Il vino vecchio è più buono?
Lectio di Lc 5,36-39
di p. Attilio Franco Fabris
La moglie di Lot è presa dalla nostalgia quando, per salvarsi, è costretta a fuggire dalla città di Sodoma. Deve abbandonare la sua casa costruita con tanti sacrifici e tutte le sue cose (cfr Gn 19): la partenza imposta dai messaggeri divini è immediata, senza dilazioni di sorta. La donna non vorrebbe partire così nel cuore della notte, desidererebbe starsene ancora tranquilla fra le sue mura,nonostante l’ammonimento sia grave: la città sarà distrutta: “Dopo averli condotti fuori, uno di loro disse: «Fuggi, per la tua vita. Non guardare indietro e non fermarti dentro la valle: fuggi sulle montagne, per non essere travolto!»” (Gn 19,17). La sventurata donna in un impeto di nostalgia non può però dopo aver fatto pochi passi non girarsi indietro per piangere su se stessa e sulle sue cose. Ma tale scelta porta con sé una conseguenza sconvolgente: “ora la moglie di Lot guardò indietro e divenne una statua di sale” (Gn 19,26).
Chi si volta indietro per rimpiangere il vecchio non è adatto al Regno nuovo (cfr Lc 9,62). Girarsi indietro è una scelta che blocca, impietrisce perché impedisce di proseguire il cammino e di guardare al futuro. Girarsi indietro è perciò sinonimo di morte perché le cose passate non sono più: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annunzia il regno di Dio» (Luca 9,60)
Se lo sguardo è costantemente rivolto a ciò che si è lasciato e il cuore continua a rimpiangerlo, incapace di distacco e in preda alla paura del nuovo, la vita diviene ma mano insapore: ciò che si è lasciato non torna più ed è da stolti attardarsi cercando di racimolare piccoli avanzi e resti di un passato ormai trascorso, bloccata nel guardare avanti la vita si blocca, si irrigidisce, si diventa una “statua di sale” e per giunta… insapore!
La sequela di Cristo è un tendere in avanti, uno proiettarsi verso il Regno che sta per arrivare e che lui annuncia; e se lo sguardo e il cuore sono impegnati nel non perder di vista questa meta allora non ha più senso perder tempo volgendosi indietro a quel che si lascia: “Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio” (Lc 9,62; cfr Lc 5,11).
Chiediamo allo Spirito un cuore nuovo, capace di stupore sempre nuovo dinanzi ad un Dio che fa sempre “nuove tutte le cose”:
“Vieni, o Spirito santo, da’ a noi un cuore nuovo, che ravvivi in noi i doni da te ricevuti con la gioia di essere cristiani, un cuore nuovo, sempre giovane e lieto. Vieni, o Spirito santo, e dà a noi un cuore puro, allenato ad amare Dio, un cuore puro che non conosca il male se non per definirlo, per combatterlo e per fuggirlo; un cuore puro, come quello di un fanciullo, capace di entusiasmarsi e di trepidare. Vieni, o Spirito santo, e dà a noi un cuore grande, aperto alla tua parola ispiratrice, chiuso ad ogni meschina ambizione, un cuore grande e forte ad amare tutti, a tutti servire, con tutti soffrire; un cuore grande, forte, beato di palpitare col cuore di Dio. Amen”. (Paolo VI)
Lectio
Il testo evangelico segue immediatamente il brano che narra una discussione riguardante il digiuno. La questione è suscitata da alcuni scribi e farisei che vedono Gesù e i suoi discepoli non solo trasgredire questa norma ascetica inculcata dalla tradizione, ma addirittura cosa nuova, inaudita e scandalosa mangiare e bere in compagnia di “pubblicani e peccatori”: “«I discepoli di Giovanni digiunano spesso e fanno orazioni; così pure i discepoli dei farisei; invece i tuoi mangiano e bevono!». Gesù rispose: «Potete far digiunare gli invitati a nozze, mentre lo sposo è con loro?»” (5,33-34). Emerge già qui il tema dell’incompatibilità tra vecchio e nuovo – tra digiuno e festa di nozze – che si prolunga nell’insegnamento di Gesù offerto nei due esempi del vestito nuovo e del vino nuovo incompatibili con vestiti logori e otri già impiegati.
Nel testo parallelo di Marco leggiamo che: “Non si cuce una pezza di panno grezzo su un vestito vecchio” (Mc 2,21). Viene sottolineata in Marco l’inconciliabilità del voler combinare nuovo e vecchio. Luca modifica il testo di Marco evidenziando ancor più l’assurdità di una tale operazione che ora consiste addirittura nello strappare una pezza da un vestito nuovo per ricucirla su uno vecchio!: “Nessuno strappa un pezzo da un vestito nuovo per attaccarlo a un vestito vecchio”. A differenza di Marco per Luca il danno non riguarda perciò soltanto il vecchio vestito ma tutt’e due; cosicché l’incompatibilità fra il nuovo e il vecchio viene messa ancor più in risalto. È assurdo distruggere un vestito nuovo per riparare uno straccio! Il pezzo nuovo poi si restringerebbe rendendo inutile anzi peggiorando lo strappo! Così non soltanto il rattoppo fa il vestito vecchio ancora più brutto, ma soprattutto si rovina l’abito nuovo: “altrimenti egli strappa il nuovo, e la toppa presa dal nuovo non si adatta al vecchio”.
Per Luca l’annuncio della vicinanza del Regno di Dio comporta l’accoglienza di una realtà completamente nuova rispetto all’antico ordine della Legge. L’avvertimento è rivolto alla comunità perché eviti il rischio di accogliere parte del messaggio della Buona Notizia evangelica volendola poi accomodare al vecchio impianto religioso, ovvero ceda alla tentazione di voler rigiudaizzare l’evangelo. Il kerygma esige disponibilità ad un cambiamento radicale di prospettiva nel rapporto con Dio e con la tradizione. Scrive a questo proposito un noto esegeta: “Il nuovo che Gesù ha portato non è fatto per riparare il vecchio, ma deve veramente prendere il posto del vecchio” (Scheider). Ignorare questo significa operare una manovra disastrosa in riferimento sia alla novità evangelica sia alla comunità che la vive.
Il secondo esempio è parallelo al primo: “nessuno mette vino nuovo in otri vecchi” (v.37a). Il vino nuovo dell’ultima vendemmia non va messo negli otri vecchi. Gli otri, un tempo ricavati dalla pelle di capra, col tempo perdono ogni elasticità per cui con la fermentazione del vino nuovo sono inevitabilmente destinati a scoppiare cosicché vanno persi sia il vino nuovo che gli otri vecchi: “altrimenti il vino nuovo spacca gli otri, si versa fuori e gli otri vanno perduti” (v.37b).
Anche in questo caso il riferimento è sufficientemente chiaro: lo stratagemma di voler combinare vecchio e nuovo è destinato a fallire e a rovinare tutto. “Voler ricomporre l’antico ordinamento con l’ausilio della novità portata da Gesù. Ciò rovinerebbe la realtà nuova e non servirebbe a quella vecchia” (Schurmann).
Ecco allora la saggia ammonizione da parte di Gesù: “Il vino nuovo bisogna metterlo in otri nuovi” (v.38)! Alla novità dell’evangelo della grazia deve corrispondere per il discepolo e la comunità un concreto ordine nuovo, che non vada a rimpiangere e non ceda alla tentazione del voler recuperare l’antico ma ormai superato ordine della Legge, ma si apra gioiosamente a quel compimento che non ha più bisogno di apparati preparatori e ormai inutili. Sarà questo uno degli insegnamenti più pressanti dell’apostolo Paolo preoccupato per le sue comunità che rischiano di cadere nella tentazione di svilire la novità del dono del vangelo. Nella Lettera ai Galati ad esempio egli ammonirà una comunità che è solleticata dall’ascolto di fatiscenti predicatori giudaizzanti che la invitano a ritornare alla sicurezza derivante dalle norme della Legge: “O stolti Gàlati, chi mai vi ha ammaliati, proprio voi agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso? Questo solo io vorrei sapere da voi: è per le opere della legge che avete ricevuto lo Spirito o per aver creduto alla predicazione?” (3,1-2).
Dopo le due brevissime parabole Luca introduce un detto riportato da lui solo che, paradossalmente sembrerebbe contraddire a prima vista quanto detto prima: “Nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice: Il vecchio è buono!» (v. 39). Come interpretare quest’apprezzamento del “vino vecchio? Probabilmente Gesù, con sottile ironia, fa una constatazione dettata dal buon senso e dall’esperienza: comprende benissimo che per l’uomo “religioso” non è facile staccarsi dalla propria mentalità. È difficile per i giudei (di ogni tempo!) abbandonare le sicurezze offerte dalla Torah e da tutte le sue norme fatte di precetti e di divieti che offrono l’impressione di poter raggiungere una propria giustizia. È difficile accogliere il “vino nuovo” della gioia del banchetto di nozze in cui la giustificazione scaturisce dalla gratuità del dono della grazia offerta dal Padre in Cristo. Per costoro il vino nuovo, a differenza del giudizio entusiasta del direttore del banchetto delle nozze di Cana (cfr Gv 2,10), il vino nuovo è meno buono di quello vecchio!
È un dato costante che chiunque si attacchi rigidamente e orgogliosamente al passato non sarà mai in grado di desiderare e gustare la novità del nuovo: “Faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43,19).
Collatio
L’etimologia della parola “nostalgia” contiene in sé il riferimento al “dolore” (algia) e alla “casa” (naos). Il termine esprime perciò molto bene lo struggimento che avviene in noi quando lontani sospiriamo il ritorno alle nostre cose, alla nostra patria, alla nostra casa e ai nostri cari. Questo ritorno viene a colmare il vuoto, l’ansia che ne scaturisce, offrendo un riparo di sicurezza, legami, di calore. In tal senso l’uomo “nostalgico” per antonomasia è Ulisse il quale viene rappresentato da Omero nell’ “Odissea” come colui che vive in funzione del suo ritorno all’isola di Itaca, un ritorno ostacolato dagli dei ma al quale egli non rinuncerà mai. Il suo futuro si costruisce sul suo passato. Ma ad Ulisse si contrappone l’uomo biblico nella figura di Abramo che è al contrario l’uomo costantemente invitato a “uscire”, ad “abbandonare lasciando tutto” ciò che rappresenta per lui sicurezza (padre, clan, terra, tradizione cultura…cfr Gn 12,1ss) per vivere in funzione di una “promessa” divina che non ha nessun immediato riscontro. Abramo vive il suo futuro non come un ritorno ma come una speranza nella promessa che lo obbliga a fissare lo sguardo sempre in avanti. Abramo è l’uomo il quale, salendo la scala, vede svanire dietro di sé gli scalini percorsi: non può far altro che continuare a salire!
Ulisse od Abramo? Vivere in funzione della nostalgia o della speranza? Del vecchio ormai logoro ma sicuro o del nuovo da sperare e da scoprire? Tenere fisso lo sguardo in avanti come Mosé verso la Terra della Promessa e della libertà, o volgere caparbiamente lo sguardo indietro come Israele che nel deserto continua a rimpiange le cipolle lasciate in Egitto a bollire? : “gli Israeliti ripresero a lamentarsi e a dire: «Chi ci potrà dare carne da mangiare? Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cocomeri, dei meloni, dei porri, delle cipolle e dell’aglio. Ora la nostra vita inaridisce; non c’è più nulla, i nostri occhi non vedono altro che questa manna»” (Nm 11,4-6).
La tentazione di rifugiarsi nel già visto, nel risaputo è ricorrente e la ritroviamo presente un po’ ovunque a livello sociale, culturale, politico e religioso: essa riemerge in modo prepotente soprattutto nei momenti in cui si attraversano fasi critiche, di svolta e di cambiamento. Allora la paura vorrebbe avere il sopravvento e l’ultima parola. Vengono infatti a mancare saldi punti di riferimento e di appoggio che finora offrivano sicurezza, sopraggiunge il nuovo, l’inaspettato, lo sconosciuto. Qui sta il dilemma: rischiare vie nuove o dar retta alla paura che spinge a rincorrere antiche sicurezze che vanno sbriciolandosi? L’offerta di un vestito nuovo e di un vino nuovo appena vendemmiato impongono una scelta, una nuova disponibilità che obbliga al cambiamento… ma questa scelta ha un prezzo molto alto che la maggioranza generalmente non è disposta a versare, o tutt’al più alle condizioni più basse (la pezza vecchia o l’otre vecchio vengono buoni).
Israele non ha ancora terminato di assaporare l’ebbrezza del dono della libertà che alle prime difficoltà dettate dalla nuova situazione preferirebbe il ritorno alla schiavitù. È la stessa fatica delle prime generazioni cristiane provenienti dal giudaismo nell’accogliere sino in fondo la sconcertante novità della Buona Notizia che la obbligano a lasciare le tradizioni dei padri, i marinai di Colombo vorrebbero tornare indietro stanchi e delusi da un viaggio interminabile rinunciando al sogno di una terra nuova da scoprire, i professori dell’università di Padova si rifiutano di guardare nel cannocchiale inventato da Galileo con la scusante: “Noi sappiamo già com’è il cielo!”, il gesuita Matteo Ricci si vede impedire dall’alto il permesso di inculturare la fede cristiana nella Cina del ‘500 …e così via: sarebbero innumerevoli gli esempi che dicono la paura del nuovo e il tentativo di rifugiarsi nel vecchio con la scusante evangelica che “il vecchio è migliore!” (v.39).
È una tentazione che serpeggia fortissima anche oggi tra le mura della Chiesa! Una Chiesa che si trova dinanzi alla sfida di un mondo sempre più secolarizzato, in cui impera la dittatorialità del relativismo che marginalizza sempre più il suo annuncio della verità. Di fronte a questo progressivo indebolimento è allora forte la volontà di voler riacquisire una forte identità. Operazione lecita e doverosa se però viene intrapresa nella giusta direzione che è quella di un nuovo radicarsi nel “kerygma” e in un rinnovato impegno di nuova evangelizzazione. Ma la tentazione è quella di rincorrere modalità più facili – perché di poco costo in termini di conversione! – che consistono nel recuperare questa identità tra la polvere delle soffitte, nell’illusione data di riaccarezzare le vecchie glorie del passato! Rimane allora valido il monito a non cadere in tale mortale tranello: “In quel giorno, chi si troverà sulla terrazza, se le sue cose sono in casa, non scenda a prenderle; così chi si troverà nel campo, non torni indietro” (Lc 17,31). Rischioso rifugiarsi nelle soffitte quando le fondamenta vacillano!
Le due parabole evangeliche vogliono rispondere alle perplessità e ai dubbi di un discepolo e di una comunità, di ieri e di oggi, ancora troppo incerti e che non osano fare il passo decisivo fidandosi unicamente della promessa contenuta nella novità dell’evangelo. Per gli indecisi vale sempre un detto popolare prudentemente ripetuto: “Chi lascia la strada vecchia per la nuova, sa quel che perde ma non sa quel che trova!”. Certo si tratta di buon senso! Ma il “buon senso” umano (il vestito e l’otre vecchi) mal si adatta alla “sapienza divina” della Parola di Dio. Improntare la vita sul “buon senso” che si spaccia per prudenza significa permettere all’imperativo della paura di governare l’esistenza impedendoci di sperimentare l’ebbrezza della libertà dello Spirito. È un atteggiamento mondano che nasce da una inconfessata sfiducia nei confronti della vita e in ultimo di Dio stesso: “Ma questo popolo ha un cuore indocile e ribelle; si voltano indietro e se ne vanno” (Gr 5,23). Probabilmente è proprio qui il nocciolo del problema: la resistenza operata dalla coscienza ad affidarsi nella speranza al Dio che “fa nuove tutte le cose” (Ap 21,5) nasce proprio dalla paura che questa Promessa che mi invita ad un orizzonte nuovo di vita sia un “imbroglio” di cui diffidare, anzi da cui starsene lontano. Molto meglio rifugiarsi nelle solite cose che danno l’impressione di sicurezza. Così che l’uomo “religioso” tenterà perlopiù di rattoppare “toppe vecchie” sul vestito nuovo della fede cristiana. Sono le operazioni attraverso le quali tutti cerchiamo di rendere innocuo il vangelo volendolo far andare d’accordo col “buon senso”, con “saggia prudenza”. Questo impedirà sempre di sperimentare la novità e la verità della Buona Notizia.
Al contrario la comunità e il discepolo accoglie la sfida del nuovo non come un rischio e un pericolo, ma come opportunità per percorrere con una fedeltà sempre rinnovata il cammino della sequela. Ogni giorno è sempre il giorno delle nozze in cui bisogna mettere il vestito nuovo e bere il vino nuovo per sperimentarne la bellezza e la dolcezza!
Il cristiano, e ancor più in consacrato, si è ormai “rivestito di Cristo” (Gal 3,27) ed è chiamato perciò a divenire in lui “uomo nuovo” (1Cor 12,12s). Questa tensione di conformazione gli impedisce di perder tempo a trascinarsi dietro inutili masserizie e rimpianti: “Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio»” (Lc 9,62). Desideroso di vestire l’abito nuovo nella sala del Regno dove gusterà il vino nuovo il discepolo non esisterà ogni giorno a buttare nell’immondizia quel che è vecchio, logoro e inservibile: “Dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici e dovete rinnovarvi nello Spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera” (Ef 4,22).
Oratio
Chiediamo allo Spirito il coraggio della fede dei padri, di Maria. Il coraggio di non volgerci indietro dopo aver posto mano all’aratro, di non rischiare di impietrirci come la moglie di Lot, ma come Abramo di “partire” ogni giorno per quel pellegrinaggio cui il Signore ci ha chiamati, avendo nella bisaccia solo la fiducia e la speranza che riposa unicamente sulla promessa della sua Parola: il resto non serve!
Meglio di me, Signore, tu sai su quali orizzonti si allarga il paese delle promesse.
Abbandonerò i territori dove, da padrone,
organizzo la dolcezza per i miei occhi e l’ebbrezza per il mio corpo,
facendo scorrere latte e miele nel comodo allineamento dei miei giorni.
Partirò!
Abbandonerò le mie terre di comodità,
dove mi è indifferente l’ordine delle cose,
fino a quando i diluvi dell’odio e dell’ingiustizia
non sommergono la mia dimora.
Abbandonerò le mie terre di disprezzo,
dove gli uomini sono catalogati secondo il rendimento,
come se fossero prodotti sul mercato.
E tu mi butti fuori dalla mia casa,
dove gli armadi sono pieni e gli scaffali ordinati.
E tu sempre mi costringi a guardare più lontano
e a piantare altrove le radici del mio cuore.
(Charles Singer)