• 24 Set

    La nostra è la cena del Signore?

    Lectio di 1 Cor 11,17-34


    Il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 1396 recita: “Coloro che ricevono l’eucaristia sono uniti più strettamente a Cristo. Per ciò stesso, Cristo li unisce a tutti i fedeli in un solo corpo: la Chiesa”.

    Quindi l’Eucarestia come frutto produce non solo una comunione intima con il Signore ma suppone e fortifica la comunione on i fratelli. Disgiungere i due elementi significa stravolgere il significato dell’Eucarestia.  Eppure, dobbiamo riconoscerlo, torna troppe volte comodo ridurre l’eucarestia a rito sganciato dall’impegno che viene a determinare nei confronti della comunità. Il nostro “esaminare noi stessi” se siamo nella condizione per prendere parte al banchetto eucaristico si riduce ad un esame superficiale che trascura la condizione che deve stare al fondo: come vivo il rapporto con i fratelli e sorelle di fede? In quale misura mi sono impegnato nell’accoglienza, nel perdono, nello stendere concretamente la mano a chi è nel bisogno?

    Ascoltiamo la Parola che ci richiamerà a ciò che è fondamentale perché una celebrazione non si traduca in un rito staccato dalla vita, e ad un gesto sacrilego che ritorna a condanna per chi lo compie.

    “Fa’ o Gesù, che ti riconosciamo sempre nell’Eucaristia, che ti riconosciamo diventando noi stessi pane spezzato, pane acceso nella notte di questo mondo.Donaci quel fuoco, quella passioni d’amore per il Padre che ti ha portato a consegnare la vita, a spogliarti di te stesso per la salvezza di tutta l’umanità” (Card. Carlo M. Martini).

    Lectio

    Se nei primi capitoli Paolo loda la comunità di Corinto per la fedeltà ai suoi insegnamenti e per la vivacità di questa nuova comunità, ciò non toglie che in essa purtroppo si verifichino situazioni che la pongono in contraddizione con la fede professata.

    I cristiani di Corinto, sulla linea delle comunità palestinesi, celebravano l’Eucaristia nelle loro case nel contesto di un pasto fraterno che Paolo chiama “Cena del Signore”: l’ “agape”. L’intenzione era ottima: l’uso del banchetto fraterno che precedeva la celebrazione aveva lo scopo di ricordare il contesto in cui Gesù istituì l’Eucaristia, inoltre esso aveva come scopo l’andare incontro alle necessità dei poveri della comunità con i quali si condividevano i propri averi (cfr At 6,1).

    Ma cosa capita a Corinto? Il problema è riferito dalla “gente di Cloe” (cfr 1,11) che si è recata da Paolo a Efeso per informarlo sull’andamento della comunità e dei suoi problemi. Le riunioni si “svolgono al peggio” (v 18). È un giudizio pesante dettato dal fatto che le celebrazioni eucaristiche sacramento di comunione con Cristo e i fratelli sono vissute tra eclatanti divisioni: “sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni (skismata) tra voi” (v.18). Una eucaristia vissuta nella divisione è una eclatante contraddizione per cui non può essere definita vera eucaristia:“il vostro non è più un mangiare la cena del Signore” (v. 20).

    Ma cosa avveniva concretamente? Sappiamo che uno dei punti deboli della comunità di Corinto era la presenza di alcune fazioni al suo interno: “Io sono di Paolo… io di Apollo… io di Cefa…” (cfr 1,12ss). Questi gruppuscoli si ripresentavano anche nelle sinassi cosicché nello stesso locale i ricchi facenti parte probabilmente del partito di Apollo facevano crocchio a se stante, e così anche gli altri. Tutti portavano da mangiare e bere ma si rifiutavano di condividere il pasto. Alla fine ci si ritrovava con chi era ubriaco con chi, povero, non aveva mangiato e bevuto pressoché nulla: “uno ha fame, l’altro è ubriaco” (v. 21). L’agape si trasforma in baccanale per gli abbienti e a un umiliante digiuno per i poveri.

    Paolo di fronte a questo scandalo denuncia che questa “cena” non è la “cena (deipnon) del Signore” ma un “proprio pasto (deiponon)” che non ha nulla a che fare col primo. La loro celebrazione si trasforma in una vera e propria profanazione. Come è possibile con questo atteggiamento condividere lo stesso pane eucaristico?

    A questo punto è meglio che ciascuno mangi a casa sua per non offendere i fratelli: “Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla chiesa di Dio e far vergognare chi non ha niente? Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo!” (v. 22).

    Si tratta di una grave contraddizione che getta il “disprezzo” sulla Chiesa, e che dovrebbe “far vergognare” chi la compie. L’Eucaristia è vera “Cena del Signore” (v. 20) realtà troppo sacra e centrale per la vita della comunità perché possa essere esposta al rischio della profanazione come avviene con l’agape di Corinto.

    Per richiamare su questo importante punto la comunità a Paolo non resta che riannunciarne il mistero. Nei vv. 23-26 egli riporta il racconto dell’istituzione eucaristica da parte di Gesù alla vigilia della sua passione. Si tratta di un testo di fondamentale importanza in quanto è la più antica testimonianza del gesto compiuto da Cristo. Paolo fa risalire quanto annuncia al Signore stesso, ovvero risale direttamente a lui tramite la “traditio apostolica”: “ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso”. Parafrasando: “Ho ricevuto da una tradizione che risale al Signore ciò che vi ho trasmesso nei termini in cui l’ho ricevuto io stesso”. Si tratta di un annuncio fatto con una straordinaria autorevolezza! Nel testo viene sottolineata soprattutto la dimensione sacrificale dell’eucaristia attraverso le parole pronunciate sul pane “che è per voi” e sul “calice della nuova alleanza”. Il “fate questo in memoria di me” deve significare nuovamente per i cristiani di Corinto accogliere l’Eucaristia come sacramento del dono totale della vita di Cristo a noi e di noi ai fratelli. Il che ovviamente deve portare al superamento di ogni divisione e rifiuto. Non “riconosce” (v. 29) il Corpo del Signore colui che non ne riconosce lo spessore di dono da comunicare anche agli altri.

    È  un incontro comunitario e personale con il Signore nel segno del comunicare insieme all’unico corpo e all’unico calice cosa che esige per tutti un giusto discernimento, il soppesare seriamente le sussistono le condizioni perché si possa partecipare in verità alla comunione col Signore. Se questo non fosse allora “chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore” (v 27). A questo punto l’apostolo fornisce una prima formulazione normativa circa i requisiti necessari per ricevere degnamente e con frutto il “corpo del Signore”: “Ciascuno, dunque, esamini se stesso e poi mangi del pane e beva dal calice” (v. 28). Qui l’esaminare se stessi equivale a saper giudicare la propria vita alla luce del comandamento del Signore circa l’amore gli uni per gli altri (cfr Gv 13,34).

    Il ricevere indegnamente il Corpo di Cristo fa sì che si vada incontro a “malattie” e “morti” (v. 30). Questi castighi sono lezioni pedagogiche che il Signore infligge perché la comunità non venga poi “condannata” definitivamente insieme col “mondo” per non aver “riconosciuto il Cristo”.

    Paolo conclude questa ammonizione con una norma disciplinare che consiste prima di celebrare l’agape nell’“aspettarsi gli uni gli altri” (v. 33) probabilmente lo scopo è quello di evitare che previamente si formino gruppuscoli a se stanti. Il fatto che l’apostolo richiami alla convenienza di mangiare prima a casa propria non si comprende bene se è abolizione definitiva del banchetto conviviale o una semplice condanna del suo abuso. In ogni caso già all’inizio del terzo secolo (Didaché, Giustino…) non troviamo più traccia del banchetto conviviale il che significa che la Chiesa prudentemente optò per la netta separazione tra la celebrazione eucaristico e l’agape fraterna al fine di salvaguardare la sacralità del rito perdendo però forse di vista la dimensione della condivisione fraterna.

    Paolo aveva preso nota che dentro la triste condizione della chiesa di Corinto vi è tuttavia una nota consolante: in mezzo a queste contraddizioni si evidenziano coloro che si sforzano di vivere autenticamente la loro fede: “È necessario infatti che avvengano divisioni tra voi, perché si manifestino quelli che sono i veri credenti in mezzo a voi” (v. 19)

    Collatio

    Paolo non riporta nella sua lettera ai corinti il racconto dell’istituzione per descrivere semplicemente un rito o darne più precise istruzioni rubricali, lo fa per un motivo ben più grave: la comunità sta rischiando di stravolgere il significato autentico dell’eucaristia.

    Questa profanazione eucaristica è l’unica che esplicitamente viene condannata dalla sacra Scrittura e non consiste nell’aver rotto il digiuno o nell’aver divagato in “pensieri cattivi” non stando attenti al rito. Si tratta invece di un sacrilegio provocato da una celebrazione fatta in un contesto di divisioni e ingiustizie.

    Gli Atti degli Apostoli nei loro “sommari” ci presentano una comunità fervente che celebra l’eucaristia in una grande unità e concordia. Non ci sono solo pii sentimenti e propositi ma lì si tocca con mano una concreta condivisione che fa sì che l’eucaristia non sia una celebrazione di facciata: “Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere…Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno” (At 2,42-45; 4,32). In questa comunità l’eucaristia non si riduce ad un rito, ad una bella cerimonia staccata però dalla vita. Radunata  attorno alla mensa celebra nell’eucaristia una comunione che nata dall’ascolto della Parola si traduce in scelte concrete di vita. Infatti la “frazione del pane” (una dei nomi dati alla messa) che è il corpo di Cristo deve celebrare per essere autentico “rendimento di grazie a Dio” la disponibilità a spezzare a nostra volta insieme ai fratelli ciò che siamo e ciò che abbiamo.

    Il rischio che correva la comunità di Corinto può essere benissimo anche il nostro nell’anno di grazia 2010. Il pericolo loro e nostro è che l’eucaristia si risolva in rito sacro fine a se stesso, nel quale mettiamo a posto la coscienza perché si è “andati a messa”, mentre ci dimentichiamo (comodamente e forse non del tutto inconsciamente!) delle esigenze di comunione, di reciproca accoglienza e perdono che esso richiede perché non sia profanato alla radice.

    Già nella tradizione profetica troviamo invettive contro una falsa religiosità solo esteriore ma che trova risvolti di conversione nella vita: “Ecco, voi digiunate fra litigi e alterchi e colpendo con pugni iniqui. Non digiunate più come fate oggi, così da fare udire in alto il vostro chiasso” (Is 58,4). E anche Gesù ribadirà fortemente le esigenze di una verità del culto che tenga presente il diritto di Dio ma nello stesso tempo quello del fratello che mi sta accanto: “Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5,23-24) .

    Nella notte del suo tradimento Gesù consegna nel pane spezzato e nel calice versato tutto se stesso, in un atto di amore “fino alla fine” (cfr Gv 13,1). Entrare nel mistero eucaristico, fare comunione con Cristo, significa far nostro il suo dono affinché sia lui a renderci capaci, a nostra volta, di spezzare noi stessi per i fratelli perché tutti diveniamo in Cristo un solo corpo: “A noi, che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito” (Pregh Euc. III).

    I corinti tutto questo lo sapevano? Certamente sì! Eppure trovavano difficile attuare concretamente le esigenze che l’eucaristia comporta. Difficile per loro, difficile per noi, che ci illudiamo di vivere l’eucaristia solo perché avvolti in sentimentali atmosfere di incensi, luci e canti ed esatte rubriche senza però “esaminare noi stessi” al fine di eliminare le contraddizioni che partendo da una vita lontana dal vangelo profanano il rito. Quante eucaristia celebriamo in modo disinvolto tra divisioni e contrasti? Paolo esplode con violenza al fine di evidenziare la verità del mistero: celebrare l’eucaristia tra le divisioni e le ingiustizie non si può chiamare eucaristia! Diviene motivo di condanna! Poca attenzione poniamo al fatto che il nostro essere tenacemente attaccati a rancori, al rifiuto della condivisione, all’esclusione di uno o l’altro dei fratelli comporta immediatamente una nostra “scomunica” ovvero al nostro essere fuori dalla comunione con Cristo che deve impedirci di accostarci all’eucaristia se non vogliamo incorrere nella condanna. Non assistiamo forse ancora a divisioni quando il tal movimento, la tal associazione o gruppo rivendicano la “loro messa” apportando “giuste” motivazioni ma che alla luce del vangelo non reggono? Si pensa di poter far comunione con Cristo lasciando fuori dalla porta il fratello che non è dei “nostri”. Ricordiamo le parole forti con cui il vescovo Giovanni Crisostomo condannava a sua volta un’Eucaristia staccata dalla carità: “Tu hai bevuto il Sangue del Signore e non riconosci il tuo fratello. Tu disonori questa stessa mensa, non giudicando degno di condividere il tuo cibo colui che è stato ritenuto degno di partecipare a questa mensa. Dio ti ha liberato da tutti i tuoi peccati e ti ha invitato a questo banchetto. E tu, nemmeno per questo, se divenuto più misericordioso” (Omelia sulla Prima Lettera ai Corinti, 27,4)

    Si pretende un Cristo “tutto per noi e da celebrare tra noi”: questo è impossibile: non è questo un mangiare “la cena del Signore” ma solo la “nostra cena”. Non si può mangiare lo stesso corpo di Cristo senza desiderare ardentemente di divenire tutti “un solo corpo”. Sogno troppo augurandomi che in ogni comunità parrocchiale ci sia una sola eucaristia nella quale convergano tutti i movimenti, associazioni, gruppi e tutti gli altri cristiani in una testimonianza grande di unità e di fede nell’unico Signore e di accoglienza e riconoscimento gli uni degli altri? “Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane “ (1Cor 10,16-17).  Sant’Agostino in una sua omelia ammonirà i suoi cristiani dicendo: “Vi si dice: “Il Corpo di Cristo”. E voi rispondete: “Amen”. Ricevete il vostro stesso sacramento. Siate dunque membra del Corpo di Cristo, perché sia vero il vostro “Amen” (sant’Agostino, Sermoni CCLXXII)

    San Giovanni nel suo vangelo non riporta il racconto dell’istituzione eucaristica. Apparentemente la trascura per narrare l’enigmatico episodio della lavanda dei piedi. Il gesto di Gesù è follia che profetizza il dono totale di sé sulla croce: il supplizio del servo. In realtà Giovanni descrivendo Gesù in ginocchio mentre compie col grembiule ai fianchi e l’asciugamano il gesto dell’ultimo servo annuncia alla sua comunità il cuore che deve animare ogni eucaristia.. Gesù ci invita a fare come lui: “Voi mi chiamate maestro e signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (Gv 13,16). Celebrare l’eucaristia è unirci a Cristo per fare della nostra vita un sevizio di noi stessi non solo a Dio ma anche ai fratelli soprattutto più piccoli. Questo è lasciar vivere in noi il Cristo eucaristico “corpo donato e sangue versato” e non era forse questa la valenza originaria del momento offertoriale che noi abbiamo ridotto ad una raccolta di un po’ di spiccioli per il riscaldamento della chiesa ola costruzione dell’oratorio?

    Gesù ha dato alla comunità dei discepoli il compito di testimoniare la fede non anzitutto attraverso dei bei riti trasmessi in mondovisione, ma molto più terra terra attraverso una vita intessuta di amore: “Da questo conosceranno se siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri”. Il primo paramento prezioso e l’abito bello che tutti sono mettiamo per la messa deve essere anzitutto il grembiule e l’asciugamano. Non dobbiamo preoccuparci di offrire nessun altro segno al mondo perché se questo non accade, anche se produciamo bellissime cerimonie, non facciamo altro che  gettare solo disprezzo sulla Chiesa Santa di Dio.

    Solo l’impegno della carità che scaturisce dalla fonte dell’eucarestia ci deve preoccupare. Potremo cantare con verità le antiche e stupende parole che la liturgia pone sulle labbra della chiesa il Giovedì Santo: « Ubi caritas et amor, Deus ibi est. Simul ergo cum in unum congregamur: Ne nos mente dividamur, caveamus. Cessent iurgia maligna, cessent lites. Et in medio nostri sit Christus Deus”.

    Oratio

    Rit. Dov’è carità e amore, lì c’è Dio.

    Ci ha riuniti tutti insieme, Cristo amore:
    godiamo esultanti nel Signore!
    Temiamo e amiamo il Dio vivente,
    e amiamoci tra noi con cuore sincero. (Rit)

    Noi formiamo, qui riuniti, un solo corpo:
    evitiamo di dividerci tra noi:
    via le lotte maligne, via le liti,
    e regni in mezzo a noi Cristo, Dio. (Rit)

    Chi non ama resta sempre nella notte
    e dall’ombra della morte non risorge;
    ma se noi camminiamo nell’amore,
    noi saremo veri figli della luce. (Rit)

    Nell’amore di colui che ci ha salvati,
    rinnovati dallo Spirito del Padre,
    tutti uniti sentiamoci fratelli,
    e la gioia diffondiamo sulla terra. (Rit.)

  • 24 Set

    “Tutti là sono nati”

    Lectio del Salmo 86

    di padre Attilio Franco Fabris

    Si calcola che il fenomeno dell’immigrazione abbia coinvolto in tutto il mondo in questi ultimi anni circa cento milioni di persone. E’ una cifra impressionante che dice un cambiamento epocale e inarrestabile non solo del volto del nostro “bel paese” ma di ogni nazione industrializzata. È un mondo che sta cambiando volto a ritmi vertiginosi portando con sé certamente tante problematiche di inserimento e dialogo tra culture diverse, cosa certo di non di facile soluzione, ma nello stesso tempo nuovi orizzonti certo ancora sconosciuti ma colmi di speranza. Non si può perciò negare all’immigrazione così massiccia la connotazione di uno dei “segni dei tempi” che il Concilio Vaticano II invita a imparare a leggere con occhi di fede scorgendovi un disegno divino.

    Giovanni Paolo II, alla vigilia dell’anno giubilare del duemila nel suo “Messaggio per la Giornata dell’Immigrazione scriveva”: “l’umanità è contrassegnata da fenomeni di intensa mobilità, mentre negli animi si va sempre più affermando la consapevolezza di appartenere ad una sola famiglia. Le migrazioni, volontarie o forzate, moltiplicano le occasioni di scambio tra persone di culture, di religioni, di razze e di popoli diversi. I moderni mezzi di trasporto collegano sempre più rapidamente il pianeta da un punto all’altro e ogni giorno le frontiere vengono oltrepassate da migliaia di migranti, di rifugiati, di nomadi, di turisti”.

    Tutta la tradizione biblica e cristiana riconosce nello straniero, ovvero nell’immigrato da qualsiasi parte provenga, una connotazione sacra. Non è forse dinanzi ai tre sconosciuti viandanti che Abramo si prostra implorando che si fermino presso di lui? “Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: «Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo” (Gn 18,1-2). La Lettera agli Ebrei, ricordando questo episodio, ammonirà le comunità cristiane: “Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo” (Ebr 13,2) e questo anche alla luce anche delle parole  stesse di Cristo che dice di riconoscersi nel forestiero: “io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato” (Mt 25,35).

    Chiediamo allo Spirito di liberarci dalle nostre grettezze e paure, egli ci insegni a spalancare le porte, ad allargare le braccia come Cristo sulla croce, pronti ad accogliere il pellegrino che bussa alla porta per essere riconosciuto prima ancora che come straniero, come uomo con la dignità di figlio di Dio: “Signore insegnaci a non amare soltanto noi stessi, a non amare soltanto i nostri cari, a non amare soltanto quelli che ci amano. Insegnaci a pensare agli altri, ad amare anzitutto quelli che nessuno ama. Concedici la grazia di capire che ad ogni istante, mentre noi viviamo una vita troppo felice, protetta da te, ci sono milioni di esseri umani, che sono pure tuoi figli e nostri fratelli, che muoiono di fame senza aver meritato di morire di fame, che muoiono di freddo senza aver meritato di morire di freddo. Signore abbi pietà di tutti i poveri del mondo. E non permettere più, o Signore, che noi viviamo felici da soli. Facci sentire l’angoscia della miseria universale, e liberaci dal nostro egoismo. (Raoul Follerau).

    Lectio

    Il testo originale del salmo 86 ci è pervenuto alquanto compromesso e quindi in parte incerto. Alcuni passaggi si presentano molto problematici nella loro ricostruzione e interpretazione. Lo stesso contesto dell’utilizzo del salmo non è sicuro, forse veniva cantato in occasione di solenni processioni verso il tempio. Come se ciò non bastasse anche l’interpretazione di fondo di tutto il salmo si presenta problematica: si tratta della proclamazione della regalità di JHWH sopra tutte le nazioni? È una proclamazione di Gerusalemme madre di tutti gli israeliti giudei e proseliti sparsi nella diaspora? Oppure è da leggere come visione profetica di una Gerusalemme città comune che diverrà, alla fine dei tempi punto di convergenza e di unità di tutti i popoli attorno all’unico Dio? Probabilmente è da preferirsi quest’ultima interpretazione in quanto il salmo 86 si colloca all’interno nella tradizione dei profeti del post esilio, in modo particolare con riferimento al secondo Isaia (cfr es 2.2ss).

    Ma cerchiamo ora di entrare nel nostro testo.

    Anzitutto il nostro salmo appartiene alla serie dei salmi che hanno per tema la lode per la città di Sion, la sposa di JHWH, posta sul “santo monte” e “scelta” da Dio “come sua dimora” (cfr Sal 46,48, 76,84).

    Sion possiede una grande solidità, è “città salda” (Sal 121,3) perché “le sue fondamenta sono sui monti santi” (1b). Affermare la santità del monte-roccia sul quale è edificata equivale ad affermare che Sion è fondata su Dio stesso. Anche nel salmo 45 viene espressa la medesima certezza: “Dio sta in essa: non potrà vacillare” (v.5;). Fondamenta incrollabili perché fondate da Dio stesso: “Il Signore ha fondato Sion” (Is 14,32; Sal 77,69). Anche Cristo quando vorrà ribadire la solidità della Chiesa fondata sulla fede userà la stessa immagine (cfr Mt 16,18; Mt 7,24).

    Il Signore “ama le porte di Sion più di tutte le dimore di Giacobbe” (v. 2): la scelta di Sion come dimora è data unicamente dalla gratuità dell’amore di elezione che induce JHWH a scegliere fra tutte le varie possibilità proprio la tribù di Giuda (“Ripudiò le tende di Giuseppe, non scelse la tribù di Efraim;  ma elesse la tribù di Giuda, il monte Sion che egli ama” Sal 77,67-68). Probabilmente risuona qui originariamente l’eco del campanilismo tra le tribù del nord e del sud.

    La scelta di Sion come dimora di JHWH non è fine a se stessa, ogni elezione è in vista di una missione. Sion la scoprirà cammin facendo di certo al v. 3 viene proferita nei suoi confronti una promessa che verrà successivamente definita: “di te si dicono cose stupende, città di Dio”. Quali le cose stupende che Dio opererà? Esse sono descritte nel corpo centrale del salmo.

    Ricorderò Raab e Babilonia fra quelli che mi conoscono; ecco, Palestina, Tiro ed Etiopia: tutti là sono nati” (v. 4). Il tempo è al futuro. È il tempo della promessa; Dio “ricorderà” (lett = “si inscriverà”). Cosa ricordare? Dio riconoscerà l’Egitto (qui eufemisticamente definito con l’appellativo di Raab, il nome di un mostro marino – cfr Sal 89,11- che passò a designare l’Egitto con la sua brama di distruggere Israele) e Babilonia (Babel che viene a rappresentare non solo l’impero babilonese ma tutti i regni dell’oriente mesopotamico) fra i popoli che lo “conosceranno”. Ora “conoscere Dio” è espressione di per sé riferita solo agli israeliti fedeli e perciò oggetto del suo amore in contrapposizione a tutti gli altri popoli che “non conoscono Dio”. A Raab e Babel vengono aggiunte altre nazioni: la Filistea (Palestina) e la città di Tiro che rappresentano i popoli pagani vicini ad Israele sul litorale, ed infine Etiopia (lett. Cus) il paese che nell’immaginario geografico del tempo rappresenta l’estremo sud.

    Tutte queste popolazioni sono sempre state viste, dal piccolo e insignificante regno di Giuda, come potenziali nemici  e in quanto nazioni pagane estromesse dall’elezione divina e perciò dal suo amore.

    Ma qui – scandalosamente – di tutte queste nazioni la profezia afferma che un giorno potranno affermare di avere tutti sorprendentemente, come Israele, la stessa madre, ovvero la stessa città di Sion in cui tutti potranno dire di essere nati:“tutti là sono nati”. Il che equivale che tutti potranno affermare di essere appartenenti al popolo di Dio.

    Si tratta di un assunto teologico ben presente nel messaggio profetico post-esilico, soprattutto nel deuteroisaia: “Esulta, o sterile che non hai partorito, prorompi in grida di giubilo e di gioia, tu che non hai provato i dolori, perché più numerosi sono i figli dell’abbandonata che i figli della maritata, dice il Signore. Allarga lo spazio della tua tenda, stendi i teli della tua dimora senza risparmio, allunga le cordicelle, rinforza i tuoi paletti, poiché ti  allargherai a destra e a sinistra e la tua discendenza entrerà in possesso delle nazioni, popolerà le città un tempo deserte. (54,1-3; cfr 2,2ss; 49,19.22; 66,7-11). Si tratta del compimento della promessa fatta ad Abramo: il popolo che da lui nascerà è destinato a divenire sorgente di “benedizione” ovvero di riunificazione per tutta l’umanità divisa: “Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gn 12,3).

    Sarà una famiglia allargata che troverà la sua stabilità nel fatto che il suo punto di coesione non sono progetti o ideali umani bensì la presenza fondante di Dio: “l’Altissimo che la tiene salda” (v.5).

    Questa comune appartenenza ad una stessa “madre” è sottoscritta da Dio stesso nel “Libro dei Popoli” (v. 6).  Ora la registrazione ufficiale dei veri israeliti fu una delle grandi preoccupazioni dell’epoca del postesilio (cfr “cercarono il loro registro genealogico, ma non lo trovarono; allora furono esclusi dal sacerdozio” Esdr 2,62; cfr Ez 13,9) al fine di recuperare una loro precisa identità e storia. Ora tale preoccupazione sul piano spirituale inaspettatamente si evolve: in questo libro non saranno inscritti solo i pii israeliti bensì tutti i popoli che aprendosi alla fede hanno ricevuto da JHWH una comune filiazione, un’ “adozione a figli” da parte della stessa madre Sion e per suo tramite dello stesso Dio. In questo libro si affermerà di ogni popolo: “Là costui è nato” (V. 6b): è l’atto di registrazione con cui un individuo o un popolo viene riconosciuto formalmente come nativo della località in questione.

    Sono queste le “cose stupende” promesse a Sion e a cui accennava il salmista all’inizio del salmo. “Cose stupende” che non possono non far sussultare di gioia di cui la danza è espressione peculiare. Al riconoscimento di questa comune affiliazione si farà festa (cfr Sal 30,12;149,3); si intavolerà una danza gioiosa che vedrà coinvolti tutti, nessuno escluso. La promessa di Dio ricostruirà l’unità della famiglia umana disgregata dal peccato facendo sì che tutti si riconoscano figli di uno stesso Padre e generati da una stessa madre. Danza accompagnata dal ritornello di un canto: “Sono in te tutte le mie sorgenti” (v.7) ovvero; “Sion è la mia origine, la mia patria”. E’ il canto che risuonerà alla fine della storia quando la profezia del salmo finalmente si sarà adempiuta: “Cantavano un canto nuovo: Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazioni e li hai costituiti per il nostro Dio un regno di sacerdoti e regneranno sopra la terra». (Ap 5,9s; cfr 7,9; 21,3)

    Meditatio

    Utopia l’unità fra tutti i popoli in un’unica famiglia, in cui tutti si riconoscono fratelli con pari dignità e diritti, profetizzata dal salmo 86? Nelle pagine di cronaca di tutti i giorni troviamo tutte le fatiche e le contraddizioni in cui le nostre società “progredite” stanno andando incontro nella relazione con gli “extra-comunitari” (già la definizione dice molto!). Tensioni che giungono a sfociare in violenze, in vere e proprie “caccia allo straniero”. Non raramente degenera in vera e propria xenofobia!I  problemi di convivenza, problemi nel mondo del lavoro e nell’ambito delle scuole sembrano non trovare sbocco al punto che le due parti spesso si irretiscono nelle loro posizioni. Sono problemi non certo di facile soluzione che covano sotto la cenere e rischiano sempre di esplodere e che la società e la sua legislazione devono ovviamente affrontare e non continuamente rimandare. Il problema è: con quali criteri?

    Eppure, su un punto  dovremmo trovare un accordo e sul quale tuttavia molti ancora non si “rassegnano”: sappiamo che l’integrazione è ormai l’unica vera strada percorribile, non si può tornare indietro, la storia va avanti comunque. Il cristiano, e ancor più la comunità religiosa, si deve allora realisticamente interrogare, alla luce della Parola di Dio, su come porsi dinanzi a questo problema, che vorrei definire nello stesso tempo come “opportunità”.

    La Parola di Dio ci indica da sempre la direzione del progetto di Dio: fare di tutti i popoli un’unica famiglia, la famiglia di Dio che dal momento di Caino e di Babele è andata disgregandosi. Questa “grande famiglia” finale è già profetizzata, nonostante tutti i suoi limiti e fatiche, dalla grande madre Chiesa, la nuova città di Sion fondata sulla roccia che è Cristo, nella quale tutti indistintamente ricevono il dono di sentirsi figli di uno stesso Padre: “Tutti là sono nati”. Come non ricordare a questo proposito la splendida affermazione della Lumen Gentium? “Il popolo messianico(la Chiesa) pur non comprendendo in atto tutti gli uomini e apparendo talora come un piccolo gregge, costituisce per tutta l’umanità un germe validissimo di unità, di speranza e di salvezza” (LG 9). La Chiesa madre nasce il giorno di Pentecoste proprio sul monte Sion ed è subito spinta dallo Spirito ad annunciare le “cose stupende” operate da Dio in lei per “ogni nazione che è sotto il cielo” (At 2,5). “La Buona Notizia è annuncio dell’Amore infinito del Padre manifestatosi in Gesù Cristo che è venuto nel mondo “per riunire insieme i figli di Dio dispersi” (Gv 11,52) e radunarli nell’unica famiglia, nella quale Dio ha posto la sua dimora fra gli uomini (Ap 21,3)” (Giovanni Paolo II, Mess. Giorn. Immigr. 1999).

    Questa la destinazione finale. Ma il cammino, iniziato con Abramo, verso questa umanità “meticciata” – mi si perdoni il termine – incontra, come dicevamo, molteplici forme di resistenza. Anche a livello legislativo-demagogico si rischia di operare solo rigide e categoriche opposizioni. Sono resistenze e opposizioni che nascono sempre e solo dalla paura. Una paura a volte indefinita nei confronti del “diverso”, a volte incentrata e motivata da “ragioni” che a rigor di logica non tengono. Paura del confronto, di perdere privilegi che si ritengono propri ed esclusivi per noi “razza migliore”. Di fronte all’immigrazione e alla xenofobia dobbiamo prendere atto che tutti i buoni principi dell’umanesimo illuminista e delle ideologie umaniste non hanno forza, conoscono un scandaloso fallimento. La paura vince!

    L’immigrazione in effetti pone in discussione tanti nostri stili di vita consumistici ed egoistici, essa è denuncia posta sotto i nostri occhi di ingiustizie cui tutti, direttamente o indirettamente, abbiamo contribuito a creare. La globalizzazione ha avuto effetti estremamente deleteri nella ripartizione dei beni e delle risorse, paesi ricchi lo sono diventati ancor più a discapito di quelli più poveri. Nulla di straordinario o di scandaloso allora vedere imbarcazione di immigrati clandestini sbarcare ripetutamente sulle nostre coste, messicani oltrepassare la recinzione del confine di stato con gli Stati Uniti, ragazzini percorrere abbarbicati sotto i camion o dentro celle frigorifere migliaia di chilometri per raggiungere i nostri paesi in cui sognano di trovare tutto ciò che da loro non c’è. Con quale diritto li condanniamo? Paolo Vi nell’Enciclica “Octagesima Adveniens” già riconosceva profeticamente l’urgenza di un indispensabile cambio di mentalità per poter affrontare correttamente questa grande svolta della storia dell’umanità:  “E’ urgente che nei loro confronti si sappia superare un atteggiamento strettamente nazionalistico per creare uno statuto che riconosca un diritto alla immigrazione, favorisca la loro integrazione… è dovere di tutti – e specialmente dei cristiani – lavorare con energia per instaurare la fraternità universale, base indispensabile di una giustizia autentica e condizione di una pace duratura” (n. 17)

    Quello che sta avvenendo è una grande opportunità di conversione per la nostra fede e di ripensamento per i presupposti culturali ed economici della nostra cultura. Scriveva Giovanni Paolo II: “Il processo di globalizzazione può costituire un’opportunità, se le differenze culturali vengono accolte come occasione di incontro e di dialogo, e se la ripartizione disuguale delle risorse mondiali provoca una nuova coscienza della necessaria solidarietà che deve unire la famiglia umana. Se, al contrario, si aggravano le disuguaglianze, le popolazioni povere sono costrette all’esilio della disperazione”.

    Dentro questo dramma dobbiamo starci come discepoli di Gesù, non abbiamo diritto comodamente di schierarci con chi lo straniero non lo vuole perché da fastidio. Non dobbiamo invocare che “ritorni da dove è venuto!”. Anzi, capovolgendo tanta prospettiva “mondana” che sembra emergente, stiamo forse assistendo ad un provvidenziale lavoro della mano di Dio perché il cammino verso l’unità di tutta la famiglia umana possa concretizzarsi ancor più: “Cresce il sentimento di comunanza di destino tra tutte le nazioni. Le nuove generazioni avanzano nella convinzione che il pianeta sia ormai un “villaggio globale” e allacciano relazioni di amicizia che superano la diversità di lingua o di cultura” (Giovanni Paolo II).

    Rimane un problema di fondo. Quali le fondamenta da porre perché si costruisca questa nuova umanità? Quali saranno i “monti santi” su cui costruire questa nuova Sion? Basteranno le fondamenta di una “morale laica”, o d’un generico appello ai “valori umani di convivenza”? Ne dubito. Una reale reciproca accoglienza possono scaturire dal fatto che l’umanità alzi lo sguardo e ritrovi una sorgente che la trascenda e nella quale tutti si possano ritrovare con una eguale dignità di figli e dunque di fratelli. E questo può essere dato solo da Dio.

    Ecco allora il grande compito delle nostre comunità dinanzi a queste sfide. A me come discepolo di Gesù saper accogliere come fratello ogni uomo e donna riconoscendo a ciascuno il suo diritto e la sua dignità, che non scaturisce da una mia filantropia o da un mio atto di generosità, ma dal fatto che riconosco in lui un figlio di Dio come me. Di questa apertura tante realtà ecclesiali sono già ora un grande segno profetico di speranza e di provocazione per il mondo e ne dobbiamo ringraziare il Signore. Ne va infatti della credibilità del Vangelo sapendo che la posta è alta: Ammoniva Giovanni Paolo II in un suo messaggio:  “Come potranno i battezzati pretendere di accogliere Cristo, se chiudono la porta allo straniero che si presenta loro? “Se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio?” (1Gv 3,17)” (1999).

    Oratio

    A causa del seno materno differente,
    o perché i racconti della tua infanziati hanno abituato
    ad un’altra lingua,non chiamarmi “straniero”.
    Il tuo grano è identico al mio,
    la tua mano è identica alla mia,
    il tuo fuoco è identico al mio,
    e tu mi chiami “straniero”.
    Perché sono nato in un altro popolo,
    perché conosco altri mari,
    perché un giorno, ho lasciato un altro porto,
    non chiamarmi “straniero”.
    È lo stesso grido che portiamo
    e la stessa fatica che condividiamo,quella che ci sfianca dalla notte dei tempi,
    quando non esistevano frontiere,
    prima che arrivassero quelli che dividono e uccidono,
    quelli che rubano, quelli, gli inventori di questa parola: “straniero”.
    Triste e fredda parola, che unisce oblio ed esilio.
    Non chiamarmi “straniero”.
    Guardami bene negli occhi, ben al di là dell’odio,
    dell’egoismo e della paura
    e tu vedrai che io sono un uomo.
    No! Non posso essere “straniero”.

  • 09 Set

    Fondamenti spirituali del futuro

    di  Olivier Clément

    da Flaminia Moranti – Michelina Tenace (a cura di ) Fondamenti spirituali del futuro. Intervista a Olivier Clèment , Roma, 1997, pp.89-103

    (Testo di una conferanza pronunciata da Olivier Clément al Pontificio Collegio Russicum nel marzo 1996, organizzata dal Centro Aletti e dal Russicum, divenuta pressoché capitolo conclusivo del libro Rome Autremente, DDB, Paris 1997 pp.111-128).

    Il nostro presente è strano: da una parte il pianeta si unifica, dall’altra ogni etnia, ogni cultura afferma la sua identità, e la afferma contro le altre Guerre minacciose scoppiano dappertutto. Il futuro sarà fatto di guerre locali – come tutte quelle che dalla fine del secondo conflitto mondiale hanno moltiplicato le vittime: circa 60 milioni, si dice -, oppure di “guerre di civiltà”, come affermano certi politologi americani che pensano soprattutto al peso demografico sempre crescente dell’islam?

    Sarà forse così ancora per un po’ di tempo, ma dopo si arriverà ad una conclusione. L’unificazione economica e tecnica dell’umanità vincerà. Allora scoppieranno – ne stiamo già vedendo i segni annunciatori – ciò che Nietzsche prevedeva: le “grandi guerre dello spirito”. E attraverso queste guerre che tenteremo di delineare ciò che potrebbero essere i fondamenti spirituali dei futuro. Alla luce, per noi cristiani, della morte e della risurrezione di Cristo.

    Tali fondamenti sono per noi dei doveri:

    – il dovere di superare la modernità dal di dentro

    – il dovere di rispondere all’argomento del male

    – il dovere di assumere teologicamente e spiritualmente l’unità del pianeta

    – il dovere di elaborare un nuovo stile di vita.

    1. Superare la modernità dal di dentro

    La modernità come liberazione dalle costrizioni clericali ha permesso straordinarie esplorazioni: dell’universo, dalle nebulose fino alle particelle infinitesimali della materia; dell’uomo nel suo corpo e nella sua anima – si è passati, come si è detto, “dall’uomo delle caverne alle caverne dell’uomo” – dell’arte fino ai confini della soggettività e della follia; della politica fino all’elaborazione mai conclusa di uno “Stato di diritto” che non pretende di imporre una verità ma lascia che cercatori e testimoni cerchino e testimonino liberamente. In questo senso, la modernità durerà. Non si potranno imporre costrizioni alla libertà.

    Eppure oggi la libertà s’interroga e s’angoscia. Il nostro primo compito è di seguirla dall’interno nel suo movimento per proporgli umilmente un ambito e un esempio che la liberino dal nulla. Come? Portando una giustificazione ultima all’esistenza; “orientando” la scienza e la tecnica; approfondendo la solidarietà in comunione. Proponendo una giustificazione all’esistenza.

    1. Mai la morte è stata tanto repressa e così nuda. Il nulla corrode tutto, suscita derisione, ricerca parossismi dove si rischia la propria vita e quella degli altri. Sul tavolo di uno studente che si era appena suicidato è stato trovato un biglietto con su scritte queste parole: mi uccido perché la vita non ha senso. Il fondamento da porre qui non è l’esaltazione della vita – di fronte al nulla, tutto il mondo esalta la vita, ma questa è stranamente mescolata alla morte (“una vita morta”, diceva san Gregorio di Nissa) – è la testimonianza della vita risuscitata: in Cristo, sotto il soffio dello Spirito, uno spazio di non-morte si apre per noi. Esistono degli uomini che, praticando fino in fondo la “memoria della morte”, scoprono nel più profondo di sé Qualcuno che si frappone per sempre fra l’uomo e il nulla: il Cristo risorto, vincitore della morte e dell’inferno. Allora si può tentare di amare, tentare di vivere; la vita eterna comincia già qui, da adesso.

    2. “Orientando” la scienza e la tecnica. Oggi l’uomo non sa che fare della sua potenza. Talvolta la sua scienza, o meglio, le sue scienze, al plurale, non riescono più ad esaurire la realtà e urtano d’altronde contro il caos: talvolta invece, in biologia soprattutto, il prometeismo si esaspera, pretende di creare la vita, di fabbricare l’uomo su ordinazione. I simbolismi più originali vengono rigettati, quelli che riguardano l’unione dell’uomo e della donna, la relazione fra genitori e bambino. Ci si avventa sui “tabù” e non si rimane che delle solitarie “macchine del desiderio”. Gli embrioni vengono congelati e poi distrutti, si disprezza il ritmo della terra fino a snaturare la natura. La violenza si esaspera nella bruttezza delle megapoli inquinate.

    Il fondamento spirituale che va posto qui è doppio: la transcendenza della persona, il mistero della creazione, della terra.

    Un’antropologia onesta non può non constatare il carattere irriducibile della persona, sempre al di là di tutti i suoi attributi e condizionamenti. Più conosco qualcuno e più mi è sconosciuto. I concetti sono sempre superati dal volto, dal vero volto, al di là di tutte le maschere che sì esprimono nello spiraglio di uno sguardo, nella luce di un sorriso, nella presenza che mi interroga, mi obbliga a rispondere, come ha ben detto Lévinas. Sì, e lo dobbiamo far capire, l’uomo è ad immagine di Dio. Come Dio, egli è segreto e amore. Né la scienza, né la tecnica valgono qualcosa se rifiutano o ignorano questa trascendenza della persona.

    Mistero dell’uomo, mistero anche della terra. Se la Bibbia e il cristianesimo, i monaci in particolare, hanno strappato la persona all’impersonalità della Terra Madre, della Grande Dea arcaica, bisogna che oggi rinunciamo a vedere nella terra soltanto uno sfondo più o meno piacevole o un serbatoio di energie industriali inesauribili, perché non è vero. La “nostra sorella Madre Terra”, diceva san Francesco d’Assisi. La nostra sorella la nostra sposa. La civiltà tecnicista deve rannodare il patto nuziale con la terra. Dobbiamo reintegrare in un cristianesimo rinnovato le grandi intuizioni dei vecchi paganesimi, la terra come teofania, diciamo: come eucaristia. Dobbiamo far incontrare la conoscenza orizzontale, puramente casuale delle cose, con la conoscenza verticale delle radici celesti delle cose. Così la nostra scienza e la nostra tecnica lavoreranno nel rispetto della terra per renderla bella e spiritualizzarla.

    3. Approfondire la solidarietà in comunione. La solidarietà è oggi uno dei valori che toccano di più i giovani occidentali. Sono capaci di grande dedizione, in particolare nelle organizzazioni non governative; non si tratta né di semplici gesti individuali di carità, né di ideologia facilmente usata dallo Stato, o di fanatismo. C’è un vero gusto dei concreto e dell’efficacia. Ma c’è anche il rischio dello scoraggiamento e dell’amarezza.

    Il nostro ruolo: approfondire la solidarietà in comunione, nella certezza che esiste un solo Uomo, un unico Adamo incessantemente spezzato dal nostro peccato, incessantemente ricostruito in Cristo, nel quale siamo tutti consustanziali, “membri gli uni degli altri”. E in questa immensa unità, ognuno, senza cercarlo, diventa unico. Questo è il mistero di Dio che si comunica all’umanità. Comunione del Dio-Trinità come Tarkovskij ha suggerito alla fine dei suo film su Andrej Rublëv, mostrando l’icona dei Tre Angeli splendente di luce e di colore, Dio nel simbolo della giovinezza e della bellezza e che “apre all’umanità un futuro ancora confuso nei secoli”. Allora non ci può più essere scoraggiamento o amarezza; in Cristo risorto anche i nostri fallimenti sono trasfigurati. Ogni nostro gesto concreto d’amore anticipa il Regno.

    2. Rispondere all’argomento del male

    L’argomento fondamentale dell’ateismo di oggi e di domani è che l’esistenza di un Dio onnipotente e buono è incompatibile con la realtà atroce del male – che non è soltanto umano e che quindi potrebbe chiamare in causa la libertà – ma è anche cosmico. Quando un popolo già massacrato dalla storia come il popolo armeno subisce anche un terremoto, quando i bambini nel Messico vengono sepolti da un fiume di lava, quando altri bambini dovunque nel mondo sono colpiti dal cancro, tutto sembra assurdo. I media – in Francia, almeno – sottolineano con intenzione nella cronaca: “un pullman di religiose in pellegrinaggio a Lourdes è precipitato in un burrone”. Oppure: “un bambino pregava davanti ad una grande croce di pietra. La croce è caduta e ha schiacciato il bambino”. Si riconosce l’argomento di Ivan Karamazov, che “restituisce il suo biglietto” a Dio a causa della sofferenza dei bambini innocenti. Dicono: affermate che Dio è onnipotente, ma il mondo è un caos assurdo. Dite che è buono, ma prepara per un’infinita’ di dannati le eterne torture dell’inferno. Lungo la storia e anche oggi, gli uomini si massacrano nel nome di Dio. Dite che Dio è misericordioso, ma sembra invece che sia lui a provocare crudeltà e odio. Il filosofo franco-americano René Girard ha ragione di accostare violenza e sacro: la gente si aggrega subito attorno ad un unico capro espiatorio, la comunità funziona su meccanismi di esclusione e, se si tratta di un gruppo religioso, proietta volentieri lo stesso meccanismo nell’eternità.

    E allora, quale fondamento spirituale porre per il futuro? Va detto con forza che il nostro Dio è innocente, che non ha voluto e non vuole la morte, che non ha neanche idea del male. Bisogna farla finita con”quest’idea di un Dio diabolico, ad immagine dell’uomo e della parte peggiore dell’uomo. Sì, c’è un’onnipotenza di Dio, perché può creare e lasciar esistere fuori di sé altre libertà, quella dell’angelo e quella dell’uomo. Se c’è un’onnipotenza di Dio essa è inseparabile dalla sua onni-debolezza. Dio si ritira in qualche modo (nozione vicina allo zimzum della mistica ebraica) per lasciare all’angelo e all’uomo lo spazio della loro libertà. Egli attende il nostro amore, ma l’amore dell’altro non si comanda. “Ogni grande amore è sempre crocifisso”, diceva Evdokimov. Sì, Dio ha rischiato, Dio è entrato in una vera e dunque tragica storia d’amore. L’Adamo molteplice che siamo tutti noi non ha potuto evitare la prova della libertà. Per affermarsi, per individualizzarsi, si è allontanato dal Padre come il figlio prodigo della parabola. Allora il mondo, creato dal nulla – cioè che non ha fondamento in se stesso – ha cominciato a scivolare verso il nulla, questo nulla al quale gli angeli decaduti che dimentichiamo con troppa facilità, danno una consistenza distruttrice. In un certo modo, Dio è stato escluso dalla sua creazione, non la mantiene che dall’esterno. Dio è diventato un “re senza regno , secondo l’espressione di Nicola Cabasilas. Davanti al male universale – il mondo che “giace nel male”, come dice san Giovanni – “il volto di Dio piange sangue nell’ombra”, violenta espressione di Léon Bloy spesso citata da Nikolaj Berdjaev.

    Fino a che il “sì” di una donna permette a Dio di rientrare nel cuore della sua creazione per restaurarla, per strappare l’umanità alla fatalità e al fascino del nulla e aprirgli, anche attraverso le tenebre, vie di resurrezione. Ma il Dio crocifisso non ha il potere dei tiranni e delle tempeste. E’ un immenso influsso di pace, di luce e di amore che, per agire, ha bisogno di cuori che si aprano liberamente a Lui. La Parusia avverrà per effrazione, e non c’è già ora un momento che non possa lasciar passare la sua luce. Ma essa esige anche una preparazione: in Cristo, sotto il soffio dello Spirito, l’uomo ritrova la sua vocazione di creatore creato. Davanti al cieco nato, Gesù rifiuta di dare spiegazioni a partire dal peccato: né quest’uomo né i suoi genitori hanno peccato. Ma quest’incontro avviene per la gloria di Dio, e Lui lo guarisce. La spiritualità del terzo millennio sarà meno di rifiuto e più di trasfigurazione; una spiritualità pasquale, una spiritualità di risurrezione!

    Allora capiremo clic non si possono mettere limiti alla speranza, come diceva Hans Urs von Balthasar. La preghiera e il servizio per la salvezza universale saranno la risposta alla tragedia dell’inferno. L’inferno, come condizione generica, come assenza di Dio, è stato distrutto dal Sabato santo. Dio ormai non è più assente da nessuna parte. Ma bisogna “sedersi alla tavola dei peccatori”, come diceva Teresa di Lisieux, e “versare il sangue del proprio cuore”, come aggiungeva lo starets Silvano del monte Athos, affinché l ‘ultimo inferno, quello dell’individuo chiuso in se stesso, sia sommerso dall’onda di amore della comunione dei santi, cioè i peccatori che accettano di essere perdonati.

    Uno dei fondamenti spirituali maggiori dei futuro sarà quindi la kenosi. Nella Lettera ai Filippesi san Paolo dice che Dio in Cristo ekenosen, si è annullato, svuotato di sé. Intuizione geniale: evocare Dio non nel linguaggio del pieno, ma nel linguaggio del vuoto. Il pieno rimanda alla ricchezza, all’abbondanza, alla potenza. Lo svuotarsi, il vuoto, esprime il mistero dell’amore. Dio si trascende verso l’uomo in un movimento inverso. Non è un Dio pienissimo, pesante, che schiaccia l’uomo, ma un Dio “svuotato” nell’attesa della nostra risposta d’amore.

    3. Assumere e assicurare spiritualmente l’Unità planetaria

    L’unità planetaria si sta realizzando nonostante o attraverso i particolarismi che si moltiplicano. Due grandi fratture mi sembrano caratterizzare per oggi e per domani la situazione spirituale dell’umanità. Anzitutto, ci sono due emisferi spirituali. Da una parte l’emisfero che si rifà all’India: induismo, giainismo e tutte le forme di buddismo di cui alcune, in Cina o in Giappone, sono molto vicine alle tradizioni arcaiche come lo scintoismo o, provengono, come lo stesso buddismo, da ciò che Jaspers chiamava il “periodo assiale” della storia (VII-IV sec. prima della nostra era): penso ad esempio al taoismo. In questo emisfero, il divino – o il soffio di vita, il ki cinese – affiora dappertutto, divino impersonale che il mondo manifesta e nel quale si riassorbe. Il pensiero dominante è un pensiero dell’Unità che abbraccia tutto, un pensiero dell’Identico, con una concezione ciclica del tempo e l’universalità del Sé di ognuno (perché una mamma ama suo figlio, si chiede l’Upanishad? La risposta è: non è per amore del bambino, è per amore del Sé che è identico nel bambino e nella donna).

    L’altro emisfero si potrebbe definirlo “semitico” e riguarda soprattutto il giudaismo e l’islam, almeno nelle loro forme “esoteriche”. Qui si afferma la trascendenza del Dio personale e il carattere personale, o piuttosto individuale dell’uomo. Il pensiero è rivolto all’altro senza unità (tranne in certe forme di sufismo e di cabbala segnate dal neoplatonismo, l’Iran e l’India, dove si ritrova spesso una sensibilità fusionale). Dio è in cielo e l’uomo è sulla terra. Dio dà una legge e l’uomo deve obbedirgli. Il tempo si fa lineare sia sotto forma di tensione nel giudaismo, che sotto forma di richiami nell’islam.

    L’altra frattura oppone le società tradizionali e la società occidentale moderna. Le società tradizionali sono “diviniste” o magiche, ripetitive, spesso, come in Africa e in America dei Sud, profondamente “vitali”, mentre la società occidentale moderna è umanista, innovatrice e devitalizzata. Invade oggi la terra intera, ma le società tradizionali lasciano tracce e nostalgie profonde, e le loro magie nutrono il “New Age”.

    I fondamenti spirituali del futuro in questo contesto si chiamano Trinità e divinoumanità.

    Certo, prima o poi dobbiamo prima di tutto affermare che il nostro Dio non è il Dio delle “guerre sante” e delle crociate, ma il Dio della Croce vivificante. Le differenze, anzi le contraddizioni fra religioni non devono essere luogo di guerre ma di amicizia e di preghiera, se non proprio comune, perlomeno insieme, come ad Assisi. E anche, ogni volta che è possibile, uno scambio che potrebbe prodigiosamente arricchire il cristianesimo, perché, in una prospettiva escatologica, bisogna riconoscere che le “economie” di Dio sono molteplici.

    Più profondamente importa capire e diffondere sempre di più il mistero della Uni-Trinità: il Dio vivo è talmente uno che porta in sé la realtà, il battito dell’altro, e nello Spirito, nel Soffio santo, il superamento di ogni dualità: non per ripiegamento in un’unità impersonale, ma per coincidenza dell’unita assoluta con la diversità assoluta. Ed è lo stesso, almeno come promessa, in germe, in divenire, per l’umanità, visto che l’uomo è ad immagine di Dio: unità totale in Cristo, diversità totale sotto le fiamme della Pentecoste perpetua. Un prete e monaco russo che fu, alla vigilia della rivoluzione, missionario in Siberia ,scrive che ammirava tanto i saggi indù che esitava a portarli al battesimo. Ma, aggiungeva, questi saggi sono talmente assorbiti nella loro interiorità che hanno gli occhi chiusi; la missione dei cristiani potrebbe essere quella di portarli ad aprire gli occhi per vedere l’altro, senza per questo rinunciare alla loro interiorità, di cui essi devono insegnarci le vie.

    L’altro tema fondamentale per il futuro è quello della divinoumanità come spazio dello Spirito e della libertà creatrice. Tutte le esperienze orientali del divino e tutte le esperienze occidentali dell’umano devono trovar posto nella divinoumanità. Alle religioni della sola trascendenza, attraverso i loro mistici, noi diremo l’incarnazione e la kenosi. Alle religioni della fusione nell’impersonale, noi parleremo dell’Uni-Trinità. Agli umanesimi più o meno atei, ricorderemo che l’uomo non sarebbe nulla se non fosse, al dì là di tutti i condizionamenti, un enigma, un segreto nel quale possiamo entrare solo attraverso la rivelazione dell’amore.

    Allora potremo rispondere alle attese di oggi che si cristallizzano attorno al New Age e che se non sapremo capirle, diventeranno anticristiane. Queste attese riguardano il cosmo, l’eros, la meditazione trasformante.

    Plutarco racconta di aver sentito un grido dal mare: “il grande Pan è morto!” Sembra che oggi rinasca di nuovo. Si prende coscienza del proprio corpo, accordandolo ai ritmi cosmici. I poeti cercano nuovi nomi del divino nella densità degli esseri e delle cose. Nell’Europa centrale ecologismo e buddismo si uniscono nel desiderio di fondersi nella natura, l’immensa e materna Gaia.

    L’avvenire del cristianesimo sarebbe qui di trovare una visione liturgica e mistica del cosmo. L’eucarestia compie le potenzialità sacramentali della materia. Tocca all’uomo, sacerdote del mondo, offrire a Dio, nel grande sacrificio cristico della reintegrazione, le essenze spirituali delle cose. Tocca a noi dare a questa visione trasfigurante tutta la stia portata culturale e sociale e così fecondare l’ecologia. I grandi “sofiologi” russi hanno tentato di farlo all’inizio di questo secolo; le loro concettualizzazioni erano forse maldestre, però dovremmo riprendere la loro riflessione sulla Sapienza, questa figura misteriosa che appare soprattutto nell’ottavo capitolo dei Proverbi, figura nella quale Dio e la creazione sembrano interpenetrarsi mutualmente. Attraverso la Sapienza, i vecchi miti della Terra sacra possono integrarsi nel cristianesimo come poetica della comunione. Non c’è dubbio che c’è un legame misterioso fra la Sapienza e la Madre di Dio nella quale la Terra trova finalmente il suo volto…

    in secondo luogo, dobbiamo anche constatare che nella storia del mondo cristiano la sfiducia nei confronti dell’eros è stata a lungo necessaria per assicurare, contro le fatalità della specie e delle estasi fusionali, la piena rivelazione della persona e in particolar modo della donna come persona. Poco a poco però l’eros, invece di essere trasfigurato, è stato negato. Oggi irrompe perciò la rivolta folle della vita. Il cristianesimo dei tempi nuovi scoprirà tutto il significato dell’eros, ne mostrerà il compimento nell’arte che avvia la trasfigurazione del mondo, il compimento nell’ascesi che fa dell’uomo o della donna un essere “separato(a) da tutti, e unito(a) a tutti”, come diceva Evagrio Pontico. Rispetterà la passione la più folle, senza ignorare le sue vie senza uscita, sapendo che coloro che vivono e muoiono – una tale passione sono marcati dal sigillo dell’assoluto. Celebrerà l’amore che c’è fra un uomo e una donna quando l’eros si integra nell’incontro delle persone e quando l'”estasi della vita” diventa il linguaggio più forte che un uomo e una donna possano comunicarsi. Pur ricordando che solo la vita monastica può realizzare pienamente le nozze di Cristo e dell’anima, e che è una benedizione per la spiritualità nuziale, per il mistero del bambino.

    L’ultimo tema: quello della meditazione trasformante. Molti oggi sentono una grande esigenza di silenzio e di pace. Si rivolgono ai metodi di concentrazione dell’India e del buddismo, alla “meditazione trascendentale”. Riescono a raggiungere a volte una certa unificazione, però sono sempre sotto il rischio di orgoglio gnostico, di ipertrofia dell’io occidentale, confuso con il Sé orientale. Rischiano anche di confondere la grande fatica attuale dell’occidente con la negazione buddista del desiderio.

    La risposta cristiana per domani sarà di ritrovare e di attualizzare l’immenso patrimonio del cristianesimo. Penso in particolare, al di là delle forme sentimentali e psicologiche del “misticismo”, alla grande tradizione ortodossa della Filocalia – parola che significa amore della bellezza – e dell’esicasmo – parola che allude alla pace, al silenzio dell’unione con Dio (hesychia). Tradizione che ha d’altronde le sue radici nel terreno della Chiesa indivisa. L’esicasmo conosce tecniche simili a quelle dell’Asia per liberarsi dagli idoli mentali, pulire l’intelletto dai “pensieri”, unire l’intelligenza e il cuore, utilizzare i ritmi dei corpo come quelli della respirazione e del sangue. E a questo livello uno scambio è possibile. Ma, mi sembra, l’asceta indù (o buddista) s’immerge spesso (non sempre) e si dissolve nell’abisso luminoso del Sé, o in questo “nirvana” che non può essere evocato che negativamente, mentre l’asceta esicasta scopre che questa luce sgorga da una sorgente personale nello stesso tempo infinitamente vicina e infinitamente lontana. La “meditazione”, allora, diventa relazione, l’unità non può fare a meno dell’alterità, tutto culmina nella comunione con Dio e con il prossimo. In questo servizio del prossimo di cui l’occidente cristiano ha sempre avuto l’esigenza e la pratica.

    4. Un nuovo stile di vita

    Per finire direi che i fondamenti spirituali del futuro devono incarnarsi in un nuovo stile di vita, fatto insieme di umiltà e di fierezza, di ascesi e di fantasia: la “gaia scienza” nello Spirito Santo. Uno stile regale, ma senza dimenticare che il re ha sempre bisogno di un buffone: tentare di essere cristiano nel mondo, così com’è e come sarà, esigerà una certa “follia”.

    Uno stile che esigerà la più alta ascesi, perché ci vorrà tutta la forza dello spirito nel senso di viva intelligenza affinché l’uomo possa aver potere sul proprio potere. Uno stile che esigerà simultaneamente l’ardore di un cavaliere della vita e l’intuizione e l’impertinenza dell’artista. Uno stile che si esprimerà in un incontro rinnovato dell’uomo e della donna: non di subordinazione, né di complementareità, ma due solitudini e due pienezze, due modi di vivere il mondo e di farlo esistere, a volte per grazia di farlo esistere in un nuovo Cantico dei Cantici. Uno stile in cui si “respira lo Spirito”, in cui si balia nella non-morte, perché il Cristo è risorto. E poiché Cristo è risorto e lo Spirito è versato segretamente dappertutto e abbraccia tutto, vorrei concludere con le parole di Nikos Kazantzakis: “Ogni uomo può salvare il mondo intero”.