Assetati di felicità
Lectio dal Qoelet 2,1-11
di p. Attilio Franco Fabris
1 Mi son detto: «Ora voglio provare ogni specie di piacere e di soddisfazione». Ma tutto mi lasciava sempre un senso di vuoto. 2 Il divertimento lascia insoddisfatti, l’allegria non serve a niente. 3 Allora ho cercato il piacere nel bere, ma senza perdere il controllo. Mi son dato alla pazza gioia. Volevo vedere se questo dà felicità all’uomo durante i pochi giorni della sua vita. 4 Ho fatto anche grandi lavori. Ho fabbricato palazzi, ho piantato vigneti. 5 Ho costruito giardini e parchi, dove ha piantato ogni qualità di alberi da frutto. 6 Ho costruito serbatoi d’acqua per irrigare quegli alberi. 7 Ho comprato schiavi e schiave; avevo molti servi in casa mia, possedevo moltissimi buoi e pecore, più di tutti i re di Gerusalemme. 8 Ho accumulato molti oggetti d’oro e d’argento. Ho preso le ricchezze e i tesori di altri re e governanti. Ho fatto venire nel mio palazzo cantanti e ballerine: per i miei piaceri, tante belle donne. 9 Insomma, ero diventato più ricco e più famoso di tutti i miei predecessori di Gerusalemme. Per di più, non ho mai perso la testa! 10 Ho soddisfatto ogni mio desiderio; non ho rinunziato a nessun piacere. Sono riuscito a godere delle mie attività: questa è stata la ricompensa per tutte le mie fatiche. 11 Ho tentato di fare un bilancio di tutte le opere che avevo fatte e della fatica che mi erano costate. Ma ho concluso che tutto è vanità, come inseguire il vento. In questa vita sembra tutto inutile.
(traduzione interconfessionale)
Perché tanto malessere nella società del… benessere? E’ un interrogativo che si affaccia ripetutamente nella mente di chi possiede ancora – speriamo – il dono di interrogarsi sulla vita e di non semplicemente “lasciarsi vivere”. Il benessere dovrebbe portare con sé, secondo la nostra “mitologia” culturale, la felicità. Più benessere equivale a più felicità! E chi non desidera essere felice? Così si crede di trovare appagamento in quella vacuità proposta dal consumismo. Ciò che si crede appaghi il cuore è riempirlo di “cose” sempre nuove, di sempre nuove “esperienze”. Ma, ahimè! Come un miraggio nel deserto la felicità è sempre più in là, all’orizzonte sempre irraggiungibile. Così l’insoddisfazione diviene il comun denominatore dell’esperienza umana.
Noi vogliamo leggere tutto questo non in chiave negativa ma come un’opportunità, un richiamo che spinge il cuore a cercare più a fondo e più in verità. Una sana insoddisfazione si tramuta allora in occasione di grazia, nella quale lo Spirito può suggerire alla nostra coscienza di cercare la “perla preziosa” che ci farà veramente felici: “Cerca la gioia del Signore, esaudirà i desideri del tuo cuore” canta il salmo 36 (v.3).
Che il Soffio divino di Dio apra ora le orecchie del cuore ad accogliere il dono della Parola che sarà luce nel nostro cammino di ricerca: Spirito della gioia, noi crediamo che ci sei dato per educarci alla gioia vera, per formarci alla gioia della carità e del servizio, per comunicare a tutti la tua gioia piena che non avrà mai fine. Amen.
Lectio
Qoelet – la tradizione lo identifica con lo stesso re Salomone – è un uomo che al termine della sua vita ripercorre tutta la sua lunga esistenza spesa nella ricerca della sapienza apportatrice di felicità. Egli cerca di trarne una valutazione finale: Qoelet ci appare come un uomo che nei confronti della vita ha acquisito uno sguardo a dir poco “disincantato”: “Vanità delle vanità, tutto è vanità e un inseguire il vento”(1,2). Dove la parola “vanità” (ebr. hebel) indica il respiro che si condensa fuggevolmente sullo specchio per poi subito svanire evaporando. Ovvero: nella vita nulla possiede un valore eterno e una consistenza, tutto prima o poi precipita inesorabilmente nell’oblio dello Scheol. Come definire allora il nostro autore: un pessimista e un cinico? Difficile trovare una connotazione adatta. Egli sembra sfuggire a qualsiasi collocazione: forse è semplicemente un uomo capace di penetrare con estrema lucidità e realismo nelle contraddittorie trame della vita.
Qoelet ha potuto toccare con mano l’inutilità di tutti i suoi sforzi per sfuggire ad un’amara e continua insoddisfazione. Nel suo animo torna incessante l’interrogativo che non gli lascia tregua: può l’uomo eludere l’assurdità con cui la vita gli si presenta? Le promesse della vita alla fine non gli si sgretolano inesorabilmente tra le mani? Non rimane forse solo una nausea insopportabile per ogni cosa, un senso amaro di fallimento? Cosa rimane terminata la festa che illude con le sue promesse di gioia straripante? Solo un senso di vuoto e di cenere.
Qoelet ha cercato la felicità in ogni direzione. Ha tentato dapprima nella linea della sapienza trasmessa dagli antichi, si è posto alla loro scuola, si è confrontato con essi, ha accolto il loro ammonimento di fuggire la stoltezza: “La stoltezza è una gioia per chi è privo di senno;l’uomo prudente cammina diritto” (Pr 15,21). Ma alla fine egli rimane perplesso, se non deluso. Di fronte alla consapevolezza che il sapiente e lo stolto alla fine scenderanno entrambi nello Scheol e nessuno di loro sarà ricordato il nostro autore costata amaramente: allora a che serve la sapienza? Nulla ricompensa la fatica estenuante a cui l’uomo ha sottostato per giungere alla sapienza (cfr 1,3). Anzi, la sapienza reca con sé una sofferenza ulteriore che scaturisce da una maggior consapevolezza della propria insoddisfazione: “Dove c’è molta sapienza c’è molta tristezza, e, se si aumenta la scienza, si aumenta il dolore” (1,18). Allora quale vantaggio se ne ricava perseguendola?
Tuttavia Qoelet non desiste, non si arrende. Egli vuol cercare altrove tentando nuove piste. Il suo progetto a questo punto si fa temerario: egli decide di percorrere addirittura la via della stessa stoltezza. Forse qui scoprirà una risposta. Dandosi ai piaceri della vita il cuore troverà finalmente pace e appagamento?
E giungiamo così al nostro testo.
“Mi son detto: Ora voglio provare ogni specie di piacere e di soddisfazione”(v.1). Teniamo presente che non si tratta di una ricerca sconsiderata; Qoelet “sa”, è “consapevole” che sta cercando una risposta alla sua insoddisfazione proprio nella “stoltezza”: “senza perdere il controllo” annota egli quasi compiaciuto. Decide così con lucidità di percorrere una strada alternativa quasi fosse un osservatore esterno in ascolto delle risonanze del cuore. Vuole costatare “se questo dà felicità all’uomo durante i pochi giorni della sua vita”(v.3). Sono “i giorni contati” che lo assillano, la breve vita scorre inesorabile e l’uomo angosciato cerca qualcosa che dia ad essa senso e gioia.
Inizia col buttarsi nel vino e nella “pazza gioia”. Il vino ha la capacità di mettere allegria e di far dimenticare: ma si tratta di un’allegria vuota, che ha solo l’effetto di stordire. Il risultato è la constatazione che: “il divertimento lascia insoddisfatti, l’allegria non serve a niente”(v.2).
Vista l’inutilità di questa pista eccolo tentarne subito un’altra: gettarsi sull’attività frenetica, sul lavoro, nella costruzione di grandi opere “faraoniche” che diano la sensazione di essere protagonisti e persone di successo capaci di realizzare qualcosa che resterà nel tempo. Qoelet può affermare con una certa qual fierezza: “Ho fatto anche grandi lavori” (v.4). Ha fatto costruire “grandi palazzi”, piantare grandi “giardini” (lett. “paradisi” v.5), innaffiati con immense “cisterne d’acqua”. Per coltivarli si procura ovviamente schiere di “schiavi e schiave più di tutti i suoi predecessori in Gerusalemme” (v.7).
Dopo aver realizzato tutto questo il cuore rimane tuttavia ancora insoddisfatto. Altra pista: “Ho accumulato molti oggetti d’oro e d’argento. Ho preso le ricchezze e i tesori di altri re e governanti” (v.8). I “tesori di re” sono i frutti delle battaglie vinte, mentre i tesori “dei governanti” sono i tributi degli stati vassalli. La nuova strada alla ricerca della felicità è dunque incrementare all’inverosimile la propria ricchezza. In effetti il denaro non offre un senso di onnipotenza? Con esso l’uomo può accaparrarsi qualsiasi cosa, si illude di poter comprare con essa anche la felicità. Ma già il salmo 48 accennava alla stoltezza del gettarsi nell’illusione della ricchezza: “Per quanto si paghi il riscatto di una vita, non potrà mai bastare per vivere senza fine, e non vedere la tomba” (v 9).
Quale pista rimane? Se stordimento, successo e denaro non sono serviti allora non resta che tentare la strada dei piaceri e del sesso. Ecco il nostro Qoelet circondarsi allora di una corte gaudente e di “tante belle donne” (v.8; cfr 1Re 11,3). Trascorrere le giornate tra musica, balli e piaceri riempirà finalmente il suo cuore?
Alla fine Qoelet può ben affermare a ragion di causa: “Ho soddisfatto ogni mio desiderio”. Non si è negato nulla! Ha provato di tutto pur di trovare una risposta alla sua insoddisfazione.
Ma quale la sua risposta finale? Da un lato egli afferma solo un unico guadagno: una certa soddisfazione per ciò che è riuscito a realizzare: “Sono riuscito a godere delle mie attività: questa è stata la ricompensa per tutte le mie fatiche”(v.10). Ma dopo questa considerazione ecco riaffacciarsi con lucidità spietata il solito e lucido ritornello: “Ma ho concluso che tutto è vanità” (v.11). Sì c’è un guadagno in ciò che si è riusciti a fare con le proprie forze, ma tutto questo a che scopo? L’agire umano, il suo agitarsi, il suo affannarsi alla fine gli risulta senza senso. “Chi sa quel che all’uomo convenga durante la vita, nei brevi giorni della sua vana esistenza che egli trascorre come un’ombra?” (6,12).
La tesi finale di Qoelet sarà che pur ricercando il bene, sola cosa che conta, il cuore dell’uomo rimane insoddisfatto. Il discorso rimane aperto perché rimane una nostalgia di assoluto che attende una rivelazione ulteriore, una nuova possibilità che Qoelet non può ancora intravedere.
Collatio
Il libro del Qoelet è un libro attualissimo, può essere dato in mano all’uomo di oggi che vi si rispecchierà alla perfezione. Come Qoelet egli può, in questa nostra società del benessere ammalata di un indefinito malessere, avere tutto, provare tutto… rimanendo, a quanto pare, sempre insoddisfatto. Non è felice anche se la sua vita è piena di “cose”, di nuove opportunità.
Come bambini scontenti vogliamo giocattoli sempre nuovi: le novità per un certo tempo mettono a tacere il nostro vuoto, le paura, l’ansia. Ma ben presto le “novità” cessano di essere tali e l’insoddisfazione, inesorabile e appiccicaticcia compagna di viaggio, si riaffaccia bussando alla nostra porta e pretendendo un nuovo appagamento in un inesauribile circolo vizioso. Nelle nostre città dove sono offerti a cascata miriadi di svaghi, di divertimenti e di piaceri i volti rimangono nonostante tutto tristi, tirati, fuggevoli, chiusi. Alla fine la vita diviene insopportabile perché sembra tradire quella sete di felicità sempre inappagata: “In questa vita sembra tutto inutile” (v.11) ricorda, scotendo il capo, il nostro Qoelet..
Vi è il più delle volte un’allegria sguaiata che è una gioia falsa: una maschera della felicità. Essa cerca di nascondere miseramente il vuoto e l’angoscia che si cerca a forza di mettere a tacere, schiacciare, rinchiudere come il bagaglio in una valigia troppo piccola. E quando questa falsa allegria svanisce come “hebel-soffio che svanisce” l’uomo si trova attanagliato dalla noia dalla quale non riesce a fuggire. Non sa più cosa volere e cosa cercare: “Ora voglio provare ogni specie di piacere e di soddisfazione. Ma tutto mi lasciava sempre un senso di vuoto” (v.1). Qoelet è annoiato. Ma cos’è la noia, chi è la sua “infelice madre”? La psicologia insegna che essa è figlia di un rifiuto inconsapevole di un “qualcosa”. Questo rifiuto inconscio crea un vuoto che non è rimpiazzato da nulla se non dalla… noia appunto che sola rimane conscia. In un testo conciso lo scrittore francese Antoine de Saint Exupery diceva: “E lavorano nella noia / nulla manca loro / fuorché il nodo divino / che lega tutte le cose / e tutto manca”. “Tutto manca” e la noia come un campanello rosso d’allarme segnala un vuoto al quale non si riesce a dare un nome. Rimane l’infelicità: fortunatamente! perché questa può trasformarsi in un richiamo a qualcos’“altro”, impedendoci di sprofondare nella voragine disperata del non senso. L’insoddisfazione allora, come accade a Qoelet, si trasforma in nostalgia di una pienezza di vita avvolta ancora nella nebbia, di un legame che tenga insieme finalmente il tutto: “nulla manca loro / fuorché il nodo divino / che lega tutte le cose”.
A questo punto diamo atto al coraggio della ricerca di Qoelet che non si ripiega su se stesso e sulla propria infelicità. Ha il coraggio di rimanere in ascolto della propria insoddisfazione, non la nega, non la tarpa, ma accondiscende alla sua richiesta che lo spinge a cercare oltre: “Il divertimento lascia insoddisfatti, l’allegria non serve a niente. Allora ho cercato…” (v.2s).
Non teme di percorrere le strade più diverse al fine di trovare una risposta che appaghi finalmente il suo cuore. A questo scopo l’alcol, il sesso, il denaro, il successo divengono percorsi, anche se infruttuosi, di una ricerca consapevole di senso, di felicità. Tutte queste strade per Qoelet si trasformano in successivi – e provvidenziali! – trampolini di lancio per una ricerca che lo costringe ad andare sempre più in profondità al proprio cuore. E il cuore reclama l’infinito.
Sant’Agostino afferma più volte che il cuore dell’uomo è stato creato a misura dell’infinito che è Dio stesso. Egli inizia il libro delle sue “Confessioni” con una delle sue frasi lapidarie, riassuntive di tutta un’esperienza, che è un grido di preghiera: “Signore ci hai fatti per te, e il nostro cuore non trova pace finché non riposa in te”. Inutile allora tentare di colmare il proprio vuoto mediante poveri espedienti umani che si riducono alla fine a inutili tentativi di riempirlo di “cose”. Il cuore mai potrà essere colmato se non da ciò che è infinito: da Dio solo. Non per nulla il santo appare come l’uomo più felice di questa terra: ha scoperto una gioia piena e infinita che nulla potrà mai turbare. Il monaco Landuino nell’elogio di san Bruno, fondatore della Certosa, poteva affermare di lui: “Sempre erat festo vulto – Il suo volto era sempre gioioso”.
Il nostro Dio non vuole la sua creatura triste e annoiata: l’ha creata per la gioia che scaturisce dalla comunione nell’amore con lui e con i nostri fratelli. Non per nulla la gioia del regno è paragonata a un festoso banchetto e il primo miracolo di Gesù avviene forse proprio nel contesto gioviale di un pranzo di nozze? Fiodor Dostoevskij, nei “I fratelli Karamazov” fa dire a Mytia, uno dei protagonisti: “Signore facci ricordare che il tuo primo miracolo lo facesti per aiutare degli uomini a far festa, alle nozze di Cana. Facci ricordare che chi ama gli uomini, ama anche la loro gioia, che senza gioia non si può vivere, che tutto ciò che è vero e bello è sempre pieno della tua misericordia infinita”.
Oratio
“Dio della mia gioia e del mio giubilo”: sono parole del salmo 42 e il credente, nel grigio e nella noia di tante strade percorse dall’uomo d’oggi, dovrebbe testimoniarlo.
Signore, donaci allora la tua gioia, quella che hai promesso la sera di pasqua ai tuoi discepoli. Una gioia che nessuno potrà mai toglierci, perché non costruita sulla sabbia delle cose, dei ruoli, dei successi, ma sulla roccia certa che la nostra vita è ancorata alla tua, che tu ci hai fatti per te, per la vita, per la comunione con te. Facci scoprire che la felicità non sta nell’avere ma nel donare senza misura. E che nel dono di noi stessi, in questa partecipazione alla tua passione, possiamo sperimentare la gioia della vita nuova.
Liberaci dalla tentazione di credere che saranno le cose di questo mondo a riempirci il cuore, liberaci da questa illusione. Fa’ che ti cerchiamo in verità con cuore indiviso, sostieni tu il nostro incerto cammino e la nostra faticosa ricerca: facci sin d’ora toccare con mano che solo tu puoi riempire totalmente il nostro cuore rendendolo capace di amore e di gratuità.
Annunceremo così al mondo che tu hai colmato la nostra vita della gioia più vera “in misura colma e pigiata”, più di “quando abbondano vino e frumento” (Sal 42). La nostra gioia e il nostro sorriso diverranno testimonianza più di tante altre parole.