ultimo fondamento del metodo resta la testimonianza del corifeo degli Apostoli davanti al Sinedrio: “Perché non c’è sotto il cielo altro Nome dato agli uomini per il quale dobbiamo essere salvati” (Ac. 4, 12).

    In un’epoca in cui molti cristiani sono alla ricerca di “una disciplina totale di vita, compresa la corporale, che giovi al loro equilibrio e alla loro fioritura spirituale, non è poco interessante per noi ascoltare i vecchi monaci che hanno saputo mettere al servizio dello sboccio della grazia di Cristo nell’uomo una saggezza umana di cui il nostro Occidente ha perduto il segreto.