• 04 Mar

    7

     VERSO IL CENTRO

      

    5 Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?». 6 Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. 7 Se conoscete me, conoscerete anche il Padre: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto». 8 Gli disse Filippo «Signore, mostraci il Padre e ci basta». 9 Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre? 10 Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere. 11 Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse. 

    Il nostro cammino spirituale non ci porterà mai a contemplare in pienezza, qui nella nostra vita terrena, il volto di Dio.
    Egli rimarrà sempre al-di-là, nascosto nella luminosa ed oscura nube.
    Infatti l’essenza di Dio è inoggettivabile, la rivelazione è dunque pura grazia, è “follia d’amore”, per usare un’espressione di san Massimo il confessore: Dio rimarrà sempre trascendente pur nella sua vicinanza, nascosto, ma non come tenebra interdetta, ma bensì per l’intensità della sua stessa luce.
    Ma è proprio questa inaccessibilità di Dio che permette la distanza positiva in cui può svilupparsi il dialogo, l’amore, il rinnovarsi della comunione e dell’alleanza.
    Quanto più sperimentiamo questo Dio nascosto tanto più lo desideriamo: “Quando vedrò il volto di Dio?” (Sal 41, 3): perché io non reggo più alla violenza del desiderio, ma cerco la bellezza immortale che tu mi avevi largito prima di questo fango” (Giovanni Climaco, Sc. Parad., 29,2).
    L’anelito che percorre la sacra scrittura è di vedere, contemplare, il volto così inafferrabile e misterioso di Dio: “Ascolta, Signore, la mia voce: Io grido: abbi pietà di me! Rispondimi. Di te ha detto il mio cuore: Cercate il suo volto. Il tuo volto Signore io cerco” (Sal 26,7-8).
    L’apostolo Filippo domanderà a Gesù durante l’ultima cena: “Signore, mostraci il Padre e ci basta” (Gv 14,8).
    Il desiderio del volto di Dio è disseminato lungo la storia nella testimonianza dei santi: un’espressione lapidaria del teologo-mistico sant’Anselmo dice a tal proposito: “Io cerco il tuo volto. Eccomi davanti a te, come un povero, un mendicante e un cieco come tu mi vedi, io che non ti vedo“.
    Io che non ti vedo grido a te: Mostrami il tuo volto!
    E per volto intendiamo la presenza vivente, il volto è ciò che contraddistingue una persona dall’altra, è espressione del suo essere. E’ desiderio di comunione (cfr. la filosofia personalista di Levinas).
    Nei confronti di Dio tale presenza si stabilisce quando fede e amore rendono la relazione dell’anima con Dio più profonda e intima.
    Fede e amore uniti fanno sì che i lineamenti del dio che si è rivelato si percepiscano più chiari e più vivi, e per chiarezza non intendiamo alla “forma” di Dio, che è senza forma, ma alla densità e certezza della sua presenza.
    La nostra ascesi deve tendere a vivificare la presenza di Dio in noi, negli altri e nella realtà.
    Certi che “Dio è sempre presente, più intimo a noi di noi stessi” (S. Agostino).
    Il Salmo 139 potremmo definirlo la preghiera di colui che è giunto alla sconcertante presenza di Dio ovunque: inutile sfuggirgli. Dio è presente in lui, fuori di lui, a ovest e a est, nel sommo del cielo e nelle profondità oscure dello Scheol. Un testo del Corano potrebbe commentare così: “A Dio appartiene l’oriente e l’occidente, ovunque vi volgiate, ivi è il volto di Dio” (2,115).
    Dio si comunica a noi, comunica la sua grazia, le sue “energie”: è il dono della sua stessa vita che ci divinizza.
    Ma questa intimità di vita non è simbiosi, non è fusione o scomparsa di identità: si tratta di una presenza e comunione che vivifica ponendo nella libertà, in un continuo atto creatore verso ciascuno colto nella sua unicità.
    L’interiorità è lo stato in cui si può percepire l’inabitazione del divino in noi.
    Dio dimora in noi trasformandoci in suoi templi: “Indicibile è la tenerezza di Dio. Si offre da sé a coloro che, con tutta la loro fede credono che Dio può abitare il corpo dell’uomo e fare di lui la sua gloriosa dimora” (Pseudo Macario Omelia 69).
    Le persone che vivono non a un livello spirituale ma ad uno più superficiale, fisico, determinati come sono dai sensi non sono in grado di intraprendere una autentica esperienza religiosa.
    E’ solo col coraggio di penetrare nella “profondissima e amplissima” caverna del nostro cuore che potremo rintracciarvi il passaggio del volto di Dio.
    Al centro dell’anima vi è Dio; quando l’anima vi si sarà avvicinata secondo tutta la capacità del suo essere, e secondo la forza della sua operazione ed inclinazione, essa avrà raggiunto l’ultimo e più profondo suo centro in Dio, cioè quando con tutte le sue forze intende e ama e piace a Dio” (Giovanni della Croce, FVA, b1,1).
    La salita alla vetta dell’Oreb è la corrispettiva discesa nel profondo del nostro cuore: qui troveremo il misterioso roveto ardente, presenza umile e misteriosa dell’Assoluto.
    Più il nostro amore sarà vero e profondo, più potremo avvicinarci a piedi scalzi e col viso coperto a quello “strano spettacolo” che vive nel profondo di noi stessi: 

    UNO SCAMBIO DI AMICIZIA

              Nella nostra esperienza di “scambio di amicizia” con Dio non procediamo secondo conoscenze intellettive, bensì intuitive.
              L’incontro con l’andar del tempo tende a divenire sempre più semplice e profondo, nella semplicità e profondità di Dio stesso.
              Le nostre riflessioni, concetti, tendono a sparire per lasciare il posto ad una conoscenza amorosa.
             L’autentico contemplativo non è colui che è in grado di innalzare la sua mente mediante riflessioni teologiche e spirituali di alto grado, ma è colui che nella più grande semplicità di cuore e unità di mente, in modo totale, si pone e si sente in Dio e con Dio: noi in lui e lui in noi.
             E’ conscio della verità di quella parola della Scrittura che dice: “In Dio viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 17,28).
             Non occorre più “immaginarsi” Dio: poiché egli è qui con me e in me. Si tratta di una esperienza immediata, di fede, di cui parla san Giovanni della Croce.
             Nell’incontro con Dio non rischiamo, come nelle religioni orientali di perderci o confonderci in lui: nell’incontro con il Dio biblico l’uomo avverte in modo vivissimo la coscienza della diversità tra lui e Dio (l’uomo si sente sempre “miserabile peccatore“).
             Frutto dell’incontro con Dio è l’esperienza dell’unificazione. Intesa come forza di un amore che tende ad abolire ogni ostacolo.
    Negli scritti di santa Teresa di Gesù Bambino troviamo magnificamente espressa questa esperienza: “Non eravamo più due. Teresa era sparita come la goccia d’acqua si perde nel fondo dell’oceano. Soltanto rimaneva Gesù, Signore e re“.
    “L’unificazione, che è opera della povertà nella solitudine rimargina tutte le ferite dell’anima e le risana” (Thomas Merton, Pensieri nella solitudine).
    Ma come già detto tale unificazione che si opera in noi al momento dell’incontro favorisce la chiara distinzione tra noi e Dio. 

    TRASFIGURAZIONE

     L’incontro profondo contemplativo opera in noi un’azione trasformante: la teologia orientale parlerebbe qui di divinizzazione.
    Questa trasformazione-trasfigurazione-divinizzzazione dona sapienza, verità e pace al nostro essere, poiché veniamo trasformati ad immagine di Cristo Dio.
    Ci rendiamo allora conto che tutto ciò che ritenevamo importante, decisivo, degno di stima a confronto di tale chiamata da “ritenere come spazzatura”.
    L’incontro con Dio, con la sua parola che è spada a doppio taglio, ci purifica, ci spoglia, annienta i piccoli e i grandi idoli, fa rilucere la vera ed eterna realtà, ci introduce nello spazio della libertà dei figli di Dio.
    Il più grosso ostacolo è il nostro “ego”, inteso come immagine distorta ma spesso adorata di noi stessi e della realtà.
    Continuamente siamo tentati di trasformare questa immagine in idolo, il quale domanda tanti sacrifici:
    Durante la nostra vita il compito più arduo e faticoso consiste in questa contrastante lotta di desiderio di idolatrare l’immagine di noi stessi e di temere che questa “statua” venga abbattuta (ma ci pensa Dio prima o poi a disintegrarla, non fosse altro che al momento della morte…).
    Una forte esperienza di Dio spezza questa illusione.
    Dio è geloso, non vuole dinanzi a se nessun altro idolo:
    Sono io il Signore tuo Dio”
    “Ascolta Israele, il Signore Dio è uno”
    “Non avrai altri dei dinanzi a me”
             Dio è fuoco, vento impetuoso, tempesta e terremoto, sconvolge e fa sussultare gli abissi e le fondamenta della terra: così il Signore smantella ogni nostro falso idolo quando lo incontriamo in verità.
    I vangeli apocrifi raccontano che quando Cristo bambino entrò nell’Egitto in fuga da Erode le statue degli idoli pagani furono divelte e abbattute, frantumandosi a terra.
    L’esperienza di Dio fa cessare al falso Io di esistere, di ergersi quale dio dinanzi al vero Dio. Smantellando la falsa immagine il Signore ci restituisce alla libertà dei veri figli.
             E’ questo l’inizio della trasfigurazione: quando Dio strappa via le maschere, spoglia l’io dei suoi paludamenti menzogneri, e il figlio si scopre puro, libero, vuoto, trasparente, nutrito di pace, ricolmo di ricchezza.
    E’ l’esperienza di chi, mediante l’azione della grazia, ha raggiunto la riconciliazione con se stesso, gli altri, il mondo e Dio. È la pacificazione di cui tanti santi danno la loro testimonianza (Serafino di Sarov, Francesco d’Assisi…).
    Tutte le cose riacquistano la purezza originale: sparisce ogni motivo e forma di angoscia e tristezza. Nel cuore regna la pace, la luce: l’esichia.
             La contemplazione di Dio fa sì che nella persona si avvii un processo di semplificazione  e unificazione, ad immagine di Dio che è estremamente semplice e “uno”: si diventa ciò che si contempla.
    L’unione con Dio ci fa partecipi di questi attributi divini.
    Nella semplicità e unità di vita vengono superate tutte le angosce e tutte le paure.
    Ogni timore è nella fede superato
    La sofferenza è affrontata nella speranza.
    Se per Aristotele il “tempo è misura del movimento delle cose”, nell’incontro con Dio cessa il movimento, cessa in un certo senso lo scorrere inesorabile e ansioso del tempo, si è già nella dimora luminosa della quiete ed eternità di Dio.
    La contemplazione è un assaporare in anticipo l’eternità, è un pregustare il regno.
    Una quiete ed una eternità che non sono statiche, immobili, impassibili ma permeate, vibranti, del meraviglioso dinamismo d’amore della vita trinitaria che si diffonde in ogni istante e in ogni esistente. 

     TESTI

    Gv 16,6-11
    Sal 139
    Sal 42

    sintesi di: I. Larranaga, Mostrami il tuo volto

  • 04 Mar

    L’INCONTRO

     

     9 Elia entrò in una caverna per passarvi la notte, quand’ecco il Signore gli disse: «Che fai qui, Elia?». 10 Egli rispose: «Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita». 11 Gli fu detto: «Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore». Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. 12 Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero. 13 Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna. Ed ecco, sentì una voce che gli diceva: «Che fai qui, Elia?». 14 Egli rispose: «Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita». (1 Re 9, 9-14) 

    P. Charles de Foucauld nel silenzio e nella solitudine del deserto scriveva: “Signore Gesù… pregare è guardarti, e poiché tu sei sempre là non posso forse io, se ti amo veramente, guardarti sempre senza interruzione? Colui che ama può fare diversamente dall’avere i suoi sguardi rivolti a Colui che ama? Insegnami ad adorare mio Dio, in questa solitudine, in questo raccoglimento”.
    Nella vera adorazione scompare tutto il mondo, e si rimane soli: Dio e me. I miei occhi puntati unicamente sul mistero.
    Nell’atto vero di adorazione si è soli. E’ questa la condizione affinché si attui un vero incontro.
    Continua C. De Foucauld, da vero esperto di adorazione: “Non conosco niente di più dolce delle ore passate davanti al tabernacolo, in profonda solitudine esteriore. Sentire Dio così vicino a sé, e sentirsi soli con lui nell’immensità e bellezza della sua creazione che riflette la sua bellezza“.
    E’ indubbio che ogni incontro fra due persone esiga intimità, un “recinto chiuso”. Nel vangelo troviamo l’invito di Gesù: “Quando pregate non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini… Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera, e chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto” (Mt 6,5-6).
    Questa camera, questa porta chiusa designano uno spazio nuziale ove avviene l’incontro, nell’intimità.
    Ogni realtà decisiva avviene nella solitudine: nella solitudine ogni uomo è chiamato a rispondere personalmente; le grandi decisioni si prendono da soli, si soffre da soli, il peso di una responsabilità è il peso di una solitudine, si muore da soli e… così anche l’incontro col Signore avviene nella solitudine: “La condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (Os 2,16).
    Ma come arrivare a questo incontro nell’intimità? 

    Al di là dell’evocazione

     Il Signore è sempre più in là di ogni evocazione che risveglia la mia memoria.
    Ovvero Dio non corrisponde mai all’immagine che ci siamo fatti di lui, questa sarà sempre e solo un’evocazione.
    Si racconta che una volta ad un santo venne dato il dono di parlare la lingua delle formiche. Egli si avvicinò a una che aveva l’aria della studiosa e chiese: “Com’è fatto l’Onnipotente? E’ in qualche modo simile alla formica?”. La studiosa riflettè un attimo e poi disse: “L’Onnipotente?… Certamente no! Noi formiche, vedi, abbiamo un solo pungiglione. Ma l’Onnipotente invece, Lui ne ha due!”.
    Questo è quanto accade anche a noi quando vogliamo far corrispondere l’evocazione alla realtà.
    Devo pormi nell’atteggiamento nell’incontro di saper far scomparire ogni mia immagine affinché l’Evocato appaia nel suo mistero, nella sua nube oscura. Dio è sempre al di là di ogni nostra immagine riduttrice, tipica della ricerca religiosa infantile.
    A motivo della trascendenza di Dio, della sua inconoscibilità, e a causa della nostra debolezza, noi rivestiamo Dio di immagini e di concetti.
    Unitamente alla tradizione esicasta potremmo affermare che la trascendenza di Dio è dovuta alla debolezza dell’uomo e alla natura stessa di Dio.
    Dio è inconoscibile per essenza, Dio è più di “Dio”. Un testo classico del V sec., di Dionigi Areopagita commenta: “Esercitati incessantemente nelle contemplazioni mistiche, abbandona le sensazioni, rinuncia alle operazioni intellettuali, respingi tutto ciò che appartiene al sensibile e all’intelligibile, spogliati totalmente del non-essere e dell’essere, e innalzati, per quanto puoi, fino ad unirti nell’ignoranza a colui che è al di là di ogni essenza e di ogni sapere” (Teologia Mist., I,1).
    La rivelazione ci invita a fare adorazione in ogni luogo in Spirito e verità (Gv 4,23), questo comporta lo smantellare tutti gli orpelli di cui siamo tentati di rivestire il Signore, che, se non sono falsi, sono certamente sempre imperfetti e ambigui: “E’ qui o su di un altro monte che dobbiamo adorare il Signore?“.
    Ecco allora che possiamo giungere ad una tappa fondamentale nel cammino spirituale: rivestire il nostro incontro con Dio di silenzio.
    Ogni parola ha sempre il peso di un tradimento. Il silenzio dinanzi al Mistero è atteggiamento sapienziale: “Sta in silenzio davanti al Signore” (Sl 36,7).
    Si tratta del silenzio di ogni nostra immagine. E’ il silenzio nel quale Dio rifulge come luce assoluta. Silenzio è allora andare al di là di ogni visione della mente e del corpo, è penetrare nella notte silenziosa: “O notte beata che vedesti congiungersi l’amato con l’amata” (N.O.) Notte che è simbolo ed esperienza di una presenza vicina ma inafferrabile, notte in cui l’inaccessibile si dona e intanto sfugge. Comunione notturna del Dio nascosto e dell’uomo nascosto in Dio. Questa tenebra è “più luminosa” del sole, tenebrosa per eccesso di luce.
    E la tenebra, pur non escludendo la Parola, raggiunge il silenzio nel cuore stesso della Parola.
    Nella notte divina entriamo “chiudendo gli occhi, rinunciando ai nostri sguardi dispersivi, oggettivanti, possessivi, imparando a guardare dentro, con gli occhi chiusi nell’abbandono dell’amore” (O. Clement). 

    L’ultima stanza

     La solitudine non è l’isolamento. Questo è negativo e da evitare. La solitudine al contrario è percepire e accogliere il mistero della mia esistenza alla luce del più grande mistero.
    Ed è nel silenzio che mi è dato di percepire il mistero della mia solitudine: “L’amico del silenzio si avvicina a Dio. In segreto si intrattiene con lui e riceve la sua luce” (G. Climaco, Sc. Par., XI,5).
    E’ fondamentale per la nostra maturazione umana e spirituale percepire ed accogliere (non sempre è così facile… ) la propria solitudine, ovvero la nostra unicità. Ma senza questo fondamentale passaggio di differenziazione l’incontro con il Tu risulta quanto mai problematico.
    E’ condizione inalienabile porsi soli dinanzi a Dio, ma se non lo si vuole? O meglio quante volte fuggiamo o fingiamo? Ma facendo questo non solo fuggiamo dal mistero di Dio ma dal nostro stesso mistero, ne abbiamo paura o tuttalpiù non lo abbiamo ancora scoperto.
    E’ un dato di fatto che siamo in cammino, un cammino nel deserto verso il Monte di Dio. Non potremo mai sederci e dirci: Sono arrivato finalmente! Un altro tratto di strada mi si apre sempre inaspettatamente dinanzi. Ciò è un appello alla mia libertà; scelgo se camminare (=crescere) o sedermi, rifiutando la fatica (= ripiegamento, regressione).
    Si tratta di un cammino che per salire a Dio deve prima discendere in noi, nel cuore. La salita di Mosè al monte Sinai è la discesa nostra nel cuore. E questo perché rechiamo lì l’immagine e la somiglianza con Dio (cf Gn 2), in noi vi è la scintilla del divino, nella nostra interiorità-solitudine. Ed è qui perciò il “luogo” dell’incontro con il Signore: “Nel deserto parlerò al suo cuore” (Os 6).
    E’ importante allora che questo luogo di solitudine, per poter essere luogo di intimo incontro, non sia popolato da altre realtà estranee a Dio: l’incontro potrebbe non avvenire mai!
    Questo luogo di incontro, il nostro cuore, chiede di essere naturalmente “riempito” di Dio, al contrario si avvertirà una solitudine vuota, un isolamento tragico e tremendo nemico all’uomo.
    Dio attende ciascuno in questo spazio di solitudine, in questo abisso del cuore, il “fondo dell’anima” dei mistici renani.
    Il cuore è la tenda, il santuario, il tempio, nel quale abita la Presenza (Sekinäh) e dove la Gloria (Kabod) si posa come la nube. In esso sta il vero tesoro: dove è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore” (Jacques Serr).
    E’ da prendersi in considerazione che nell’uomo esistono  diversità di livelli di interiorità.
    Ma al di là di tutti questi livelli l’uomo spirituale percepisce l’esistenza di una “caverna nel cuore”, di un fondo dell’anima, di un’ultima stanza, di un intimo recesso del proprio cuore: qui nessuno può entrare eccetto Colui che entrando a porte chiuse non occupa alcun spazio.
    La filosofia medievale definiva l’uomo come “l’ultima solitudine dell’essere“. E’ percezione di ciascuno di essere unico, di essere solo, differente dagli altri. Questa percezione che costituisce un fattore di crescita continua che parte dall’infanzia, deve essere sempre più coscientizzata facendo zittire tutto l’essere esteriore che spesso vorrebbe sfuggire a questa constatazione.
    Potremmo allora affermare che: la percezione di noi stessi come solitudine è il risultato di una ricerca di autentico silenzio.
    Scriveva s. Bernardo: “Sono molte le scienze coltivate dagli uomini; ma nessuna è migliore della scienza con cui l’uomo conosce se stesso. Per questo ritornerò al mio cuore e mi renderò familiare il dimorarvi, in modo da esaminare la mia vita e conoscere me stesso”.
    P. Evdokimov dice: “Il silenzio è l’avvento, il tempo (e il luogo) dell’attesa benché scenda la notte. Nell’attesa dell’inatteso un immenso sospiro di silenzio avvolge la terra di pace: tutto è tuo, Signore, io sono tuo, accoglimi”

    Entra e chiudi la porta

      Perché ci possiamo predisporre all’incontro con Dio ci è necessaria un’attenzione aperta e pura, purificata da tutte le realtà che ci distolgono e disperdono.
    Quanto più le creature tacciono, quanto più è spopolata la nostra mente, tanto più puro e profondo potrà essere l’incontro.
    Il grande mistico dell’incontro, s. Giovanni della Croce ci ricorda: “Imparate a starvene vuoti di tutte le cose, le interiori e le esteriori e vedrete come io sono Dio” (SMC 1,II,15.5). Un detto della tradizione indù invita ad un’esperienza simile: “Diventa come una canna di bambù, cava, vuota dentro. E non appena sei diventato come una canna di bambù cava, vuota dentro, le labbra divine ti si accosteranno, la canna di bambù diventa un flauto e la canzone ha inizio“. 

    Testi

    1 Re 19,1-18
    Mt 6,5-6
    Os 2,16-25
    Es 24,12-18; 33,7-23

    sintesi da: I. Larranaga, Mostrami il tuo volto

  • 03 Mar

    Se tu guardi in me

     Signore mio Dio,
    il tuo nome è l’Onnipotente.
    E io, per la paura
    schizzo fuori dai miei sandali.
    Perché io sono il nulla:
    è questo il mio nome davanti a te.
    Se tu mi guardi, il tuo sguardo si fissa
    nel nulla assoluto.
    Non distogliere il tuo sguardo
    e abbi pietà.
    Signore, fa’ che io possa cantarti!
    Signore, mio Dio, il tuo nome è l’Onnipotente,
    e io sono in te.
    E io, di nuovo, dalla gioia
    schizzo fuori dai sandali.
    Perché, tu con me:
    questo è il mio nome davanti a te.
    Se tu guardi in me, allora vedi anche te.
    La tua eterna misericordia.
    Così io posso cantare.
    Signore, cantare a te!
    Onnipotente tu sei; io sono in te!
    Adesso posso vivere la mia dura giornata.
    Io sono redento e risuscitato davanti a te.
    Se tu mi guardi, vedi il mondo in me,
    e gli fai dono della tua misericordia.
    Per essa lascia che canti
    la tua lode, Signore!

     Silja Walter

  • 03 Mar

    5 

    IL TEMPO DI DESERTO

     Sion ha detto: «Il Signore mi ha abbandonato,
     il Signore mi ha dimenticato».
    Si dimentica forse una donna del suo bambino,
     così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?
     Anche se queste donne si dimenticassero,
    io invece non ti dimenticherò mai.
    Ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani,
    le tue mura sono sempre davanti a me.
    (Is 49,14-16)

    Quando la distrazione non è un atto passeggero bensì una impossibilità completa di concentrarsi nel Signore, e se questa si prolunga per un certo tempo allora si chiama aridità spirituale.
    Questa aridità produce spesso depressione, tristezza e desolazione. E per superare e vivere questi periodi occorre più coraggio che per altri lavori prestigiosi di questo mondo.

    Cause

    1.       Un attivismo incontrollato che scompone l’unità interiore.
    2.       La natura stessa dell’orazione che è fatta di momenti di aridit�
    3.       Situazioni patologiche e fisiche e psichiche
    4.       Squilibri emozionali
    5.       Una prova permessa dal Signore.

    Sono convinta che il Signore, prima di arricchire le anime coi suoi grandi tesori, mandi loro questi tormenti e tutte le altre tentazioni che si soffrono, per provare se lo amano davvero e vedere se potranno bere al suo calice e aiutarlo a portare la sua croce” (s. Teresa d’A., Vita, XI,11).

    Rimedi

    L’aridità non si vince a forza di braccia: “Se in queste circostanze si insiste a fare per forza è peggio, e il male dura di più” (s. Teresa d’A.).
    Che cosa allora occorre?
    Pazienza:            accettare i nostri limiti. L’aridità la si vince abbandonandisi. Si tratta in questa situazione di perseverare nella preghiera, facendo del nostro meglio, non preoccupandoci dei risultati o delle emozioni.
    Speranza:            essa ci dice che la nostra situazione non è definitiva, ma sempre transitoria (senza preoccupandoci della sua durata), che nulla è eterno. Impareremo a guardare con fiducia al domani sicuro che ogni nuovo giorno può ed è sempre diverso dai precedenti.
    Perseveranza:     è l’atteggiamento più importante. Perseverare quando i risultati splendono alla vista non è merito; mantenersi in piedi quando infuriano le tempeste e ci avviluppano le tenebre, avanzare quando la nebbia impedisce di vedere a due metri, ecco l’essenza della perseveranza.
    Siamo poco disposti alla perseveranza, vogliamo i risultati tutti e subito.
    In tutto questo, lo comprendiamo bene, occorre appoggiarsi al sapere della fede

    L’atrofia spirituale

     L’atrofia è segno di morte e produce morte. Scrive Larranaga:
    “A molte anime succede la stessa cosa. Per anni non fecero uno sforzo ordinato, metodico, paziente e perseverante per entrare in comunione profonda e frequente con il Signore. Fecero per un lungo tempo un’orazione sporadica e superficiale. Inventarono mille pretesti per giustificare questa situazione dicendo che colui che lavora già prega, che Dio bisogna cercarlo nell’uomo… Con ciò tranquillizzarono la loro coscienza, almeno fino ad un certo livello. Sostituirono la riflessione all’orazione e le chiacchiere come contropartita della meditazione. A poco a poco andarono perdendo il senso di Dio e il gusto dell’orazione. Nella loro intimità successe questo: quelle energie, che i mistici chiamano potenze e facoltà, non venendo più attivate, lentamente perdettero elasticità. Perdendo vigore vennero utilizzate sempre meno. Non venendo utilizzate, finirono pian piano per estinguersi”.
    Può anche capitare che queste persone non abbiano difficoltà a trattare e a parlare di teologia o di pastorale. Ma tutto questo sarà sentita come realtà esterna, asettica e fredda. Il problema inizia quando queste persone prendono coscienza che non riescono più a vivere personalmente ed interiormente questa stessa fede.
    Occorre allora ricominciare con pazienza ed umiltà dai primi passi: orazione vocale, salmi, meditazione… 

     Il deserto di Dio

     L’aridità è una prova di impotenza ed impedisce il contatto con Dio, quello che in altri momenti procurava tanta gioia e emozione. Generalmente si abbatte su quelle anime che hanno intrapreso sul serio l’ascensione verso Dio.
    Sant’Ignazio parla di desolazione. Giovanni della Croce di ripugnanza. In effetti l’anima non trova più gusto nelle cose spirituali e Dio sembra terribilmente assente.
    La prima purificazione o notte è amara e terribile per il senso… La seconda non ha paragone, perché è orrenda e spaventosa per lo spirito” (NO 1,I,8,2).
    Mentre distrazione e accidia sono fenomeni naturali e per lo più di natura psico-somatica, l’aridità è una prova inviata espressamente da Dio, come purificazione. L’aridità è fondamentalmente una sensazione di assenza. L’anima è sconfortata non sapendo nemmeno il perché. “Psicologicamente parlando la sensazione di aridità è forse equiparabile a ciò che gli antichi chiamavano il “taedium vitae””.
    Generalmente poi essa è accompagnata da incomprensioni, calunnie, accuse ingiuste, solitudine: “Dio fa convergere distinte casualità per sdradicare l’anima dai mille legami che la trattengono a se stessa. Non c’è anima scelta che sia libera da queste prove purificatrici”.
    L’aridità è il prolungamento dell’agonia di Gesù nel Getsemani.
    All’anima è richiesto di proseguire umilmente, sperando contro ogni speranza.
    Non crediate – scrive ad una sorella – che io nuoti in mezzo alle consolazioni. Oh no! La mia consolazione è non averne sulla terra. Senza mostrarsi, senza farmi udire interiormente la sua voce, Gesù mi istruisce in segreto, non per mezzo di libri, io non intendo ciò che leggo” (s. Teresa di L.)
    Prima di partire, sembra averle domandato il suo fidanzato in quale paese vuole andare e quale via seguire… La piccola fidanzata ha risposto che non aveva che un desiderio: quello di raggiungere la cima della montagna dell’amore. Per arrivare ad essa le si offrivano molte vie..Allora Gesù mi prese per mano e mi fece entrare in quel sotterraneo dove non fa freddo né caldo, dove non splende il sole, dove non arrivano pioggia né vento. Un sotterraneo dove non vedo altro che una chiarezza semivelata, la chiarezza che intorno  me diffondono gli occhi abbassati dal volto del mio fidanzato… non mi accorgo di avanzare verso la cima della montagna, il nostro viaggio si fa sottoterra; tuttavia mi sembra che ci avviciniamo e non so come” (s. Teresa di L., Lettere a M. Agnese, sett. 1870)

     Testi

    Is. 49, 14-26
    1 Re 19, 1-18
    Mc 15, 33-37
    Sl. 13

  • 02 Mar

    Dall’abbandono alla pace

     

     12 La sapienza è radiosa e indefettibile,
     facilmente è contemplata da chi l’ama
    e trovata da chiunque la ricerca.
    13 Previene, per farsi conoscere, quanti la desiderano.
    14 Chi si leva per essa di buon mattino non faticherà,
     la troverà seduta alla sua porta.
    15 Riflettere su di essa è perfezione di saggezza,
    chi veglia per lei sarà presto senza affanni.
    16 Essa medesima va in cerca di quanti sono degni di lei,
    appare loro ben disposta per le strade,
    va loro incontro con ogni benevolenza.
    17 Suo principio assai sincero è il desiderio d’istruzione;
    la cura dell’istruzione è amore;
    18 l’amore è osservanza delle sue leggi;
    il rispetto delle leggi è garanzia di immortalit�
    19 e l’immortalità fa stare vicino a Dio.
     

    Nel cammino di incontro con Dio ci accorgiamo spesso, ma tante volte questo purtroppo non accade, come noi stessi frapponiamo molti ostacoli che rendono la fatica ancora più improba e sofferta.
    Questo soprattutto per quella che potremmo chiamare la nostra “alienazione spirituale”: nelle nostre giornate ci muoviamo superficialmente, “fuori di noi stessi”. Non troviamo o non vogliamo trovare il tempo per scendere dentro di noi, nel nostro intima, nella realtà che ci circonda: non siamo coscienza di quel mistero in cui siamo avvolti e nel quale viviamo.
    Se non ci apriamo al nostro mistero è impossibile aprirci al mistero di Dio. Quanto spesso i mistici insistono sul fatto che luogo dell’incontro con Dio è il cuore, il centro, l’intimo…
    Purtroppo siamo incatenati da così tante ansie, inquietudini, dispersione, superficialità che questo atteggiamento che ritengo fondamentale in un cammino spirituale viene ad essere soffocato. Potremmo quasi considerare questi ostacoli come i nuovi vizi che, insieme agli antichi, dobbiamo imparare a combattere.

    Nella nostra vita spirituale abbiamo dunque bisogno di:
    –  purificazione: dai nostri egoismi, tristezze, frustrazioni, antipatie, insicurezze, aggressività… ovvero da tutti quei sentimenti che sono velenosi in noi.
    riconciliazione: con noi stessi, i nostri fratelli, con Dio
    meditazione: disponibilità a scendere più in profondità di fronte alla realtà.
    Il frutto di un costante cammino di purificazione, riconciliazione, meditazione sarà la nostra pacificazione. 

    L’origine delle nostre tristezze

     Nei confronti della realtà esterna siamo propensi a re-agire in modo istintivo, infantile.
    Questa modalità di rapporto potrebbe essere suddivisa in tre categorie:
    – con le realtà gradevoli che soddisfano i nostri desideri abbiamo una reazione di possesso
    – con le realtà minacciose reagiamo con la paura
    – con le realtà sgradevoli si reagisce con il rifiuto, la distruzione, l’aggressività.�
    Ecco l’origine delle nostre tristezze:
    -il possesso
    -la paura
    -l’odio 

    I nemici dell’uomo

     Il nostro cammino di ascesi dovrebbe comportare un lavoro su noi stessi. Uno strappare le erbacce cattive dal nostro giardino. Sostituirle con i fiori di opposti atteggiamenti:
    il distacco
    – la fiducia
    – l’amore
    Così dinanzi a noi si aprono due strade, due possibilità, due stili di vita:
    – La strada della follia: il voler resistere a tutto ciò che non è possibile eliminare. Il coltivare autodistruttivamente dentro di noi sentimenti velenosi.
    – La strada della sapienza: l’imparare a discernere ciò che si può cambiare da ciò che non si può. La pazienza di coltivare in noi emozioni costruttive e positive.
    La sapienza della vita ci insegna che di fronte alle difficili realtà non dobbiamo reagire in modo istintivo, infantile. Ma ad essere consapevoli delle nostre emozioni sapendole gestire in modo costruttivo.
    Quanto è fondamentale questo per entrare in quella pace interiore, profonda che nulla può sconvolgere: è la quies, l’esichia, la pace del cuore.
    Certo esige la capacità di saper perdere, ma il guadagno è oltremodo vantaggioso.
    Tale atteggiamento esige la resa, l’abbandono dei nostri stili infantili, un guardare la realtà, le persone, gli avvenimenti in un’ottica gratuita, paziente, benevola, fiduciosa, empatica, distaccata. Una visione sapienziale di fronte alla vita che apre alla fede in un Dio che è Padre di misericordia.

     Porsi in spirito di fede 

    A volte è difficile questo abbandono. In noi esistono forti resistenze, pur soffrendo siamo attaccati al nostro dolore, temiamo di perderlo. Oppure il dolore è talmente grande che sembra schiacciarci e toglierci quella libertà e quella pace che desidereremmo.
    Fu l’esperienza di Giobbe.
    Dopo, Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno. Prese a dire: Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: E’ stato concepito un uomo! Quel giorno sia tenebra, non lo ricerchi Dio dall’alto, né brilli mai su di esso la luce. Lo rivendichi tenebra e morte, gli si stenda sopra una nube e lo facciano spaventoso gli uragani del giorno” (Gb 3,1-5).
    E’ un dato di fatto che la sofferenza rappresenti uno scandalo per la fede. Possiamo infatti affermare che nulla possa allontanare di più da Dio quanto l’esperienza del dolore, soprattutto innocente.
    Già il filosofo greco Epicuro (sec. IV a.C.) dichiarava: “O Dio vuol sopprimere il male e non può, e allora è impotente, oppure non vuole e non può, e allora è un niente. Oppure può sopprimere il male e non vuole, e allora è malvagio, o infine, può e vuole, e allora dove è questo Dio e da dove viene il male?”.
    Per noi cristiani è un dato di rivelazione che Dio non può volere il male, poiché egli è il Bene per essenza: “Dio è amore” afferma san Giovanni nella sua lettera. Allora occorre riconoscere che egli lo permetta, in quanto chiama e l’uomo e il cosmo alla piena libertà di cui ha fatto dono.
    Giobbe  di fronte al mistero insondabile di Dio e di fronte al mistero della sua sofferenza di cui non riesce a capirne la ragione, non troverà altro che proferire parole di totale abbandono, le parole che dirà Gesù nel Getsemani: “Padre se è possibile… Sia fatta la tua volontà”.
    “Giobbe rivolto al Signore disse: Ecco son ben meschino: Che ti posso rispondere? Mi metto la mano alla bocca. Ho parlato una volta, ma non replicherò, ho parlato due volte, ma non continuerò” (40,3-5).
    E’ il silenzio adorante e contemplativo, fiducioso, abbandonato: non risolve nulla apparentemente ma apre uno spiraglio alla speranza, il bene più prezioso che l’uomo può attendere. Se Dio ha permesso tutto questo, tutto deponiamo fiduciosi nella sue mani: “Padre nelle tue mani affido il mio spirito”. L’esperienza dei santi ci dice che questo atteggiamento porta con sé il dono della pace. 

    Abbandono

     Una cattiva interpretazione dell’abbandono è la passività, la rassegnazione amara… il lasciare che le cose vadano così perché: tanto a che serve?
    L’abbandono cristiano non è rassegnazione, non è un subire passivo.
    Possiamo invece leggere l’abbandono come un atteggiamento dello “scegliere”, nell'”integrare”, del far proprio ciò che nella vita è spesso inevitabile (un “volere ciò che accade”).
    La rassegnazione non è atteggiamento cristiano, ma pagano (il “destino”). Purtroppo certe correnti spiritualistiche, soprattutto in questi ultimi tre secoli, hanno se non insegnato, almeno suggerito in termini ambigui la rassegnazione. La rassegnazione pagano è il consegnarsi ad un destino senza nome, il Fato, senza volto, cieco. Forza impersonale alla quale è inutile resistere, per cui tanto vale rassegnarvisi.
    L’autentico abbandono è al contrario atteggiamento che scaturisce dal vangelo.
    Alla sua base vi si colloca un atto di fede in un Dio che non è destino o fato, ma Padre che ha cura dei propri figli, che veste i gigli del campo e nutre gli uccelli del cielo (cf Mt 6).
    A questo Padre, con la fiducia del bimbo nella madre, posso dire di “sì”.
    “Per tutto quello che è stato, grazie. Per tutto ciò che sarà. Sì”.
    Un grazie e un sì a tutto ciò che Dio ha permesso, voluto permetterà o vorrà.

     Di fronte all’impossibile 

    Di fronte alla vita dobbiamo assumere un atteggiamento sapienziale.
    Più vorremo resistere alla realtà che ci fa soffrire, in noi e fuori di noi, più essa ci muoverà guerra, creando in noi un’inesorabile situazione di sofferenza e rifiuto.
    Vi sono difficoltà, limiti, inesorabilmente legati alla nostra esistenza. Sono essi l’origine della nostra sofferenza, del nostro disagio dovuto all’inappagamento di ciò che riteniamo essenziale alla nostra vita (e che guardato in profondità spesso non lo è!). 

    Accogliere

     Cosa possiamo fare dinanzi a queste situazioni?
    La parola è semplicissima. E’ realmente una “chiave magica”: accettare.
    Accettare noi stessi. Il corpo, la psiche, la nostra storia, i nostri talenti, e i nostri difetti, accettare lo scarto che scopriamo tra gli ideali e la concretezza.
    Accettare la realtà che ci circonda. Non vivere in un mondo in cui l’affezione a ciò che immaginiamo abbia il sopravvento sulla realtà, dato che diamo sempre per scontato che l’immaginato sia di per sé la cosa migliore per noi.
    Accettare l’irreversibilità del tempo. Guardare al passato, saper guardare al passato senza legarvisi, guardando al Padre che ha condotto avanti la nostra storia, nonostante tutto, attraverso i momenti di gioia ed entusiasmo, stanchezze e tristezze, sofferenze e anche i nostri peccati.
    Un Padre che conduce la nostra storia verso il bene e la vita… nonostante tutto.
    Ricordiamo che questa accoglienza di noi stessi, della realtà, della storia, porta con sé una grande capacità di guarigione delle nostre ferite. Prendiamo coscienza che, se non guariamo le nostre ferite, continueremo a respirare soltanto risentimento attraverso esse.
    Siamo chiamati per vivere nella pace a saper assumere l’abbandono in tutte le direzioni della nostra esistenza. Nei confronti del:
    passato: è riconciliazione con ciò che è stato e non è più possibile modificare
    presente: è accoglienza di ciò che è, senza rammaricarsi perché diverso dalle nostre aspettative.
    futuro: è speranza: il saper desiderare sempre più il bene e la vita, l’incamminarsi verso di essi.

    RIASSUMENDO

    L’abbandono, l’accettazione, l’accoglienza è un rinunciare a se stessi, alle proprie illusorie immaginazioni, per affidarci totalmente ed incondizionatamente al Dio della vita e della storia.
    E’ un cammino sicuro e straordinariamente semplice: rende bambini atti ad entrare in possesso del regno.
    E’ cammino di purificazione di una fede vissuta, forse con troppa paura, difese, proiezioni.
    E’ cammino di amore perché ci insegna ad abbandonarci ad un Dio scoperto come Padre che ci ama.
    E’ cammino che insegna a vivere in uno stato di preghiera continua, di attenzione al passaggio e alla presenza di Dio: insegna il cammino sapienziale del leggere spiritualmente la vita.
    Non ci preoccupiamo più dei risultati, lasciamo che dipendano unicamente da Dio. Siamo resi liberi anche da questa preoccupazione. Tenderemo sì al massimo, ma nella pace: non pretenderemo che ai nostri sforzi debbano sempre e immancabilmente corrispondere i risultati che immaginiamo debbano seguire. 

    Testi

    Sap. 6,12-19; 7,1-14
    Sl 131
    Mt 6,25-33

  • 01 Mar

    3

    Mostrami il tuo volto

     

    “Mostrami io tuo volto”: Mosè, l’amico di Dio, lui che parlava “faccia a faccia” con l’Altissimo, desidera contemplare nella sua pienezza il suo volto: “Mostrami la tua gloria”.
    18 Gli disse: «Mostrami la tua Gloria!». 19 Rispose: «Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome: Signore, davanti a te. Farò grazia a chi vorrò far grazia e avrò misericordia di chi vorrò aver misericordia». 20 Soggiunse: «Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo».  21 Aggiunse il Signore: «Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: 22 quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. 23 Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere».
    Nella condizione terrena non è possibile contemplare faccia a faccia la gloria di Dio. Fu privilegio di pochi contemplare il Cristo trasfigurato dal Tabor, ma avvolto da densa nube. A noi è possibile intravedere la gloria dell’Altissimo solo di rispecchio, nella penombra, ovvero nell’espressione biblica solo “di spalle”.
    Giovanni della Croce nella sua “Salita al monte Carmelo” annota: “La fede è sostanza delle cose che si sperano, e sebbene l’intendimento le colga con fermezza e certezza, non sono cose che si scoprono con l’intendimento perché, se le si scoprissero, non sarebbe fede. La quale sebbene faccia certo l’intendimento, non lo fa chiaro bensì oscuro” (1,II,6.2)
    Il nostro autore suggerisce dunque che la nostra esperienza di fede è una certezza oscura. Dio non lo si può catturare, restringere con i nostri normali procedimenti intellettivi usati per comprendere la realtà che ci circonda. Dio rimane sempre al-di-là (ganz-andere diceva Barth). Dio non si può né analizzare né sintetizzare, in quanto non può assolutamente essere ridotto ad un oggetto sperimentabile e speculativo fosse anche di tipo filosofico o teologico.
    Comprendiamo una cosa importante: Dio è realtà trascendente il mondo e noi stessi, Egli può essere scorto e riconosciuto sì anche dalla ragione ma soprattutto da quel senso interiore che è il dono della fede. Accetteremo che Egli rimanga sempre è comunque mistero che ci spinge all’umiltà e all’umile ricerca. In Giappone, a Kyoto precisamente in un fiabesco giardino shinto, sporgono dal terreno 15 obelischi. Essi sono disposti in modo tale che, da qualunque parte il visitatore si ponga, se ne vedono solo e sempre quattordici. Il significato del giardino è chiaro e profondo: la realtà non si esaurisce in quel che noi possiamo cogliere, catturare. E’ un’illusione crederlo. Ci sarà sempre una parte che non riusciremo a possedere.
    Dobbiamo entrare nel mistero di Dio come nel giardino di Kyoto, consapevoli che ancor più in questo caso, vi è un’infinita realtà che i nostri occhi non potranno mai carpire. Dio rimarrà inaccessibile e inespugnabile ad ogni prometeica pretesa di comprensione.
    La pretesa dell’uomo di catalogare Dio lo porta inevitabilmente a costruirsi idoli a sua immagine.
    Si racconta che vi era in Persia una città i cui abitanti erano tutti ciechi. Venne a passarvi un re con il suo esercito, e vi piantò le tende. A fare pompa del suo prestigio, metteva in mostra un grosso e imponente elefante.
    Venne alla gente il desiderio di accostare quell’elefante, di conoscere quel mostro. E molti di quei ciechi si recarono dall’elefante per rendersi conto, alla maniera dei ciechi della sua forma e figura. E non potendolo vedere con gli occhi, lo palparono con le mani.
    Chi gli toccò la proboscide, chi la coda, chi le zampe e così ognuno ne conobbe soltanto una parte. E ognuno se ne formò un’idea assurda, ognuno legò la sua mente a un’immagine fantastica.
    Quello a cui la mano era caduta sull’orecchio, interrogato dagli altri disse: “E’ una forma paurosa, ruvida e larga come un tappeto”. Quello che aveva toccato la proboscide disse: “L’ho conosciuto bene! E’ come un tubo vuoto, una cosa terribile, uno strumento di distruzione”.
    Colui che aveva toccato le zampe invece disse: “E’ come una colonna ben tornita”.
    Tutti avevano visto solo una parte e tutti avevano visto male. Così è degli uomini nei confronti di Dio. (Fiaba persiana).
    Di fronte all’insondabile profondità senza fondo dell’Assoluto, come Giobbe dovremmo porre una mano alla bocca e non proferir parola. La corrente teologica detta apofatica parte da tale presupposto. Qui la negazione di ogni affermazione e di ogni negazione significa che la trascendenza di Dio sfugge addirittura alla stessa nozione di trascendenza. Il rappresentante di questa corrente, Dionigi Aereopagita, in un testo un po’ sconcertante per le nostre orecchie dice: “Il mistero che è al di là di Dio stesso, l’Ineffabile, Colui che da tutto è nominato, l’affermazione totale, la negazione totale, l’al di là di ogni affermazione e di ogni negazione” (Nomi Divini 2,4).
    Dinanzi al mistero abbagliante l’atteggiamento  vero è l’umile contemplazione: la meraviglia, il silenzio.
    Questa contemplazione ci permette di cogliere un senso più profondo nelle cose, persone, noi stessi. La meditazione ci apre a un ascolto silenzioso della vita che lascia intravedere la presenza del Creatore.
    Si racconta che il grande scienziato e astronomo Newton disse un giorno: “Mi faccio spesso l’effetto di un bambino che gioca sulla spiaggia. Talvolta una conchiglia mi sembra più bella, una pietra più levigata del solito. Ma davanti a me, l’oceano della verità continua a fronteggiarmi, inesplorato”.
    Possiamo aggiungere l’esperienza di Agostino il grande ricercatore della verità. Nelle sue Confessioni scrive: “Che sei dunque Dio mio? Che altro, dimmi, se non il Signore Dio? Chi è infatti il Signore altri che il Signore nostro  , o chi è Dio altri che il Dio nostro? O sommo, ottimo, potentissimo, onnipotentissimo, misericordiosissimo e giustissimo; lontanissmo e presentissimo; o bellissimo, o fortissimo, stabile ed incomprensibile, immutabile e muti tutte le cose; non mai nuovo, non mai vecchio e tutto rinnovi e a vecchiezza adduci i superbi ed essi non lo sanno; sempre in attività, sempre in quiete; raccogli e non hai bisogno, porti e riempi e proteggi; crei, nutri e rechi a compimento; cerchi e nulla ti manca. Ami senza passione, sei geloso senza turbamento, ti penti senza dolore, ti adiri nella tua tranquillità, cambi opere ma non disegno; riacquisti ciò che trovi e non l’avevi mai perduto; non mai povero, godi degli acquisti; non mai avaro eppure esigi ad usura; doniamo a te perché>é tu possa rendere,  nessuno ha cosa non tua; paghi e debiti e non sei debitore; condoni e debiti e nulla perdi. Che è mai quanto ho detto, Dio mio, vita mia, dolcezza mia santa? Che cosa mai può dire uno quando parla di Te? Eppure guai a chi tace, perché quelli che di te  parlano sono muti”. (I,4).  

    Qual è il tuo nome?

     Conoscere una persona per il mondo biblico equivale a possederne il segreto del nome. Troviamo così, sia all’interno della Scrittura che nella Tradizione ebraica e cristiana, un profondo rispetto del “sém” di Dio. Nominare, chiamare, è in un certo senso possedere l’essenza della persona; per tal motivo JHWH sfugge ad ogni nome (cf Es, 3,14; Gn 32,30: Gdc 13,18). Il nome teofanico rivelato a Mosè non veniva mai pronunciato se non una volta all’anno, dal solo sommo sacerdote, all’interno del santo dei santi.
     “Io sono colui che sono”: Dio non rivela il suo nome, tuttavia rivela se stesso come l’Esistente, colui che è la vita e dà la vita. Pur nella sua trascendenza Dio assicura la sua presenza accanto all’uomo. Egli rimane dunque trascendente nella sua vicinanza, nascosto non come tenebra interdetta ma a causa della stessa intensità della sua luce.
    Questa distanza che permette all’amore e alla conoscenza di svilupparsi nella libertà. 

    “E’ apparsa la grazia di Dio”

     Dio si rivela per grazia, o per “follia d’amore” (Massimo Conf.). Per noi cristiani il mistero di Dio ha preso un Nome e un Volto: Gesù di Nazareth, il bambino nella mangiatoia, l’artigiano, il rabbì, il crocifisso. Egli è l’icona del Dio invisibile. “Dio nessuno l’ha mai visto, il Figlio suo unigenito ce l’ha rivelato” (Gv 1); “Egli è l’immagine del Dio invisibile” (Col 1,15a).
    Ma ciò non toglie che anche nei confronti del mistero stesso di Cristo dobbiamo ancora continuare a procedere a tentoni, riflettiamo sì la gloria di Dio trasfusa nei nostri cuori dallo Spirito del risorto, purtuttavia questa gloria e riflessa confusamente come, direbbe Paolo, in un specchio” (2Cor 3,18).
    Gli apostoli entrarono nel mistero di Cristo faticosamente(cf il Tabor), sempre le loro attese furono disilluse: Gesù prospettava loro di continuare a camminare senza stancarsi avendo come punto di arrivo la rivelazione scandalosa del Calvario, dinanzi alla quale tutti fuggirono.
    Questa rivelazione del mistero che si attua sulla croce ci sbalordisce ancor più, e ancor più ci cala in un silenzio adorante e contemplativo. Ancora una volta il mistero sfugge alla comprensione, all’analisi e alla sintesi. Dio è ancora al-di-là in una nube oscura (Tenebrae factae sunt).
    “In Cristo il mistero è nello stesso tempo svelato e velato. Poiché si rivela nel Crocifisso il Dio inaccessibile è con ciò stesso un Dio nascosto, incomprensibile, che sconvolge le nostre definizioni e le nostre attese. Il vero approccio “apofatico” (L’apofasi indica la salita verso il mistero) non consiste soltanto, come spesso si immagina, nella teologia negativa: questa non ha altro scopo che di aprirci ad un incontro, ad una rivelazione, ed è questa stessa rivelazione, ove la gloria è inseparabile dalla kenosi, ad essere propriamente impensabile. L’apofasi sta dunque nell’antinomia, nella dilacerata identità dell’Abisso e della Croce, del Dio inaccessibile e dell’uomo dei dolori, manifestazione quasi folle dell’amore di Dio per l’uomo, sollecitazione umile e discreta del nostro proprio amore” (O. Clement).
    Non siamo dunque chiamati ad una certezza di tipo solo e anzitutto raziocinante. Ma ad una conoscenza dettata dalla contemplazione e dall’amore. Dionigi Aereopagita parlerà di un “raggio tenebroso”, di una “oscura certezza”, la certezza della fede. “Accogliendo la luce della verità come attraverso una feritoia, tutto nelle anime sembra allargarsi” (Gregorio Naz) 

    Analogie-vestigia-simboli

     La sacra scrittura usa numerose immagini e simboli per parlarci di Dio e della sua presenza: fuoco, luce, tempeste, tuoni, avvenimenti…
    Anche nel nostro cammino possiamo ritrovare molte “impronte” lasciate dal sigillo di Dio.
    Un mistico dell’Islam, Husayn Al-Hallay (875-922) descrive in poesia la sua esperienza: “La tua immagine è nel mio occhio, il tuo ricordo sul mio labbro, la tua dimora nel mio cuore: ma dunque, dove ti nascondi?”.
    Anzitutto in noi stessi. Abbiamo sete di vita, di conoscenza, di infinito, siamo sempre alla ricerca di senso, di significato, di uno scopo. Tutto questo è uno “sprazzo di divinità” (Clement) che ci trasporta, ci attira, ci “lavora”, ci impedisce di identificarci totalmente con la terra di cui siamo impastati. Tutto questo ci apre ad una presenza dello Spirito in noi che ci chiama. Questo “senza fondo” del cuore dell’uomo è l’impronta lasciata dal sigillo del Creatore.
    Ne deduciamo che un luogo privilegiato per scoprire Dio è guardare dentro di noi, alla domanda che è in noi, la nostra perenne insoddisfazione che ci rimanda sempre al di là.
    Siamo inoltre chiamati a guardare e a scoprire Dio nella realtà che ci circonda, nella bellezza maestosa, armoniosa della creazione. Dietro alla bellezza e all’armonia dei cieli stellati deve esistere “la” Bellezza, “l’Armonia, “La” Vita.
    Una bellissima poesia di Valverde canta, o meglio, prega così:
    “Tu ci dai il mondo perché lo gustiamo.
    Tu ce lo offri perché lo facciamo parola.
    Tu non hai fatto la tua parola per affogarla nel silenzio,
    nel silenzio fuggevole della gente affannata,
    solo per viverla senza fermarsi a contemplarla…
    Se noi non esistessimo, perché tante cose inutili e belle Dio avrebbe creato,
    tanti tramonti rossi e tanti alberi senza frutti,
    e tanti fiori e uccelli vagabondi?
    Soltanto noi percepiamo il tuo regalo,
    e te ne ringraziamo con estasi di gioia.
    Tu sorridi, Signore, sentendoti appagato
    per la nostra adorazione di venerazione e di meraviglia”.

     Così andiamo salendo dalle creature al Creatore, dagli effetti alla causa, ma sempre per una via oscura, condotti per mano da analogie e deduzioni, a tentoni, tra penombre, verso la fede (Larranaga). 

    Testi

     Es 33,18-23
    Gb  37,14-24
    Sl 8
    Col 1,15-20

     

    sintesi di Larranaga, Mostrami il tuo volto, Ancora 

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