LA VOCAZIONE MONASTICA
sintesi da un testo della Madre Canopi
1. I tratti essenziali e universali della vocazione monastica.
Il monachesimo si caratterizza essenzialmente per una insopprimibile esigenza di Assoluto e di radicalità nella ricerca di esso. Ne deriva una forma di vita che, per il solo fatto di esistere, diventa testimonianza del primato di Dio e delle realtà eterne rispetto a quelle temporali. Questa nota fondamentale fa del monachesimo una vocazione a respiro universale, corrispondente all’anelito più profondo dell’essere umano, al suo innato desiderio d’infinito. In ogni epoca e luogo, infatti, in seno alle forme più elevate di religione, sono apparse e si sono affermate espressioni di vita monastica, che, pur nelle differenti modalità, si riconoscono per alcuni tratti specifici ben distinguibili e costanti nel mutare dei tempi e delle circostanze: la separazione dal mondo, la castità, la povertà, l’ascesi, la lotta contro le passioni. In essa la persona si cimenta per il raggiungimento della perfezione e, conseguentemente, della saggezza, dell’equilibrio e della pace interiore.
2. Vita monastica cristiana.
Il cristianesimo ha innegabilmente apportato a questa vocazione qualcosa di nuovo e di unico, poiché ha spostato decisamente il centro di gravità dall’uomo a Dio, dall’io al Tu, alla persona di Colui che solo è il Santo e il Santificatore. Il monaco cristiano, infatti, non mette al centro la ricerca della propria perfezione, ma la ricerca di Dio. Si impegna nella propria conversione e nel perseguimento di una santa condotta di vita per corrispondere all’amore di Dio che Si è rivelato in Cristo e attraverso la sua umanità ci si fa incontro. Lungi dal confidare in se stesso e dal puntare su uno sforzo volontaristico per raggiungere la perfezione, il monaco cristiano si affida alla grazia divina e si lascia trasformare dall’azione dello Spirito Santo, consapevole di essere diventato – in forza del Battesimo – figlio di Dio, partecipe della natura divina. Il monachesimo cristiano ha perciò la sua ragion d’essere proprio nella conformazione a Cristo, portando alla massima fioritura la grazia battesimale. Con Cristo, reso partecipe del suo Spirìto, il monaco glorifica il Padre. Qualcuno non ha esitato a definire «secondo Battesimo» la professione monastica. Desiderando vivere in pienezza le esigenze della vita cristiana, nella sua semplicità e radicalità, il monaco è pure equiparato ai martiri. Infatti nella sequela e conformazione a Cristo obbediente fino alla morte di croce, egli consuma quello che i padri hanno definito il «martirio della coscienza». Ma la nota ancor più caratteristica del monachesimo cristiano è di essere segno e profezia delle realtà ultime ed eterne: escatologiche. «Vita angelica» è perciò un’altra suggestiva definizione della vita monastica. Proprio l’intensa partecipazione del monaco alla kenosi – alla croce – di Cristo lo rende anche partecipe della sua vita risorta. E’ ciò che la mistica di Paolo della Croce rende attraverso l’espressione “morte mistica e divina natività”. Reso «più somigliante» all’uomo nuovo il Cristo crocifisso e risorto, egli si immerge nel mistero della vita trinitaria e anticipa così la vita celeste. Qui sta forse – almeno in gran parte – il segreto del fascino che emana dalla figura del monaco e – ancor più – dalla comunità monastica, specialmente quando, radunata in preghiera, riproduce in certo modo la comunione dei santi, il volto della Chiesa nella sua realtà escatologica. È importante rilevare che la vita monastica, sia vissuta in solitudine, sia vissuta insieme, è sempre fortemente inserita nella vita ecclesiale; è sempre una vivida realizzazione del mistero di comunione che è la Chiesa ed è quindi carica di una imponderabile fecondità apostolica. Il fascino della sua bellezza è perciò da scorgersi soprattutto nell’irradiazione di una grazia che il Signore riversa abbondantemente là dove si vive la quotidiana morte a se stessi nell’umiltà e nel nascondimento, per essere pienamente in Cristo e con Lui offerti per la salvezza di ogni persona.
3. Risposta a una chiamata: esodo e spogliamento.
Esigenza profonda dell’animo umano, la vita monastica cristiana è e rimane anzitutto una vocazione, una chiamata gratuita di Dio rivolta a chi Egli sceglie, nella sua assoluta libertà. Non si intraprende quindi la vita monastica spinti esclusivamente dal desiderio della perfezione personale o dall’attrattiva per le sue caratteristiche più appariscenti (quali, ad esempio, il silenzio, la solitudine, la bellezza della liturgia, l’atmosfera del monastero, le persone spirituali che vi si trovano, ecc.), ma sempre si parte sotto l’impulso dello Spirito Santo, spinti dall’amore per Cristo, in obbedienza alla volontà di Dio, che invita alla sequela radicale, lasciando tutto il resto. Esemplare è, a questo proposito, la vocazione di Antonio il Grande, ritenuto il padre dei monaci: «Dopo la morte dei genitori, Antonio rimase solo con la sorella ancora molto piccola. Aveva diciotto o venti anni, e si prendeva cura della casa e della sorella. Non erano ancora trascorsi sei mesi dalla morte dei genitori, quando, com’era sua abitudine, se ne andava in chiesa, raccogliendosi nella propria mente (…). Entrò in chiesa e gli accadde di ascoltare la lettura di un passo evangelico in cui ascoltò il Signore dire al ricco: “Se vuoi essere perfetto va’, vendi tutti i tuoi beni e dalli ai poveri, e poi vieni, seguimi e avrai un tesoro nei cieli”, Antonio, come se il ricordo dei santi gli fosse presentato al pensiero per ispirazione divina, e convinto che quel passo evangelico fosse letto per lui, uscì subito dalla chiesa e donò i suoi possedimenti (…) ai concittadini, perché non molestassero più né lui né la sorella. Vendette quindi tutti gli altri beni mobili che possedeva e, ricavatone molto denaro, lo distribuì ai poveri. Conservò tuttavia un po’ di denaro per la sorella. Entrato di nuovo in chiesa, non appena sentì il Signore che diceva nel Vangelo: “Non preoccupatevi del domani”, subito uscì e distribuì ai poveri il denaro che aveva conservato. Affidò la sorella a delle vergini fedeli, perché fosse allevata nella verginità, ed egli stesso coltivò l’ascesi fuori dalla sua casa, vivendo severamente (…). C’era in quell’epoca in una città vicina un vecchio che sin dalla giovinezza conduceva una vita solitaria, tutto dedito all’ascesi cristiana. Antonio lo vide e prese ad emularlo nel bene» (Atanasio, Vita Antonii, 2-3). È evidente in questa chiamata divina l’esigenza di una radicalità che non lasci più alcuno spazio al possesso delle cose e all’auto-possesso. La vita monastica, prendendo alla lettera il Vangelo, richiede la perdita totale di sé nella rinunzia ai propri beni, ai legami familiari, alla propria volontà, al proprio corpo e soprattutto, a quanto può costituire per sé un motivo di «vanto». di «orgoglio». Richiede infatti la separazione dal mondo per una vita umbratile, di silenzio e di solitudine, di umiltà e di nascondimento non solo agli occhi degli altri, ma anche ai propri occhi; vita all’insegna della gratuità, che non pretende né di vedere né di valutare i frutti della propria preghiera e della propria offerta. Il monaco sperimenta, in tutto il suo realismo, quanto Gesù disse ai suoi discepoli: ritenetevi servi inutili. Non si può quindi partire portandosi dentro segrete ambizioni o illusioni; tuttavia chi si sente chiamato a questa forma di consacrazione parte con la più grande speranza, con la più grande attesa nel cuore: stare con il Signore, piacere a Lui solo ed essere consumato nel suo amore. Significativo in questo senso è anche il racconto della vocazione di san Benedetto fatto da san Gregorio Magno: «Tralasciata la formazione letteraria, abbandonata pure la sua casa con i beni paterni, desideroso di piacere a Dio solo, cercò l’abito santo della vita monastica (…). Preferendo ricevere patimenti dal mondo piuttosto che non ammirazione, e di consumarsi nella fatica per amore di Dio più che di acquistare prestigio in questa vita (…) raggiunse una grotta in un luogo deserto, chiamato Subiaco, ricco di fresche e limpide sorgenti (…). Incontrò un monaco di nome Romano che, conosciuta l’intenzione del giovane, gli impose il santo abito monastico e, per quanto fu possibile, provvide alle sue necessità» (Gregorio Magno, Dialoghi, 2, 3-4). La forza del desiderio di Dio sostiene Benedetto nel suo esodo dal mondo e lo sosterrà nel combattimento spirituale in cui dovrà ogni giorno cimentarsi per rimanere fedele alla divina chiamata ed essere, nelle mani di Dio, docile strumento per il compimento del disegno che ha concepito su di lui in favore di una numerosa discendenza.
4. Incontro con Cristo nel deserto: solitudine e comunione.
La vocazione monastica non è soltanto adesione e perseguimento di un nobile ideale di vita spirituale, ma esperienza forte, irresistibile, di un incontro con la persona di Gesù, una specie di seduzione che ha come luogo preferito il deserto o comunque luoghi isolati, di difficile accesso, belli di quella bellezza vergine ed austera, semplice e trasparente che è un richiamo alla bellezza soprannaturale a che deve contribuire a configurare il volto interiore del monaco. Infatti il monaco si radica nella terra per elevarsi al cielo ed instaura con il suo ambiente – dove vive la sua stabilità – una specie di simbiosi in cui l’uno e l’altro si trasfigurano nel dono di un reciproco servizio. Mentre l’ambiente naturale custodisce il monaco, questi spiritualizza la terra e la rende quasi nuovo «eden». In una sua omelia, san Giovanni Crisostomo diceva: «Se ti recherai nel deserto egiziano, lo vedrai trasformato nel più dolce paradiso; là incontrerai innumerevoli cori di angeli di umane sembianze, una folla di martiri, una schiera di vergini; vi vedrai distrutta la tirannide del demonio, e celebrarsi il trionfo luminoso di Cristo… In una parola, il cielo, con il suo coro gioioso di stelle, non brilla quanto il deserto egiziano, che dappertutto ci offre alla vista le tende dei suoi monaci», (In Matthæum 8,4). L’importanza della stabilitas loci – che diventa amor loci – è sempre in riferimento all’esperienza profonda della presenza di Dio. Nella Vita di Antonio si legge che, divenuto ormai noto per la sua santità, temendo di insuperbirsi, volle ritirarsi in una regione dove potesse vivere sconosciuto. Una voce allora gli disse: «Se vuoi veramente allontanarti e vivere nel silenzio, va’ nel deserto interno (,..). Dopo aver camminato per tre giorni e tre notti, giunse su di un monte molto alto; e sotto scorreva acqua limpida (…). Intorno c’era una pianura e poche palme (…). Come se fosse ispirato da Dio, Antonio amò quel luogo» (Vita Antonii, 49-50). Non è per la bellezza naturale che il monaco si affeziona al luogo, ma perché Dio glielo ha indicato e lo aspettava là. Anche il luogo, in certo senso, diventa sacramento della divina Presenza. Dove c’è un monaco eremita o un cenobio (monaci che fanno vita in comune) l’ambiente sì trasfigura, emana un’arcana forza soprannaturale. Per questo motivo anche il luogo entra come elemento determinante della vocazione monastica. Significativa la testimonianza di p. André Emmanuel (1849-1903). All’età di sedici anni, attraversando tra Riceys e Molesmes – piccole valli solitarie e zone boscose ricche di sorgenti – ebbe tutto a un tratto l’idea, anzi, quasi una concreta visione, di un monastero e di se stesso monaco. Questa percezione interiore gli rimase viva per anni, mentre pur cercava di realizzare altri progetti di vita: «Avrei voluto essere cappuccino, missionario… Comunque, tutti questi progetti andarono in fumo perché provenivano da me, ma l’idea del monaco rimase, perché veniva da Dio» (cit. in AAVv. Alla riscoperta di un carisma. Saggi di spiritualità e storia olivetana, Monte Oliveto Maggiore 1995, 422).
5. Discernimento della vocazione monastica e formazione.
Nel discernimento delle vocazioni questo è dunque il punto capitale: capire se l’ispirazione viene da Dio. Non sono le attitudini personali, i doni di natura a rendere idonei alla vita monastica ma le disposizioni interiori ad affidarsi al disegno di Dio e all’aiuto della sua grazia, grazia che egli offre in vario modo, nell’ambito ecclesiale, nel contesto preciso e concreto della comunità che Egli stesso per ognuno ha scelto e indicato. Lì il Signore mette il chiamato alla prova per formarlo, e il primo indispensabile lavoro è quello della spogliazione. La chiamata, infatti, sta all’inizio di un lungo cammino che deve condurre alla «conoscenza di Dio» attraverso la liberazione da tutte le false idee che si hanno – senza rendersene conto – su di sé, sugli altri, su Dio stesso. Ne consegue un travaglio spesso vissuto come lacerazione e morte, che però ben presto si rivela fonte di rigenerazione e di crescita in interiorità. Ad evitare ogni illusione o scoraggiamento, questo cammino viene fatto sotto la guida del padre spirituale, dell’abbate – che in monastero tiene «le veci di Cristo» (cf Regula Benedicti [RB] 2) – e con il sostegno della comunità (cf. RB 1). Poiché una vera vocazione monastica si presenta come esigenza di radicalità nel dono di sé a Dio per tutti, si rivela fuori posto l’eccessiva preoccupazione di sé e il desiderio ansioso di «realizzarsi», di non perdere la propria personalità. Questo atteggiamento costituisce un serio ostacolo al cammino verso la libertà, poiché oppone una resistenza allo Spirito Santo. Ciò rende evidente la necessità dell’ascesi, della lotta contro le passioni, della vigilanza del cuore e soprattutto della filiale e totale apertura del cuore al padre – o alla madre – del monastero che – quale sapiente medico e buon pastore (cf. RB 2.64.27.28) – verifica la coscienza del discepolo, ne cura le ferite, segnala i pericoli, le tentazioni che si possono incontrare lungo il cammino. Presupposto fondamentale per una autentica maturazione nella vita monastica è quindi un profondo atteggiamento di umiltà e di fede, che si concretizza nella sottomissione alla Parola di Dio e alle mediazioni umane, la disposizione all’ascolto o all’obbedienza favorisce una maggiore attenzione al Signore e a chi parla nel suo nome, anziché ai propri pensieri o sentimenti, perciò fu spazio alla vita dell’uomo interiore, fa nascere e crescere a poco a poco il monaco che, al momento della chiamata, era in embrione. È evidente l’importanza che assume nella vita monastica la relazione che i monaci instaurano con il loro abbate, nel quale non vedono un «Superiore», ma un padre: si tratta di una relazione filiale improntata a quella di Cristo verso l’eterno Padre, tutta permeata di venerazione e amore. Da essa scaturisce anche una capacità di nuovi rapporti umani, di carità sincera e accoglienza dei fratelli e delle sorelle, al di là di ogni possibile discriminazione, nella disposizione a dare la vita gli uni per gli altri, concretizzando tale slancio di carità nel quotidiano reciproco servizio, soprattutto nel sopportare con instancabile pazienza le infermità fisiche e morali di ciascuno e gareggiare nell’onorarsi e obbedirsi a vicenda per formare, in Cristo, un cuor solo e un anima sola (cf, RB 63.72).
6. Voti monastici.
Benché varie possano essere le forme di vita monastica – anche nel nostro tempo sono apparse nuove espressioni più o meno consolidato – tutte devono comunque rifarsi all’esperienza originaria del monachesimo antico., Con Benedetto il monachesimo cristiano ha trovato in occidente la sui forma tipica e durevole. Egli vuole che la professione monastica avvenga con matura consapevolezza e abbia carattere di definitività. Essa è infatti considerata un atto di culto che si inserisce nel mistero eucaristico, come partecipazione all’offerta sacrificale di Cristo, perciò deve essere compiuto con piena libertà e soprattutto con adesione totale del cuore: è l’atto più grande dell’amore. I voti monastici sono una triplice professione di fede, di speranza e di carità, essi immergono il monaco nel mistero pasquale e lo rendono un riflesso luminoso della divina koinonia trinitaria. Il voto di conversione di vita – che comprende castità, povertà, umiltà – è una professione di speranza, poiché tutto quello che il monaco abbandona, lo lascia in vista di ciò che lo attende: Dio stesso, che diventa già il suo tutto. Il voto di obbedienza, lega indissolubilmente il monaco al Signore con un «sì» che è consenso pieno alla sua santa volontà. È un vincolo d’amore in risposta a Colui che ci ha amato per primo, fin dall’eternità. Vivendo con fedeltà i suoi voti, il monaco raggiunge la piena libertà ed esprime la gioia della sua totale appartenenza al Signore.
7. Segno escatologico e presenza nella storia.
La vocazione monastica è particolarmente chiamata a risplendere, nella Chiesa o nel mondo, come vita pasquale, come segno di risurrezione. La vita dei monaci – quando è santa come lo deve essere – evangelizza semplicemente con l’essere già tutta orientata al Cielo, al fine di ogni vita umana. Quella che il beato cardinale-monaco A. Ildefonso Schuster chiamava la «devozione al Cielo» non è un atteggiamento pietistico e tanto meno di evasione, ma un rendere concreto quanto san Paolo esprime nella lettera ai Romani circa il travaglio e la santificazione del cosmo che Cristo ha redento. I monaci – diceva un antico Padre – sono coloro che vivono sulla terra consapevoli di avere tutti i loro «affari in cielo». Perciò pur vivendo con realismo nel presente fanno in modo che tutto porti frutto per l’eternità, che tutto dia gloria a Dio: ut in omnibus glorificetur Deus (l Pt 4,ll; cf RB 57,9). Questa è, si può dire, la sigla del monachesimo. In questa prospettiva anche l’ascesi più austera si illumina di gioia e ogni umana angoscia fiorisce in speranza. La ricerca appassionata del Signore fa sentire soave il giogo e leggero il peso della sequela di Cristo (cf. Mt 11,28-30) e «si corre con ineffabile dolcezza di amore sulla via che conduce a Dio» (cf RB Prol. 49), via che si dilata nel cuore quando è ricolmo di Spirito Santo. «Pneumatoforoi» sono infatti chiamati i monaci: uomini e donne spirituali che vivono totalmente sotto il soffio dello Spirito dal quale sono dolcemente e vigorosamente sospinti su vie tanto ardue quanto mirabili. Essere veri monaci equivale perciò ad essere testimoni, autentici successori dei martiri. È la conseguenza ovvia della radicalità di questa vocazione di apparente inutilità e insignificanza per una società costruita sulla dinamica del prestigio e dell’efficienza, e perciò carica di tensioni aggressive. Se ogni cristiano è chiamato a conformarsi a Cristo, i monaci a maggior ragione devono riflettere la bellezza spirituale, quali icone più somiglianti, come ama esprimersi la Chiesa d’Oriente. Bellezza che è semplicità, umiltà e mitezza di cuore, rispetto e benevolenza verso ogni creatura, vedendo in tutte l’impronta del Creatore Il carisma specifico del monachesimo, che consiste essenzialmente nell’affermare il primato di Dio e quindi della dimensione trascendente della persona, non pone tuttavia i monaci fuori della storia. Essi sono invece «presentissimi» a tutte le vicende umane e ai grandi problemi che in ogni epoca travagliano i popoli. Vi sono presenti nel modo loro proprio, anzitutto con la preghiera, resa efficace dalla santità, dall’amore che li crocifigge al mondo stesso per salvarlo (cf. Gal 6,14). Lo hanno dimostrato recentemente i sette monaci trappisti di Notre Dame d’Atlas in Algeria, sgozzati come agnelli da estremisti islamici. Davvero senza retorica il cardinale Lustiger, celebrando in Notre Dame a Parigi le loro esequie, poteva dire che «avevano accettato in anticipo di dare la loro vita per essere testimoni dell’Amore crocifisso», e questo nell’umile consapevolezza di non essere superiori agli altri, quindi di associare la loro morte «a tante altre ugualmente violente lasciate nell’indifferenza e nell’anonimato». Così, infatti, lasciava scritto il priore p. Christhian de Chergé nel suo testamento: «La mia vita non ha prezzo più alto di un’altra. Non vale di meno né di più. In ogni caso, non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per considerarmi complice del male che sembra prevalere nel mondo e anche di quello che mi può colpire alla cieca (…)». Sì, fino a quello che alzerà la mano per ucciderlo, l’ «amico dell’ultimo momento», per il quale gli sgorga dal cuore non solo il perdono, ma anche un «grazie» pieno di gioia soprannaturale, nella speranza di ritrovarlo nella casa dell’unico Padre dove entriamo tutti come ladroni beati perché perdonati. Proprio in questa profonda umiltà che lo fa sedere come e con Gesù Cristo alla mensa dei peccatori. consiste la bellezza interiore dei monaci, i kalogeroi, i «bellissimi anziani» resi tali da quella sapienza del cuore, sapientia cordis, che coincide con la stoltezza della croce, stultitia crucis.