• 05 Apr

    Beati coloro che ascoltano la Parola

    Lc 11,27-28

    di p. Attilio Franco Fabris 

    Chi è più beato? Immaginiamo la risposta a questa domanda da parte di chi sta passando sotto casa proprio in questo momento. Ci sentiremo quasi sicuramente rispondere: È beato chi ha successo nella vita, chi ha un buon posto di lavoro, la salute, una bella famiglia, una casa e nessun mutuo da pagare, un sicuro conto in banca… Ciascuno si ritaglia sull’onda del proprio “sogno-desiderio” la “sua” beatitudine vivendo in funzione di essa, per poi accorgersi che tutto questo… non basta ancora a farlo contento. Infatti non ci si sente mai pienamente “beati”; è come se alla fine mancasse sempre un qualcosa di importante, ma al quale non si sa dare un nome preciso perché ci sfugge. Una cosa è certa: sentiamo il bisogno di essere contenti, beati appunto! E in questo bisogno innato nel cuore scorgiamo una scintilla divina: Dio ci ha creati per questo! Scriveva Agostino, il grande indagatore del cuore umano: “Noi tutti certamente bramiamo vivere felici e tra gli uomini non c’è nessuno che neghi il proprio assenso a questa affermazione anche prima che venga esposta in tutta la sua portata” (De moribus eccl., 1,3).
    Il problema sta però nel fatto che l’uomo ha perso l’orientamento nella ricerca di questa felicità alla quale aspira: intuisce che c’è ma non la trova, il più delle volte sbaglia strada, spesso alla fine rinuncia a cercarla: si rassegna miseramente mettendo a tacere la sua sete profonda di gioia e sprofondando nella tristezza e nella noia.
    Ma la Parola di Dio, Gesù stesso, apre uno spiraglio – certamente si tratta di una “porta stretta” – a chi cerca la vera felicità. Ma è necessario che lo Spirito ci convinca di questa rivelazione. È lui che ci invita alla fiducia e alla docilità del cuore: “Cerca la gioia del Signore, esaudirà i desideri del tuo cuore” (Sal 36,4).
    Apri, Spirito santo, il mio cuore, la mia mente, tutto il mio essere ad accogliere il tuo dono, a lodare e benedire il tuo nome, nel nome del Padre, nel nome del Figlio, nel nome della Santissima Trinità. Donami Signore il senso della tua presenza e disponi il mio cuore all’ascolto. Purifica la mia mente, il mio cuore e la mia volontà e tutto il mio essere da tutto ciò che non proviene da te ed è fonte di tristezza. Distogli il mio sguardo da me stesso, da tutte quelle preoccupazioni terrene che mi impediscono di cercare il mio vero bene e mi rendono prigioniero di me stesso. Abilita i miei occhi e il mio cuore a scorgere la direzione in cui devo incamminarmi se vorrò scoprire l’autentica beatitudine che non tramonta.

     Lectio

     È evidente come in questo testo Luca voglia evidenziare la centralità che deve avere nella sua comunità l’ascolto della Parola. Qui infatti risiede la vera beatitudine del discepolo e della comunità che consiste nella comunione con Cristo nel quale è data ogni benedizione. Un ascolto che produce una sintonia profonda con Cristo tale da creare una nuova consanguineità con lui, diversa ma non meno vera da quella della carne e del sangue. Come Maria attraverso l’ascolto della Parola il discepolo – e la comunità –  “concepisce” in sé il verbo e lo fa “crescere” in sé mediante la custodia della sua Parola.
    L’episodio narrato lo troviamo solo nel vangelo di Luca: è assente dagli altri. Ciò significa che a Luca preme sottolineare il messaggio già d’altra parte preannunciato, con altra sottolineatura, in 8,19-21 (e presente in tutti i sinottici): Un giorno andarono a trovarlo la madre e i fratelli, ma non potevano avvicinarlo a causa della folla. Gli fu annunziato: «Tua madre e i tuoi fratelli sono qui fuori e desiderano vederti». Ma egli rispose: «Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica».
    Strutturalmente il nostro brano si presenta come un “apoftegma” contenente due beatitudini: dapprima una donna del popolo proclama “beata” la madre che ha avuto in dono un figlio così straordinario, al che Gesù ribatte subito proclamando “beato piuttosto” chi ascolta la parola di Dio e la mette in pratica!
    Mentre diceva ciò” (v. 27): di cosa Gesù sta parlando? Ci si riferisce alla risposta all’accusa da parte di scribi e farisei di operare guarigioni ed esorcismi in nome di Beelzebul “il capo dei demoni“. Gesù ribadisce loro che è esattamente il contrario:  questi sono segni che annunciano il compiersi in lui del regno di Dio.  Sembra perciò che questo il brevissimo episodio narrato subito dopo sia un ammonimento a perseverare nell’ascolto della parola e nel custodirla al fine di poter “stare” con Cristo (v. 23) e non correre il rischio di cadere nei lacci del nemico (vv. 24-25).
    Se da un lato scribi e farisei avanzano sospetti e accuse nei confronti di Gesù di Nazaret, quanto egli dice e fa suscita dall’altro lo stupore, anzi l’entusiasmo di una sua “fan”, un’attenta ascoltatrice e forse discepola. Si tratta di una semplice donna del popolo, che interrompe improvvisamente il discorso di Gesù con un grido “Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!” (v. 27). Si tratta di un’espressione tipicamente semitica che fa riferimento alla ricchezza della maternità e al suo mistero (cfr 10,23; 23,29): il ventre è il luogo della generazione, le mammelle quello della crescita, dello sviluppo del nascituro. La reazione di questa donna è simpatica perché esprime in modo squisitamente umano, anzi femminile e materno tutta la sua gioia: ella proclama a voce alta la beatitudine della madre del Rabbi di Nazaret per avergli dato l’esistenza. Dunque per questa donna rimane sempre Gesù il motivo della beatitudine della madre.
    All’interno del percorso evangelico è possibile scorgere sullo sfondo un riferimento sfumato alle profezie pronunciate sia da Elisabetta come da Maria stessa. Elisabetta, vedendo entrare nella sua casa di Ain Karem Maria, ne proclama la beatitudine a motivo di colui che è stato generato nel suo grembo: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!” (1,42). Subito dopo, nel canto del Magnificat, è Maria che proclama tutta la sua gioia-beatitudine alla quale invita tutti ad associarsi: “Tutte le generazioni mi diranno beata” (1,48). La donna del popolo, Elisabetta, Maria stessa, tutta la chiesa, riconosce la sua beatitudine. Ma in che cosa essa consiste?  Dove la sua sorgente più profonda?
    Ecco allora la risposta di Gesù che è offerta anch’essa nel linguaggio del macarismo: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (v. 28). Una risposta che non vuole certamente negare la prima beatitudine ma la vuole precisare andando molto più in profondità: “sì, ma…” “piuttosto…“.
    Appare evidente che Gesù vuole porre l’ascolto obbedienziale della Parola al di sopra anche dello stesso  privilegio della maternità fisica di sua madre. Egli vuole così stabilire una precisa gerarchia di valori all’interno della sua comunità (di cui anche Maria fa parte!) che si vengono così a strutturare a partire proprio dall’ascolto della Parola da cui scaturisce la fede.
    Con ciò Luca evita nella comunità cristiana il rischio di assolutizzare impropriamente il semplice  privilegio della maternità fisica di Maria benché essa sia divina e messianica.
    Detto questo occorre ribadire che Gesù non intende certamente sminuire la figura e il ruolo di Maria. Nel terzo vangelo ella è subito presentata alla Chiesa come il modello del perfetto discepolo docile e obbediente alla parola ascoltata: “Eccomi, sono la serva del Signore, si compia in me secondo la sua Parola“(1,38).  Ed è proprio l’obbedienza (ob-audire!) alla Parola che rende possibile la sua maternità. Elisabetta riconoscerà per prima questa più profonda e vera beatitudine nella “madre del suo Signore“: “E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore» (Lc 1,45).
    E Maria è ancora proposta come modello di coloro che accogliendo la Parola la custodiscono gelosamente del proprio cuore: “Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore” (2,19); “Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore” (2,51; cfr 8,15).
    Appare evidente allora che la vera beatitudine di Maria non consiste anzitutto in ciò che la donna esalta, bensì nel fatto che il suo assenso alla Parola udita permette a Dio di “fare grandi cose” in lei. Maria anticipa in sé ciò che “il Signore” vuole operare nel cuore di ogni credente. In tal modo la beatitudine pronunciata da Gesù si estende a tutti i discepoli.
    Così la beatitudine pronunciata da Gesù non sminuisce in minimo modo la dignità della madre, ma la innalza ulteriormente anche se ad un livello diverso e più profondo: la sua beatitudine non consiste solo e anzitutto nell’averlo generato nella carne quanto “piuttosto” dalla sua fede e dalla piena disponibilità al disegno di Dio.
    La donna del popolo tutto questo non l’ha ancora compreso. Ella si ferma prima non sapendo cogliere un “oltre” di fondamentale importanza. Il suo entusiasmo, dettato da una santa invidia, rischia di distoglierla dall’essenziale; essa volge lo sguardo indietro (“il ventre… le mammelle“), ignorando che la fede che scaturisce dall’ascolto (Rm 10,17) può operare l’impossibile anche in lei. Ma tutto questo esige la fatica dell’ascolto, dell’obbedienza, della custodia della parola. Si tratta di un balzo nella fede al di là dell’immediato, un salto che è premessa-promessa di autentica beatitudine. 

     Collatio

     Che la si chiami beatitudine, felicità, realizzazione di sé, o in altri molteplici modi, una cosa è certa: l’uomo cerca sempre e comunque la gioia, la pienezza della sua vita. Si tratta di un desiderio iscritto nel cuore dell’uomo da Dio stesso che ha creato l’uomo per la gioia, la beatitudine appunto: “Questo desiderio è di origine divina: Dio l’ha messo nel cuore dell’uomo per attirarlo a sé, perché egli solo lo può colmare” (CCC 1718). In questo “essere colmato” da-di Dio consiste la beatitudine dell’uomo! Beatitudine dell’uomo è la comunione, l’amicizia, l’intimità con Dio, il poter “passeggiare con lui alla brezza della sera” nel giardino senza più fuggire da lui.
    A causa del peccato questa intimità è andata perduta: nel cuore dell’uomo si è instillato il sospetto su un “dio” che non vuole realmente il bene e la gioia per lui. Sospetto che questo “dio” pretenda solo sacrifici, mortificazioni, rinunce… la gioia all’uomo sarebbe costantemente negata e al massimo solo prospettata come promessa nell’al di là. All’uomo tocca per ora solo meritarsi – appunto attraverso rinunce e  mortificazioni – la gioia del Paradiso rinunciando alle gioie di questo mondo. Inutile dire che questa prospettiva non alletti nessuno, anzi ottenga l’effetto contrario del perdurare in noi della diffidenza e della paura.  Sotto questa angolatura anche il discorso delle beatitudini risulta ambiguo e diffidente (e il scarso annuncio che se ne fa nei pulpiti e nelle aule di catechesi lo testimonia!).
    Così alla fine l’uomo ha cercato e cerca tuttora la sua beatitudine altrove.
    Ma se dicevamo che in noi è inscritto il desiderio-bisogno della beatitudine, permane il problema di dove realmente cercarla per poterne gustare la dolcezza e appagare la sete del cuore. Anche chi fa il male e ne percorre le vie – magari in tutta una vita spesa nella violenza, nel sesso, nella droga o altro – è convinto di trovare lì la propria beatitudine!
    Ecco allora Dio curvarsi nuovamente sull’uomo per indicargli, partendo da Abramo (Gn 12,1) per giungere a Cristo (Col 1,19), la strada da ripercorrere (la “conversione”) per ritornare in possesso del suo autentico destino di gioia: “Beato l’uomo che teme il Signore e trova grande gioia nei suoi comandamenti” (Sal 111,1).
    Un destino che Gesù incarna pienamente in se stesso perché è lui anzitutto l'”uomo beato” per antonomasia: vive nel costante ascolto della volontà del Padre e nella fedeltà ai suoi comandamenti (cfr Gv 5,30), si compiace di compierne la volontà (cfr Gv 6,38), rimane costantemente in unione con lui (cfr Gv 17,21), dinanzi alle prove si affida totalmente alle sue promesse (cfr Mt 26,42). È Gesù che per primo sperimenta nella gioia della resurrezione la beatitudine dell’ “uomo che spera nel Signore” (Sal 39,5). Se Gesù annuncia le beatitudini lo fa perché è lui per primo a sperimentarne la realtà e la verità.
    Uniti a Cristo possiamo così, con lui e in lui, a nostra volta intraprendere il cammino per vivere già ora “beati sulla terra” (cfr Sal 40,3). Se infatti la beatitudine dell’uomo è la comunione con Dio essa ci è data, in Cristo, da sperimentare sin d’ora in germe nell’attesa della sua piena manifestazione alla fine dei tempi “quando Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28) come somma ed eterna beatitudine.
    Ma non è facile entrare nell’orizzonte della via indicata da Cristo per ritrovare quella beatitudine per cui siamo stati fatti. Essa ci propone un percorso controcorrente che presupponendo la docilità della fede ci appare troppo ardua, forse troppo lontana da quel mondo di desideri e aspettative immediate con cui costelliamo – anche nella vita consacrata! – le nostre esistenze e che viaggiano a raso terra. Rischiamo così dinanzi alla proposta evangelica di un cammino costituito dalla fatica del costante ascolto della Parola, dall’umile docilità della fede, dal costante esercizio della speranza di preferire la… fermata prima. Rischiamo di fare come la donna dell’episodio evangelico che nel suo slancio è sì entusiasta delle parole di Cristo ma giunge a riconoscere in lui una beatitudine legata ancora solo “alla carne e al sangue“(cfr Mt 16,17).
    A questa donna, e a tutti noi, Gesù fa una proposta che va molto più in profondondità ed è offerta a tutti senza esclusione: si tratta di una beatitudine che è data a tutti e non solo a qualche privilegiato. Maria è beata perché non solo e anzitutto è madre nella carne di Cristo (anche se questo per lei è un privilegio unico!), quanto piuttosto perché persevera nell’attento ascolto della Parola  meditata e custodita “giorno e notte” (cfr Sal 1). Così la donna del popolo invece di invidiare Maria è invitata da Gesù ad imitarla perché la maternità più profonda consiste nel concepire la Parola in sé attraverso l’ascolto e nel farla crescere in sé attraverso la sua gelosa custodia (cfr 8,21).
    Tutti siamo invitati ad entrare nella beatitudine del concepire nella nostra carne il Verbo: “Il ventre è l’ascolto che fa concepire la Parola, le mammelle sono la custodia e la premura nel far crescere ciò che è stato generato (8,15; 8,21)” (S. Fausti).  Quando in noi viene “concepito” (attraverso l’ascolto) e allattato (attraverso la custodia) il Verbo di Dio entriamo nella beatitudine di ogni madre che sente in sé crescere il dono della vita nuova, di una comunione donata con l'”Altro”. E questo Altro non è che Cristo stesso nel quale ci è donata dal Padre la pienezza di ogni “benedizione dai cieli” (cfr Ef 1,3). In lui ci sono dati tutti quei beni che il cuore sommamente aspira: la certezza di essere amati, la consapevolezza che Dio ha in mano il nostro destino, che sua volontà è quella di averci in comunione eterna di vita con lui.
    Si tratta di una “divina natività” (san Paolo della Croce) che si attualizza in ogni autentico discepolo: cosicché Cristo continua a nascere e a crescere in noi e tra noi.
    A noi entrare nella luce di questa beatitudine che è promessa di una vita nuova in noi: Cristo in noi. Guarderemo a Maria non con l’invidia della donna del popolo, ma come a colei che ci indica la strada per rivivere in noi la sua stessa esperienza di grazia. Con Maria potremo magnificare Dio per le meraviglie che ha operato in lei e in noi. E saremo con lei a nostra volta beati. In forza dell’ascolto (cfr Ap 1,3). 

     Oratio

     E’ beato, o Padre, chi lascia che la tua Parola possa essere seminata nei solchi del suo cuore affinché nel silenzio e nel nascondimento essa possa germinare e portare frutto. “Beato chi custodisce queste parole” (Ap 22,7).  È beato chi ascolta la tua Parola che è seme che concepisce nel suo cuore il tuo Verbo che nuovamente si fa carne e “pone la sua tenda tra di noi”.
    Sarà beato questo cuore perché potrà dire con l’apostolo Paolo: “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20).
    Spirito Santo facci entrare in questa beatitudine! Non permettere che andiamo a cercare felicità altrove, lontano dalla comunione con Cristo. Siamo stati fatti per lui e nostra beatitudine è stare con lui abbracciando in lui ogni cosa. Se Cristo vivrà in noi saremo beati sempre e in ogni caso, pur in mezzo a mille prove e sofferenze, perché avremo in noi la gioia vera e imperitura che “nessuno vi potrà togliere” (Gv 16,23).
    O Maria, tu che hai sperimentato in te la pienezza di questa gioia, insegnaci a cercarla e a custodirla nella certezza che è  “beato l’uomo che teme il Signore e cammina nelle sue vie” (Sal 127,1).

    Posted by attilio @ 12:05

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