• 29 Ago


    Mentre le porte erano chiuse

    Lectio di Gv 20,19-23

    di p. Attilio Franco Fabris

    Mentre le porte del luogo dove si trovavano i discepoli erano chiuse per paura” (v. ). Come ripartire nel nostro cammino di fede e di sequela se le nostre porte sono ben serrate, sprangate a doppia mandata perché presi da mille timori e scoraggiamenti e incertezze?

    Le nostre paura ci immobilizzano, ci impediscono ogni movimento. Il cammino ci mette in gioco verso il nuovo, ma il nuovo ci spaventa ed è meglio rifugiarci nelle nostre piccole sicurezze che comunque prima o dopo saranno, inevitabilmente, spazzate via. Paura di giocarci, paura del futuro, paura di perdere i nostri vantaggi e sicurezze, paura del cambiamento…

    Lo Spirito vuole “abbattere” queste porte sprangate e barricate, infondendo in ciascuno di noi una sventagliata di coraggio e santa intraprendenza. Vuole, col suo solito impeto di vita, farci ripartire, come i discepoli di Emmaus dalle porte della locanda, perché sa bene che saremo sempre tentati di rallentare, fermarci, o deviare dal percorso imboccando strade alternative,vicoli ciechi, angoli bui.

    Chiediamo allo Spirito che soffi in modo sì travolgente da costringerci a muoverci, e che con la forza della Parola udita, nella quale il Risorto nuovamente ci parla e ci invia, trovi in noi disponibilità a riprendere il cammino.

    “Spirito del Signore, vieni su di noi, trasforma il nostro cuore e prendine possesso. Brucia le nostre paure, sciogli le nostre resistenze… Fa’ che non restiamo prigionieri della nostalgia o del rimpianto del passato, ma sappiamo aprirci con serena fortezza alle sorprese di Dio… Rendici vigili, fiduciosi e prudenti nell’attendere il domani della promessa nella fatica delle opere e nella pazienza dei giorni della nostra vita” (B. Forte).

    Lectio

    La nostra pagina evangelica si apre con un’introduzione in cui vengono offerte all’ascoltatore le coordinate di tempo – “la sera di quello stesso giorno” –  e di spazio – “nel luogo dove erano i discepoli” –  all’interno delle quali avviene l’incontro di Gesù risorto con i discepoli impauriti e disorientati dopo i tragici avvenimenti della sua passione e morte. Tutta la scena ha Gesù come protagonista: è lui il punto di convergenza da cui si diparte nuovamente la sequela e la missione.

    Il racconto è ambientato alla “sera del primo giorno della settimana”. E’ il giorno della resurrezione stessa di Gesù: Maria di Magdala ha già portato la buona notizia al gruppo incredulo, Pietro e Giovanni sono già corsi alla tomba vuota.

    L’apparizione di Gesù è descritta da Giovanni come una “venuta” – “venne” -. E’ un verbo significativo perché rimanda all’esperienza liturgica e di preghiera delle comunità cristiane delle origini pervasa insistentemente dall’invocazione “Maranahthà” che potrebbe tradursi con: Vieni, Signore, oppure con: Il Signore viene. Da parecchi indizi, e da tutto il contesto, possiamo cogliere nel nostro brano evangelico una sottintesa volontà dell’evangelista di sottolineare l’esperienza liturgica della comunità come luogo di incontro col risorto (la “sera”, il verbo “venne”, lo stare insieme dei discepoli, il mandato….).

    I discepoli sono “a porte chiuse dentro al luogo dove si trovavano per paura dei Giudei”. Essi hanno paura. Di cosa? Avvertono un’ostilità crescente fuori di quelle stesse mura, e che potrebbe riversarsi su di loro da un momento all’altro come lo è stato per il loro Maestro di cui hanno terrore di fare la fine. Sono tuttavia angosciati e impauriti perché incapaci di dare senso, ragione a tutto ciò che è avvenuto: quella morte di croce è lì fissa dinanzi alla loro coscienza come uno scandalo insormontabile. E’ in fin dei conti una comunità alla deriva, destinata allo sgretolamento, alla dispersione (Tommaso se ne è già andato, e così i due di Emmaus!). Senza il punto di riferimento rappresentato da Gesù essa si sente sola, abbandonata, isolata, impossibilitata a muoversi.

    Dopo questa introduzione “in tonalità minore”, il nostro evangelista ecco procedere con l’esplosione di due scene che vengono a frantumare questa esperienza di vuoto e di angoscia.

    Due scene susseguenti che è possibile porre benissimo in parallelo.

    La prima scena trova il suo nucleo nel riconoscimento di Gesù da parte dei discepoli intimoriti. La prima parola che il risorto pronuncia è: “Pace a voi! – Shalom ‘alekem”. Non si tratta semplicemente di un augurio, ma è una consegna effettiva e autorevole del dono promesso dello “shalom” quale pienezza di vita, quel dono che i profeti e lo stesso Gesù avevano preannunciato come compimento delle promesse dei tempi messianici. Durante i discorsi dell’ultima cena Gesù aveva preannunciato ai suoi: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbiate timore” (Gv 14,27), e ancora: “Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo” (Gv 16,33). Finalmente questa shalom tanto attesa può pervadere il cuore di ogni uomo che accoglie il dono della venuta del Signore risorto.

    Dopo queste parole Gesù mostra le ferite delle mani e del costato. La menzione del costato è tipica di Giovanni il quale certamente ci rimanda così alla scena della morte e del costato trafitto dalla lancia (19,34-37). In quel momento “uscirono sangue e acqua” simbolo della vita e del dono dello Spirito che Gesù sta per fare. Notiamo che per Giovanni questo gesto di Gesù risorto non ha alcuna intenzione apologetica, quasi che volesse dimostrare la verità della resurrezione, esso possiede una finalità più profonda di rivelazione; infatti nel nostro evangelista il verbo “mostrare” ha quasi sempre questa valenza “rivelativa” (cfr 2,18; 5,20; 10,32; 14,8).

    La reazione dei discepoli è immediata. I discepoli “vedendo” il Signore che “mostra” le sue piaghe riconoscono in lui il Crocifisso Risorto: “gioirono nel vedere il Signore”.

    Anche la gioia, e non solo la pace, è frutto dell’adempimento della promessa. Sempre nei discorsi di addio Gesù aveva infatti affermato: “La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo Così anche voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia.” (16,21-23). Questa promessa ora si realizza.

    Dopo l’offerta del dono della pace e della gioia, il cuore dei discepoli si infiamma: la “contemplazione” delle piaghe testimoni di un amore “sino alla fine” (13,1), la pace e la gioia che scaturiscono dall’incontro li predispone ad un ulteriore passo, all’accoglienza di un ulteriore dono.

    Si apre così la seconda scena. Essa contiene nel suo nucleo il mandato missionario di Gesù ai discepoli: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Anche questa formula è già presente nei discorsi di addio: “Come tu mi hai inviato nel mondo, così io li ho inviati nel mondo” (17,18). Ciò che appare evidente e caratteristico è che Gesù pone un chiaro parallelismo tra la missione a lui affidata dal Padre e quella che lui affida ai suoi discepoli. Vi è perciò, per i discepoli, una partecipazione alla missione stessa del Figlio, sono chiamati a continuarne “nel mondo” l’opera di annuncio della buona notizia dell’amore del Padre.

    Dopo queste parole di mandato Gesù compie un gesto estremamente significativo: “soffiò su di loro”. Tale gesto è accompagnato dalle parole: “Ricevete lo Spirito santo”. Nell’antico testamento abbiamo due riferimenti importanti: in Gn 2,7 dove Dio creando dalla terra Adamo “soffiò nelle sue narici un alito di vita”, e in Ez 37,9: dove il soffio di Dio è invocato sulle ossa aride “perché riprendano vita” (cfr Sap 15,11). Dunque il gesto di Gesù ha un valore di dono di vita e di nuova creazione. E’ questa, secondo alcuni esegeti, la “pentecoste giovannea”.

    Per rendere effettiva la missione i discepoli, in certo qual modo, hanno bisogno di essere ricreati-rigenerati mediante l’accoglienza della buona notizia della morte di Gesù: ma questa è opera dello Spirito di verità. Vi è perciò una strettissima relazione tra la missione e il dono dello Spirito. Senza quest’ultimo la missione non sarebbe possibile. Invasi dallo Spirito, che li apre all’accoglienza del dono della morte-resurrezione di Gesù, i discepoli sono così consacrati per la missione.

    Questa missione si riassume con l’incarico di annunciare il perdono dei peccati.(cfr Mt 16,19; 18,18. La terza persona plurale – “sono rimessi… sono ritenuti” – sottintende che è Dio stesso che rimette o ritiene i peccati) è un il compito affidato alla comunità cristiana e ai suoi responsabili col il quale essi sono chiamati ad annunciare la buona notizia e di ammettere al battesimo coloro che l’accolgono. E’ inevitabile che l’annuncio della parola e i gesti che l’accompagnano portino un giudizio sul mondo dinanzi al quale gli uomini sono chiamati a scegliere: alcuni l’accolgono ricevendo il perdono altri lo rifiutano indurendosi nel proprio male (14,17; 16,8).

    Collatio

    La comunità dei discepoli rinserrata dentro il cenacolo è allo sbando, il disorientamento è totale e immobilizza ogni sforzo per ripartire. Serpeggia solamente la nebbia dello scoraggiamento e della sfiducia. I discepoli sono incagliati, arenati in quello scoglio “scandaloso” che è la croce. sono come una barca impossibilitata a prendere il largo.

    Per loro, negli angusti orizzonti di quella stanza buia dalle porte e finestre sbarrate, non appare alcuna via di uscita, alcuna soluzione: è l’immobilizzazione così simile alla morte. Sempre la paura paralizza, immobilizza e spegne ogni desiderio. Il cammino fatto fino a quel punto sembra dissolversi come un’illusione da strapazzo.

    Ripartire come? Da dove? È una domanda che avrà sicuramente rimbalzato nelle menti di tutti i discepoli ma alla quale nessuno sa trovare risposta né soluzione.

    Se il Crocifisso risorto non mettesse mano lì dentro sarebbe la catastrofe per tutti. E’ solo l’incontro con lui a possedere la forza straordinaria capace di rimettere in moto quella comunità, di infonderle nuovo dinamismo capace di stravincere ogni paura. E’ il soffio impetuoso dello Spirito donato dal Risorto a possedere la forza travolgente di spingere questo gruppo sparuto e impaurito ad affrontare i confini del mondo per portare la Buona Notizia.

    Cosa significherà per noi “ripartire” nuovamente, come i discepoli, da quel cenacolo ostruito dai massi delle nostre paure?

    Ripartiamo se ci accorgiamo anzitutto che abbiamo ancora tanta strada da fare, e che forse ci siamo per troppo tempo fermati. Capita di trovare persone, autodefinitisi credenti, che si sentono già arrivate, già a posto. A costoro la parola “ripartire” non evoca nulla, non suscita alcun desiderio, perché “ripartire” è un verbo compreso solo da chi abita il mistero, da chi avverte una nostalgia indefinibile di bellezza, di vita e di pienezza di cui si vuole cercare la fonte; è compreso da chi vive una sana insoddisfazione nella propria vita perché sente l’urgenza di cercare nuovamente, di non accontentarsi. Riparte l’uomo “desideroso”, ovvero etimologicamente (desiderio = ad sidera) l’uomo capace di “guardare le stelle”, ovvero di alzare lo sguardo e di uscire dalla stanza chiusa del suo piccolo mondo per cercare qualcosa di più grande, non accontentandosi più del “già visto”. E’ l’uomo desideroso di infinito che richiama a quell’Infinito che è Dio stesso.

    Questo significa vincere il rischio di quella terribile malattia che la miopia della coscienza che porta al ripiegamento su di sé. Ma questo significa la rinuncia a quelle fragili sicurezze fatte di tante piccole e grandi chiusure che sono disseminate nella nostra vita e nelle nostre comunità.

    Vi è inoltre un’ulteriore strada che può spingere a “ripartire”, ad uscire dalla stanza chiusa, ed è quella che possiamo percorrere accanto al dolore. È una strada rischiosa e faticosa perché sollecita fortemente alla rabbia, alla rivendicazione, all’immobilizzazione: come i discepoli impauriti e pervasi dal dolore siamo incapaci di alzare nuovamente lo sguardo e di tornare a sperare.

    Tuttavia, se ci lasciamo interrogare dallo scandalo del male nostro e di quello che ci circonda e che sembra avere l’ultima parola, dall’assurdità della violenza che abita il cuore nostro e di ogni uomo,  avvertiremo la necessità di andare oltre, di uscire, di cercare, di appunto… ripartire. Il dolore possiede la grazia di scomodare la fede scontata fatta di facili risposte artefatte che rinserrano la mente e il cuore.

    In tutto questo ciò che è fuoco che può riscaldarci, vivificarci e illuminarci, ciò che è soffio capace di farci rivivere sarà il nostro “perseverare nell’ascolto della parola”. Una comunità che desidera “ripartire”, è una comunità disponibile all’ascolto. Tale dono impedisce di rinserrarci dentro le illusorie sicurezze delle nostre quattro mura (fatte magari anche di belle progettazioni, di belle celebrazioni, di agende stracariche di impegni ma in cui perdiamo di vista il cardine essenziale).

    Una autentica “ripartenza” porrà Cristo e la Buona Notizia della sua morte e resurrezione al centro di ogni cosa, come perno imprescindibile e insostituibile. Ciò significa lasciare che sia lui il fondamento e la misura di tutto che siamo e facciamo. È necessario in un mondo che vede più che mai la tentazione titanica dell’uomo di farsi misura a se stesso, di voler ripartire da sé stesso per trovarsi poi a girare a vuoto, o “in tondo” come afferma la scrittura parlando dello stolto.

    Contemplando le piaghe del Cristo crocifisso e risorto, riudendo sempre la sua parola che è promessa di pace e perdono, ci apriamo sempre più al soffio del suo Spirito. Ed è lo Spirito a trasformare la nostra vita in un itinerario, un pellegrinaggio, una missione. La vita non sarà più un circolo vizioso avvolto dalle brume delle nostre noie, della nostra sfiducia e  delle nostre paure. Essa si aprirà al futuro di Dio, alla sua promessa… nonostante tutte le nostre porte sprangate.

    Oratio

    L’incontro con te, Signore Gesù, attraverso l’ascolto della tua parola diventi una rinnovata occasione del dono del tuo Spirito di vita su di noi, sulla Chiesa e il mondo intero.

    Soffia ancora Signore Gesù: ne abbiamo bisogno! Come i discepoli spesso ci intristiamo e ripieghiamo nei nostri scoraggiamenti, siamo attanagliati dalle nostre mille paure. Nonostante questo tu “vieni” ancora e sempre in mezzo a noi con il dono della tua presenza fatta parola e pane. Questo rinnovato incontro con te infonde, come un tempo ad Elia stanco e scoraggiato, una nuova energia, ci rialza e ci fa riprendere il tratto di strada. Ora ci inviti a percorrere con te le strade del mondo per portare quello che tu stesso ci hai donato: la pace e la gioia contenute nella Buona Notizia.

    Trasformarci in strumenti di pace e di riconciliazione in questo nostro mondo, in cui troppe barriere e steccati chiusi impediscono di uscire, di incontrarsi, di riconciliarsi. Ci si rinserra nella propria paura e la vita intristisce e la gioia della comunione non viene vissuta.

    Che la comunità dei tuoi discepoli risplenda in questo nostro mondo per la missione che tu le hai affidato: sia capace con la forza dell’evangelo di dissolvere ogni porta chiusa perché tutti si possano incontrare sulla strada ed insieme ripartire verso l’unico Padre di tutti.

    Posted by attilio @ 14:12

Leave a Comment

Please note: Comment moderation is enabled and may delay your comment. There is no need to resubmit your comment.