• 11 Set

    Il profeta e la pianta di ricino


    Lectio di Giona 4,5-11


    di p. Attilio Franco Fabris

    Un aforisma afferma: “Ogni  volta che mi guardo allo specchio mi convinco sempre più che Dio ha un ottimo senso dell’umorismo”. Non so se condividiamo questa intuizione: forse facciamo fatica a riconoscerci in essa perché un po’ tutti, piccoli aspiranti Narcisi, siamo sempre tentati di prenderci troppo “sul serio”. A questo proposito il romanziere Herman Hesse amava ripetere che: “Ogni sublime umorismo comincia con la rinuncia dell’uomo a prendere sul serio se stesso”. Quando l’uomo pretende di essere l’“ombelico del mondo”, quando vorrebbe essere cioè al centro di tutto e di tutti, riverito e applaudito, quando nella sua arroganza ritiene di dover assurgere al compito di giudice d’ogni cosa, quando è incapace di perdere allora manca di un sano realismo. Non sa vedersi cioè allo specchio per quel che è veramente. Questo è stato, come vedremo, il dramma del nostro povero Giona incapace di ridere di sé e di condividere il sorriso di Dio su di lui e sul mondo.

    Diceva Nathaniel Emmons che: “La pazzia distrugge la ragione, ma non l’umorismo”. Guardarci allo specchio attraverso gli occhi di Dio ci rinsavisce e fa tornare il sorriso sulle labbra e negli occhi perché ci introduce ad un sano umorismo che, alla fin fine, è una buona capacità di vivere il reale di sé, degli altri, delle situazioni, di Dio stesso che ride del riso di Sara (Gn 18,13). L’umorismo lo possiamo ben definire allora una delle virtù necessarie ad una vita autenticamente spirituale! È segno della presenza dello Spirito.

    Chiediamo allora allo Spirito il dono di saperci guardare allo specchio un po’ più spesso, un’occhiata di tanto in tanto al di fuori di noi stessi, ovvero  con una vena di sano umorismo: “I nostri occhi, o Spirito del Signore, avevano perduto la lucentezza di un tempo. Il sorriso s’era spento sulle nostre labbra tese. Il nostro sguardo s’era fatto anch’esso opaco e privo di gioia. E non potevamo più vedere oltre il campo ristretto dei nostro meschini interessi. Ma tu ci hai guarito gli occhi, li hai resi  trasparenti e sereni, occhi pieni di pace e comprensione. Hai allargato le labbra al sorriso che si fa accoglienza e perdono. Lo sguardo è stato  reso capace di riconoscere il sorriso e la pace  di Dio sul mondo”.

    Lectio

    Giona è chiamato da Dio a predicare la “penitenza” nella città di Ninive. Questa immensa città “lunga tre giorni di cammino”(3,3) è la capitale del regno assiro, e nella Bibbia è considerata l’emblema del mondo pagano (cfr Nm 3,7; Sof 2,13), città crudele e nemica acerrima del popolo d’Israele. (In questa metropoli straniera è ambientato anche il libretto di Tobia). Il compito che Dio affida a Giona non va assolutamente a genio al nostro protagonista: così lo vediamo imbarcarsi non verso la meta indicata ma esattamente in una linea di crociera che lo porta nella direzione opposta: la sua meta è addirittura la città di Tarsis che si trova in Spagna (1,1-3) ovvero il più lontano possibile da Ninive! Giona vuole scansare ad ogni costo l’incarico affidatogli che gli suscita da un lato timore e da un altro disapprovazione: da quando ora si deve predicare al nemico? Nella sua piccola testa non entra neppure l’idea della possibilità di una conversione della città avversaria; accettarne la possibilità metterebbe infatti troppo a rischio le certezze della “sua” religione!

    Mentre il nostro Giona è in fuga succede quella confusione che sappiamo: si scatena una terribile e inspiegabile tempesta.  C’è il pericolo che tutti affoghino (cfr. 1, 4) e continuare su quella rotta sarebbe solo una decisione insensata. In un barlume di lucidità Giona riconosce davanti ai marinai di aver peccato contro il suo Dio chiedendo perciò di essere buttato a mare (cfr. 14). Seppur a malincuore costoro allora lo gettato tra i flutti (cfr. 115) dove viene inghiottito provvidenzialmente – tra lo stupore dei lettori e prototipo del collodiano Geppetto – da una balena che lo ospita un po’ scomodamente a dir la verità nel monolocale del suo ventre (cfr. 2, 1).

    Nel buio pesto della pancia del cetaceo a Giona passa la voglia di mettersi a discutere con Dio.  Adesso in preda all’angoscia si mette a pregare e a scongiurare perché l’abisso della morte, che lo circonda da ogni parte senza che lui ne possa sfuggire (2,2), non lo travolga: “Le acque mi hanno sommerso fino alla gola, l’abisso mi ha avvolto, l’alga si è avvinta al mio capo. Sono sceso alle radici dei monti, la terra ha chiuso le sue spranghe dietro a me per sempre(2,6s). Giona prende coscienza che la conseguenza del suo essere fuggito dalla sua missione e a voler far di testa sua è il ritrovarsi ora nelle profondità del mare, ovvero nell’inferno.

    Ma Dio “dopo tre giorni e tre notti (2,1)  gli fa dono della salvezza liberandolo dal suo “carcere” (2,3): Giona ributtato a riva, almeno per ora, è riconciliato con Dio e con la vita. (cap 2,11). E Jahvé dopo la salutare lezione gli rinnova il mandato della predicazione a Ninive. Gli sarà servita la tremenda lezione e l’esperienza di essere stato gratuitamente salvato?

    Per ora Giona sembra convertirsi e accettare il suo mandato. Così, pur non cambiando idea circa i pagani (cf 2,9), egli svolge la sua predicazione “forzata” nell’immensa metropoli. La sua parola ovviamente non può che essere fatta se non di minacce di castighi tremendi da parte del “suo” Dio: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta!” (3,4). Guarda caso non gli passa minimamente per la testa di annunciare alla città la possibilità della conversione e quindi della salvezza! Lui ha già prestabilito il risultato.

    Ma la meraviglia è che ciò che tutti i profeti non hanno ottenuto per secoli con il popolo di Israele qui si produce all’istante: vi è una conversione generale, nessuno è escluso! Anche gli animali si convertono!  “Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si impietosì riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece” (3,10).

    La risposta di Dio è evidente… ma non per Giona!  La sua coscienza è ottusa e piccina: non era questo il risultato da lui aspettato e sospirato! Di fronte alla conversione dei nemici il testo biblico annota cheGiona ne provò grande dispiacere e ne fu indispettito” (4, 1). È talmente irritato e deluso da invocare la morte: se Dio è così, non vale più la pena di vivere (4,2-3). Meglio infatti la morte che spartire privilegi con altri ancor più se pagani e incirconcisi! Se non c’è più alcuna distinzione a cosa serve essere credenti e ancor più profeti? Cosa ci si guadagna? Tanto vale…

    Ed eccoci al nostro brano. Alla domanda postagli da Dio: “E’ giusta la tua collera?”” (4,4) il nostro protagonista non risponde e a testa alta, impettito e tutto corrucciato e sdegnato, pieno di acredine verso i neoconvertiti e Dio che li ha assecondati esce solennemente dalla città. Non trova di meglio che armare una piccola baracca di frasche e seduto mettersi ad aspettare: che cosa? Ovvio! Che Dio cambi idea.  Chissà! E così pregustare finalmente lo spettacolo pirotecnico della distruzione della città nemica. Ma Dio, a suo dispetto, non cambia affatto la sua decisione.

    Dio “procura” (v.6) invece una pianta di ricino (qiqaion) che provvidenzialmente cresce proprio dietro le spalle di Gíona offrendogli un po’ d’ombra “e liberarlo così dal suo male” (v.6) ovvero dalla sua “incavolatura”. Servirà questo gesto gentile da parte di Dio a mandargli via il cattivo umore e fargli cambiar idea?  In effetti Giona è molto contento di quella pianta: provò una grande gioia per quel ricino” (v. 6).

    Ma il giorno dopo, di mattina presto, Dio con fine ironia “provvide” (v.7) un dispettoso vermiciattolo che si mette di lena a corrodere la radice della povera pianta che si affloscia in pochi istanti seccandosi sotto il sole cocente.  Come non bastasse: “quando il sole si fu alzato, Dio fece soffiare un vento d’oriente, afoso. Il sole colpì la testa di Giona”. Tutto ora sembra cospirare contro il povero profeta con spiacevoli risultati…insolazione, svenimenti e un terribile mal di testa. Oramai, mezzo incosciente e profondamente irritato, a motivo di una provvidenza che avverte ingiusta nei suoi confronti, Giona “si sentì venir meno e chiese di morire, dicendo: «Meglio per me morire che vivere» “ (4, 8). È  “irritato a morte” per il ricino seccato come lo era per la provvidenza benevola di Dio verso Ninive! Non vede altre vie d’uscita!

    A questo punto Dio, da buon pedagogo paziente con un allievo testardo, tenta la possibilità di un cambiamento nella coscienza ottusa del  nostro Giona. Ritenta la stessa domanda fattagli precedentemente ma in altra forma “Dio disse a Giona: «Ti sembra giusto essere così sdegnato per una pianta di ricino?». Egli rispose: «Sì, è giusto; ne sono sdegnato al punto da invocare la morte!» (4,9) Niente da fare! Giona non capisce o… non vuol capire!

    La domanda posta dal Signore è un invito rivolto a Giona, mandato a predicare la conversione a Ninive, perché, ironia della sorte, lui stesso profeta si avvii verso la strada di una sincera conversione al fine di assumere un cuore misericordioso come quello del Dio vero e abbandoni l’immagine balorda del “suo” dio: “Ma allora, tu ti addolori a causa di una pianta, per la quale non hai fatto nulla, che tu non hai piantato, né hai fatto crescere, che è nata in una notte e in una notte è morta; e io, invece, non dovrei aver pena di centoventimila esseri umani, che non sanno neppure distinguere la mano destra dalla sinistra e che vivono come bestie?  Uomini che io stesso ho creato! Giona, sei un grande egoista e il tuo egoismo ti acceca l’intelligenza! » (cfr. 4, 10-11).

    La parabola di Giona finisce qui mettendo allo scoperto attraverso una sana ironia, lo stridente contrasto che c’è nella coscienza del profeta. Quale la reazione finale di Giona?  Si sarà convertito? Avrà avuto il coraggio di cambiare modo di intendere Dio e la religione? Si sarà messo alla fine a ridere di se stesso e  a farsi una bella risata rappacificatrice con Dio? La  risposta a questo punto è rimandata a ciascun ascoltatore e sarà probabilmente ogni volta differente. Ma anche questo è umorismo!

    Collactio

    La storia di Giona non è una storia ma piuttosto una parabola in grado di descrivere e affrontare in modo ironico, (la Bibbia è capace anche di questo!), le nostre piccinerie e resistenze alla volontà di Dio che fortunatamente  ha vedute più larghe delle nostre. Esso ci invita al sorriso, a un guardare – attraverso l’avventura di Giona – le nostre stesse vicende e peripezie che rischiamo di vivere con la sua stessa ottica. Abbiamo tutti bisogno di vedere i nostri “drammi” o presunti tali, i nostri “problemi”, le nostre situazioni ingarbugliate da un altro punto di vista, diverso dal nostro, e che sia capace di “sdrammatizzarle” ovvero di riportarle a verità, alla loro giusta dimensione. Troppe volte infatti ci intestardiamo sulle nostre posizioni che, come Giona, ovviamente riteniamo le migliori e quelle giuste. Così accade che troppe volte ci si ripieghi su se stessi, sulle proprie tristezze e arrabbiature, ribelli come siamo a metterci davanti allo specchio della Parola, dei fratelli, e della nostra… coscienza.

    Se facciamo attenzione l’umorismo, il motto di spirito, la barzelletta hanno come funzione proprio lo smontare, lo smascherare, attraverso il paradosso, la presunta certezza con cui rivestiamo spesso la vita e i fatti. Di conseguenza se dovessimo definire Giona lo descriveremmo con la tipologia dell’uomo incapace di umorismo, è reazionario (i reazionari e i dittatori, non ridono mai!), fermo sulle sue posizioni che considera definitive. Per lui tutti sbagliano e tra questi pone anche Dio. Lo vediamo discutere con Dio sul compito che dovrebbe assumere nella vita degli uomini. E bisogna avere un grande coraggio e una gran faccia tosta per mettersi a discutere con Dio! Ma il suo coraggio lo possiamo identificare come ignoranza e di stupidità. Fa’ ridere! È profeta testardo il quale pensa che Dio debba essere soltanto il Dio del popolo ebreo e non degli altri popoli credendo che compito della religione sia quello di mantenere e difendere la situazione che lui ha già stabilito: i niniviti sono pagani e dunque cattivi e impenitenti perciò vanno distrutti, lui e il suo popolo sono invece gli unici buoni e ben accetti a Dio e sono degni di essere salvati Dio non si comporta come dovrebbe comportarsi e Giona è deciso a fargli sentire tutto il suo sdegno e preferisce morire piuttosto che… cambiare! E in questa caparbietà autodistruttiva, un po’ triste a dir la verità, è racchiuso tutto l’umorismo del libro.

    Giona risulta alla fine meschino perché possiede l’incredibile capacità di non vedere l’evidenza dei fatti; è un profeta fallito perché manca al suo ruolo essenziale che è quello di comprendere i segni dei tempi che dovrebbero parlare non solo e anzitutto agli altri ma anche a lui stesso.

    Non a caso l’autore allora nel racconto ci presenta, come contrapposizione (nella dinamica dell’umorismo la contrapposizione è essenziale), tutti i vari personaggi come buoni: i marinai stranieri che fanno di tutto per non gettare in mare Giona, il re di Ninive che si converte con tutta la città, anche gli animali appaiono buoni e indulgenti. Fra tutti l’unica figura dura e intransigente è Giona, per molti aspetti molto simile alla figura del “fratello maggiore” delineato dalla parabola del “Figlio prodigo” che non riesce a gioire per la misericordia e l’amore del “Padre” per i suoi due figli. Anche in questa parabola, guarda caso, l’unico capace di sorridere e di sdrammatizzare è il Padre.

    Ben venga dunque nella nostra esperienza spirituale una saggia dose di sano umorismo che ci aiuti a ridimensionarci, a guardare le cose da un diverso punto di vista, a non impuntarsi sulle nostre posizioni, a  sorridere delle nostre e altrui fragilità rendendoci un po’ più simili all’immagine di Dio. L’umorismo è una sorta di valvola di sicurezza che ci preserva dal rischio del mettere in pericolo l’autentico rapporto con sé stessi, gli altri, il mondo; una buona battuta, una barzelletta gentile opera “qualcosa come un’anestesia momentanea del cuore” (H. Bergson), ovvero ci permette, attraverso l’empatia che produce, di identificarci con la persona o l’oggetto del riso esorcizzando in noi il rischio di cadere nella stessa trappola. In questo senso l’umorismo è uno svelamento, spesso improvviso e inaspettato (es. la conclusione di una barzelletta) di ciò che si può nascondere nel più profondo del cuore di tutti noi. Un piccolo Giona potrebbe abitare di nascosto come nel ventre della balena anche in te che stai leggendo! Ti fa sorridere, ma è la morale del libro! Così l’uomo che si crede maturo e rispettabile appare incompleto, mancante, bisognoso. L’umorismo, non dimentichiamolo, è un dono che Dio ha fatto solo all’uomo! Avete mai visto una gallina o un gatto ridere?  Gli animali non possono ridere per il semplice fatto che non hanno coscienza di sé e dunque non possono guardarsi dall’esterno. Diceva Henri Bergson: “Non vi è nulla di comico al di fuori di ciò che è propriamente umano”.A noi dunque l’imparare e il permetterci di sorridere benevolmente di noi e degli altri: “l’uomo saggio sorride appena in silenzio” (Sir 21,20).

    Ma non confondiamo mai il sano umorismo con l’ironia cinica e cattiva, con la battuta feroce e crudele, che si prefigge solo l’umiliazione dell’altro. Questa è una ferita che si infligge e fa sanguinare! Il vero umorismo invece è capace di ridere “con” l’altro: è un’opera di guarigione perché alleggerisce la vita e toglie il peso dal cuore. È  una specie di oasi, un punto di ristoro che ci permette di riprendere fiato e forza e continuare poi con allegrezza il cammino spesso pesante e grigio delle nostre giornate.

    Comprendiamo allora perché anche agli  austeri monaci del deserto Giovanni Climaco raccomandava la capacità di mantenere sempre la capacità di sorridere al fine di non lasciar spazio al diavolo nel proprio cuore. Nella sua “Scala Paradisi” scrive: “State sempre allegri nel Signore, o servi di Dio; riconoscendo in questa gioia il primo segno dell’amore di Dio per voi, e dell’avervi egli chiamati.”

    Oratio

    Al termine del nostro itinerario all’interno della storia di quella testa dura che è il povero Giona, non possiamo non chiedere al Signore di farci sorridere sempre e di mettere al bando quelle tristezze e piccinerie che tante volte appesantiscono le nostre giornate. Nel sorriso colmo di misericordia e di pace scopriremo la presenza e l’azione fantasiosa e sempre nuova dello Spirito: “Beati quelli che sanno ridere di se stessi: non finiranno mai di essere allegri. Beati quelli che sanno distinguere un ciottolo da una montagna: eviteranno tanti fastidi. Beati quelli che sanno ascoltare e tacere: impareranno molte cose nuove. Beati quelli che sono attenti alle richieste degli altri: saranno dispensatori di gioia. Beati sarete voi se saprete guardare con attenzione le cose piccole e serenamente quelle importanti: andrete lontano nella vita. Beati voi se saprete apprezzare un sorriso e dimenticare uno sgarbo: il vostro cammino sarà pieno di sole. Beati se saprete interpretare con benevolenza gli atteggiamenti degli altri anche contro le apparenze: sarete giudicati ingenui, ma questo è il prezzo dell’amore. Beati quelli che pensano prima di agire e che pregano prima di pensare: eviteranno tante stupidaggini. Beati soprattutto voi che sapete riconoscere il Signore in tutti coloro che incontrate: avete trovato la vera luce e la vera pace” (Da un manoscritto della Certosa di Padula)

  • 03 Set

    Il vino vecchio è più buono?


    Lectio di Lc 5,36-39

    di p. Attilio Franco Fabris

    La moglie di Lot è presa dalla nostalgia quando, per salvarsi, è costretta a fuggire dalla città di Sodoma. Deve abbandonare la sua casa costruita con tanti sacrifici e tutte le sue cose (cfr Gn 19): la partenza imposta dai messaggeri divini è immediata, senza dilazioni di sorta. La donna non vorrebbe partire così nel cuore della notte, desidererebbe starsene ancora tranquilla fra le sue mura,nonostante l’ammonimento sia grave: la città sarà distrutta: “Dopo averli condotti fuori, uno di loro disse: «Fuggi, per la tua vita. Non guardare indietro e non fermarti dentro la valle: fuggi sulle montagne, per non essere travolto!»” (Gn 19,17). La sventurata donna in un impeto di nostalgia non può però dopo aver fatto pochi passi non girarsi indietro per piangere su se stessa e sulle sue cose. Ma tale scelta porta con sé una conseguenza sconvolgente: “ora la moglie di Lot guardò indietro e divenne una statua di sale” (Gn 19,26).

    Chi si volta indietro per rimpiangere il vecchio non è adatto al Regno nuovo (cfr Lc 9,62). Girarsi indietro è una scelta che blocca, impietrisce perché impedisce di proseguire il cammino e di guardare al futuro. Girarsi indietro è perciò sinonimo di morte perché le cose passate non sono più: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annunzia il regno di Dio» (Luca 9,60)

    Se lo sguardo è costantemente rivolto a ciò che si è lasciato e il cuore continua a rimpiangerlo, incapace di distacco e in preda alla paura del nuovo, la vita diviene ma mano insapore: ciò che si è lasciato non torna più ed è da stolti attardarsi cercando di racimolare piccoli avanzi e resti di un passato ormai trascorso, bloccata nel guardare avanti la vita si blocca, si irrigidisce, si diventa una “statua di sale” e per giunta… insapore!

    La sequela di Cristo è un tendere in avanti, uno proiettarsi verso il Regno che sta per arrivare e che lui annuncia; e se lo sguardo e il cuore sono impegnati nel non perder di vista questa meta allora non ha più senso perder tempo volgendosi indietro a quel che si lascia: “Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio” (Lc 9,62; cfr Lc 5,11).

    Chiediamo allo Spirito un cuore nuovo, capace di stupore sempre nuovo dinanzi ad un Dio che fa sempre “nuove tutte le cose”:

    “Vieni, o Spirito santo, da’ a noi un cuore nuovo, che ravvivi in noi i doni da te ricevuti con la gioia di essere cristiani, un cuore nuovo, sempre giovane e lieto. Vieni, o Spirito santo, e dà a noi un cuore puro, allenato ad amare Dio, un cuore puro che non conosca il male se non per definirlo, per combatterlo e per fuggirlo; un cuore puro, come quello di un fanciullo, capace di entusiasmarsi e di trepidare. Vieni, o Spirito santo, e dà a noi un cuore grande, aperto alla tua parola ispiratrice, chiuso ad ogni  meschina ambizione, un cuore grande e forte ad amare tutti, a tutti servire, con tutti soffrire; un cuore grande, forte, beato di palpitare col cuore di Dio.  Amen”. (Paolo VI)

    Lectio

    Il testo evangelico segue immediatamente il brano che narra una discussione riguardante il digiuno. La questione è suscitata da alcuni scribi e farisei che vedono Gesù e i suoi discepoli non solo trasgredire questa norma ascetica inculcata dalla tradizione, ma addirittura cosa nuova, inaudita e scandalosa mangiare e bere in compagnia di “pubblicani e peccatori”: “«I discepoli di Giovanni digiunano spesso e fanno orazioni; così pure i discepoli dei farisei; invece i tuoi mangiano e bevono!». Gesù rispose: «Potete far digiunare gli invitati a nozze, mentre lo sposo è con loro?»” (5,33-34). Emerge già qui il tema dell’incompatibilità tra vecchio e nuovo – tra digiuno e festa di nozze – che si prolunga nell’insegnamento di Gesù offerto nei due esempi del vestito nuovo e del vino nuovo incompatibili con vestiti logori e otri già impiegati.

    Nel testo parallelo di Marco leggiamo che: “Non si cuce una pezza di panno grezzo su un vestito vecchio” (Mc 2,21). Viene sottolineata in Marco l’inconciliabilità del voler combinare nuovo e vecchio.  Luca modifica il testo di Marco evidenziando ancor più l’assurdità di una tale operazione che ora consiste addirittura nello strappare una pezza da un vestito nuovo per ricucirla su uno vecchio!: “Nessuno strappa un pezzo da un vestito nuovo per attaccarlo a un vestito vecchio”. A differenza di Marco per Luca il danno non riguarda perciò soltanto il vecchio vestito ma tutt’e due; cosicché l’incompatibilità fra il nuovo e il vecchio viene messa ancor più in risalto. È assurdo distruggere un vestito nuovo per riparare uno straccio! Il pezzo nuovo poi si restringerebbe rendendo inutile anzi peggiorando lo strappo! Così non soltanto il rattoppo fa il vestito vecchio ancora più brutto, ma soprattutto si rovina l’abito nuovo: “altrimenti egli strappa il nuovo, e la toppa presa dal nuovo non si adatta al vecchio”.

    Per Luca l’annuncio della vicinanza del Regno di Dio comporta l’accoglienza di una realtà completamente nuova rispetto all’antico ordine della Legge. L’avvertimento è rivolto alla comunità perché eviti il rischio di accogliere parte del messaggio della Buona Notizia evangelica volendola poi accomodare al vecchio impianto religioso, ovvero ceda alla tentazione di voler rigiudaizzare l’evangelo. Il kerygma esige disponibilità ad un cambiamento radicale di prospettiva nel rapporto con Dio e con la tradizione. Scrive a questo proposito un noto esegeta: “Il nuovo che Gesù ha portato non è fatto per riparare il vecchio, ma deve veramente prendere il posto del vecchio” (Scheider). Ignorare questo significa operare una manovra disastrosa in riferimento sia alla novità evangelica sia alla comunità che la vive.

    Il secondo esempio è parallelo al primo: “nessuno mette vino nuovo in otri vecchi” (v.37a). Il vino nuovo dell’ultima vendemmia non va messo negli otri vecchi. Gli otri, un tempo ricavati dalla pelle di capra, col tempo perdono ogni elasticità per cui con la fermentazione del vino nuovo sono inevitabilmente destinati a scoppiare cosicché vanno persi sia il vino nuovo che gli otri vecchi: “altrimenti il vino nuovo spacca gli otri, si versa fuori e gli otri vanno perduti” (v.37b).

    Anche in questo caso il riferimento è sufficientemente chiaro: lo stratagemma di voler combinare vecchio e nuovo è destinato a fallire e a rovinare tutto. “Voler ricomporre l’antico ordinamento con l’ausilio della novità portata da Gesù. Ciò rovinerebbe la realtà nuova e non servirebbe a quella vecchia” (Schurmann).

    Ecco allora la saggia ammonizione da parte di Gesù: “Il vino nuovo bisogna metterlo in otri nuovi” (v.38)! Alla novità dell’evangelo della grazia deve corrispondere per il discepolo e la comunità un concreto ordine nuovo, che non vada a rimpiangere e non ceda alla tentazione del voler recuperare l’antico ma ormai superato ordine della Legge, ma si apra gioiosamente a quel compimento che non ha più bisogno di apparati preparatori e ormai inutili. Sarà questo uno degli insegnamenti più pressanti dell’apostolo Paolo preoccupato per le sue comunità che rischiano di cadere nella tentazione di svilire la novità del dono del vangelo. Nella Lettera ai Galati ad esempio egli ammonirà una comunità che è solleticata dall’ascolto di fatiscenti predicatori giudaizzanti che la invitano a ritornare alla sicurezza derivante dalle norme della Legge: “O stolti Gàlati, chi mai vi ha ammaliati, proprio voi agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso? Questo solo io vorrei sapere da voi: è per le opere della legge che avete ricevuto lo Spirito o per aver creduto alla predicazione?” (3,1-2).

    Dopo le due brevissime parabole Luca introduce un detto riportato da lui solo che, paradossalmente sembrerebbe contraddire a prima vista quanto detto prima: “Nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice: Il vecchio è buono!» (v. 39). Come interpretare quest’apprezzamento del “vino vecchio? Probabilmente Gesù, con sottile ironia, fa una constatazione dettata dal buon senso e dall’esperienza: comprende benissimo che per l’uomo “religioso” non è facile staccarsi dalla propria mentalità. È difficile per i giudei (di ogni tempo!) abbandonare le sicurezze offerte dalla Torah e da tutte le sue norme fatte di precetti e di divieti che offrono l’impressione di poter raggiungere una propria giustizia. È difficile accogliere il “vino nuovo” della gioia del banchetto di nozze in cui la giustificazione scaturisce dalla gratuità del dono della grazia offerta dal Padre in Cristo. Per costoro il vino nuovo, a differenza del giudizio entusiasta del direttore del banchetto delle nozze di Cana (cfr Gv 2,10),  il vino nuovo è meno buono di quello vecchio!

    È un dato costante che chiunque si attacchi rigidamente e orgogliosamente al passato non sarà mai in grado di desiderare e gustare la novità del nuovo: “Faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43,19).

    Collatio

    L’etimologia della parola “nostalgia” contiene in sé il riferimento al “dolore” (algia) e alla “casa” (naos). Il termine esprime perciò molto bene lo struggimento che avviene in noi quando lontani sospiriamo il ritorno alle nostre cose, alla nostra patria, alla nostra casa e ai nostri cari. Questo ritorno viene a colmare il vuoto, l’ansia che ne scaturisce, offrendo un riparo di sicurezza, legami, di calore. In tal senso l’uomo “nostalgico” per antonomasia è Ulisse il quale viene rappresentato da Omero nell’ “Odissea” come colui che vive in funzione del suo ritorno all’isola di Itaca, un ritorno ostacolato dagli dei ma al quale egli non rinuncerà mai. Il suo futuro si costruisce sul suo passato. Ma ad Ulisse si contrappone l’uomo biblico nella figura di Abramo che è al contrario l’uomo costantemente invitato a “uscire”, ad “abbandonare lasciando tutto” ciò che rappresenta per lui sicurezza (padre, clan, terra, tradizione cultura…cfr Gn 12,1ss) per vivere in funzione di una “promessa” divina che non ha nessun immediato riscontro. Abramo vive il suo futuro non come un ritorno ma come una speranza nella promessa che lo obbliga a fissare lo sguardo sempre in avanti. Abramo è l’uomo il quale, salendo la scala, vede svanire dietro di sé gli scalini percorsi: non può far altro che continuare a salire!

    Ulisse od Abramo? Vivere in funzione della nostalgia o della speranza? Del vecchio ormai logoro ma sicuro o del nuovo da sperare e da scoprire? Tenere fisso lo sguardo in avanti come Mosé verso la Terra della Promessa e della libertà, o volgere caparbiamente lo sguardo indietro come Israele che nel deserto continua a rimpiange le cipolle lasciate in Egitto a bollire? : “gli Israeliti ripresero a lamentarsi e a dire: «Chi ci potrà dare carne da mangiare? Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cocomeri, dei meloni, dei porri, delle cipolle e dell’aglio. Ora la nostra vita inaridisce; non c’è più nulla, i nostri occhi non vedono altro che questa manna»” (Nm 11,4-6).

    La tentazione di rifugiarsi nel già visto, nel risaputo è ricorrente e la ritroviamo presente un po’ ovunque a livello sociale, culturale, politico e religioso: essa riemerge in modo prepotente soprattutto nei momenti in cui si attraversano fasi critiche, di svolta e di cambiamento. Allora la paura vorrebbe avere il sopravvento e l’ultima parola. Vengono infatti a mancare saldi punti di riferimento e di appoggio che finora offrivano sicurezza, sopraggiunge il nuovo, l’inaspettato, lo sconosciuto. Qui sta il dilemma: rischiare vie nuove o dar retta alla paura che spinge a rincorrere antiche sicurezze che vanno sbriciolandosi? L’offerta di un vestito nuovo e di un vino nuovo appena vendemmiato impongono una scelta, una nuova disponibilità che obbliga al cambiamento… ma questa scelta ha un prezzo molto alto che la maggioranza generalmente non è disposta a versare, o tutt’al più alle condizioni più basse (la pezza vecchia o l’otre vecchio vengono buoni).

    Israele non ha ancora terminato di assaporare l’ebbrezza del dono della libertà che alle prime difficoltà dettate dalla nuova situazione preferirebbe il ritorno alla schiavitù. È la stessa fatica delle prime generazioni cristiane provenienti dal giudaismo nell’accogliere sino in fondo la sconcertante novità della Buona Notizia che la obbligano a lasciare le tradizioni dei padri, i marinai di Colombo vorrebbero tornare indietro stanchi e delusi da un viaggio interminabile rinunciando al sogno di una terra nuova da scoprire, i professori dell’università di Padova si rifiutano di guardare nel cannocchiale inventato da Galileo con la scusante: “Noi sappiamo già com’è il cielo!”, il gesuita Matteo Ricci si vede impedire dall’alto il permesso di inculturare la fede cristiana nella Cina del ‘500 …e così via: sarebbero innumerevoli gli esempi che dicono la paura del nuovo e il tentativo di rifugiarsi nel vecchio con la scusante evangelica che “il vecchio è migliore!” (v.39).

    È una tentazione che serpeggia fortissima anche oggi tra le mura della Chiesa! Una Chiesa che si trova dinanzi alla sfida di un mondo sempre più secolarizzato, in cui impera la dittatorialità del relativismo che marginalizza sempre più il suo annuncio della verità. Di fronte a questo progressivo indebolimento è allora forte la volontà di voler riacquisire una forte identità. Operazione lecita e doverosa se però viene intrapresa nella giusta direzione che è quella di un nuovo radicarsi nel “kerygma” e in un rinnovato impegno di nuova evangelizzazione. Ma la tentazione è quella di rincorrere modalità più facili – perché di poco costo in termini di conversione! – che consistono nel recuperare questa identità tra la polvere delle soffitte, nell’illusione data di riaccarezzare le vecchie glorie del passato! Rimane allora valido il monito a non cadere in tale mortale tranello: “In quel giorno, chi si troverà sulla terrazza, se le sue cose sono in casa, non scenda a prenderle; così chi si troverà nel campo, non torni indietro” (Lc 17,31). Rischioso rifugiarsi nelle soffitte quando le fondamenta vacillano!

    Le due parabole evangeliche vogliono rispondere alle perplessità e ai dubbi di un discepolo e di una comunità, di ieri e di oggi, ancora troppo incerti e che non osano fare il passo decisivo fidandosi unicamente della promessa contenuta nella novità dell’evangelo. Per gli indecisi vale sempre un detto popolare prudentemente ripetuto: “Chi lascia la strada vecchia per la nuova, sa quel che perde ma non sa quel che trova!”. Certo si tratta di buon senso! Ma il “buon senso” umano (il vestito e l’otre vecchi) mal si adatta alla “sapienza divina” della Parola di Dio. Improntare la vita sul “buon senso” che si spaccia per prudenza significa permettere all’imperativo della paura di governare l’esistenza impedendoci di sperimentare l’ebbrezza della libertà dello Spirito. È un atteggiamento mondano che nasce da una inconfessata sfiducia nei confronti della vita e in ultimo di Dio stesso: “Ma questo popolo ha un cuore indocile e ribelle; si voltano indietro e se ne vanno” (Gr 5,23). Probabilmente è proprio qui il nocciolo del problema: la resistenza operata dalla coscienza ad affidarsi nella speranza al Dio che “fa nuove tutte le cose” (Ap 21,5) nasce proprio dalla paura che questa Promessa che mi invita ad un orizzonte nuovo di vita sia un “imbroglio” di cui diffidare, anzi da cui starsene lontano. Molto meglio rifugiarsi nelle solite cose che danno l’impressione di sicurezza. Così che l’uomo “religioso” tenterà perlopiù di rattoppare “toppe vecchie” sul vestito nuovo della fede cristiana. Sono le operazioni attraverso le quali tutti cerchiamo di rendere innocuo il vangelo volendolo far andare d’accordo col “buon senso”, con “saggia prudenza”. Questo impedirà sempre di sperimentare la novità e la verità della Buona Notizia.

    Al contrario la comunità e il discepolo accoglie la sfida del nuovo non come un rischio e un pericolo, ma come opportunità per percorrere con una fedeltà sempre rinnovata il cammino della sequela. Ogni giorno è sempre il giorno delle nozze in cui bisogna mettere il vestito nuovo e bere il vino nuovo per sperimentarne la bellezza e la dolcezza!

    Il cristiano, e ancor più in consacrato, si è ormai “rivestito di Cristo” (Gal 3,27) ed è chiamato perciò a divenire in lui “uomo nuovo” (1Cor 12,12s). Questa tensione di conformazione gli impedisce di perder tempo a trascinarsi dietro inutili masserizie e rimpianti: “Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio»” (Lc 9,62). Desideroso di vestire l’abito nuovo nella sala del Regno dove gusterà il vino nuovo il discepolo non esisterà ogni giorno a buttare nell’immondizia quel che è vecchio, logoro e inservibile: “Dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici e dovete rinnovarvi nello Spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera” (Ef 4,22).

    Oratio

    Chiediamo allo Spirito il coraggio della fede dei padri, di Maria. Il coraggio di non volgerci indietro dopo aver posto mano all’aratro, di non rischiare di impietrirci come la moglie di Lot,  ma come Abramo di “partire” ogni giorno per quel pellegrinaggio cui il Signore ci ha chiamati, avendo nella bisaccia solo la fiducia e la speranza che riposa unicamente sulla promessa della sua Parola: il resto non serve!

    Meglio di me, Signore, tu sai su quali orizzonti si allarga il paese delle promesse.
    Abbandonerò i territori dove, da padrone,
    organizzo la dolcezza per i miei occhi
    e l’ebbrezza per il mio corpo,
    facendo scorrere latte e miele
    nel comodo allineamento dei miei giorni.
    Partirò!

    Abbandonerò le mie terre di comodità,
    dove mi è indifferente l’ordine delle cose,
    fino a quando i diluvi dell’odio e dell’ingiustizia

    non sommergono la mia dimora.
    Abbandonerò le mie terre di disprezzo,
    dove gli uomini sono catalogati secondo il rendimento,

    come se fossero prodotti sul mercato.

    E tu mi butti fuori dalla mia casa,
    dove gli armadi sono pieni e gli scaffali ordinati.
    E tu sempre mi costringi a guardare più lontano
    e a piantare altrove le radici del mio cuore.

    (Charles Singer)

  • 02 Set

    Rimanete saldi nel Signore

    Lectio di Fil 4,1-9

    di p. Attilio Franco Fabris

    La comunità è dono prezioso che lo Spirito ha posto nelle nostre mani per cui essa va amata e custodita, protetta come il tesoro più caro consegnatoci da nostro Signore. Essa è tesoro prezioso perché è luogo della sua presenza, è la scuola della nostra sequela e dell’esperienza concreta di fede, luogo infine in cui viene resa testimonianza viva ed efficace della Buona Notizia, perciò con il salmista possiamo cantare: “Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme!” (Sal 132,1).

    Ma la comunità è purtroppo sempre insidiata dalla presenza del male che è in noi e attorno a noi, e le forze del male agiscono sempre in antitesi al progetto di Dio. Queste hanno un potere disgregante e… anticoagulante: sfaldano e talvolta distruggono la comunità; per cui bisogna essere sempre vigilanti e nutrire la comunità rafforzandola con il pane dei forti che è l’ascolto della Parola e l’Eucarestia, ed esercitando continuamente la pratica del perdono reciproco e della riconciliazione.

    Iinvochiamo con insistenza lo Spirito sulle nostre comunità e su ciascuno di noi perchè talvolta rischiamo di dimenticarci che è lui il protagonista e l’artefice primo del loro esistere e sussistere: “Non sentiamo un vento violento e non vediamo le lingue di fuoco eppure crediamo che lo Spirito agisce qui, ora, in mezzo a noi. Spirito di Dio, inondaci di luce! Strappaci al potere delle tenebre. Spirito di Dio, guarisci la nostra fragilità! Facci crescere come autentici figli di Dio. Quando le preoccupazioni si fanno troppo pesanti, Spirito di Dio, alleggerisci il nostro cuore! Quando attraversiamo i deserti della vita, Spirito di Dio, donaci una freschezza nuova! Quando l’insuccesso ci getta nella depressione, Spirito di Dio, donaci il coraggio necessario di agire.Spirito di Dio, imprimi sul nostro volto la traccia della bellezza e della tenerezza di Dio. Diventeremo una consolazione per tutte le creature della terra. Metti nei nostri cuori l’amore del Padre, fa’ risuonare dentro di noi la parola di Gesù. Conduci i nostri passi per vie nuove, quelle vie in cui si incontrano  la pace e la giustizia”.

    Lectio

    L’apostolo Paolo saluta i cristiani di Filippi definendoli “gioia e corona” del suo ministero. Essi sono da lui riconosciuti come il suo più grande vanto nell’opera di evangelizzazione per cui ha speso interamente la vita. Interessante il riferimento alla “corona” simbolo che fa riferimento all’ornamento sia del sacerdote che la indossava solennemente durante il suo ufficio, oppure del vincitore di una gara che con una corona di allora veniva premiato (cfr 1Cor 9,25). La comunità di Filippi, nata dall’annuncio della Buona Notizia, rappresenta per Paolo la realtà di cui gloriarsi e ornarsi nel Signore; e questo dimostra quanto cara e preziosa sia per lui.

    Il primo invito pressante di Paolo a questi nuovi cristiani è di “rimanere saldi nel Signore”: è un imperativo che fa da sfondo a tutta la sua esortazione apostolica. Esso è giustificato dal fatto che la fede, seppur accolta con entusiasmo all’inizio, non è mai un dato acquisito per sempre: essa essendo essenzialmente un vissuto di relazione e di consegna all’Altro all’interno di una comunità può essere sempre minata da mille ostacoli, pericoli e deviazioni che la pongono a rischio minacciando addirittura di farla scomparire. In questo senso la “vigilanza” è caratteristica essenziale del vissuto di fede personale e comunitario: “siate vigilanti, fissate ogni speranza in quella grazia che vi sarà data quando Gesù Cristo si rivelerà” (1Pt 1,13).

    Che questo “rimanere saldi” sia necessario sembra motivato concretamente dal fatto che la comunità di Filippi sta vivendo un momento difficile al suo interno: divisioni, invidie, gelosie mettono sempre a repentaglio l’opera unificatrice dello Spirito del Signore. Vengono nominate esplicitamente due donne: Evodia e Sintiche. Esse sono state due valide collaboratrici  dell’azione evangelizzatrice di Paolo durante la sua missione (questo accenno è importante per riconoscere il ruolo non trascurabile delle donne nella chiesa primitiva). Tuttavia tra queste due donne emergenti deve essere sorta qualche tensione, che non viene esplicitata, ma che sicuramente sta procurando fratture e sofferenza non solo tra loro due ma a tutta la comunità. Desiderio di primeggiare? Forse! Queste sono le piaghe e le debolezze della comunità che sempre e ovunque affiorano mettendo in evidenza tutta la contraddittorietà del cuore umano! Paolo le invita pressantemente a ritrovare la via della riconciliazione e della “buona armonia”.  Per facilitare la loro rappacificazione Paolo invita ad intervenire un certo Sizigo e un certo Clemente; sono certamente  personaggi autorevoli all’interno della comunità: l’apostolo li invita a farsi mediatori tra le due operando per la loro riconciliazione. Sizigo letteralmente significa “compagno di giogo”, cioè “collega”: lo è di nome e molto di più di fatto se Paolo lo investe di questo delicato compito.

    Paolo esorta questi suoi collaboratori ricordando che i loro nomi verrà scritto “nel libro della vita” proprio a motivo del loro operare nel nome del Signore per il bene della comunità: avere i “nomi scritti in cielo nel libro della vita” significa che Dio terrà conto dei meriti di queste anime (cfr Sal 68,29; Dn 12,1; Ap 3,5; Lc 10,20; Es 32,32-33; Is 4,3).

    Dopo aver affrontato questo delicato problema di divisione e aver indicato vie concrete di soluzione Paolo esorta la comunità a vivere “nella gioia” (cfr 3,1) aggiungendo “sempre”. Le tensioni e le spaccature sono purtroppo spesso inevitabili e sono sempre fonte di tristezza per tutti! Ma questo non deve turbare la gioia e la pace della comunità. Dove trovare il motivo e il fondamento di una gioia permanete che nulla può turbare la comunità? Il fondamento di questa gioia permanente risiede unicamente nel riconoscere di aver ricevuto un annuncio che è promessa sicura di salvezza nel Signore, e questa salvezza non può non trasformarsi in una gioia dirompente che trasborda e chiede di essere comunicata agli altri anche quando si è nella prova.

    Conseguenza di questa gioia che consiste nel sentirsi amabili e amati in Cristo dal Padre, è un atteggiamento di “amabilitàaffabilità” (v.5) che deve contraddistinguere le relazioni tra i membri della comunità e che si riversa di conseguenza su tutti.

    Paolo offre un’ulteriore motivo e fondamento all’invito alla gioia che deve caratterizzare la comunità di Filippi: “Il Signore è vicino!” (v. 5). Questa espressione era molto cara alla liturgia delle prime comunità che ripetutamente invocavano: “Marana tha! Il Signore viene!” (1Cor 16,22; cfr Rm 13,12; Gc 5,8; 1Pt 4,7; Ap 22,20).  Non sembra che qui Paolo voglia pronunciarsi circa il tempo cronologico effettivo che separa la comunità dal ritorno del Signore glorioso in quanto il “giorno della parusia” è già presente e operante. La “gioia” che scaturisce dalla “vicinanza” del Signore è identificabile con la consapevolezza del dono sovrabbondante di vita che già fin d’ora ci sono donate in attesa del suo compimento definitivo.

    Certo questa pace e questa gioia si collocano sempre in una storia segnata dalla contraddittorietà: nella vita le prove, le sofferenze e le preoccupazioni non mancano e  Paolo non lo nasconde, tuttavia invita i cristiani di Filippi a far attenzione a che queste ansie non le soffochino. Di fondamentale importanza per conservarle sarà l’esercizio costante della preghiera: “in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti” (v. 6).

    Frutto della gioia, sorretta dalla preghiera, sarà l’esperienza di una profonda “pace” (v. 7; cfr 1Ts 5,23; 2Cor 13,11; Fil 4,9; Gv 14,27). Si tratta di una pace che pervade tutto l’essere e diviene esperienza unica non paragonabile a nessun’altra perché comporta un’unione con Dio, cosa “che sorpassa ogni intelligenza“. Come spiegare infatti la gioia e la pace in mezzo alle tribolazioni e sofferenze come testimonia lo stesso Paolo che scrive queste righe dal carcere?

    Questa “pace” è in grado d’essere “sentinella” (“custodirà”) dei pensieri e degli affetti che si affacciano al cuore; operando un fondamentale discernimento preserva il cuore da turbamenti e agitazioni inutili. Ciò che dà pace non può infatti se non venire da Dio!

    Segue un elenco di virtù umane e cristiane in cui continuamente i credenti dovranno esercitarsi; Nulla di quanto è profondamente umano può essere disprezzato dal credente: “Tutto ciò che è vero… tutto ciò che è giusto….” (v. 8).  E’ un vero e proprio programma di vita quello proposto dall’apostolo. L’esortazione infine termina con due imperativi: “questo attiri la vostra attenzione…questo mettete in pratica” (v. 9) in altre parole: questo pensate e questo fate!
    A Paolo non resta concludendo che rimandare con sollecitudine i suoi cristiani agli elementi del cammino di iniziazione cristiana ovvero catecumenale da lui annunciati e che devono rappresentare i fondamenti stabili e sicuri del loro cammino di fede pur in mezzo a tutte le difficoltà : “Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare. E il Dio della pace sarà con voi!”. Solo questa obbedienza alla Parola sarà sorgente di vera pace e non di divisioni o inutili antagonismi che denotano il più delle volte l’aver perso questo essenziale punto di riferimento.

    Collactio

    Dall’ascolto di questa Parola di Paolo apostolo alla comunità di Filippi cerchiamo di trarre qualche spunto di meditazione applicandola alla vita.

    Anzitutto sottolineiamo come la “gioia e la corona” per Paolo è la comunità di credenti che lui ha generato attraverso l’annuncio della Parola del Vangelo: egli non si gloria di strutture, opere e successi umani transitori, ma riconosce che quella comunità, pur con tutti i suoi limiti, è il “coronamento” di un’azione che non è solo e anzitutto sua ma dello Spirito del Signore Gesù: questa comunità è da lui considerata la sua “corona” ovvero il tesoro prezioso, che lui ama e desidera custodire ad ogni costo.

    Di che cosa anzitutto noi ci gloriamo quando prendiamo in considerazione le nostre comunità? Il parroco si gloria dell’oratorio nuovo oppure della chiesa appena restaurata, il superiore della comunità illustra il numero di iniziative e opere messe in atto e portate avanti magari con eroismo ma forse è raro trovare il pastore che si gloria anzitutto della sua comunità, riconoscendovi il dono prezioso del Signore di cui prendersi amorevolmente cura prima ancora che dei muri e delle tante attività.

    Il “patrimonio” da custodire nelle nostre comunità non sono anzitutto le opere che realizziamo o le strutture che possiamo ancora innalzare o “tenere in piedi” ad oltranza: il rischio va in questa direzione perché sono queste realtà ad  attirare i riflettori, i consensi e gli applausi ma a poco o nulla servirebbero se non fossero espressione di una realtà ben più importante: quella costituita da quelle persone con dei volti precisi che il Signore ha raccolto in una sola famiglia perché il loro amarsi testimoni al mondo la possibilità e la bellezza della carità che da Dio attraverso Cristo ci è stata donata: purtroppo tante opere pur belle, nuove e splendenti di pulizia e ordine sono vuote, asettiche e fredde perché non trasmettono alcun calore, sono prive di vita, anche se ben organizzate: il motivo? Sono prive del primato della passione per il Regno di Dio, spesso sono solo autocelebrazione. Al Regno di Dio tutto questo non serve, anzi ne è ostacolo! Così purtroppo talvolta privi di discernimento come siamo scambiamo come patrimonio inalienabile ciò che non lo è.

    Una seconda riflessione che traiamo dal nostro testo consiste nel fatto che il tesoro, il “patrimonio” della comunità è purtroppo sempre minacciato di… estinzione. Le contraddizioni e le fratture, come nella comunità di Filippi, sono inevitabili a causa delle rivalità, gelosie, invidie, rancori… che si annidano nei nostri cuori e che affiorano anche se, come Sintiche ed Evodia, ci siamo indaffarati fino ad un minuto prima, a pieno ritmo per la causa del Vangelo! E’ la nostra povertà, la conseguenza della ferita del nostro peccato che ci porta a vedere nell’altro un antagonista e una minaccia e questo rischia di produrre nella comunità un’azione disgregante. Non bisogna scandalizzarsene perché si tratta di prendere umilmente atto della nostra realtà di creature segnate dal peccato e bisognose di guarigione. Jean Vanier ha scritto un testo intitolato: “La comunità: luogo di festa e di perdono“, in esso ricorda come la comunità non sia formata da uomini e donne perfetti perché tutti siamo feriti, chi più chi meno, nella capacità di amare ed essere amati: la comunità diviene così palestra in cui continuamente esercitarci nel perdonare e nell’essere perdonati: “La comunità è il luogo del perdono. Nonostante tutta la fiducia che possiamo avere gli uni negli altri, ci sono sempre parole che feriscono, atteggiamenti che prevaricano, situazioni nelle quali le suscettibilità si urtano. E’ per questo che vivere insieme implica una certa croce, uno sforzo costante e un’accettazione che è un mutuo perdono quotidiano. Se si entra in una comunità senza sapere che vi si entra per imparare a perdonare e a farsi perdonare settanta volte sette, ben presto si renderà delusi” (J. Vanier, op cit.). Solo con questo costante atteggiamento si può costruire concretamente una comunità e accrescerne il vero “patrimonio” che è quello dell’amore che dà testimonianza. Questo è possibile se in ciascuno prende consistenza la consapevolezza che la comunità va costruita con l’apporto di tutti sapendo che è necessario, come fa Paolo, mettere in atto tutte le possibili strategie che possono aiutarci a preservare il “patrimonio” della comunità dall’estinzione. Spesso noi purtroppo ci arrestiamo di fronte ai problemi e non attuiamo nulla per risolverli cosicché il male si irretisce sempre più scavando fosse di divisione sempre più profonde. Quali gli strumenti privilegiati? Il ritrovarsi attorno alla Parola lasciando che sia lei e non noi a giudicare e illuminare la vita di tutti e di ciascuno facendoci intravedere  la direzione da percorrere, e poi un’autentica e sincera correzione fraterna vissuta guardandosi negli occhi e tenendo ben fisso l’obiettivo che è in primo luogo la propria conversione  prima che la conversione dell’altro, infine il dialogo e la condivisione sono per ogni comunità gli strumenti essenziali per costruire e/o sanare autentiche relazioni. Tante preghiere stereotipate e sganciate dalla vita non servono a nulla! I problemi ci saranno sempre e comunque, non bisogna illudersi su questo, ma l’importante è saper usare gli strumenti adatti a risolverli giorno per giorno, con una pazienza fiduciosa perché riposta nella fedeltà di Dio. Ricorda il documento “La vita fraterna in comunità” che “dal dono della comunione scaturisce il compito della costruzione della fraternità, cioè del diventare fratelli e sorelle in una data comunità dove si è chiamati a vivere assieme. Nell’accettazione ammirata e grata della realtà della comunione divina che viene partecipata a delle povere creature, proviene la convinzione dell’impegno necessario per renderla sempre meglio visibile attraverso la costruzione di comunità “piene di gioia e di Spirito Santo” (At 13,52 )” (n. 11).

    Una comunità capace di questo non può dunque non sperimentare una gioia profonda, che non è da confondersi con la risata sguaiata o con la pungente ironia. Si tratta di una gioia che scaturisce dalla certezza che “il Signore è vicino“: non siamo soli, lui sta sulla barca con noi in mezzo alle onde in tempesta anche quando ci sembra che dorma, e allora nulla può nuocerci se lui è sentito presente: “Io sono in mezzo a voi tutti i giorni” cosicché il cuore rimane stabile e nella pace in ogni situazione: “la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù” (v. 7)

    Infine non scordiamo che “patrimonio” fondamentale d’ogni comunità sono il “deposito della fede” e del “carisma” ricevuti in dono. La premura della comunità deve essere quella di conservare e rafforzare la fede prima dei muri, il dono spirituale del carisma prima che le sue concretizzazioni storiche sempre provvisorie e passibili di cambiamento. Non scordiamoci che il “patrimonio” della fede e della comunità che su di essa si costruisce come casa sulla roccia si sperpera stoltamente quando le energie sono investite, come purtroppo spesso accade, in direzioni sbagliate. E’ al saldo fondamento della fede che occorre ancorare, assicurandolo fortemente il nostro vero “patrimonio”.

    Oratio

    Il salmo dice: “Chi si gloria nei carri e chi nei cavalli, noi siamo forti nel nome del nostro Dio”. Noi rischiamo sempre di gloriarci delle cose sbagliate perché privi di intelligenza spirituale. Donaci o Signore la grazia di poter riconoscere che la nostra gloria e forza sei Tu e la comunità che ci hai dato in dono anche se povera e segnata da tanti limiti e peccati: tu ce l’hai donata perché qui sperimentiamo il dono della tua presenza.

    Ho detto a Dio: fuori di te non ho altro bene”:  donaci di rimanere saldi in questa certezza che apre il cuore alla lode e sempre alla speranza, perché abbiamo sperimentato che “Dio solo basta!”.

    Quando questo non accade ci angustiamo, ci rattristiamo, ci preoccupiamo inutilmente e il cuore non è in pace e non può gustare la gioia. Non accade per il semplice fatto che abbiamo scambiato come ricchezza e patrimonio ciò che in realtà era di scarso o nullo valore, una tremenda svista che ci rende incapaci di scorgere il tesoro prezioso nascosto nel campo e la perla preziosa mischiata a tante altre cose inutili nel baule del mercante.

    E fa’ che ogni giorno con pazienza e tenacia, senza inutili abbagli, cerchiamo solo ciò che è nobile, giusto, puro, amabile, onorato perché riconosciuto come nostra ricchezza e unico nostro bene, solo  e avremo la pace che sorpassa ogni intelligenza.

    Signore Gesù custodisci i nostri cuori e i nostri pensieri nel tuo amore che è autentica e sola ricchezza e sorgente di stabile pace.