• 14 Feb

    L’amore più forte della morte

    Lectio dal Cantico dei Cantici 8,5-7

    di p. Attilio Franco Fabris

    Mi baci con i baci della sua bocca! Sì, le tue tenerezze sono più dolci del vino” (Ct 1,1). I padri per descrivere lo Spirito usano talvolta l’immagine del “bacio”. Lo Spirito è il bacio che il Padre dona al Figlio generandolo eternamente. Questo bacio è amore fatto persona.

    Chiediamo allo Spirito all’inizio del nostro ascolto, di prenderci per mano, di introdurci per sua grazia a contemplare il suo “eterno bacio”. Sia lui ad aprirci alla comprensione della bellezza della verginità come riflesso e testimonianza dell’amore purissimo che da lui stesso promana da sempre. Lo invochiamo con le parole di Paolo VI: “Vieni, o Spirito santo, dà a noi un cuore nuovo, che ravvivi in noi i doni da te ricevuti con la gioia di essere cristiani, un cuore nuovo, sempre giovane e lieto. Vieni, o Spirito santo e dà a noi un cuore puro che non conosca il male se non per definirlo, per combatterlo e per fuggirlo; un cuore puro, come quello di un fanciullo, capace di entusiasmarsi e di trepidare. Vieni, o Spirito Santo, e dà a noi un cuore grande, aperto alla tua parola ispiratrice, chiuso ad ogni meschina ambizione, un cuore grande e forte ad amare tutti, a tutti servire, con tutti soffrire; un cuore grande e forte, beato di palpitare col cuor di Dio”.

    Lectio

    Chi è colei che sale dal deserto?”. Nel v. 5 è il coro costituito dalle “figlie di Gerusalemme” (8,4), che, intravedendo di lontano la fidanzata, la saluta. Essa, sorridendo, sta tornando dai campi appoggiata dolcemente al suo amato, dopo un segreto convegno d’amore.

    I due provengono dal  “deserto”. Probabilmente è da intendersi con i campi disabitati e silenziosi che stanno fuori delle mura della città, luogo ideale per un incontro appartato e indisturbato, ma potrebbe essere anche interpretato come una immagine: il deserto infatti è il luogo simbolico in cui due innamorati possono sperimentare sino in fondo la gioia del loro stare insieme di fronte al quale tutto il resto del mondo scompare, come fosse appunto un…deserto. Questo è il luogo appartato in cui possono concentrarsi esclusivamente, come è tipico per gli innamorati, sul loro essere insieme fatto di silenzi indisturbati e di parole segrete.

    La ragazza è “appoggiata al suo diletto”: il verbo esprime l’immagine colma di tenerezza di chi sta camminando tenendosi stretto all’altro, gomito a gomito. L’amore teme di perdere, vuole tenere stretto e non lasciare mai, esige che si cammini a fianco misurando il passo sul passo dell’altro e che se ne lasci guidare.

    Dopo questa introduzione del coro interviene il fidanzato. Egli ha risvegliato la fidanzata che riposava sotto il melo. Il melo cui si accenna è una immagine dell’uomo stesso (“Come un melo tra gli alberi del bosco il mio diletto fra i giovani”  2,3) e lo “svegliarsi” alla sua ombra sta a significare l’accendersi del fuoco dell’amore, e rappresenta un riferimento discreto al consumarsi della loro unione visto come un “risveglio”, quasi che l’atto amoroso rappresenti una sorta di apertura nuova al mondo, una scoperta che colma di gioia e di stupore come lo è appunto il passaggio dal sonno al risveglio.

    Il giovane continua indicando un luogo: “laggiù ti ha concepito tua madre”. Sono espressioni non del tutto chiare. Probabilmente egli allude al fatto che la casa della madre della ragazza è la stessa casa in cui lui andrà ad abitare con la ragazza (“Ti condurrei, ti introdurrei nella casa di mia madre; m’insegneresti l’arte dell’amore” dice la giovane in 8,2). Lì anche la madre ha provato le stesse gioie che sono e saranno della figlia.

    Terminate le parole del giovane, ecco prendere la parola la ragazza. In queste poche frasi l’esperienza narrata nel piccolo libro del Cantico raggiunge qui il suo vertice di intensità ed è la donna a proferirle. Qui le parole amore, morte, fuoco, eternità poste sulle labbra dei due giovani dicono tutto il bisogno e la sete di verità e addirittura di trascendenza dell’unione con l’amato.

    A lui chiede un impegno che da sempre coloro che si amano si domandano vicendevolmente: che il loro amore sia eterno, indistruttibile, e abbia il potere di sconfiggere tutto ciò che potrebbe mettergli la terribile parola fine. Questa richiesta di eternità, di indissolubilità, è iscritta nel cuore che ama, ne è caratteristica peculiare, gli è connaturale.

    Viene usata la curiosa immagine del “sigillo”. “Mettimi come sigillo sul tuo cuore… sul tuo braccio”. Per comprendere l’immagine occorre riandare all’uso antico da parte dei notabili di portare sempre con sé, pronto all’uso, il sigillo di autentificazione. Esso veniva appeso al collo con una preziosa catenella oppure portato al dito come anello. Anche la Legge santa, la Thorah, ha questa prerogativa: deve essere legata al braccio, posta sulla fronte, posta sugli stipiti delle porte. Essa infatti è sigillo e perenne memoria dell’alleanza di Jhwh con la sua sposa Israele: Porrete dunque nel cuore e nell’anima queste mie parole; ve le legherete alla mano come un segno e le terrete come un pendaglio tra gli occhi” (Dt 11,18).

    Il sigillo, con il quale la donna si identifica, deve essere posto anzitutto sul “cuore” dell’uomo. Il cuore per l’antropologia biblica è sede dell’intelligenza e dell’affettività. E’ il cuore perciò che regola pensieri e sentimenti ed è quindi sede dell’amore. Essere posta “sul cuore” significa che la donna chiede di essere oggetto di tutti i pensieri e affetti dell’uomo. Ma il sigillo è posto altresì “sul braccio”, al quale la ragazza è stretta. Il braccio sta ad indicare tutta l’attività dell’uomo, il suo lavoro e le varie occupazioni: la donna chiedendo di essere sul suo “braccio” sta domandando di essere presente all’amato in ogni istante, nel suo lavoro e nelle varie attività, di non essere mai dimenticata nonostante mille occupazioni.

    Dopo l’immagine del “sigillo” la donna sottolinea tre caratteristiche peculiari dell’amore: la sua insaziabilità, la sua indistruttibilità, la sua preziosità.

    L’amore vero possiede un’intensità “insaziabile”. Amore chiama amore in misura sempre più grande, infinita: il cuore dell’uomo non ne ha mai a sufficienza. In esso vi è un richiamo infinito, misterioso,  colmo di nostalgia e di attesa di un di più. Per descrivere questa “insaziabilità” viene usata l’immagine ardita dell’amore “insaziabile” come la morte, e della sua fiamma che non è mai sazia come lo Scheol. La morte non risparmia nessuno, non è mai sazia della sua opera distruttrice, e così anche gli inferi, lo Scheol, che inghiotte all’infinito i morti che vi discendono: esso non dice mai “Basta!” (cfr Pr 30,15-16). L’amore è perciò esigente come la morte stessa e il terribile Scheol.

    Un archetipo per descrivere l’ardore dell’amore è il fuoco che riscalda e consuma: “Le sue vampe sono vampe di fuoco”. L’amore è fiamma insaziabile che non si spegne: scalda il cuore e consuma l’amante di desiderio. La donna ricorda allo sposo queste fiamme indomabili, con un riferimento ulteriore a quelle fiamme potentissime, misteriose e quasi sacre che sono i fulmini, le “fiamme di Jah” (lett).

    Ma se l’amore è questo fuoco inestinguibile ciò significa che nulla lo potrà mai spegnere. Esso è indistruttibile. Le “grandi acque” fanno riferimento agli impetuosi torrenti impetuosi che travolgono tutto ciò che incontrano lungo il loro scorrere. Niente può separare due persone che si amano con un amore voluto da Dio. Se le “grandi acque” non possono travolgere l’amore significa che questo è saldo e non verrà mai meno. Questa solidità-fedeltà dell’amore è per la Scrittura caratteristica peculiare dell’amore di Jhwh per la sua sposa Israele.

    Infine l’amore vero è realtà di un valore inestimabile perché unico. Esso non si può mercanteggiare a nessun prezzo. L’amore che si vorrebbe comprare anche con le più grandi ricchezze sarebbe solo degno di disprezzo in quanto falso: esso per natura esige mutua gratuità. La dote potrebbe sì conquistare la mano ma mai il cuore. Il denaro rimarrà sempre impotente davanti al valore ineguagliabile dell’amore.

    Collatio

    Il Cantico dei Cantici è un inno all’amore e alle sue gioie. Potrebbe meravigliarci che un testo, in cui si accenna solo una volta e indirettamente a Dio, rientri nel canone dei libri rivelati. Eppure teniamo presente che tra i libri della Scrittura esso è stato il più commentato e meditato, soprattutto nell’ambiente monastico e dagli autori mistici. Vi si intuisce una ricchezza di esperienza straordinaria per “raccontare” la relazione di amore di Dio con l’umanità, di Cristo per la sua Chiesa, dell’anima per lo Sposo divino. Accostare il testo del Cantico dei Cantici al tema della verginità, sposalizio dell’anima con Dio, non dovrebbe perciò apparire poi così stridente.

    L’uso della parola “verginità” oggi non è così scontato. Infatti da una ventina d’anni, e anche nei documenti ufficiali, si preferisce purtroppo usare il termine più giuridico di “celibato”. Ma dobbiamo riconoscere che questo non ha la valenza totalizzante e la profondità che invece possiede il termine “verginità”. Questo a differenza dell’altro implica e coinvolge tutte le dimensioni dell’essere umano: corpo, mente, cuore, volontà e dunque va al di là del mero dato “fisiologico”, giuridico.

    Questa totalità di coinvolgimento che è richiesta nella verginità è la stessa totalità che viene vissuta nel rapporto amoroso ed esclusivo tra marito e moglie. La consacrazione nella verginità in questo senso è sicuramente il più “totalitario” tra gli impegni: ci si consegna al Signore che ci chiama ad una relazione particolare con tutto noi stessi, non trattenendo nulla.

    Se le “vampe di fuoco” dell’amore di cui parla la sposa nel Cantico hanno la capacità e la forza di incendiare tutto non risparmiando nulla, ciò dovrebbe verificarsi anche nella verginità: le “vampe di fuoco” dell’amore con cui Dio ci ama dovrebbero impregnare totalmente il consacrato senza nulla risparmiare. I mistici usano molto l’immagine dell’ “essere inceneriti” dall’amore di Dio; scriveva ad esempio san Paolo della Croce: “La lingua dell’amore è il cuore che brucia, si liquefà, si consuma, s’incenerisce in olocausto al sommo Bene” (Lettere 1,485).

    Nel libro del Cantico, e anche nel nostro testo, assume una grande rilevanza non solo la portata affettivo-spirituale dell’esperienza amorosa, ma anche il suo risvolto fisico, e l’autore sacro non teme di percorrere quest’aspetto in modo discreto facendo ricorso ad immagini velatamente erotiche per esprimere l’intensità fisica coinvolgente dell’amore. La corporeità viene così riconosciuta e accolta come dono del Creatore (le fiamme dell’amore non sono forse le “fiamme di Jah”?), la sessualità è cosa “buona”: è il Creatore che ha posto nel cuore dell’uomo e della donna la capacità e il desiderio di potersi unire in una sola cosa nel fuoco dell’amore. Il Cantico è perciò un inno al Creatore per il dono del corpo attraverso il quale l’uomo e la donna possono sperimentare il loro essere fatti per la comunione e la relazione.

    Il teologo Von Balthasar scriveva: “E’ necessario entrare con Cristo nel corpo, perché attraverso il corpo passa lo Spirito”. E’ un’affermazione forte che dovrebbe farci riflettere. In quanto consacrati siamo sempre tentati di interpretare la verginità in modo forse un po’ troppo angelico, disincarnato. Si vorrebbe accantonare, platonicamente, il corpo quasi fosse un ostacolo, uno scomodo e intrigante sovrappiù nel nostro cammino di consacrazione a Dio. La verginità, alla luce della rivelazione biblica, invece ci riporta fortemente ad un dato di fatto imprescindibile: essa abbraccia non solo le dimensioni spirituali, psicologiche dell’uomo e della donna ma coinvolge totalmente anche quelle fisiche. E’ il nostro corpo sessuato che viene consacrato; la consacrazione, verrebbe quasi da dire, possiede una “base fisica”. Questo significa lasciare entrare Cristo nella nostra carne, lasciare che sia il suo Spirito a prenderne totalmente possesso e a farne sua dimora: siamo “tempio dello Spirito che abita in noi” (cfr 1Cor 6,19). Nella verginità siamo chiamati a “glorificare Dio nel nostro corpo” (cfr 1Cor 6,12), dove la “gloria di Dio” sta a indicare il suo abitare in noi e l’avvolgerci totalmente con la sua presenza. Tutto questo implica, per usare una straordinaria espressione del poeta francese Paul Claudel, un “evangelizzare la carne”.

    Il corpo verginale diviene luogo di comunione con Dio e con i fratelli e le sorelle. Il vergine “evangelizzato nella sua carne” è uomo e donna che vive l’amore: il suo cuore è consegnato interamente a Dio in modo esclusivo, ma in Dio egli diviene capace di incontro e di dono per tutti. Nella persona vergine la capacità di amare non viene perciò spenta, annientata, ma in certo qual modo incrementata all’ennesima potenza. Nell’enciclica “Redemptor Hominis” Giovanni Paolo II ricorda che: “L’uomo non può vivere meglio senza l’amore. Per se stesso resta un essere incomprensibile, la sua vita priva di significato se non riceve la rivelazione dell’amore, se non incontra l’amore, se non ne fa esperienza e se non lo fa suo, e se non vi partecipa fortemente”. Il consacrato non fa eccezione alla regola: la sua verginità è per l’amore o non avrebbe alcun significato. L’amore è l’oggetto del suo voto. Egli rinuncia certo alla relazione esclusiva e fisica del matrimonio, ma non alla capacità di amare che deve pervadere con le sue “vampe” tutto il suo essere.

    Ci si dona perciò a Dio in modo radicale, senza ambiguità o riserve (pena solo frustrazione e insoddisfazione) e questa relazione deve divenire unica ed esclusiva, “perla preziosa” di inestimabile valore. Siamo chiamati a coltivare con grande attenzione e cura il primato della relazione con Dio fatta di preghiera, ascolto, contemplazione di modo che le “grandi acque” non lo possano mai travolgere. Anche noi, come la donna del cantico, abbiamo bisogno di appartarci nel “deserto” con Dio perché se questo primato cessasse il cuore rischierebbe di “prostituirsi” pur magari rimanendo “celibi”.

    La consacrazione, come il matrimonio, non è mai una realtà già compiuta, non giunge mai alla pienezza perchè l’amore non può porre confini: così la consacrazione esige un cammino continuo di “verginizzazione” (J.M. Salvaverri), in cui, giorno dopo giorno, nella fedeltà a volte sofferta, consegniamo tutto ciò che siamo allo Sposo. Certo vi è un prezzo alto da pagare per questa fedeltà e consegna, ma non scordiamo che la stessa cosa vale anche per la relazione nel matrimonio in cui i cuori degli “sposi” sono invitati a rimanere “vergini” nella loro mutua e fedele consegna.

    In Dio quell’attesa e desiderio, che ci abita, di un amore “forte come la morte” e “insaziabile come gli inferi” è una promessa che non ci deluderà. Ma non dimentichiamo che è lui per primo che ci ama di questo amore “insaziabile”. “Ho sete!” grida Gesù dalla croce: sete di amore e sete di amare. E questo amore che si riversa gratuitamente sulla nostra vita ci trasfigura a sua immagine così che ne diveniamo “sigillo”. Un antico proverbio arabo recita: “L’amore è fuoco: ovunque sia lo vedi da lontano”: la verginità può proclamare e  testimoniare al mondo la verità dell’amore di Dio ed esserne un fuoco che si vede di lontano.

    Oratio

    Dall’alto della croce, Signore Gesù, gridi: “Ho sete!”. Hai sete insaziabile d’amore e d’amare. Le “vampe di fuoco” d’amore che divorano il tuo cuore vogliono incendiare, da quel scomodo letto nuziale, il mondo intero.

    Ma tu sai come spesso il nostro cuore è freddo e chiuso. Siamo così poveri d’amore. Restii a lasciarci incendiare da te. Ripiegati su noi stessi troppe volte dimentichiamo che il cuore è realmente vergine quando semina l’amore con cui tu ci hai amato. Stentiamo a consegnarti senza riserve il cuore: ne vorremmo trattenere un po’ per coltivare l’hobby dei nostri affetti meschini e talvolta disordinati. Abbiamo paura delle esigenze dell’amore, di una verginità che non domandi nulla se non di potersi consumare nel fuoco del donarsi fino in fondo.

    Donaci allora di inginocchiarci, con la nostra povertà e il nostro peccato, ai piedi della croce contemplando la verginità trasbordante d’amore del tuo cuore trafitto. Trafiggi con la lancia il nostro perché ne sgorghi il pentimento e la lode, il desiderio infuocato di spenderci per te e la tua gloria. Che la tua ferita d’amore purifichi in noi ogni affetto che ci distoglie da te, che ci allontana dalla passione per te, che deturpa il “sigillo” che tu hai posto sul tuo cuore e tra le tue mani trafitte e che dovrebbe portare la tua immagine perfetta di Sposo.

  • 12 Feb

    Fa’ che io veda!

    Lectio di Marco 10,46-52

    di p. Attilio Franco Fabris

    E giunsero a Gerico. E mentre partiva da Gerico insieme ai discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, cieco, sedeva lungo la strada a mendicare.
    47 Costui, al sentire che c’era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!».48 Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».
    49
    Allora Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». E chiamarono il cieco dicendogli: «Coraggio! Alzati, ti chiama!».50 Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.
    51
    Allora Gesù gli disse: «Che vuoi che io ti faccia?». E il cieco a lui: «Rabbunì, che io riabbia la vista!». 52 E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato».
    E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada.

    L’etimologia della parola “luce” (rad. luk=splendere) trova le sue antiche radici  nell’esperienza colma di stupore e gioia con cui l’uomo contempla lo splendere del sole, il sorgere dell’alba, l’apparire del lampo luminosissimo e della fiamma che divampa nella notte. Simbolo positivo di vita e di ciò che è ineffabile la luce è divenuto uno dei simboli più utilizzati dalle religioni; anche nell’ambito biblico, per parlare di Dio e della vita che scaturisce da lui viene usata spessissimo la simbologia della luce. Il buio e le tenebre rientrano invece nella sfera della morte, del caos e quindi per analogia del male. Nell’inno delle lodi del mercoledì la liturgia fa cantare la Chiesa con queste parole: “Notte, tenebre e nebbia / fuggite, entra la luce, / viene Cristo Signore. Il sole di giustizia / trasfigura ed accende / l’universo in attesa… Salvatore dei poveri, / la gloria del tuo volto / splenda su un mondo nuovo”. Il tema pasquale di “Cristo luce del mondo” vincitore di ogni notte ritorna spessissimo nella Liturgia delle Ore del mattino, quando uscendo dalla notte veniamo richiamati ad accogliere quella Luce intramontabile che è lo stesso Cristo e a lasciarcene illuminare. La luce di Cristo è dono che scaturisce dalla fede, che nata dall’ascolto conduce al battesimo che è vera e propria immersione nella luce pasquale: “E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo.” (2Cor 4,6).

    Questa luce che “rifulge nelle tenebre” è fonte di speranza e di consolazione per tutti. Ne abbiamo bisogno perché stiamo attraversando un tempo contrassegnato da una sorta di persistente stato crepuscolare di “tenebra e nebbia” in cui fatichiamo a scorgere la luce di un’alba nuova. Crepuscolo – da discernere se di tramonto o di alba! – in cui tutto sembra farsi indistinto, relativo e si fatica a intravedere la giusta direzione e i contorni esatti delle cose. Crepuscolo nel quale, anche come comunità cristiana, saremmo tentati come il cieco Bartimeo di sederci al bordo della strada a mendicare un senso che stentiamo a trovare.

    Ormai le “liturgie laiche delle ore” sembrano essere quelle della notte in cui tutto si confonde senza differenziazione con la conseguente “euforia del “tutto è lecito e relativo”. In queste “notti” senza “ombra di Dio” – che possono essere paradossalmente definite “bianche” – sono offerte e ricercate luci artificiali con cui si cerca, con una sorta di inconscia disperazione, d’illuminare esistenze ubriache che girano su se stesse senza meta. Allora la luce del giorno, lo splendore della verità, rischia di divenire insopportabile, portatrice com’è di tremende rivelazioni e disillusioni: “l’alba è per tutti loro come spettro di morte; quando schiarisce, provano i terrori del buio fondo” (Gb 24,17).

    Tuttavia anche da questo “buio fondo” della coscienza dell’uomo il gemito dello Spirito vuol far scaturire in noi un grido di preghiera, d’invocazione di una luce vera che porti con sé liberazione e pace per il cuore: “Nel giorno dell’angoscia io cerco il Signore, tutta la notte la mia mano è tesa e non si stanca” (Sal 76,3). In questo grido siamo sostenuti dalla silenziosa testimonianza di fratelli e sorelle che nella notte vegliano in preghiera sostenuti dalla promessa della parola del Signore che solo in lui la vita si apre al mistero: “È in te la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luce.” (Sal 35,10).

    Lectio

    Gesù, partito da Cesarea di Filippo, è in cammino verso Gerusalemme dove si compirà il suo destino di Messia sofferente. In questo tragitto verso la Città Santa una tappa obbligata per i pellegrini era l’antichissima cittadina di Gerico (v. 46) collocata sulle rive del Mar Morto e distante da Gerusalemme una trentina di chilometri. Anche Gesù, insieme a molta folla (v. 46) vi fa tappa per l’ultima volta.

    È in quest’occasione che avviene l’ultimo miracolo: la guarigione del cieco Bartimeo che serve da cerniera tra la cosiddetta fase galilaica del ministero di Gesù e quella conclusiva che si svolgerà a Gerusalemme. Il cieco bisognoso di guarigione per Marco rappresenta la comunità dei discepoli sorda alla parola della croce e cieca dinanzi alla sua rivelazione. Questo miracolo sta a esplicitare la necessità per i discepoli di una guarigione in ordine al “poter vedere”- ovvero comprendere – nel destino sofferente del Maestro non il fallimento ma il pieno annuncio della sua identità e missione. Ma veniamo al racconto.

    Un luogo di passaggio per  delle folle di pellegrini è, per i mendicanti, occasione da non perdere per racimolare qualcosa di cui vivere. Tra costoro vi è anche un cieco: Bartimeo (v. 46) ovvero letteralmente il “figlio di Timeo”. Marco ce lo presenta al bordo della strada di passaggio. È seduto perché il cieco non sa dove andare, egli non può che rimanere ai margini della vita.

    Bartimeo stende la mano “a mendicare” (v. 46) chiede ai passanti qualcosa di che sostenersi cercando di impietosirli dinanzi alla sua disgrazia. È questa una condizione di umiliazione condannata dalla tradizione che ammoniva: “Figlio, non vivere da mendicante. È meglio morire che mendicare” (Sir 40,28).

    Quando Gesù, noto come “il Nazareno” (v. 47), entra in Gerico la sua fama di profeta e taumaturgo l’ha già preceduto. Anche Bartimeo “sente” (v. 47) la notizia e in lui affiora una speranza. Nella sua notte l’annuncio della venuta di Cristo è in grado di accendere una luce di speranza. Non è forse dall’ascolto che scaturisce la fiducia e da questa un’invocazione di salvezza? “La fede dipende dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo” (Rm 10,17).

    Bartimeo si  indirizza a Gesù di Nazaret con un grido insistente: “gridava”! Sarà proprio la forza di questo grido a far cadere il muro della cecità di Bartimeo. Il “gridare” aiuto a Dio è una preghiera ben conosciuta nella sacra Scrittura nella quale l’uomo consapevole della propria insufficienza apre la bocca e il cuore in una supplica di salvezza: “Ascolta, Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me! Rispondimi!” (Sal 26,7; cfr Mt 15,23).

    Egli si rivolge al Nazareno con le invocazioni: “Figlio di Davide” (v. 47)  e successivamente  “Rabbunì (lett: mio signore)” (v. 51). Il titolo di “Figlio di Davide” è usato da Marco solo in questa occasione e sta a designare Gesù come il messia discendente di Davide venuto ad inaugurare il regno di Dio (cfr 2Sam 7,12-16). È al suo messia-servo che JHWH rivolge la sua parola: «Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre…Farò camminare i ciechi per vie che non conoscono,li guiderò per sentieri sconosciuti; trasformerò davanti a loro le tenebre in luce, i luoghi aspri in pianura. Tali cose io ho fatto e non cesserò di farle”  (42,6-7.16).  Nel suo discorso inaugurale a Nazaret Gesù aveva letto proprio il testo di Isaia che identifica se stesso con l’avvento del regno:Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista” (Lc 4,18). Ora Gesù, diversamente da prima, accetta l’acclamazione messianica a lui rivolta; può terminare il segreto messianico poiché il suo destino di sofferenza e morte è già deciso e non vi è più il rischio di fraintendere il suo modo d’essere messia.

    Al titolo di “Figlio di Davide” il cieco premette familiarmente anche l’invocazione del nome proprio di Gesù, il cui significato è “Dio salva” (cfr Rm 10,13; At 2,21). Bartimeo identifica la propria salvezza al nome di Gesù:  “In nessun altro nome c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo, nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12).

    Il cieco implora Gesù d’ “aver pietà di lui” (v. 47), espressione che rimanda al tema biblico della misericordia, del prendersi cura con viscere materne, da parte di Dio, dell’uomo e non in base ai meriti ma nella misura del suo bisogno: “Come un padre ha pietà dei suoi figli, così il Signore ha pietà di quanti lo temono” (Sal 102,13; 26,20; 30,15).

    Ma tra il grido fiducioso del cieco e Cristo si frappone una barriera costituita dall’intromissione di quella “folla” che sta accompagnando Gesù. Quali i motivi dei ripetuti tentativi di mettere a tacere Bartimeo (v. 48)? Forse le motivazioni potevano sembrare buone: tutti intenti al Maestro credono di fargli piacere impedendogli ogni disturbo. Costoro pretendono di relegare Gesù all’interno della loro cerchia, lo vogliono monopolizzare a proprio uso e consumo. Gesù non sta a queste pretese né tanto meno Bartimeo si lascia intimorire da queste voci esterne di benpensanti e devoti, obbedisce invece alla voce del suo cuore che lo incita a non desistere: “Signore, Dio della mia salvezza, davanti a te grido giorno e notte” (Sal 87,2). Il coraggio non è forse il contrario della paura divenendo sinonimo della fede?

    Gesù si “ferma” (v. 49), come si è fermato in tante altre occasioni dinanzi al grido e al pianto dei poveri. Proprio a Gerico egli si era già fermato una volta per incontrare, tra lo scandalo della folla, il pubblicano Zaccheo: Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua»” (Lc 19,5).

    Significativo è il fatto che la chiamata di Bartimeo passi proprio attraverso quella folla che voleva impedire l’incontro (v. 49). I presenti sono obbligati dal Signore a farsi mediatori tra lui e Bartimeo: essi sono forse l’immagine di una comunità segnata dal peccato, dalla durezza di cuore e dalla cecità di sguardo interiore ma che tuttavia rimane il mezzo per incontrare il Signore. L’appello fatto da costoro a Bartimeo è: “Alzati! Ti chiama!”. È il verbo tipico dei racconti di guarigione (5,41;9,27) che rimanda implicitamente al dono di una vita nuova, ovvero ad una risurrezione (16,6).

    La risposta di Bartimeo è immediata, quasi concitata, Tre verbi che dipingono la scena in modo vivo: “gettato il mantello, balzò in piedi, venne da Gesù” (v. 50). Vi è il riferimento esplicito all’abbandono del mantello, particolare apparentemente irrilevante se non fosse per il fatto che per il povero il mantello rappresenta tutti i suoi averi (cfr Dt 24,13; Lc 14,23; Mt 5,40; Mc 13,16; ).  Bartimeo, come i discepoli, abbandona ogni cosa alla chiamata di Cristo.

    A questo punto Gesù può impostare il dialogo col cieco e lo fa a partire da una domanda solo all’apparenza banale data la risposta scontata: “Che vuoi che io ti faccia?” (v. 51). E’ una interrogazione decisiva che si potrebbe tradurre con: “Che cosa vuoi realmente?”. Il suo intento è di far sì che Bartimeo diventi consapevole del proprio bisogno e, da mendicante qual è, non si affidi ancora una volta alla sola iniziativa altrui ma si assuma la responsabilità di chiedere in modo chiaro ciò di cui ha bisogno. Gesù non vuole compiere un generico gesto di pietà o carità ma desidera incontrare l’uomo. Un’ulteriore elemosina – fosse pure quella della guarigione della vista – non cambierebbe infatti l’uomo: lo stesso giorno il cieco guarito avrebbe chiesto qualcos’altro a qualcun altro per avere ancora di più, non uscendo così dalla sua perenne condizione di mendicante.

    La risposta di Bartimeo è puntuale: “Che io riabbia la vista!” (v. 51). Cosa chiede realmente Bartimeo? Sappiamo come il verbo “vedere” sia fondamentale nel linguaggio di Marco, la parola greca sta a significare non solo un generico poter “vedere” ma un “guardare in su” riferimento implicito al desiderio di trovare un senso alla sua vita. Al termine del suo cammino sarà chiamato a “guardare in su” contemplando il crocifisso: “guarderanno a colui che hanno trafitto” (Zc 12,10) e attraverso questa visione l’uomo “cieco” potrà finalmente vedere ciò che gli era nascosto, ovvero l’amore infinito di Dio. Gesù riconosce questa fede e disponibilità di Bartimeo la quale fa sì che l’effetto sia immediato:“E subito riacquistò la vista” (v. 52).

    Va’ la tua fede ti ha salvato” (v. 52): è l’affermazione chiave di Gesù che permette di interpretare correttamente il miracolo. Sono le stesse parole pronunziate da Gesù nei confronti della donna che l’aveva toccato di nascosto per essere guarita (cfr 5,34). Esse significano che la guarigione più profonda, che si identifica con la salvezza della totalità dell’uomo e non con la guarigione di un solo organo fisico, è in ordine all’incontro e all’esperienza di salvezza che scaturisce da Cristo. La fede ha ottenuto a Bartimeo non solo e anzitutto una guarigione fisica, ma soprattutto la grazia di incontrare Cristo e di sperimentarlo come luce per la sua vita. Ora non gli è più possibile dirigersi altrove (cfr Gv 6,68): “Prese a seguirlo per la strada” (v. 52). La vita di Bartimeo  esce cambiata radicalmente dall’incontro con il “Figlio di Davide”, egli può risorgere dall’immobilità e affrontare la strada ovvero la vita in sua compagnia. Rimanendo all’ascolto della parola proseguirà in una sequela impegnativa che lo condurrà alla visione del crocifisso del Golgota dove col centurione potrà professare la pienezza della fede: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15,39).

    Meditatio

    Il primo atto creatore di Dio è la creazione della luce che viene separata dalle tenebre e dall’abisso del caos (Gn 1,3s). Le creature possono in tal modo “venire alla luce”, essere portate all’esistenza nella loro bellezza e bontà, in armonia le une con le altre. Anche il termine della storia della salvezzaè contrassegnato dal dono di una luce intramontabile che avvolgerà la nuova creazione, questa luce si identifica con Dio stesso: “La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello” (Ap 21,23; cfr 1Gv 1,5).  Volontà di Dio è dunque che l’uomo partecipi, ora mediante la fede e poi in visione, di questa luce che “non conosce tramonto” (1Gv 1,5), in altri termini che entri in comunione eterna di vita con lui. È questo un atto di misericordia e di amore gratuito da parte del Creatore: “ringraziamo con gioia il Padre che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce” (Col 1,12).

    La nostra storia si trova a sostenere un conflitto con le tenebre, ovvero tra morte e vita, tra menzogna e verità L’etimologia della parola “cecità” è “involucro, copertura”, ovvero situazione nella quale all’uomo non è dato di aprirsi alla luce e l’uomo dopo il peccato si trova in certo qual modo avviluppato come Lazzaro in queste bende della morte (cfr Gv 11,44) in attesa di una parola liberatrice capace di portarlo nuovamente alla luce della verità e della vita. Opera del male è rendere l’uomo cieco, avviluppandolo in suo potere e ripiombandolo in un destino di caos e di morte, di assenza di luce. Straordinaria nella sua bellezza e simbolicità la statua barocca della cappella Sansevero di Napoli rappresentante il “Disinganno” di Francesco Queirolo, che riproduce un uomo che si libera ansiosamente da una rete con l’aiuto di un piccolo genio: statua che ben rappresenta l’uomo che ricerca con fatica e angoscia una possibilità di liberazione da tutti i lacci di inganno che lo accecano e imprigionano. All’uomo da solo è impossibile trovare salvezza, occorre un aiuto come nel caso dell’opera del Queirolo.

    Per Bartimeo cieco tutto è notte, ovvero esperienza anticipata di morte. Egli vive questa situazione aggrovigliato nel suo mantello, sperimentando in anticipo una morte che lo tiene imprigionato ai margini della vita come un mendicante: salvezza per lui è l’attesa e la speranza di una parola di liberazione che insieme alla luce gli ridoni la dignità e la vita di cui sente di aver diritto. Non siamo fatti per le tenebre-morte ma per la luce-vita e l’invocazione gridata di Bartimeo esprime bene la coscienza dell’uomo che si ribella ad uno stato di cose che avverte non suo: “voi tutti infatti siete figli della luce e figli del giorno; noi non siamo della notte, né delle tenebre” (1Tess 5,5). Non sperimentiamo forse il male come una groviglio di oscurità, che ci blocca, disorienta e ci impedisce di camminare? È vera in questo caso l’espressione che fuoriesce dalle labbra di Giobbe: “Di giorno gli empi incappano nel buio e brancolano in pieno sole come di notte” (Gb 5,14).

    Salvezza è prendere coscienza del nostro destino fatto per la luce non scendendo a patti con rassegnazioni che ottenebrano questa consapevolezza. Ma non è facile se già nel libro dell’Apocalisse alla chiesa di Laodicea viene detto di fare attenzione a non cadere nell’illusione di saper già vedere abbastanza: “Tu dici: «Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla», ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo. Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, vesti bianche per coprirti e nascondere la vergognosa tua nudità e collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista” (Ap 3,17-18). Vivere in un’illusione di autosufficienza equivale a decretare la nostra situazione di cecità: significherebbe rimanere seduti ai margini della strada, sordi e ciechi alla Buona Notizia. Accogliere questa luce significa invece credere, cioè essere salvi: “il Signore Dio li illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli” (Ap 22,5). Ciò che salva Bartimeo è dunque la sua consapevolezza e il suo grido carico di speranza!

    Se l’uomo che “giace nelle tenebre e nell’ombra della morte” (Lc 1,79; cfr Mal 3,20; Is 9,1; 42,7) invoca luce sulla sua vita, sul senso del vivere e del morire, del soffrire e del gioire, Cristo gli è donato come luce intramontabile e sicura. Egli può avanzare questa pretesa in quanto è Parola di Dio fatta carne: Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (8,12). Parola che donata ad Israele e al mondo è offerta quale lampada per camminare nei sentieri della vita: “lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino”(Sal 118,105). È luce che si offre alla libertà dell’uomo e non gli si impone da cui la possibilità che l’uomo chiuda la finestra a questa luminosità. Scrive sant’Ambrogio a questo proposito:  “Ma se uno avrà chiuso le finestre, si priverà da se stesso della luce eterna. Allora, se tu chiudi la porta della tua mente, chiudi fuori Cristo” (Commento al Salmo 118). Infatti questa stessa luce viene osteggiata da tutte le “potenze di tenebra e di male” che rifiutano la verità di Dio: “la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta” (Gv 1,5; cfr 13,30; Lc 22,53). E’ questo un dato che riscontriamo anche nel nostro racconto proprio in quella folla che vorrebbe impedire l’incontro di Bartimeo con Gesù. E’ una folla cieca, anche se apparentemente sta seguendo Gesù, che però in definitiva rifiuta il suo cammino verso Gerusalemme, vorrebbe infatti che intraprendesse un’altra direzione, facesse altre scelte.

    Ciascuno si trova così a dover scegliere da che parte stare: se accogliere lo splendore della verità che, come sul Tabor, rifulge sul volto di Cristo accogliendo la grazia della sua alleanza che ci rende “figli della luce”,  oppure indurirci nella sordità alla Parola e nella cecità nei confronti della rivelazione scegliendo di restare “figli di questo mondo” (cfr Lc 16,8; Ef 4,18). E’ una battaglia che si svolge quotidianamente nel cuore di tutti noi: la avvertiamo nella fatica, nella resistenza nell’accogliere la luce della verità della Parola di Dio sulla nostra vita, preferendo spesso l’illusione di essere illuminati dalle luci fioche e artificiali dei nostri criteri e giudizi. Dovremmo sempre chiedere la grazia e il coraggio di lasciarci illuminare: “Ti ringraziamo di averci illuminati con lo Spirito che procede da Te e dal Figlio tuo, fa’ che ci saziamo della sua luce per tutta la lunghezza di questa giornata” (lodi del Giovedì).

    Le parole e i gesti di Bartimeo esprimono bene il suo cammino di fede; egli si apre fiducioso sin dall’inizio all’accoglienza della luce della Buona Notizia di Gesù di Nazaret per giungere alla fine alla decisione di porsi alla sequela di lui scoperto come luce irrinunciabile della propria vita. Bartimeo diviene in tal modo perfetto modello di discepolato. Il mantello è abbandonato: ovvero viene liberato da ogni groviglio di oscurità e rimpianti e false sicurezze; egli compie, superando ogni ostacolo, la sua scelta senza esitazione, in fretta perché non c’è tempo da perdere in ordine alla salvezza: “Gesù allora disse loro: «Ancora per poco tempo la luce è con voi. Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre; chi cammina nelle tenebre non sa dove va»” (Gv 12,35).

    Non ci resta che ringraziare la misericordia di Dio e la gratuità del suo amore che ci ha raggiunti e ci ha “chiamati dalle tenebre alla sua mirabile luce” (1Pt 2,9). Grazia che ha trovato il suo sigillo sacramentale del giorno del nostro battesimo chiamato nella chiesa antica anche “illuminazione”. La luce attinta al cero pasquale, il Cristo risorto, ci è stata consegnata e sarà nostra premura impedire che essa si estingua per mancanza di olio (cfr Mt 25,8; Ebr 6,4). La parola di Dio ascoltata e assimilata farà sì che la fiamma non si spenga nel cuore e che essa illuminandoci ci renda ogni giorno più discepoli.

    È l’esperienza di Bartimeo che ricevuto il dono dell’illuminazione “prese a seguire Gesù per la strada”. Una sequela esigente che vedrà i discepoli rifiutare di continuare a vedere (cfr Mc 14,40) e che lo porterà ai piedi della croce dove la fede giungerà al suo vertice come visione di luce che scaturisce dalla croce: chi “guarda in alto”, chi “contempla” Gesù sulla croce, “vede” ciò che il centurione ha visto: la gloria che rifulge sul volto del “Figlio di Dio” (cfr Mc 15,39).

    Oratio

    Gesù chiede al cieco: “Cosa vuoi che io ti faccia?”. E’ la domanda che egli pone ora anche a ciascuno di noi. Chiediamo che la riposta sia la medesima: “”Rabbunì, che io riabbia la vista!”. Ovvero chiediamo il dono di “saper vedere”, il dono di una visione che scaturisca dalla fede in lui crocifisso e risorto e che ci guarisca da tutte le nostre cecità, dai nostri sguardi miopi, dalle nostre false visioni che ci impediscono il cammino. Si tratta di rinnovare il dono della luce che ci è stata data il giorno della nostra “illuminazione”, ossia del nostro battesimo.

    Ci piace terminare questa lettura biblica ricordando un personaggio straordinario nella sua semplicità che ha saputo vivere di questa luce interiore: Fratel Ave Maria, eremita della congregazione fondata da don Luigi Orione. Era nato il 24 febbraio 1900 a Pogli di Ortovero (SV). Un giorno mentre giocava in paese con alcuni coetanei per un involontario colpo di fucile ritenuto dai bambini scarico, sparato dall’amico Bartolomeo Vignola, diventò cieco. Ospitato in un istituto di Don Luigi Orione dopo aver superato una crisi di fede sentì nascere in sè la vocazione. Nel 1923, entrò tra gli Eremiti ciechi della Divina Provvidenza  e venne destinato all’ Eremo di S.Alberto di Butrio (PV) dove, rivestito l’abito religioso prese il nome di Frate Ave Maria. Il segreto della santità di Frate Ave Maria, si può comprendere in queste poche parole che pronunciò appena dopo la vestizione religiosa: “Io non ho altro desiderio se non quello di adempiere sempre la santissima volontà di Dio. Questo è il solo desiderio che mi rende felice“. La lunga sofferenza accompagnata da una profonda esperienza meditativa, la saggezza delle sue parole attirarono su di lui la venerazione di tante anime di cui divenne quasi un faro di luce capace di aiutare ad orientarsi nella vita. Soleva ripetere: “Io, povero e ignorante peccatore, sono solo capace di pregare e di essere felice. Non ho niente e sono felice, ho solo una cosa: l’amore verso Dio. Io sono capace di due cose soltanto: parlo di Gesù alle anime, o parlo alle anime di Gesù“. Muore il 21 gennaio del 1964.

    Di lui riportiamo la preghiera che compose in occasione del cinquantesimo anniversario della sua cecità. Le sue parole ben si collocano all’interno della nostra riflessione e preghiera: “Convertisti in luce le mie tenebre ed in gioia la mia tristezza, sicché la mia è veramente una luminosa e deliziosa notte, perché l’unica mia luce, l’unica mia gioia sei tu solo, o Gesù Figlio di Dio”.

  • 03 Feb

    Open Land Art 2009 a Borzone

    Open Land Art secondo quanto recita il titolo stesso, è “arte aperta”. In molti sensi: in primo luogo perché le opere sono distribuite all’interno di un ampio parco naturale, secondariamente perché la rassegna è veramente “aperta” a quanti hanno qualcosa di significativo da dire. Il visitatore si troverà confrontato non solo con le opere, ma anche con un luogo incontaminato e denso di storia, in cui il tempo sembra essersi fermato. L’ampio spazio in cui le opere saranno installate è un territorio vissuto, in cui il lavoro dei campi si intreccia, in modo sorprendente e naturale, con questa iniziativa che vuole mettere a contatto diretto artisti, operatori del mondo dell’arte e semplici appassionati dell’espressione umana. Nata con l’intento di rendere l’arte accessibile a tutti, la rassegna, che si estenderà in un territorio agricolo-boschivo di oltre 50.000 metri quadrati in Località Borzone, è ad ingresso gratuito e resterà aperta per tutta l’estate dal 26 luglio al 26 settembre. Open Land Art ha l’ambizione, come ben indicato nel titolo, di essere “arte aperta”: le modalità espressive degli artisti, che si troveranno ad interagire con gli ampi spazi del territorio e con una natura ancora estremamente fresca e incontaminata, saranno molto diversificate e rappresenteranno molte delle tendenze dell’arte contemporanea. La caratteristica del luogo è oltremodo importante poichè in questo luogo sorge l’antica e superba abbazia di Borzone. Qui i Bizantini eressero al tempo della “guerra gotica”, nella prima metà del VI sec., un baluardo difensivo sede di un distaccamento militare, a presidio di un itinerario transappenninico che dalla regione rivierasca conduceva in Val Padana. Quando e da chi sulle rovine della fortezza bizantina fu edificata la chiesa con annesso monastero col titolo di Sant’Andrea continua ad essere motivo di incertezza e discussione storica. Il documento che menziona per la prima volta il monastero di Borzone è una bolla del 1120 di papa Callisto II (1119-1124) che ne conferma il possesso all’Abbazia di San Pietro in Ciel d’Oro di Pavia, ma molti indizi inducono a ritenerlo di fondazione più antica.Se tali ipotesi corrispondono a verità, anche il suo assoggettamento alla ricca e potente abbazia di Pavia potrebbe risalire alle origini, nella prima metà dell’VIII sec., ad opera re longobardo Liutprando (712 – 744) L’abbazia stessa essendo opera d’arte indiscussa è l’emblema, il logo maestoso che indicherà l’inizio del percorso dove la plasticità delle forme dell’opera scultorea, sia essa di carattere figurativo o astratto, troveranno nel confronto con gli elementi di natura (tronchi secolari, distese di prati, zone boschive) un motivo ulteriore di espressione e di declinazione della propria presenza. Gli Artisti Sono complessivamente una decina gli artisti italiani ed europei che saranno presenti in mostra questa prima edizione (l’elenco definitivo sarà disponibile entro la metà di giugno). Concerto A segnare la cadenza della giornata di inaugurazione saranno proprio le campane dell’antica Abbazia che eseguiranno una sinfonia appositamente scritta per l’occasione e mai altrove presentata, dai compositori di musica contemporanea Philip Corner e Valerio R. Pizzorno .

  • 02 Feb

    La Via dei monaci

    di Pietra Martina

    Un antico itinerario percorso dai pellegrini valorizzato dalla Provincia di Genova

    Francesco Gambino

    In occasione del Giubileo del 2000 e nel quadro di una serie di iniziative volte a valorizzare il patrimonio culturale e storico del proprio territorio, la Provincia di Genova ha promosso, con l’iniziativa Sentieri della Memoria, la conoscenza e la valorizzazione di due percorsi utilizzati nell’antichità da pellegrini e viandanti. Lo ha fatto realizzando e distribuendo, con la collaborazione della sezione genovese dell’Associazione Italiana Cultura e Sport, un’originale brochure contraddistinta da un logo raffigurante un pellegrino in marcia e contenente: un passaporto da convalidare in appositi punti-tappa, la mappa del percorso e diverse schede con immagini a colori e notizie storico-artistiche. I punti più importanti del percorso sono stati poi segnalati con appositi cartelli informativi. L’invito era chiaro: stimolare cittadini e turisti a ripercorrere lento pede quelle antiche tracce e conoscere così località, beni storici e artistici spesso poco conosciuti.
    L’itinerario proposto si sviluppa nel levante del territorio provinciale e può essere considerato come una delle numerose diramazioni di quell’importante rete di vie di comunicazione costituita dalla Via Francigena, percorsa a partire dall’XI secolo da migliaia di pellegrini diretti a Roma.
    Fu in questo periodo infatti che si diffuse il pellegrinaggio verso i più importanti luoghi di culto della cristianità, con la nascita di importanti vie di comunicazione che dal nord Europa portavano verso il sepolcro di Cristo in Terra Santa, le tombe degli apostoli Pietro e Paolo a Roma e verso Santiago di Compostela in Galizia dove erano conservate le spoglie dell’apostolo Giacomo (Santiago in spagnolo). Su questi itinerari sorse una costellazione di chiese, monasteri, luoghi di sosta con hospitalis che costituiscono tuttora un immenso patrimonio di arte e cultura.
    Una delle direttrici più importanti era proprio la Via Francigena, così denominata perché attraversava la Francia nel suo lungo percorso da Canterbury verso Roma. In realtà, più che di una via, è forse più corretto parlare di un’area di transito, un insieme di itinerari che da nord convergevano a sud scavalcando le Alpi attraverso i valichi del Moncenisio e del Gran San Bernardo.
    La via dei monaci di Pietra Martina inizia nel territorio di Rezzoaglio, in Val d’Aveto, e giunge sulla costa a Chiavari, passando per i territori di Borzonasca, Mezzanego, San Colombano Certenoli, Carasco e Cogorno. Il suo itinerario originario saliva a Villa Cella da Rezzoaglio e proseguiva poi per il passo delle Rocche e, toccando le frazioni di Temossi e Caregli, scendeva direttamente a Borzonasca. Da qui giungeva poi a Chiavari passando per Carasco e la località di Ri.
    Il percorso prende il nome dalla località di Petramartina, dove nel 1103 frate Alberto e altri sette monaci benedettini del monastero di San Pietro in Ciel d’Oro di Pavia fondarono un piccolo cenobio dedicandolo a San Michele (sostituito nel 1655 con San Lorenzo). La piccola cella monastica fu collocata nella zona in cui oggi sorge il borgo di Villa Cella (da cui il toponimo), in prossimità del Passo delle Rocche, dove l’antica strada che da Rezzoaglio portava alla Valle Sturla e poi al litorale superava il crinale: ciò a dimostrazione dell’importanza di queste vie di transito appenniniche che da un lato portavano verso il pavese e dall’altro verso la Valle Sturla e la costa.
    L’insediamento monastico era compreso nel territorio della Corte di Alpepiana, anch’essa dipendente dal monastero pavese, verso il quale i monaci si erano impegnati a versare annualmente 20 soldi, 20 forme di formaggio e 20 libbre d’olio. Proprio la produzione dell’olio, ricavato da possedimenti terrieri sulle alture di Rapallo, dimostra i rapporti della cella con l’area costiera. Il fatto poi che Gerardo di Cogorno sia stato abate di Sancti Michaelis de Petramartina nel 1232 e successivamente del monastero di Sant’Andrea di Borzone nel 1244 conferma i collegamenti tra la Val d’Aveto e la Valle Sturla.
    L’insediamento religioso si caratterizzò non solo per l’attività di assistenza a pellegrini e viandanti, ma anche per quella relativa alla cura del territorio: agli stessi monaci benedettini sono attribuiti lo svuotamento e la bonifica del lago-palude che occupava la piana di Cabanne, un tempo feudo dei Della Cella, famiglia che si sostituì ai de Meleto ricoprendo un ruolo primario nel controllo dei traffici commerciali della zona.

    Punto di partenza dell’itinerario è Rezzoaglio, centro turistico dell’alta Val d’Aveto. Citato per la prima volta nel 1211 in un documento di permuta con la locale famiglia dei de Meleto, fu feudo dei Malaspina per investitura di Federico Barbarossa.

    Da qui l’itinerario originario saliva a Villa Cella, dove i resti dell’insediamento religioso fondato dai monaci pavesi sono ancora oggi riconoscibili anche se inglobati nella costruzione di un mulino ad acqua attivo fino al dopoguerra. Toccando poi le frazioni di Temossi e Caregli, scendeva direttamente a Borzonasca.
    Antico centro dell’alta Valle Sturla, Borzonasca conserva nel suo territorio uno dei più importanti complessi monastici medievali e una delle più antiche fondazioni benedettine della Liguria: l’abbazia di Sant’Andrea nella località di Borzone, lungo quell’importante via di comunicazione che collegava le antiche saline di Chiavari alla Val Padana. La sua fondazione trova origine nell’impulso del re longobardo Liutprando che, alla fine del VII secolo, affidò ai monaci di Bobbio la costruzione del monastero. L’abbazia fu eretta così nel 1184 dal benedettino Ugone della Volta ed è monumento nazionale dal 1910. La sua attuale struttura, con la caratteristica torre quadrata, risale alla ricostruzione avvenuta nel 1244 e che una lapide sulla parete est della torre attribuisce al già citato abate Gerardo di Cogorno.
    Nei pressi di Borzonasca, nella frazione di Levaggi, è possibile vedere l’Oratorio di N.S. del Perpetuo Soccorso che presenta tuttora le caratteristiche tipiche dell’hospitalis per pellegrini: portico ad ampie arcate e corpo centrale allungato per l’ospitalità e il riparo notturno, con il piano superiore probabilmente destinato al ristoro e alla degenza dei malati.
    La via dei pellegrini continua toccando le località di Borgonovo e Prati, entrambe frazioni di Mezzanego, centro abitato della valle Sturla che vanta nel suo territorio numerosi ponti medievali che, insieme agli ospedali, erano strutture fondamentali per il transito dei pellegrini. Spesso, nel Medioevo, lo stesso termine ponte aveva un significato più ampio di quello attuale, indicando un complesso di strutture ricettive situate accanto o nei pressi dello stesso ponte costruzione. Si ipotizza che una di queste strutture possa rinvenirsi proprio a Prati di Mezzanego dove un’antica costruzione in pietra fa corpo unico con il ponte costruito sul Rio Carnella.
    Proseguendo si entra nel territorio di San Colombano Certenoli, borgo cresciuto in epoca romana intorno al monastero benedettino intitolato proprio a San Colombano, il monaco irlandese fondatore nel 614 del monastero di Bobbio.
    Il tragitto tocca poi Carasco, centro di convergenza di diversi itinerari tra la riviera e la catena appenninica e importante nodo commerciale durante il Medioevo. Posseduto in parte dal monastero di San Giovanni di Pavia, Carasco conserva nelle sue frazioni numerose testimonianze di insediamenti religiosi. Poco prima del paese, situata sulla sponda sinistra del torrente Sturla, sorge la chiesa di Santa Maria di Sturla (detta di San Pellegrino) già citata in documenti risalenti al 1253. Nella località di Comorga sono rinvenibili invece i resti -di epoca anteriore al X secolo- di uno dei primi insediamenti bobbiesi della zona.
    Di rilievo è poi la Prioria di Graveglia, situata alla confluenza dell’omonimo torrente in una località che figurava già intorno al Mille su diplomi imperiali e bolle pontificie. Dal XIV al XVI secolo la giurisdizione su Graveglia fu affidata all’Abbazia di Borzone, retta dai monaci benedettini francesi di Clermont. Oltre Carasco, nella frazione di San Lazzaro, sorge l’omonima cappella con annesso hospitale fondata dalla famiglia dei Fieschi e ricordata nel testamento del cardinale Luca Fieschi del 1252.
    Una deviazione verso levante porta alla Basilica dei Fieschi nella località di San Salvatore di Cogorno, uno dei più importanti e meglio conservati monumenti romanico-gotici della Liguria fatto erigere nel 1245 da Sinibaldo Fieschi dei Conti di Lavagna (poi Papa Innocenzo IV) e ultimato dal nipote Cardinale Ottobono Fieschi, poi Papa Adriano V.
    Proseguendo in direzione del litorale e di Chiavari, l’itinerario tocca il luogo dove sorgeva l’antico borgo di Ri con la chiesa-ospedale di Maria Maddalena: i resti della pieve medievale sono ora incorporati in un abitazione privata. Nella zona, caratterizzata dalla presenza dell’Entella e ricordata anche da Dante nella Divina Commedia, erano presenti anche altre strutture religiose destinate all’assistenza dei viandanti come l’hospitale di San Cristoforo e, sulla collina che separa Chiavari da Zoagli, l’importante Santuario di Nostra Signora delle Grazie. Edificato alla fine del XIV secolo, l’edificio presenta in facciata il caratteristico porticato simbolo dell’antica funzione di ricovero e riparo.
    I numerosi edifici religiosi costituiscono un ricchissimo patrimonio architettonico e storico della stessa Chiavari, importante centro costiero del levante genovese di origini antichissime. Risale infatti al 1959 la scoperta di una necropoli protostorica, testimonianza della presenza di un insediamento organizzato sulle sponde del Rupinaro già 2700 anni fa. Nodo stradale in epoca romana, la cittadina è attraversata dai caratteristici porticati medievali.
    La sua chiesa più antica è quella di San Giacomo di Rupinaro, originaria del VII secolo, più volte distrutta e ricostruita. Il suo nome originario era San Giacomo dell’Arena, a conferma che prima del 1300 la località probabilmente si affacciava su una spiaggia e che il mare giungeva fin quasi ai piedi della collina. Poco distante sorgeva un altro edificio con funzioni di assistenza, l’hospitale di San Giacomo di Rupinaro: ulteriore testimonianza che queste località rappresentarono luoghi di transito su quei lunghi e faticosi itinerari percorsi dai pellegrini verso le loro mete devozionali.
    Queste vie divennero poi grandi arterie di comunicazione e favorirono la circolazione di uomini, conoscenze, idee e tradizioni, stimolando un fervido scambio culturale tra le genti d’Europa e lo sviluppo di traffici e relazioni commerciali.


  • 01 Feb

    Il Santuario della Madonna

    del Monte di Mulazzo (SP)

    e in monaci di Borzone


    ll santuario della Madonna del Monte risale al XII secolo quando i monaci benedettini dell’abbazia di Borzone crearono un priorato dedicato alla vergine. L’edificio, a 970 metri d’altezza, isolato da folti boschi, è in stile romanico. Il portico ed il campanile in fronte rimandano allo stile di alcune costruzioni francesi. All’interno, dietro l’altare è incisa sul muro la data del 1302, ritenuta da molti l’anno della fondazione, ma probabilmente data dell’ampliamento della cella benedettina. Altre due date sono presenti nel santuario: una del 1502 ai piedi di un bassorilievo raffigurante la Madonna col Bambino e un’altra del 1505 incisa sull’architrave della porta. I monaci vi rimasero fino all’inizio del XVI secolo e poi lo lasciarono, per tornare all’abbazia di Borzone, a sua volta venne abbandonata nel 1536. Nel 1548 il marchese Ottaviano Malaspina di Mulazzo ne divenne proprietario. Seguirono anni di incuria e di abbandono, fino al 1887, quando un decreto della S. Congregazione del Concilio diede il santuario, come cappellania, alla parrocchia di Pozzo. Negli ultimi tempi è stato ristrutturato il porticato romanico, l’interno, l’esterno e l’antica prioria.

    Il santurio della Madonna del Monte