• 24 Apr

    Alcuni accenni di arte altomedievale/longobarda

     

    Con il termine Altomedioevo si indica il periodo storico compreso fra il VII secolo e la metà dell’XI secolo d.C. Inizialmente il territorio dell’Italia è diviso tra Longobardi e Bizantini, in continua lotta fra loro. Con l’intervento di Carlo, re dei Franchi, il dominio longobardo viene abbattuto. Egli riunisce sotto di sé il territorio francese, l’Italia settentrionale e parte dell’Italia centrale. La civiltà romana del tardo impero diventa il modello da imitare: nell’arte si recuperano le forme espressive del mondo classico e cristiano: questo periodo, infatti, viene comunemente definito «rinascita carolingia». In questa complessa realtà l’arte, ovviamente, non può manifestare caratteri unitari. Pur nel generale disordine e nella profonda crisi economica, rimangono vive ed operanti le tradizioni artistiche locali, che vengono arricchite, soprattutto nell’Italia del Nord, dagli influssi dell’arte longobarda, carolingia ed ottoniana. La parola «barbaro» significa letteralmente «straniero» ma, per estensione, è entrata nel linguaggio corrente come sinonimo di «incolto, rozzo, ignorante, di civiltà inferiore». Certamente la cultura barbarica appare, rispetto a quella del tardo impero e bizantina, ancora a livello primitivo; tuttavia le opere d’arte a noi pervenute, pur nella loro semplicità e ripetitività di temi, sono certamente il risultato di un lavoro accurato, dovuto ad artigiani specializzati. La cultura barbarica è una cultura rurale e per il barbaro l’arte è soprattutto decorazione ed ornamento. Acquistano una notevole importanza i centri culturali religiosi. L’artigianato, nel convento, è regolato da norme e organizzato in fasi e tempi di lavoro: la vita operosa diviene un valore positivo ed una forma di preghiera. L’arte non serve più a produrre oggetti che, per quanto ricchi ed elaborati, sono rivolti essenzialmente alla vita quotidiana; essa è finalizzata nuovamente alla costruzione di opere destinate alla collettività e realizzate per la gloria di Dio. Molte di queste opere non recano la firma del loro autore e ciò ha fatto ritenere che fossero il risultato di un’attività collettiva spontanea, non sottoposta alla guida di un «direttore dei lavori». In realtà, però, qualcuno che si curasse di suddividere i compiti dei singoli e controllasse l?interno svolgimento del lavoro doveva necessariamente esistere. E’ vero invece che, in questo periodo, è considerato fondamentale svolgere bene un mestiere e non tanto esprimersi in modo personale. All’artigiano si richiede soprattutto di dimostrare la sua abilità tecnica, mentre non si valuta importante la sua originalità espressiva: quindi firmare l’opera non ha, per l’autore, alcun significato. Alto medioevo: architettura Le testimonianze dell’arte medioevale si riferiscono essenzialmente a costruzioni ed opere di carattere religioso. A Roma, ed in tutta l?Italia Centrale, gli edifici della tarda romanità (templi, terme, basiliche) vengono consacrati al culto cristiano e vengono decorati in modo da assumere l’aspetto di chiese vere e proprie; marmi romani (capitelli, architravi, fusti di colonne, ecc.) vengono largamente impiegati nelle chiese. Caratteristica dell’architettura di questi secoli è, appunto, il reimpiego di elementi di spoglio dagli antichi edifici di epoca romana. Anche gli ordini monastici (soprattutto Benedettini) fondano, ampliano e restaurano opere di carattere religioso. Alcune di esse sono simili, come a Borzone, alle costruzioni ravennate; altre sono più semplici, con pianta rettangolare. Hanno muri spessi e finestre molto strette; all’interni, le colonne sono talvolta sostituite da pilastri. Nel territorio sorgono insediamenti isolati, di suo sia civile (rocche, castelli) sia religioso (abbazie). Essi sorgono in posizione strategica, tale da garantire il controllo a vista del territorio circostante. Con il passare del tempo, attorno a questi insediamenti si sviluppa un borgo, realizzato dapprima con costruzioni in legno, che diviene successivamente un agglomerato di case in pietra e mattoni. Nelle abbazie, i monaci svolgono un’intensa attività culturale e di sviluppo agricolo.

  • 16 Apr

    Dov’è il tuo Dio?

     

    Lectio del Salmo 88

     

     di p. Attilio Franco Fabris

      

     Chiediamo allo Spirito di aprirci all’ascolto della Parola e della vita. Quest’ultima porta in sé tante domande, dubbi e incertezze: è necessario che la fede, che scaturisce dall’ascolto della Parola, sostenga il nostro cammino fatto spesso di timidi e barcollanti passi. Infatti prima o poi la prova fisica, morale o spirituale, investe il cuore ingaggiandovi una cruda battaglia. Battaglia del dolore che segna lo scaturire impetuoso di un grido che contiene una domanda rivolta a Dio stesso: “Se ci sei… perché?”. Tante certezze iniziano allora a vacillare, vengono meno le risposte scontate, le sicurezze crollano, i dubbi acquistano consistenza e pesantezza. In questi momenti si ha bisogno di qualcuno che ci prenda per mano; abbiamo bisogno di un volto, di una parola che infonda una rinnovata speranza, a volte umanamente impossibile.
    Invochiamo lo Spirito perché faccia toccare la vicinanza del Padre nella nostra vita e in quella di tanti fratelli e sorelle segnati in questo momento dalla prova e dal dubbio.
    “Vieni, Signore, passi il tuo soffio come la brezza primaverile
    che fa fiorire la vita e schiude l’amore,
    o come l’uragano che scatena una forza sconosciuta
    e solleva energie addormentate.
    Passi il tuo soffio nel nostro sguardo
    per portarlo verso orizzonti più lontani e più vasti.
    Passi il tuo soffio sui nostri volti rattristati
    per farvi riapparire il sorriso,
    sulle nostre mani stanche
    per rianimarle e rimetterle gioiosamente all’opera.
    Passi il tuo soffio fin dall’aurora
    per portare con sé tutta la nostra giornata in uno slancio generoso.
    Passi il tuo soffio all’avvicinarsi della notte
    per conservarci nella tua luce e nel tuo fervore”. (P. Maior)

     

    Lectio

    Abbiamo scelto per la nostra Lectio un brano arduo non tanto per difficoltà esegetiche o testuali ma per il suo contenuto esperienziale: si tratta del salmo 88. Tra tutte le lamentazioni – che appartengono ad un genere letterario tipico del libro dei Salmi – il nostro testo appare con una sua peculiarità: è infatti, fra tutti i salmi di lamentazione, il più cupo e il più drammatico.
    L’impressione che se ne ricava è di un testo che contiene il grido disperato di un uomo che si sente sprofondare nel nulla della morte, “un vero e proprio ultimo urlo lanciato a Dio dalla parte degli inferi” lo definisce l’esegeta Gianfranco Ravasi.
    Possiamo suddividere il salmo in quattro parti al fine di rendere più agevole il nostro commento:
    – l’ introduzione: vv. 2-3
    – l’esposizione da parte del salmista della sua situazione: vv. 4-11
    – gli appelli rivolti a Dio: vv. 11-13
    – la ripresa dell’esposizione del caso: vv. 14-19
    Il salmo si introduce con una invocazione rivolta al “Signore Dio della mia salvezza” (v. 2): questo richiamo ad un Dio di salvezza è l’unico barlume di speranza in tutto il rimanente testo, nulla più. A questa flebile persuasione si aggancia tutta la preghiera implorante che segue.
    Si tratta di una preghiera incessante, insistente, martellante che risuona “giorno e notte” e che esprime sia la grande necessità in cui si trova l’orante sia l’attesa spasmodica che al termine Dio si decida ad ascoltare.
    Dopo l’introduzione ecco il salmista esporre a Dio la sua drammatica situazione (vv 4-10):  essa viene riassunta nell’espressione “sono colmo di sventure” (v. 4). Si tratta di una “sazietà” di dolore oltre il quale non è più possibile andare. E’ l’implorazione di colui che grida dicendo: “Non ne posso più!” in quanto si sente già nell’anticamera del regno della morte, sull'”orlo della tomba“, in un cammino “in discesa” (lett.) inevitabilmente diretto verso le viscere della terra, nel  regno del nulla che è lo Scheol.
    Per l’uomo dell’A.T. il tempo della salvezza è solo il presente contenuto nel ristretto spazio della vita terrena. Per colui che passa nel regno dei morti cessa ogni possibilità di sperimentare la salvezza, e questo per la semplice convinzione che Dio somma vita, non può avere nulla a che fare con la morte. Nello Scheol c’è sì una sorta di sopravvivenza, ma come ombra di se stessi, senza possibilità di comunione con Dio. Nel luogo dell'”Abaddòn” (v. 12; cfr Ap 9,11), ovvero della distruzione, non si potrà più celebrare la misericordia di Dio.  La conclusione è perciò drammatica. Le risonanze del salmista sono amare e sull’orlo della disperazione: “Sto per essere tagliato fuori… sto per essere dimenticato e abbandonato da Dio, mentre la vita mi sfugge tra le mani senza che io possa far nulla per trattenerla”.
    Autore di tutto questo dramma è, scandalosamente, Dio stesso. Infatti per la teologia ebraica veterotestamentaria tutto si riconduce a Dio sia nel bene che nel male. Quando la sventura, la sofferenza, la malattia coglie una persona, tale situazione viene letta nella categoria del “castigo”. Dio è “sdegnato” (v. 8)  per qualche colpa commessa. E questo castigo che coglie l’uomo suscita in lui solo spavento e terrore. L’immagine dei “flutti”  che sommergono è significativa: sono le onde del furore divino che inghiottono il nostro malcapitato senza che egli sia consapevole della ragione di tutto questo.
    Si potrebbe benissimo porre queste parole sulle labbra del paziente Giobbe, il quale accusando Dio di tutto il male che incombe su di lui dice quasi imprecando:su di me rinnovi i tuoi attacchi, contro di me aumenti la tua ira e truppe sempre fresche mi assalgono” (10,17); e ancora:  “Il mio spirito vien meno, i miei giorni si spengono; non c’è per me che la tomba !(17,1; cfr Lam 3,30).
    Questa parte contenente la descrizione della situazione termina in modo ancor più amaro e cupo: non solo Dio ha abbandonato il suo fedele, ma ha fatto sì che anche amici e parenti lo abbiano rifiutato, relegato in una solitudine senza consolazione. Tutti si sono distanziati da lui già in preda alla sventura. Siamo ancora molto vicini all’esperienza dolorosa di Giobbe che dice: “I miei fratelli si sono allontanati da me, persino gli amici mi si sono fatti stranieri. Scomparsi sono vicini e conoscenti, mi hanno dimenticato gli ospiti di casa; da estraneo mi trattano le mie ancelle, un forestiero sono ai loro occhi.(19,13-15).
    Non rimane che continuare a stendere al cielo le palme vuote delle mani nel gesto di una implorazione di chi a Dio non può dare nulla ma solo ricevere tutto. Sull’ “orlo della fossa” non rimane che rivolgersi nella supplica a questo Dio in preda all'”ira” e che sembra compiacersi di “terrorizzare” l’uomo che, solo e abbandonato da tutti, si trova in bilico tra la vita e la morte.
    La terza parte del salmo (vv.11-13) è costituita da una serie di domande poste  direttamente a Dio: sono domande in certo qual modo retoriche nel senso che sono rivolte a Dio affinché egli si persuada a mutare la triste condizione del salmista. L’idea di fondo è che, se negli inferi nessuno loda il Creatore, è cosa saggia che egli lasci continuare a vivere la sua creatura che così potrà ancora lodarlo. La preghiera del re Ezechia contiene il medesimo concetto: “Poiché non gli inferi ti lodano, né la morte ti canta inni; quanti scendono nella fossa non sperano nella tua fedeltà” (Is 38,18).
    Infine con i vv. 14-19 giungiamo all’ultima parte del nostro testo. Negli altri salmi è generalmente pervasa di fiducia, anzi, talvolta vi troviamo già il ringraziamento nella certezza che sicuramente si sarà esauditi. Non è così nel nostro: il salmista ritorna tristemente al suo caso, alla disperazione che lo attanaglia e dalla quale non riesce a distanziarsi. Anzi rincara la dose di amarezza con la forte e scioccante espressione “Sono moribondo fin dall’infanzia” (v. 16). Più che un semplice accenno ad una malattia cronica probabilmente si tratta di una chiarezza interiore su quella che è la condizione intrinsecamente mortale e fugace dell’uomo: “Ricorda quant’è breve la mia vita: perché quasi un nulla hai creato l’uomo?” (Sal 89,48).
    La conclusione risulta perciò in tragica e stonata tonalità “minore”: il salmo termina con un sapore di amaro e di vuoto. Dio sembra così lontano e assente dalla sofferenza del salmista che si sente “respinto” (v. 15) e riconosce come sconsolata la sua condizione. L’ultima espressione è ancor più cupa: nessuna luce appare all’orizzonte, compagne del dolore dell’uomo rimangono solo le “tenebre” della solitudine e del non senso della sua sofferenza. 

    Collactio

     C’è da stupirsi che il grido disperato contenuto nel salmo 88 non si traduca in aperta rivolta, in una sofferta accusa e ribellione contro la “crudeltà” con cui Dio sembra accanirsi inspiegabilmente contro quest’uomo.
    Questo salmo è una preghiera audace: noi siamo forse troppo abituati nella nostra preghiera ad un linguaggio impregnato di espressioni di troppo… amore e fiducia, gioia e speranza spesso dal sapore un po’ dolciastro. Sono espressioni che talvolta sono molto lontane dal nostro reale sentire. Qui non è così: le espressioni sono vere e forti, rasentano l’invettiva contro Dio: scandalizzano le “pie” orecchie degli amici di Giobbe che, pessimi teologi, vogliono in ogni caso difendere Dio.
    Le pesanti parole del salmo non temono di porsi come dura accusa al silenzio scandaloso di Dio dinanzi alla sofferenza dell’uomo. “Dov’è il tuo Dio?” (Sal 41,4): è questa un’antica domanda alla quale, con l’intelligenza fredda delle risposte stereotipate del catechismo, sappiamo dare immediatamente risposta: Dio è dappertutto, in ogni luogo, in cielo e in terra. Non vi è luogo in cui lui non sia presente. Eppure nel profondo della coscienza questa domanda, in un momento o l’altro della vita, si insinua inaspettata nella nostra coscienza non per invitare a ritrovare una certezza di fede ma per smantellarla e calarla nel vortice del dubbio. Dov’è Dio quando la sofferenza inutile dell’innocente grida un’ingiustizia che mette in discussione se non la sua esistenza almeno la sua bontà? Dov’è Dio quando la disperazione attanaglia il cuore e sembra di essere sperduti nel vuoto, senza fondamento, in balia di un nulla assurdo e senza volto? Dov’è Dio quando tutto in noi e attorno a noi acquista un sapore amaro di cenere, preannuncio di una morte certa dinanzi alla quale anche il credente vacilla? In questo stesso istante nel cuore di migliaia di persone nelle corsie degli ospedali, nelle case di cura, nelle carceri, ai capezzali di ammalati e moribondi oppure tra le mura di un anonimo appartamento di un qualsiasi condominio di una metropoli, questa domanda si impone alla coscienza come un terribile grido che sale verso un cielo che sembra di piombo attendendo risposta: “Dov’è il tuo Dio?” (Sal 41,4). Al grido implorante del salmo 88 nessuno può sfuggire perché prima o poi tutti in esso ci ritroveremo associati.
    Abbiamo tuttavia uno straordinario compagno e testimone: nella sua passione lo stesso Gesù (non per nulla la liturgia ci fa pregare questo salmo ogni venerdì e al sabato santo) vive fino in tutta la tragicità di questa invocazione di cui parla la lettera agli ebrei: “Con forti grida e lacrime supplicò chi poteva salvarlo dalla morte” (Ebr 5,7). E’ l’estremo urlo che vuole squarciare il silenzio di Dio dall’alto della croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46).
    Ed è l’esperienza fatta da tanti testimoni che hanno camminato lungo le ardue e spesso oscure vie della fede. Tra tutti scegliamo un testo di Teresa di Lisieux: “La mia anima fu invasa dalle più fitte tenebre e il pensiero del cielo così dolce per me, diventò motivo di lotta e di tormenti… Vorrei poter esprimere ciò che sento, ma ahimè! Credo sia impossibile. Bisogna aver percorso quella nera galleria per capirne l’oscurità… E quando voglio far riposare il mio cuore stanco per le tenebre che lo circondano, il mio tormento raddoppia; mi sembra che le tenebre, con voce di peccatori, mi dicano ridendo di me: Tu sogni la luce, credi di poter uscire un giorno dalle brume che ti circondano! Cammina, cammina e rallegrati per la morte che ti darà non già quello che speri, ma una notte più fonda ancora, la notte del nulla” (Storia di un’anima).
    È consolante ritrovare tra le pagine della sacra Scrittura un testo come il salmo 88 capace di rispecchiare la fatica del nostro credere e coraggioso nel gridare la situazione fragile e mortale dell’uomo che invoca una presenza capace di dare senso alla vita e alla morte. La Scrittura non esita a far propria questa angoscia che abita il fondo del cuore umano.
    Il salmo 88, non rischiarato dalla piena rivelazione, testimonia solo una fragile speranza che si blocca ai cancelli del regno dello Scheol ritraendosi inorridita affermando perentoria: lì Dio non può essere, lì si sarà abbandonati da tutti.
    Ma al credente in Cristo è data una speranza capace di trafiggere queste tenebre e di infrangere questi cancelli, di penetrare in quel buio con una certezza. Il cristiano possiede la grazia di intravedere una luce che per assurdo fuoriesce proprio dalla tomba da cui il salmista si ritrae inorridito. Scriveva il gesuita padre Theilard de Chardin che parlando di “vertiginosa voragine” evoca quasi la “fossa” e l'”Abaddòn” del salmista: “Più l’avvenire mi si apre dinanzi come una vertiginosa voragine, o un oscuro passaggio, e più avventurandomi in esso sulla tua parola, posso aver fiducia di perdermi o d’inabissarmi in te” (Ambiente divino).
    Come può infatti il Dio dell’alleanza, i cui doni sono irrevocabili, venir meno alla promessa della vita donata all’uomo sua creatura? 

    Oratio

     Nella notte del dubbio della fede, quando il grido di invocazione ad un Dio che sembra assente, si fa udire nel profondo del cuore, il Signore stesso ci si fa vicino.
    Ci viene accanto con la povera umanità del Crocifisso, non risolvendo magicamente i nostri problemi, ma con le mani e i piedi piagati, con il costato trafitto, per dirci di non spaventarci. “Non temere” suggerisce al cuore di ciascuno di noi:  “Non aver paura quando la vita ti chiede di entrare nelle tenebre e nella solitudine del Calvario, non temere di gridare giorno e notte affinché Dio così apparentemente assente ascolti la tua preghiera”.
    Anche Gesù sulla croce “emise un alto grido” (Mt 27,50) di invocazione al Padre, in tutto simile al grido del nostro salmista e dei mille crocifissi della storia. Ma quelle ferite del Calvario, a differenza delle nostre, non suppurano in disperazione ma irradiano speranza e luce; raccontano una fedeltà di un amore che non viene mai meno contro ogni evidenza che testimonierebbe il contrario. Quelle ferite possiedono la forza di suscitare in noi il coraggio di guardare oltre, di non sprofondare in una sorta di implosione nel nostro dolore. Quelle piaghe forti della loro debolezza ci rimettono in cammino alla scoperta del vero volto di Dio così vicino perché diverso dalle nostre povere attese.
    O Signore, donaci la grazia, di tener fissi gli occhi sulla tua croce nel momento in cui tutto sembra precipitare nel nulla. Che la croce divenga àncora gettata in mezzo al mare in tempesta, scoglio e faro indistruttibile in mezzo a quei flutti di morte di un mare tenebroso e in tempesta che vorrebbe spezzare in noi la speranza della tua presenza.

  • 14 Apr
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    Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?

    Lectio di Lc 12,54-59

     

     di p. Attilio Franco Fabris

      

    Hanno occhi e non vedono, hanno orecchie e non odono” (Mt 13,15): sono le amare parole di Gesù nei confronti di una generazione incapace di scorgere in lui la novità di Dio che porta a compimento le promesse di Abramo.
    Possiamo anche noi avere occhi e non vedere, orecchie e non udire i fatti e le parole con cui Dio continuamente si avvicina a noi e ci parla nelle cose più semplici di ogni giorno, come nei fatti più grandi della storia. Sempre Dio entra nella nostra storia, quella dell’umanità come in quella di ciascuno di noi. Ma noi come i discepoli di Emmaus, chiusi nelle nostre certezze e tristezze, rischiamo di non accorgerci della sua presenza.
    Chiediamo anzitutto allo Spirito di aprire “gli occhi del nostro cuore”, di strapparci – lui che è guarigione – quelle scure “cataratte” che persistono in noi impedendoci di vedere i segni di speranza e di vita che lui stesso dissemina lungo la storia. È lui che, al di là dell’avvicendarsi delle vicende umane, tesse la vera trama nascosta del cammino dell’umanità. È lui la vera forza ed energia che tutto muove spingendo la storia, come il vento le vele della nave, verso il Regno.
    Sapremo scorgere la dolcezza e la forza della sua azione? Avremo occhi per riconoscerla ed esultare? Avremo cuore, mente, volontà capaci di porsi costantemente in ascolto di “ciò che lo Spirito dice alle Chiese” (Ap 2,7)? Sapremo scorgere gli inviti discreti che egli sussurra alla Sposa affinché si prepari all’incontro con lo Sposo (Ap 22,17)? Non ci scandalizzeremo dinanzi alla sua voce potente e forte che risuona sulla bocca dei suoi scomodi profeti?
    “Spirito santo, fammi vedere tutto ciò che desideri farmi vedere, per rendermi partecipe di tutta la luce che abita in Te. Fammi vedere ciò che da solo non riesco a vedere. Fammi vedere ciò che non vorrei vedere, per timore dell’esigenza della luce, per viltà di fronte allo sforzo e al rinnegamento. Fammi vedere ciò che vorrei vedere: la via da seguire e le decisioni difficili da prendersi. Fammi vedere ciò che mi illudo di sapere e che invece non conosco. Fammi vedere ciò che dovrei vedere e che i mie pregiudizi mi impediscono di scoprire:la verità delle mie debolezze e delle mie colpe. Fammi vedere ciò che tu vedi: la bellezza del mio destino al servizio di Dio e dei fratelli, la grandezza dell’universo e l’immensità di Dio”.

    Lectio

    Il nostro brano si colloca in un capitolo che ha come tema il giudizio finale di Dio sulla storia. Il tempo scorre inesorabile e per l’uomo è questione di vita o di morte (ovvero di salvezza!) decidersi o meno per Dio. Tutto il capitolo si caratterizza perciò su una tonalità di “urgenza” da parte dell’uomo nei confronti del tempo che scorre e nel quale è chiamato a decidersi prima che sia troppo tardi.
    In questo tempo che è dato Dio stende la mano all’uomo per facilitargli l’accoglienza del dono della salvezza: offre dei “segni” di cui il primo e fondamentale è Cristo stesso: Mentre le folle si accalcavano, Gesù cominciò a dire: «Questa generazione è una generazione malvagia; essa cerca un segno, ma non le sarà dato nessun segno fuorché il segno di Giona” (Lc 11,29).
    Se dunque in un primo tempo Gesù sembra rifiutare categoricamente ai farisei la richiesta di offrire ulteriori “segni”, nel nostro brano egli ci ammonisce sul fatto che numerosi segni sono concessi agli occhi di coloro che sanno vedere. A quali “segni” si riferisce Gesù?  Non certamente a segni portentosi e straordinari come quelli richiesti, per metterlo alla prova, da “una generazione malvagia“. Gesù invita invece a scorgere i “segni” costituiti dal suo insegnamento e della sue parole per riconoscervi l’appressarsi del Regno di Dio e  per il quale ora è necessario deliberarsi.
    “Diceva ancora alle folle” (v.54): l’insegnamento è prolungato nel tempo (il verbo è all’imperfetto il che sta a dire l’importanza del messaggio) ed è rivolto a “tutti“, perché a tutti è donata la salvezza e perciò a tutti incombe il dovere di saper leggere il tempo presente (v.56) come il tempo decisivo in cui discernere “ciò che è giusto“(v.57) fare.
    L’insegnamento di Gesù si compone di due immagini paraboliche (vv. 54-59).Gesù si serve dapprima dell’immagine di fenomeni meteorologici che tutti sono in grado di interpretare: una nube che proviene da ovest, ossia dal mar Mediterraneo, indica l’approssimarsi delle piogge, mentre un vento dal sud, ovvero dal deserto dell’Arabia, è sicuramente indice di un’ondata di caldo (vv 54-55). Il messaggio è chiaro: dai “segni” meteorologici chiunque sa prevedere il tempo che farà e dunque prepararsi ad agire di conseguenza. Gesù certamente non se la prende con la scienza della previsione del tempo ma pone bene in evidenza la distanza che esiste tra questa capacità di discernere le cose più semplici e quotidiane e l’incapacità di riconoscere i segni di “questo tempo” ovvero il tempo della sua presenza e del suo annuncio carico di significato perché decisivo per la salvezza. “Questo tempo” ha i suoi segni di riconoscimento ma “questa generazione malvagia” non si prende la briga di interpretarli, non è in grado di farlo, o meglio preferisce non volerli riconoscere.
    L’appellativo di “ipocriti” (v. 56) viene perciò da Gesù applicato a tutti: nessuno escluso! L’ipocrisia è l’equivalente della cecità spirituale: si ha la possibilità di discernere il tempo decisivo della salvezza (kairos) ma non lo si vuole interpretare: si vuole continuare la solita vita! Si sanno “discernere-giudicare” i fattori meteorologici: ma dinanzi all’importanza decisiva del tempo si preferisce non voler vedere.  . L’accusa di ipocrisia è una chiara denuncia: i segni ci sono e sono chiarissimi per chi è disponibile a coglierli (cfr Lc 7,22; 11,20). Il fatto di non riconoscerli non è dato, per Gesù, dalla semplice ignoranza, ma da una coscienza colpevole perché consapevole di tale scelta. Scelta drammatica in quanto con tale atteggiamento l’uomo si preclude l’accoglienza del “kairos”, del tempo favorevole, nel quale è offerta la possibilità di cogliere i segni di Dio e, di conseguenza, convertirsi.
    Anche nei confronti di Giovanni il Battista, in carcere, Gesù invierà l’ammonimento a riconoscere tali “segni” (il suo problema era attenderne altri secondo le sue aspettative!). Anche per Giovanni vi era dunque la fatica di accogliere i “segni” di Gesù così diversi dalle sue attese: “Poi diede loro questa risposta: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella. E beato è chiunque non sarà scandalizzato di me!) (Lc 7,22s).
    Occorre dunque una disponibilità ed una apertura del cuore per accogliere i “segni” che Cristo (e la Chiesa che ne continua l’opera) dissemina lungo l’arco della storia: non sono immediatamente evidenti, sono piccoli quanto “un granello di senape“, sono scandalosi come lo è una croce piantata sul Calvario. Ma è urgente non lasciarseli sfuggire e con essi il dono della salvezza. Nell’insistere su tale atteggiamento Gesù si affida alla capacità di giudizio dell’ascoltatore stesso: non dovrebbe essere la prima preoccupazione di ciascuno salvare la propria vita? Dunque ciascuno dovrebbe giungere a comprendete-discernere “il giusto”: “E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?” (v.58).
    A questo primo insegnamento segue una parabola che ha come scopo il rafforzare ulteriormente il messaggio dell’urgenza nell’accogliere la grazia offerta “qui e ora”. Il dilazionarla potrebbe portare a conseguenze drammatiche (vv 58-59).
    L’esempio portato è un litigio tra due persone. Il diverbio sta per essere trascinato in tribunale col rischio del carcere. La prassi giudiziaria descritta (autorità-giudice-ufficiale di servizio) descrive con precisione l’usanza giuridica greco romana. A queste due persone cosa suggerisce il buon senso? Conviene loro mettersi d’accordo prima che sia troppo tardi! Ovvero occorre agire con prontezza. Meglio sistemare prima le cose.
    La parabola si conclude con una pesante minaccia (v. 59): se non si troverà un accordo l’accusato non uscirà dal carcere finché non avrà restituito fino all’ultimo “lepton” (la più piccola moneta di rame). L’esempio ha come obiettivo quello di far comprendere l’importanza del kairos, del tempo presente: “la scure è già posta alla radice degli alberi; ogni albero che non porta buon frutto, sarà tagliato e buttato nel fuoco(Lc 3,9). Fuori parabola: l’uomo è chiamato a prendere “ora” la decisione fondamentale nei confronti di Dio prima di presentarsi in giudizio davanti a lui.
    L’indifferenza e l’ostilità, nei confronti di Gesù, rischiano di trasformare il lieto annuncio del Regno in motivo di giudizio: i “segni” sono dati, ora bisogna decidersi per Dio, per riconciliarsi con lui. 

     Collactio

     Per continuare l’opera di Cristo è dovere permanente della Chiesa scrutare i segni dei tempi e interpretarli alla luce dell’evangelo“: così si esprimeva con una terminologia relativamente nuova, che avrebbe poi trovato ampio spazio di approfondimento teologico, il documento conciliare Gaudium et Spes (n. 11) che a più riprese riprenderà il tema della necessità (non facoltatività!) della lettura dei “segni dei tempi“, già ampiamente affrontata d’altronde nel magistero di Paolo VI (Cfr Enc. “Ecclesiam suam”).
    Da dove scaturisce il “dovere permanente” da parte della comunità cristiana di intraprendere questo costante sforzo di lettura dei “segni dei tempi“? Dal semplice e fondamentale fatto che la fede biblica è anzitutto non un assenso a verità astratte e astoriche ma assenso ad eventi storici ben precisi e puntuali nei quali Dio si è fatto presente e ha agito, e si fa presente e continuamente agisce, nella storia al fine di offrire salvezza all’uomo. Dio è entrato definitivamente nella nostra storia partendo da Abramo per giungere a Cristo e continuare la sua opera attraverso la Chiesa. Perciò nell’orizzonte della fede biblica la salvezza si presenta sempre come un “fatto” che,  presentandosi sotto l’aspetto di “segno” (il che garantisce la libertà umana nell’accoglierlo o meno), va accolto e letto alla luce della fede. Cosicché la verità non deve essere più ricercata al di fuori dello spazio e del tempo, in una dimensione ideale più legata alla filosofia che alla fede, ma va riconosciuta negli eventi storici costituiti da parole, persone, accadimenti che non sono per il credente un ostacolo alla conoscenza della verità stessa ma luogo della sua rivelazione. In tal senso tutta la storia è divenuta il “luogo teologico” in cui è dato all’uomo di aprirsi a quei “segni” attraverso i quali Dio lo vuole incontrare.
    Afferma ancora un testo conciliare della Gaudium et Spes: “Il popolo di Dio, mosso dalla fede, per cui crede di essere condotto dallo Spirito del Signore, che riempie l’universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle esigenze e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza e del disegno di Dio” (n. 11).
    Questo “discernere gli avvenimenti” non è automatico né tanto meno spontaneo: esso è reso possibile solo all’interno di un orizzonte di comprensione e di esperienza legato alla fede, perché solo attraverso tale sguardo è dato di riconoscere l’azione dello Spirito di Dio nella storia.
    Ma occorre riconoscere la fatica che incontriamo a fare tutto ciò: essa deriva da una fede scarsa e molto debole. Si possiede un grande discernimento nelle cose materiali e ci si affanna spesso per operarlo, ma non si possiede la stessa sollecitudine e preoccupazione per quanto riguarda le cose spirituali, per quelle eterne che decidono il nostro ultimo destino. Non si ha cura di voler riconoscere i “segni” attraverso i quali Dio ci parla: “Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo?”
    L’uomo carnale direbbe Paolo non comprende ciò che è proprio dello Spirito; è “sapiente” nelle cose transitorie e fugaci ma stolto in quelle che riguardano il suo destino ultimo: “L’uomo naturale però non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito. L’uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno” (1Cor 2,14s).
    L’ “uomo carnale” vive un rifiuto, con una conseguente incapacità di aprire gli occhi sul significato più profondo e sul senso ultimo delle cose e degli avvenimenti. Si tratta di un rifiuto che può nascere da diversi atteggiamenti. È possibile infatti che il “segno” venga rifiutato in nome di uno “status quo” che non desidera e non aspira ad altro: la preoccupazione sottostante è che le cose rimangano le stesse perché il cambiamento fa paura. Vi può essere un rifiuto del “segno” motivato da una negazione del presente: le cose – per costui – non potranno mai cambiare, anzi si andrà di male in peggio! Non vi è in questo caso la minima apertura alla possibilità che il “segno” stia a significare un germe di possibile cambiamento.
    Solo l’uomo “spirituale”  è abilitato alla lettura dei “segni dei tempi”. Egli possiede il dono di guardare la realtà con occhi diversi perché capaci di una visione che va “oltre”: sa scorgere nei “segni” di cui è cosparsa la storia di un qualcosa che non è ancora pienamente presente, ma che già si offre e si sviluppa nell’umiltà e nel nascondimento “del germoglio in terra arida” (cfr Is 61). L'”uomo spirituale giudica ogni cosa” ovvero è in grado di relativizzare il presente, senza idolatrarlo né condannarlo, vivendo la certa speranza che la storia, pur nelle sue contraddizioni, è incamminata verso il Regno perché iscritta in un disegno che è divino e non umano. Per tale motivo solo lui possiede la capacità di una “lettura profetica” del reale.
    Ma quali sono i criteri con cui accostarsi alla storia al fine di cogliere i “segni” della presenza e dell’agire di Dio? Ci viene in aiuto un fondamentale testo tratto ancora dalla costituzione dogmatica “Gaudium et Spes” dove si dice che “è dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l’aiuto dello Spirito santo, di ascoltare attentamente, capire e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo, e di saperli giudicare alla luce della Parola di Dio, affinché la verità rivelata possa essere sempre più profondamente intesa, meglio capita e presentata in una maniera più adatta” (n. 44). È un testo notevole in quanto ci offre chiaramente i criteri, o meglio un itinerario di discernimento dei “segni dei tempi”: “ascoltare attentamente, capire e interpretare…saper  giudicare“.
    Anzitutto ci viene chiesto di saper “ascoltare attentamente“. Ciò significa accogliere i fatti in se stessi, nelle loro manifestazioni, cause, dimensioni, conseguenze, mettendo in atto tutti quegli strumenti umani adatti a leggerli il più oggettivamente possibile (quali ad esempio la sociologia, la psicologia, le scienze…).. Il fine è saper guardare le cose così come esse sono e non come vorremmo fossero con la conseguenza di distorcerle: “Quando vedete una nuvola salire da ponente”. La distorsione dei fatti succede quando prevarica l’ideologia (non solo politica ma anche religiosa) che pretende di piegare la realtà al fine di farla rientrare nei propri ristretti schemi mentali. L’ascolto attento esige umiltà, empatia, l’eliminazione di qualsiasi “pre-giudizio”.
    Un secondo passo sarà di “capire ed interpretare“. Non ci è chiesto di giudicare immediatamente le cose, ma di sforzarci il più possibile di “comprenderle” ovvero di saperle leggere in profondità (è il dono dell’intelletto – intus-legere – da chiedere allo Spirito!) nelle loro radici più profonde e nelle loro conseguenze: “subito dite: Viene la pioggia”.  Mancasse questa comprensione ed interpretazione (che non equivale ad approvazione) non sarebbe possibile una lettura del fatto come “segno”. Perché la realtà rivesta la valenza di “segno” è fondamentale che essa ci tocchi in profondità, che ci lasciamo interrogare da essa, che ci trovi aperti ad essa. Non può far questo il pessimista né tanto meno il diffidente o colui che crede di aver la verità in tasca. 
    Solo in un terzo momento si potrà giungere ad un “discernimento” (krìnein: separare in due; in riferimento alla farina separata dalla semola per mezzo dello staccio) ovvero ad un “giudizio“, elaborato non secondo i nostri schemi di valutazione ma attraverso la luce della Parola di Dio. Occorre tener presente che i fatti ci si presentano sempre in forma ambigua (ovvero possono essere letti da tanti punti di vista), ma il credente sa che la Parola è il setaccio indispensabile per “vagliare” ciò che è buono da ciò che non lo è. 
    Si tratta di un “discernimento-giudizio” compiuto alla luce della Parola ascoltata e letta all’interno della comunità ecclesiale sorretta dal magistero e dal carisma profetico: è nella comunità che Dio parla al fine di indicarle il cammino da seguire.  Disponibilità, vigilanza, prontezza da parte di tutti sono di doni da chiedere affinché tutto questo possa attuarsi continuamente, senza stancarsi.
    È un lavoro urgente che non è possibile dilazionare: il “segno” ci è dato “qui e ora”, e se non viene riconosciuto e accolto esso scorre via, dono di grazia inutilizzato, di cui dovremo “render conto fino all’ultimo spicciolo“, “Egli dice infatti: Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso. Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!“(2Cor 6,2). 

    Oratio

     La nostra esistenza, Signore, è segnata dalla continua necessità di operare scelte e giungere a tante decisioni piccole e grandi. A volte è semplice, altre invece estremamente difficile: non sappiamo vedere ciò che è meglio per noi e per gli altri. L’incertezza si attanaglia, ci blocca. Abbiamo paura di sbagliare.
    Ma tu ci hai donato la tua Parola. Ti ringraziamo per il dono della sua luce che illumina i nostri passi e rischiara le nostre menti appesantite. Infatti quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore? I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni, perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla grava la mente dai molti pensieri. A stento ci raffiguriamo le cose terrestri,scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi può rintracciare le cose del cielo? Chi ha conosciuto il tuo pensiero, se tu non gli hai concesso la sapienza e non gli hai inviato il tuo santo spirito dall’alto?” (Sap 9,13-17)
    Fa’ che sappiamo con umiltà metterci alla scuola dell’ascolto perché solo in virtù della Parola tu ci indicherai la strada da intraprendere fiduciosi nella tua promessa: sapremo “rintracciare le cose del cielo“, scopriremo “ciò che è giusto” per noi!
    Allora avremo occhi per vedere e orecchie per ascoltare, gli innumerevoli segni di cui cospargi il nostro cammino: fatti, parole, incontri, volti, gioie e sofferenze. Tutto diverrà, nella fede rischiarata dalla Parola, segno capace di indirizzarci a te e alla verità di noi stessi, non rinserrandoci nelle nostre sicurezze e nei nostri poveri pregiudizi. Vedremo i tuoi segni, tanto piccoli e semplici come granelli di senape, con occhi limpidi capaci di stupore, come quelli dei bambini. Perché solo a questi è dato di scorgere la bellezza del mistero: Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli (Mt 11,25).

  • 14 Apr
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    Leva o Cristo il tuo stendardo

     

    E’ Pasqua, Pasqua del Signore!
    O tu, che sei veramente tutto in tutti!
    Di ogni creatura gioia, onore, cibo, delizia!
    Per mezzo tuo sono state messe in fuga
    le tenebre della morte, la vita è data a tutti,
    le porte del cielo si sono spalancate,
    Dio si è fatto uomo e l’uomo è elevato
    a somiglianza di Dio.
    O Pasqua divina, luce del nuovo splendore!
    Non si spegneranno più le lampade
    Delle nostre anime.
    Divino e spirituale,
    brilla in tutti il fuoco della grazia,
    alimentato dalla resurrezione di Cristo.
    Leva, o Cristo, il tuo stendardo sopra di noi
    e concedici di cantare con Mosè
    il cantico della vittoria,
    poiché tua è la gloria e la potenza in eterno! 

     

    Ippolito di Roma (+ 235), Traditio Apostolica

     

     

     

    «Voglio cantare in onore del Signore:

    perché ha mirabilmente trionfato,

    ha gettato in mare cavallo e cavaliere.

     Mia forza e mio canto è il Signore,

    egli mi ha salvato.

    Esodo 15,1-2

    «Voglio cantare in onore del Signore:

    perché ha mirabilmente trionfato,

    ha gettato in mare cavallo e cavaliere.

     Mia forza e mio canto è il Signore,

    egli mi ha salvato.

    Esodo 15,1-2

     

  • 10 Apr
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    Io credo nel Vivente

     

    Io credo in Dio.

    Io credo che la nostra storia è abitata,

    sostenuta, fecondata dal Signore vivente.

    Io credo, nel frastuono del mondo,

    di udire il colpo che Egli batte alla porta,

    di scoprire il passo silenzioso di Colui che viene.

    Per questo, prego al capezzale dei malati

    e degli agonizzanti;

    grido con tutti gli oppressi del mondo,

    cerco con tutti gli appassionati,

    lotto con tutti coloro che lottano.

    Perché viene Colui che stravolge i destini
    e apre le strade,

    che disarma tutte le rassegnazioni
    e suscita nuove responsabilità,

    il cui progetto fa impallidire ogni programma.

    Attendo il Vivente
    la cui resurrezione si chiama speranza.

     

     

     

    Dalla Chiesa Riformata

     

     

     

     

     

     

     

     

    È presente come il primo giorno.

    È presente fra noi come il giorno della sua morte.

    È presente eternamente fra noi come il primo giorno,

    eternamente, tutti i giorni.

    È presente fra noi.

    In tutti i giorni della sua eternità.

     

     

  • 09 Apr
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    E’ Pasqua!

     

    È Pasqua, Pasqua del Signore.

    O Tu, che solo sei veramente tutto in tutti!

    Di ogni creatura gioia, onore, cibo, delizia,

    per mezzo tuo sono state fugate
    le tenebre della morte, la vita data a tutti,

    le porte dei cieli spalancate.

    Dio si è fatto uomo e l’uomo
    elevato a somiglianza di Dio.

    O Pasqua divina! O Pasqua,

    luce del nuovo splendore.

    Non si spegneranno più

    le lampade delle nostre anime.

    Divino e spirituale brilla in tutti
    il fuoco della grazia,

    nel corpo e nell’anima,

    alimentato dalla Risurrezione di Cristo.

    Ti preghiamo, o Cristo, Dio Signore,

    Re eterno degli spiriti:

    stendi le tue mani protettrici sulla tua santa Chiesa
    e sul tuo popolo santo;

    difendilo, custodiscilo, conservalo.

    Leva lo stendardo sopra di noi
    e concedici di cantare con Mosè
    il cantico della vittoria,

    perché tua è la gloria e la potenza
    in eterno. Amen

    Sant’Ippolito di Roma, III sec.

     

    Questo è il giorno che ha fatto il Signore: Alleluia!

    Rallegriamoci e in esso esultiamo: alleluia!

    Questo è il giorno che ha fatto il Signore: Alleluia!

    Rallegriamoci e in esso esultiamo: alleluia

     

  • 08 Apr

    Veglia pasquale 1966

     

    V’è una Notte in cui vegliando al tuo sepolcro,

    più che mai siamo Chiesa,

    è la notte in cui lottano in noi

    disperazione e speranza:

    questa lotta si sovrappone sempre
    a tutte le lotte della storia
    interamente impregnandole

    (perdono il loro senso?
    o solamente allora l’acquisiscono?).

    Questa notte il rito della terra
    si ricongiunge al suo inizio,

    mille anni come un’unica Notte:

    Notte di veglia al tuo sepolcro.

     

    Karol Wojtyla, Pietra di luce

     

      

    Mors et vita duello

    conflixere mirando,

    dux vitae mortuus

    regnat vivus.

     

     

    Sequenza pasquale, Vicitmae pascali laudes

  • 07 Apr

    CANTO DI PASQUA

     

    Ancora una volta veniamo, o Signore,
    ancora una volta per cantare la Pasqua.
    Che ostinazione!
    Per sfidare con te
    le forze delle tenebre
    e per gridare,
    per credere ancora
    che la notte non può impedire a Dio di far levare la luce.
    Ancora una volta veniamo
    per raccogliere da te la speranza,
    per trovare la gioia
    che si innalza nonostante i dubbi e le paure,
    per accogliere da te la gioia
    capace di far fronte a conflitti e difficoltà,
    per ricevere da te la vita
    che nulla può schiacciare,
    neppure la pietra del sepolcro.
    Ancora una volta veniamo
    per vedere all’opera te, Signore Dio nostro,
    il cui lavoro, fin dall’inizio dei tempi,
    consiste nel donare senza posa
    la vita per sempre. Amen.

     

    Charles Singer

     

    Il grano seminato per tre giorni
    ha germinato e riempito
    il granaio della vita.

     Sant’Efrem il Siro, Omelie in Nat. IV

  • 06 Apr
    Varie Commenti disabilitati su Maria tu sei l’annuncio

    MARIA TU SEI L’ANNUNCIO

    Maria, tu sei l’annuncio,
    Maria, tu sei il preludio,
    Maria, tu l’aurora,
    Maria, tu la vigilia,
    Maria tu la preparazione immediata,
    che corona e mette termine
    al secolare svolgimento del piano divino della redenzione;
    tu il traguardo della profezia,
    tu la chiave d’intelligenza
    dei misteriosi passaggi messianici,
    tu il punto d’arrivo del pensiero di Dio,
    “termine fisso d’eterno consiglio”.
    La tua apparizione, o Maria,
    nella storia del mondo
    è come una luce del mattino,
    ancora pallida e indiretta,
    ma soavissima,
    ma bellissima;
    la luce del mondo, Cristo,
    sta per arrivare;
    il destino felice dell’umanità,
    la sua possibile salvezza,
    è ormai sicuro.
    Tu, o Maria, lo porti con te.

    Paolo VI

     

    All’uomo contemporaneo, non di rado tormentato tra l’angoscia e la speranza…
    la Vergine Maria, contemplata nella sua vicenda evangelica e nella realt�
    che già possiede nella Città di Dio,
    offre una visione serena e una parola rassicurante:
    la vittoria della speranza sull’angoscia, della comunione sulla solitudine,
    della pace sul turbamento, della gioia e della bellezza sul tedio e la nausea,
    delle prospettive eterne su quelle temporali, della vita sulla morte.

    Paolo VI, enc. Marialis cultus

  • 05 Apr

    Beati coloro che ascoltano la Parola

    Lc 11,27-28

    di p. Attilio Franco Fabris 

    Chi è più beato? Immaginiamo la risposta a questa domanda da parte di chi sta passando sotto casa proprio in questo momento. Ci sentiremo quasi sicuramente rispondere: È beato chi ha successo nella vita, chi ha un buon posto di lavoro, la salute, una bella famiglia, una casa e nessun mutuo da pagare, un sicuro conto in banca… Ciascuno si ritaglia sull’onda del proprio “sogno-desiderio” la “sua” beatitudine vivendo in funzione di essa, per poi accorgersi che tutto questo… non basta ancora a farlo contento. Infatti non ci si sente mai pienamente “beati”; è come se alla fine mancasse sempre un qualcosa di importante, ma al quale non si sa dare un nome preciso perché ci sfugge. Una cosa è certa: sentiamo il bisogno di essere contenti, beati appunto! E in questo bisogno innato nel cuore scorgiamo una scintilla divina: Dio ci ha creati per questo! Scriveva Agostino, il grande indagatore del cuore umano: “Noi tutti certamente bramiamo vivere felici e tra gli uomini non c’è nessuno che neghi il proprio assenso a questa affermazione anche prima che venga esposta in tutta la sua portata” (De moribus eccl., 1,3).
    Il problema sta però nel fatto che l’uomo ha perso l’orientamento nella ricerca di questa felicità alla quale aspira: intuisce che c’è ma non la trova, il più delle volte sbaglia strada, spesso alla fine rinuncia a cercarla: si rassegna miseramente mettendo a tacere la sua sete profonda di gioia e sprofondando nella tristezza e nella noia.
    Ma la Parola di Dio, Gesù stesso, apre uno spiraglio – certamente si tratta di una “porta stretta” – a chi cerca la vera felicità. Ma è necessario che lo Spirito ci convinca di questa rivelazione. È lui che ci invita alla fiducia e alla docilità del cuore: “Cerca la gioia del Signore, esaudirà i desideri del tuo cuore” (Sal 36,4).
    Apri, Spirito santo, il mio cuore, la mia mente, tutto il mio essere ad accogliere il tuo dono, a lodare e benedire il tuo nome, nel nome del Padre, nel nome del Figlio, nel nome della Santissima Trinità. Donami Signore il senso della tua presenza e disponi il mio cuore all’ascolto. Purifica la mia mente, il mio cuore e la mia volontà e tutto il mio essere da tutto ciò che non proviene da te ed è fonte di tristezza. Distogli il mio sguardo da me stesso, da tutte quelle preoccupazioni terrene che mi impediscono di cercare il mio vero bene e mi rendono prigioniero di me stesso. Abilita i miei occhi e il mio cuore a scorgere la direzione in cui devo incamminarmi se vorrò scoprire l’autentica beatitudine che non tramonta.

     Lectio

     È evidente come in questo testo Luca voglia evidenziare la centralità che deve avere nella sua comunità l’ascolto della Parola. Qui infatti risiede la vera beatitudine del discepolo e della comunità che consiste nella comunione con Cristo nel quale è data ogni benedizione. Un ascolto che produce una sintonia profonda con Cristo tale da creare una nuova consanguineità con lui, diversa ma non meno vera da quella della carne e del sangue. Come Maria attraverso l’ascolto della Parola il discepolo – e la comunità –  “concepisce” in sé il verbo e lo fa “crescere” in sé mediante la custodia della sua Parola.
    L’episodio narrato lo troviamo solo nel vangelo di Luca: è assente dagli altri. Ciò significa che a Luca preme sottolineare il messaggio già d’altra parte preannunciato, con altra sottolineatura, in 8,19-21 (e presente in tutti i sinottici): Un giorno andarono a trovarlo la madre e i fratelli, ma non potevano avvicinarlo a causa della folla. Gli fu annunziato: «Tua madre e i tuoi fratelli sono qui fuori e desiderano vederti». Ma egli rispose: «Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica».
    Strutturalmente il nostro brano si presenta come un “apoftegma” contenente due beatitudini: dapprima una donna del popolo proclama “beata” la madre che ha avuto in dono un figlio così straordinario, al che Gesù ribatte subito proclamando “beato piuttosto” chi ascolta la parola di Dio e la mette in pratica!
    Mentre diceva ciò” (v. 27): di cosa Gesù sta parlando? Ci si riferisce alla risposta all’accusa da parte di scribi e farisei di operare guarigioni ed esorcismi in nome di Beelzebul “il capo dei demoni“. Gesù ribadisce loro che è esattamente il contrario:  questi sono segni che annunciano il compiersi in lui del regno di Dio.  Sembra perciò che questo il brevissimo episodio narrato subito dopo sia un ammonimento a perseverare nell’ascolto della parola e nel custodirla al fine di poter “stare” con Cristo (v. 23) e non correre il rischio di cadere nei lacci del nemico (vv. 24-25).
    Se da un lato scribi e farisei avanzano sospetti e accuse nei confronti di Gesù di Nazaret, quanto egli dice e fa suscita dall’altro lo stupore, anzi l’entusiasmo di una sua “fan”, un’attenta ascoltatrice e forse discepola. Si tratta di una semplice donna del popolo, che interrompe improvvisamente il discorso di Gesù con un grido “Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!” (v. 27). Si tratta di un’espressione tipicamente semitica che fa riferimento alla ricchezza della maternità e al suo mistero (cfr 10,23; 23,29): il ventre è il luogo della generazione, le mammelle quello della crescita, dello sviluppo del nascituro. La reazione di questa donna è simpatica perché esprime in modo squisitamente umano, anzi femminile e materno tutta la sua gioia: ella proclama a voce alta la beatitudine della madre del Rabbi di Nazaret per avergli dato l’esistenza. Dunque per questa donna rimane sempre Gesù il motivo della beatitudine della madre.
    All’interno del percorso evangelico è possibile scorgere sullo sfondo un riferimento sfumato alle profezie pronunciate sia da Elisabetta come da Maria stessa. Elisabetta, vedendo entrare nella sua casa di Ain Karem Maria, ne proclama la beatitudine a motivo di colui che è stato generato nel suo grembo: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!” (1,42). Subito dopo, nel canto del Magnificat, è Maria che proclama tutta la sua gioia-beatitudine alla quale invita tutti ad associarsi: “Tutte le generazioni mi diranno beata” (1,48). La donna del popolo, Elisabetta, Maria stessa, tutta la chiesa, riconosce la sua beatitudine. Ma in che cosa essa consiste?  Dove la sua sorgente più profonda?
    Ecco allora la risposta di Gesù che è offerta anch’essa nel linguaggio del macarismo: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (v. 28). Una risposta che non vuole certamente negare la prima beatitudine ma la vuole precisare andando molto più in profondità: “sì, ma…” “piuttosto…“.
    Appare evidente che Gesù vuole porre l’ascolto obbedienziale della Parola al di sopra anche dello stesso  privilegio della maternità fisica di sua madre. Egli vuole così stabilire una precisa gerarchia di valori all’interno della sua comunità (di cui anche Maria fa parte!) che si vengono così a strutturare a partire proprio dall’ascolto della Parola da cui scaturisce la fede.
    Con ciò Luca evita nella comunità cristiana il rischio di assolutizzare impropriamente il semplice  privilegio della maternità fisica di Maria benché essa sia divina e messianica.
    Detto questo occorre ribadire che Gesù non intende certamente sminuire la figura e il ruolo di Maria. Nel terzo vangelo ella è subito presentata alla Chiesa come il modello del perfetto discepolo docile e obbediente alla parola ascoltata: “Eccomi, sono la serva del Signore, si compia in me secondo la sua Parola“(1,38).  Ed è proprio l’obbedienza (ob-audire!) alla Parola che rende possibile la sua maternità. Elisabetta riconoscerà per prima questa più profonda e vera beatitudine nella “madre del suo Signore“: “E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore» (Lc 1,45).
    E Maria è ancora proposta come modello di coloro che accogliendo la Parola la custodiscono gelosamente del proprio cuore: “Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore” (2,19); “Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore” (2,51; cfr 8,15).
    Appare evidente allora che la vera beatitudine di Maria non consiste anzitutto in ciò che la donna esalta, bensì nel fatto che il suo assenso alla Parola udita permette a Dio di “fare grandi cose” in lei. Maria anticipa in sé ciò che “il Signore” vuole operare nel cuore di ogni credente. In tal modo la beatitudine pronunciata da Gesù si estende a tutti i discepoli.
    Così la beatitudine pronunciata da Gesù non sminuisce in minimo modo la dignità della madre, ma la innalza ulteriormente anche se ad un livello diverso e più profondo: la sua beatitudine non consiste solo e anzitutto nell’averlo generato nella carne quanto “piuttosto” dalla sua fede e dalla piena disponibilità al disegno di Dio.
    La donna del popolo tutto questo non l’ha ancora compreso. Ella si ferma prima non sapendo cogliere un “oltre” di fondamentale importanza. Il suo entusiasmo, dettato da una santa invidia, rischia di distoglierla dall’essenziale; essa volge lo sguardo indietro (“il ventre… le mammelle“), ignorando che la fede che scaturisce dall’ascolto (Rm 10,17) può operare l’impossibile anche in lei. Ma tutto questo esige la fatica dell’ascolto, dell’obbedienza, della custodia della parola. Si tratta di un balzo nella fede al di là dell’immediato, un salto che è premessa-promessa di autentica beatitudine. 

     Collatio

     Che la si chiami beatitudine, felicità, realizzazione di sé, o in altri molteplici modi, una cosa è certa: l’uomo cerca sempre e comunque la gioia, la pienezza della sua vita. Si tratta di un desiderio iscritto nel cuore dell’uomo da Dio stesso che ha creato l’uomo per la gioia, la beatitudine appunto: “Questo desiderio è di origine divina: Dio l’ha messo nel cuore dell’uomo per attirarlo a sé, perché egli solo lo può colmare” (CCC 1718). In questo “essere colmato” da-di Dio consiste la beatitudine dell’uomo! Beatitudine dell’uomo è la comunione, l’amicizia, l’intimità con Dio, il poter “passeggiare con lui alla brezza della sera” nel giardino senza più fuggire da lui.
    A causa del peccato questa intimità è andata perduta: nel cuore dell’uomo si è instillato il sospetto su un “dio” che non vuole realmente il bene e la gioia per lui. Sospetto che questo “dio” pretenda solo sacrifici, mortificazioni, rinunce… la gioia all’uomo sarebbe costantemente negata e al massimo solo prospettata come promessa nell’al di là. All’uomo tocca per ora solo meritarsi – appunto attraverso rinunce e  mortificazioni – la gioia del Paradiso rinunciando alle gioie di questo mondo. Inutile dire che questa prospettiva non alletti nessuno, anzi ottenga l’effetto contrario del perdurare in noi della diffidenza e della paura.  Sotto questa angolatura anche il discorso delle beatitudini risulta ambiguo e diffidente (e il scarso annuncio che se ne fa nei pulpiti e nelle aule di catechesi lo testimonia!).
    Così alla fine l’uomo ha cercato e cerca tuttora la sua beatitudine altrove.
    Ma se dicevamo che in noi è inscritto il desiderio-bisogno della beatitudine, permane il problema di dove realmente cercarla per poterne gustare la dolcezza e appagare la sete del cuore. Anche chi fa il male e ne percorre le vie – magari in tutta una vita spesa nella violenza, nel sesso, nella droga o altro – è convinto di trovare lì la propria beatitudine!
    Ecco allora Dio curvarsi nuovamente sull’uomo per indicargli, partendo da Abramo (Gn 12,1) per giungere a Cristo (Col 1,19), la strada da ripercorrere (la “conversione”) per ritornare in possesso del suo autentico destino di gioia: “Beato l’uomo che teme il Signore e trova grande gioia nei suoi comandamenti” (Sal 111,1).
    Un destino che Gesù incarna pienamente in se stesso perché è lui anzitutto l'”uomo beato” per antonomasia: vive nel costante ascolto della volontà del Padre e nella fedeltà ai suoi comandamenti (cfr Gv 5,30), si compiace di compierne la volontà (cfr Gv 6,38), rimane costantemente in unione con lui (cfr Gv 17,21), dinanzi alle prove si affida totalmente alle sue promesse (cfr Mt 26,42). È Gesù che per primo sperimenta nella gioia della resurrezione la beatitudine dell’ “uomo che spera nel Signore” (Sal 39,5). Se Gesù annuncia le beatitudini lo fa perché è lui per primo a sperimentarne la realtà e la verità.
    Uniti a Cristo possiamo così, con lui e in lui, a nostra volta intraprendere il cammino per vivere già ora “beati sulla terra” (cfr Sal 40,3). Se infatti la beatitudine dell’uomo è la comunione con Dio essa ci è data, in Cristo, da sperimentare sin d’ora in germe nell’attesa della sua piena manifestazione alla fine dei tempi “quando Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28) come somma ed eterna beatitudine.
    Ma non è facile entrare nell’orizzonte della via indicata da Cristo per ritrovare quella beatitudine per cui siamo stati fatti. Essa ci propone un percorso controcorrente che presupponendo la docilità della fede ci appare troppo ardua, forse troppo lontana da quel mondo di desideri e aspettative immediate con cui costelliamo – anche nella vita consacrata! – le nostre esistenze e che viaggiano a raso terra. Rischiamo così dinanzi alla proposta evangelica di un cammino costituito dalla fatica del costante ascolto della Parola, dall’umile docilità della fede, dal costante esercizio della speranza di preferire la… fermata prima. Rischiamo di fare come la donna dell’episodio evangelico che nel suo slancio è sì entusiasta delle parole di Cristo ma giunge a riconoscere in lui una beatitudine legata ancora solo “alla carne e al sangue“(cfr Mt 16,17).
    A questa donna, e a tutti noi, Gesù fa una proposta che va molto più in profondondità ed è offerta a tutti senza esclusione: si tratta di una beatitudine che è data a tutti e non solo a qualche privilegiato. Maria è beata perché non solo e anzitutto è madre nella carne di Cristo (anche se questo per lei è un privilegio unico!), quanto piuttosto perché persevera nell’attento ascolto della Parola  meditata e custodita “giorno e notte” (cfr Sal 1). Così la donna del popolo invece di invidiare Maria è invitata da Gesù ad imitarla perché la maternità più profonda consiste nel concepire la Parola in sé attraverso l’ascolto e nel farla crescere in sé attraverso la sua gelosa custodia (cfr 8,21).
    Tutti siamo invitati ad entrare nella beatitudine del concepire nella nostra carne il Verbo: “Il ventre è l’ascolto che fa concepire la Parola, le mammelle sono la custodia e la premura nel far crescere ciò che è stato generato (8,15; 8,21)” (S. Fausti).  Quando in noi viene “concepito” (attraverso l’ascolto) e allattato (attraverso la custodia) il Verbo di Dio entriamo nella beatitudine di ogni madre che sente in sé crescere il dono della vita nuova, di una comunione donata con l'”Altro”. E questo Altro non è che Cristo stesso nel quale ci è donata dal Padre la pienezza di ogni “benedizione dai cieli” (cfr Ef 1,3). In lui ci sono dati tutti quei beni che il cuore sommamente aspira: la certezza di essere amati, la consapevolezza che Dio ha in mano il nostro destino, che sua volontà è quella di averci in comunione eterna di vita con lui.
    Si tratta di una “divina natività” (san Paolo della Croce) che si attualizza in ogni autentico discepolo: cosicché Cristo continua a nascere e a crescere in noi e tra noi.
    A noi entrare nella luce di questa beatitudine che è promessa di una vita nuova in noi: Cristo in noi. Guarderemo a Maria non con l’invidia della donna del popolo, ma come a colei che ci indica la strada per rivivere in noi la sua stessa esperienza di grazia. Con Maria potremo magnificare Dio per le meraviglie che ha operato in lei e in noi. E saremo con lei a nostra volta beati. In forza dell’ascolto (cfr Ap 1,3). 

     Oratio

     E’ beato, o Padre, chi lascia che la tua Parola possa essere seminata nei solchi del suo cuore affinché nel silenzio e nel nascondimento essa possa germinare e portare frutto. “Beato chi custodisce queste parole” (Ap 22,7).  È beato chi ascolta la tua Parola che è seme che concepisce nel suo cuore il tuo Verbo che nuovamente si fa carne e “pone la sua tenda tra di noi”.
    Sarà beato questo cuore perché potrà dire con l’apostolo Paolo: “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20).
    Spirito Santo facci entrare in questa beatitudine! Non permettere che andiamo a cercare felicità altrove, lontano dalla comunione con Cristo. Siamo stati fatti per lui e nostra beatitudine è stare con lui abbracciando in lui ogni cosa. Se Cristo vivrà in noi saremo beati sempre e in ogni caso, pur in mezzo a mille prove e sofferenze, perché avremo in noi la gioia vera e imperitura che “nessuno vi potrà togliere” (Gv 16,23).
    O Maria, tu che hai sperimentato in te la pienezza di questa gioia, insegnaci a cercarla e a custodirla nella certezza che è  “beato l’uomo che teme il Signore e cammina nelle sue vie” (Sal 127,1).

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