• 13 Mar

    Li amò sino alla fine  

    Lectio di Gv 13,1-26

     

     di p. Attilio Franco Fabris

    La parola di Dio giunge sempre a rimettere in discussione il nostro modo di leggere e di intendere la realtà, la nostra vita, il nostro stesso modo di essere comunità e di vivere le nostre relazioni all’interno di essa. Corriamo il pericolo che avendo già impostato tutto secondo schemi e modalità, forse un tempo validi, questi alla fin fine divengano però talmente scontati e ovvi da impedirci dal prendere in considerazione l’ipotesi che la storia esiga dei cambiamenti. Questi cambiamenti in linguaggio biblico si chiamano…”conversione”.
    Per ovviare a questo rischio risulta indispensabile una nostra “perseveranza” nell’ascolto della Parola: essa è luce infuocata capace di entrare nella nostra vita e nella nostra storia apportandovi il giudizio di Dio, il più delle volte molto lontano dal nostro: Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri” (Is 55,9).
    Lasciando che la Parola “dimori sempre più abbondantemente tra di noi” (Col 3,16) come ci invita Paolo apostolo, invochiamo lo Spirito affinché disponga ora il nostro cuore a ricevere il prezioso dono della Parola, perché essa non cada sulla strada della nostra superficialità, fra i rovi delle nostre ansie o tra i sassi delle nostre durezze di cuore.
    Mandaci, Signore, il tuo Spirito a consacrarci nella verità come tuoi veri discepoli, a liberarci dalla concupiscenza, dalla vanità, dall’orgoglio, dalla distrazione, affinché, invasi dalla tua beatitudine possiamo gioire in te e trovare la forza di essere servi con te” (Bernard Haring).

    Lectio

     Il racconto della Passione nel vangelo di Giovanni viene introdotto con l’inaspettata scena della lavanda dei piedi. Si tratta di una solenne introduzione che offre all’ascoltatore la chiave di lettura di tutto ciò che l’evangelista sta per narrare nei capitoli riguardanti la passione.
    L’episodio si svolge “prima della festa di pasqua“, sembrerebbe, stando alla cronologia di Giovanni, la sera del giovedì santo durante la cena pasquale. Per Gesù è la celebrazione della sua pasqua di passione e morte verso la terra promessa del regno del Padre suo. È una nuova Pasqua, quella definitiva, che segna l’inizio di un mondo nuovo e di un popolo nuovo.
    A Giovanni preme sottolineare che Gesù non è costretto ad entrare nella sua passione, quasi fosse un triste incidente di percorso. Per ben tre volte, nei capitoli che narrano la passione, l’evangelista ricorda all’ascoltatore che Gesù “sa“e “conosce” quello a cui sta andando incontro (13,3; 18,4; 19,28). Proprio per questo Gesù è sovranamente libero, e questo è di capitale importanza considerando che solo una piena libertà può esprimere la grandezza e la gratuità del dono che egli sta per fare della sua vita al Padre e ai fratelli.
    Egli è altresì consapevole del “potere” che il Padre gli ha dato “su ogni cosa“. Per lui “potere e autorità” significano mettere a disposizione dei fratelli la propria vita fino alla morte, non trattenendo nulla per sé. E’ un “potere” che svuota se stesso facendo della vita e della morte un servizio d’amore.
    Tutto il racconto della lavanda dei piedi e della Passione che segue, trova la sua nota iniziale nella formula solenne che descrive Gesù come colui che “avendo amato i suoi che erano nel mondo li amò sino alla fine“.
    “Sino alla fine“: ovvero si tratta di un amore che non teme di scendere fino alle più estreme conseguenze del perdere se stessi. “Sino alla fine” si potrebbe tradurre con “fino alla morte” il che significa che tra la sua vita e la nostra, Gesù non ha dubbi, sceglie la nostra. Il suo amore è realmente un amore che è disposto a morire per l’altro. Nell’umanità di Gesù, Dio, rinunciando a tutti i suoi privilegi di “potenza” e di “autorità”, viene incontro alla sua creatura ponendosi gratuitamente al suo servizio, incondizionatamente, rivelando allo stesso tempo il mistero del suo “folle” amore per le sue creature.
    Dopo questa intensissima premessa teologica ecco l’evangelista Giovanni descrivere minuziosamente la scena della lavanda dei piedi. Nelle cene rituali ebraiche il capofamiglia presiedeva il rito e le solenni preghiere conclusive. All’inizio il più giovane, o un servo, lavava le sue mani. Gesù capovolge l’uso: lava i piedi anziché le mani ed è lui stesso che compie il gesto. Lavare i piedi era comunque un lavoro proprio dello schiavo o tutt’al più del servo: un maestro non lo poteva richiedere neppure ad uno schiavo giudeo. Agli occhi dei discepoli Gesù compie dunque un gesto sconcertante e incomprensibile, in certo qual modo scandaloso.
    Le azioni di Gesù sono descritte quasi al rallentatore una ad una, minuziosamente, il che significa che, per l’evangelista, esse vanno attentamente contemplate ed interiorizzate. Gesù si alza da tavola, depone le vesti che sono segno della dignità dell’uomo libero, si cinge con un asciugatoio che è la divisa del servo, e in ginocchio inizia a lavare i piedi umilmente e in silenzio ai suoi discepoli. Prendono qui forma visibile i detti di Gesù in Luca e in Marco: “Chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve?… Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27), e: “Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire” (Mc 10,45; cfr 1 Pt2,21-24).
    Deponendo le vesti e “assumendo la condizione di servo” (Fil 2,7) Gesù anticipa così l’umiliazione della croce. Egli vuole rappresentare, in una sorta di drammatizzazione, la sua morte di croce. I verbi “deporre” e “riprendere” le vesti rimandano in effetti chiaramente all'”offrire la propria vita” per poi “riprenderla di nuovo” (10,18).
    La reazione di Pietro è significativa: egli rifiuta categoricamente il gesto di Gesù. Il suo “No!” è una negazione assoluta in tutto simile a quel “Non ti accadrà mai!” riferito alla passione preannunciata da Gesù a Cesarea (cfr. Mc 8,31-33). Per lui vedersi lavare i piedi dal Maestro è incomprensibile perché è ancora distante dall’intendere la vita come dono e servizio. Resiste a lasciarsi amare e ad amare incondizionatamente da e come Gesù. Rifiuta il gesto di Gesù nello stesso modo in cui dinanzi alla croce fuggirà. Pietro d’altronde non può capire. E come lo potrebbe? Potrà iniziare ad intendere qualcosa solo dopo l’annuncio e la catechesi postpasquale di Gesù risorto e il dono del suo Spirito che, finalmente, offrirà a lui e agli altri discepoli la giusta interpretazione della passione e morte del Maestro e dunque anche del gesto della lavanda dei piedi.
    Al termine Gesù, tornato al suo posto, rivolge una parentesi ai suoi. Egli invita i discepoli a far proprio il gesto veduto affinché tra loro facciano altrettanto. Se lui “Maestro e Signore” ha fatto così anche loro dovranno assumere il ruolo di servi gli uni degli altri.
    Questa imitazione contiene una promessa di beatitudine (è una delle due sole beatitudini contenute  nel vangelo di Giovanni): “Sarete beati se la metterete in pratica“. E’ un invito esplicito a riportare quello che si è visto e ascoltato nella vita della comunità (cfr. Gc 1,22-26; Mt 7,21-27). Essa però non deve, e non può, scaturire da un modello semplicemente esterno. Sarebbe ancora un imperativo morale dato da una legge esterna dalla quale Gesù ci vuole liberare. Sarà solo alla luce dell’esperienza dell’essere stati amati infinitamente, come prefigurato dalla lavanda dai piedi e realizzato dalla morte di croce, che questo comando potrà trasformarsi in spinta dinamica ed interiore perché anche la vita del discepolo si trasformi in umile servizio agli altri rinunciando ad ogni sorta di potere. 

    Collactio

     “Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27). Questo detto di Gesù trova la sua visualizzazione e realizzazione prima nel Cenacolo e poi, in pienezza, sul Calvario (Gv 19,18).
    Stare in mezzo” per Gesù significa porsi nell’atteggiamento della piena disponibilità agli altri. Lui non rifugge né si nasconde per timore dell’esigenza del servizio. A differenza di noi, non “sta in mezzo” per emergere, per disporre ed imporsi. Nel Cenacolo e sul Calvario “sta in mezzo” facendosi scandalosamente, lui Maestro e Signore, servo di tutti.
    Ciò che ci sconvolge ancor più è il fatto che Gesù lava i piedi ai suoi, “sapendo” che dopo non molte ore lo avrebbero abbandonato. Eppure non per questo rifiuta il dono del servizio della propria vita: anzi egli sa che proprio per questo i discepoli hanno bisogno di toccare con mano il dono della sua vita.
    Inginocchiarsi e mettersi a lavare i piedi degli altri non è facile. Anzi! Anche noi, come Pietro, reagiremmo all’invito di Gesù dicendo: “Questo è troppo! Non è il caso… non esageriamo”. E’ infatti scomodo lasciarci lavare i piedi da Gesù, non tanto per lui che si trova perfettamente a suo agio nelle vesti del servo (“Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire” Lc 22,27), quanto soprattutto per noi. Vorremmo non confrontarci con quel che Gesù è e fa in ginocchio davanti ai suoi: va troppo contro il nostro modo di intendere la vita e la relazione con gli altri. Il gesto di Gesù ci fa entrare in una “porta stretta” scomoda ed esigente: per lui autorità e potere significano la piena libertà di porre la propria vita a servizio dell’altro, volere e preferire il bene dell’altro a costo di rimetterci la propria vita. E’ venuto a dirci che Dio è proprio così: è in questo modo che esercita il suo potere sulle sue creature.
    Questo suo modo di intendere il “potere” e il suo essere “Maestro e Signore” contesta in modo stridente i nostri giudizi e criteri. Noi siamo assetati del potere che vorrebbe assoggettare gli altri a noi stessi imponendo la nostra volontà in una sorta di illusione di onnipotenza. Vorremmo ad ogni costo successo, riuscita, realizzazione, vorremmo vivere alla luce della ribalta sempre applauditi e riconosciuti. Questo accade non solo all’esterno, nel mondo, ma anche all’interno delle nostre famiglie, delle nostre stesse comunità religiose; non per nulla Gesù ammonisce la sua comunità conoscendo il perenne rischio: Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo” (Mt 20,26).
    Inginocchiarci a servire l’altro lo avvertiamo come una “perdita” di noi stessi, equivale ad un morire a tutte le nostre pretese di essere al centro, un attentato alla nostra dignità, alla nostra libertà, al  nostro… potere. 
    A questa prospettiva la nostra coscienza intaccata dal nostro egocentrismo, come quella di Pietro, si ribella. Noi non siamo capaci di questa gratuità. Abbiamo perciò bisogno di guarigione nel ripensare e reimpostare le nostre relazioni all’interno delle nostre comunità. Ma perché si operi tale guarigione abbiamo bisogno ogni giorno di recarci al Cenacolo e sul Calvario, di farci lavare i piedi da Gesù. Solo l’esperienza di lasciarci toccare da quelle mani può aiutarci a comprendere, seppur a stento, che il potere è servizio. Nel Cenacolo e sul Calvario non si può più cadere in equivoco nell’interpretare le nostre relazioni e le modalità con cui vivere il potere all’interno della comunità dei discepoli. Scriveva Agostino nella sua “Regola”:  “La superiora non si consideri dominatrice per autorità, quanto piuttosto felice di servire per carità“. E la “Regola di Taizé” definisce il superiore come “servo della comunione“.
    Solo l’aver udito, visto e toccato la misura del servizio di Gesù nella sua passione può far sgorgare improvvisa in noi, come una sorgente inaspettata sepolta nel profondo del cuore e dimenticata, la gratuità che nasce dalla gratitudine.
    Da Gesù impareremo anche noi “a stare in mezzo” alla comunità per servire, per fare della nostra vita un dono gratuito a Dio e ai fratelli in unione alla sua offerta. 

    Oratio

     Signore Gesù, è difficile accettare di farci lavare i piedi da te. Ci sentiamo a disagio, vedendoti lì in mezzo, inginocchiato davanti a noi col grembiule e il catino. Un disagio difficile da comprendere.
    Forse, Signore, la ragione è che facciamo fatica a lasciarci amare da te così come siamo, con i nostri piedi sporchi che hanno calpestato strade di tradimento, egoismo, chiusura.
    Ma è altresì un disagio, Signore, che avvertiamo considerando che quel che tu fai lo domandi anche a noi. Ma troviamo così difficile, a volte impossibile, lavare i piedi al fratello e alla sorella.
    Metterci in ginocchio davanti a loro ci costa, ci sembra di perdere, di morire troppo al nostro orgoglio e al nostro bisogno di emergere e imporci.

  • 11 Mar

    Un solo corpo, molte membra…

    Lectio di 1 Cor 12,12-28

     

    di p. Attilio Franco Fabris

     

    La nostra esistenza è un tessuto di relazioni. Pensiamo solo al pane che troviamo sulla nostra tavola tutti i giorni: quante relazioni, fatte di volti e di mani, sono occorse affinché arrivasse sino a noi. Noi viviamo di relazioni fin dal nostro stesso concepimento. Nessuno può vivere – ricorda la Scrittura – per se stesso (cfr Rm 14,7); abbiamo bisogno gli uni degli altri perché “non è bene che l’uomo sia solo” (Gn 2,18). Fatto ad immagine di Dio, che nel suo profondo mistero è relazione perfetta d’amore, l’uomo è costituzionalmente creato per la relazione e in vista della comunione.
    Ma l’uomo, lo stiamo amaramente constatando, si illude di poter far a meno della relazione con gli altri instaurando rapporti fatti di prevaricazione, potere, violenza. Il mondo è ferito da questo tessuto di relazioni spezzato, ingarbugliato, sfilacciato.
    Chiediamo allo Spirito che è relazione d’amore di suscitare in noi la sete di autentiche relazioni fatte di accoglienza e riconoscimento. Chiediamogli uno sguardo nuovo capace di vedere nell’altro non un nemico da sconfiggere ma un dono, così che insieme possiamo edificare il mondo nel progetto di quel Regno annunciato da Gesù.
    Vieni, Spirito di comunione, che costruisci la tua Chiesa come un prezioso tessuto in cui ciascuno trova la sua perfetta collocazione in vista di quel disegno misterioso e straordinario che è nel cuore di Dio. Donaci di poterci consegnare gli uni agli altri nella fiducia, nella gioia che insieme con te stiamo costruendo il Regno. Vieni, Spirito di comunione, abbattendo in noi tutte quelle barriere fatte di paura, presunzione, interessi, rivendicazioni che ci impediscono di stendere la mano al fratello, alla sorella che ci sta di fronte. Che nessuno viva per se stesso, ma che la vita divenga disponibilità ad entrare in quel mosaico a cui tu, da tutta l’eternità, pazientemente stai lavorando.

    Lectio

    Il problema che Paolo dovette affrontare nella comunità di Corinto fu quello dell’interazione dei diversi carismi. La comunità di Corinto rischiava di fare dei doni accordati ai singoli credenti occasione non di crescita per tutti, ma di competizione e opposizione, stravolgendone così completamente il significato. Ecco allora l’apostolo Paolo preoccupato per questa situazione scrivere quel capolavoro di teologia e spiritualità che è la prima lettera ai cristiani di Corinto.
    Al cap. 12 egli entra espressamente nella situazione che gli sta a cuore. Il testo della nostra lectio appartiene a questa parte della lettera.
    Paolo ricorre, per affrontare il problema dell’interazione dei carismi, ad un apologo delle membra e del corpo già sfruttato ampiamente in quasi tutte le letterature antiche. L’utilizzo che ne fa san Paolo non è tuttavia, come in quei casi di tipo morale o sociologico, ma strettamente teologico.
    E’ nel suo intento cercare di illustrare la complessità del mistero della Chiesa nella sua duplice valenza di unità e pluralità, il che apparentemente sembrerebbe creare una tensione inconciliabile: come infatti far concordare il diritto all’individualità con le esigenza della comunità? Tale tensione è risolvibile, secondo Paolo, ricorrendo al concetto dinamico della crescita e dello sviluppo di un unico corpo composto dalla diversità delle varie membra.
    Ma veniamo al nostro testo che desideriamo ripercorrere con attenzione.
    Al v. 12 l’apostolo scrive: “Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo”. Si tratta di un’equazione stringente posta tra il corpo e le sue singole membra e il Cristo e la sua Chiesa. Rimane però il problema di come intendere questo rapporto? Le spiegazioni esegetiche si collocano su due diverse interpretazioni.
    Alcuni studiosi affermano un semplice rapporto di equivalenza. È come se si dicesse: “così avviene anche in Cristo”, dove il Cristo svolge solo un’attività unificatrice nei confronti dei credenti in lui. In questo caso non ci sarebbe un riferimento personale a Cristo ma solo globale. Siamo nella linea della dottrina del “Cristo totale”. Agostino dirà a proposito: “La totalità di Cristo è composta dal capo e dal corpo: il capo e l’Unigenito Figlio di Dio e il corpo la Chiesa; lo sposo e la sposa, due in una sola carne“.
    Altri esegeti invece propendono per un’interpretazione più realistica che sembra corrispondere maggiormente al pensiero di Paolo: i credenti appartengono, si inseriscono, nel corpo stesso glorioso e personale di Cristo (cfr 6,15; 10,17). Ovvero Gesù risorto associa a sé personalmente, come sue membra tutti i credenti in lui: un corpo solo di cui Cristo è il capo: “pur essendo molti, siamo un corpo solo” (10,17).
    Tale inserimento avviene attraverso la fede e i sacramenti nei quali agisce l’unico Spirito. Ecco allora il testo riferirsi alla grazia battesimale (v.13): “Siete stati battezzati in un solo corpo” (trad. CEI “in un solo Spirito”). Si accenna anche ad una comunione che nasce in forza di un comune  “abbeveramento”: “ci siamo abbeverati a un solo Spirito”. E’ un’espressione non molto chiara: a cosa allude l’apostolo? Ancora al battesimo, alla confermazione, o all’eucarestia? Per i Padri è in riferimento all’eucarestia, tuttavia si potrebbe intenderla anche in relazione alla confermazione amministrata subito dopo il battesimo (cfr At 8,17; 19,6) . E’ ricorrente infatti l’immagine dello Spirito quale sorgente d’acqua viva alla quale attingere per dissetarsi (cfr Gv 4,13-17; 7,38-39; Ap 22,1).
    Nei vv. 14-26 si prosegue riprendendo a pieno titolo la metafora. Nessun membro del corpo perciò può rivendicare assurdamente di essere la totalità, nessuno può agire in modo indipendente. Il corpo necessita infatti della collaborazione di tutte le singole membra, nessuna è esclusa, e tale collaborazione richiede un’azione non caotica, ma coordinata. Fra le singole membra, come nel corpo umano, deve vigere una sorta di legge della solidarietà (v.20).
    Viene assunta nel testo anche una “difesa” delle membra più deboli. Ognuno dovrà, all’interno di questa visione unitaria del corpo, occuparsi dell’altro, averne cura, portarne il peso. La sofferenza di uno è la sofferenza di tutti, la gioia di uno è la gioia di tutti.

    Collactio

    Nella nostra società le relazioni sembrano ormai inflazionate: vi è una mobilità esasperata, gli SMS sono in incremento vertiginoso, e i telefonini e i computer si presentano come sempre più potenti strumenti di incontro. Gli scambi tra persone a tutti i livelli si susseguono a ritmo sempre più incalzante.
    Sembrerebbe a prima vista che l’uomo di oggi colga nella relazione la sua ragion d’essere, e che per questo non voglia mai essere solo. Ma come ogni realtà inflazionata questa ricerca di contatto così sfrenata con gli altri alla fin fine appare svuotata. Si è sì insieme, ma il più delle volte lo si è alla maniera di sperdute “monadi” di leibziana memoria.
    E’ un dato di fatto che la nostra società vive un profondo disagio nelle sue relazioni: la famiglia, ad esempio, che dovrebbe essere il luogo naturale e privilegiato delle relazioni nella nostra cultura sta vivendo una sempre più grave disgregazione. A livello sociale l’ “altro”, sia l’immigrato o il vicino di casa, viene percepito come una minaccia, un antagonista alla propria presunta libertà e sicurezza.
    E nella Chiesa come si vive il tessuto delle relazioni? Dal concetto di Chiesa “societas perfecta” si è passati, col Concilio Vaticano II, a quella di Chiesa “Popolo di Dio” passando da una visione freddamente giuridica ad una visione che certamente sottolinea la nostra comune appartenenza fatta di molteplici e complementari relazioni.
    Eppure il disagio delle relazioni investe talvolta anche le strutture ecclesiali: conferenze episcopali e curia romana, vescovi e preti, parroci e consigli pastorali, movimenti e chiesa locale, superiori/e e il resto della comunità…. Non possiamo negare l’esistenza di vari e talvolta profondi problemi di relazione. C’è sempre il rischio che qualcuno, o un gruppo, si senta esonerato dal dovere di interagire con l’altro, in certo qual modo ci si crede autosufficienti, bastanti a se stessi, se non addirittura in antagonismo agli altri.
    Nelle nostre comunità religiose avvertiamo la fatica delle relazioni, a tessere incontri e scambi veri e profondi. Spesso le nostre relazioni sono solo superficiali, tecniche, stentiamo a relazionarci al livello dell’esperienza di fede. Il fatto che l’individualismo si sia insinuato sottilmente e in modo disgregante tra le mura dei nostri conventi, incrinando minacciosamente la loro stabilità è un dato da tutti riconosciuto.
    Non insisteremo mai a sufficienza sul percepire la Chiesa e le nostre comunità, non come semplici strutture sociali e organizzative, ma come un unico e vero e proprio corpo vivente. Un corpo in cui ciascuno, per la sua parte, contribuisce corresponsabilmente alla comune crescita e benessere che va a beneficio di tutti e di ciascuno. Sentirsi tutti chiamati non solo a far parte ma ad edificare l’unico corpo comporta  cogliere la Chiesa come luogo costituito essenzialmente dalla interazione e complementarietà delle relazioni.
    Queste sono sorgente di bellezza e vita: si è sorretti, accompagnati. E’ una sorta di cordata nella quale uno è di aiuto e stimolo all’altro a proseguire nel cammino nella certezza di non essere soli. E’ accogliere la complementarietà nella consapevolezza che io non sono “il tutto”, e che ciò che sono e faccio io non lo può fare l’altro e viceversa.  Ed è per questo che tutti siamo ugualmente importanti seppur in ruoli apparentemente tanto diversi. Tra il superiore generale e l’ultimo portinaio non dovrebbe esiste differenza di importanza: entrambi nel disegno di Dio sono indispensabili!
    La relazione è fatica: essa implica infatti il riconoscere umilmente di non essere autosufficienti. È accogliere la mia dipendenza dall’altro non come una sconfitta ma come un’opportunità di una crescita maggiore per entrambi. Talvolta questo è faticoso da accettare perché comporta il riconoscere il mio limite e la mia presunzione orgogliosa di “onnipotenza”.
    Abbiamo bisogno di essere guariti nelle nostre relazioni. Di ritrovarne il vero valore e la loro assoluta necessità in ordine alla costruzione del regno di Dio. Quale la strada?
    Paolo apostolo parla di un corpo con diversa membra le quali sono invitate dalla prima all’ultima a superare la tentazione autodistruttiva di credere di poter bastare a se stesse, ritenendosi migliori delle altre.
    Dobbiamo tornare a pensarci nel mondo non in riferimento a quell’ “io” che pretenderebbe d’essere  il fantomatico “ombelico del mondo”. Pensare, da parte di ciascuno, che il nostro essere qui e ora è in vista di un comune e immenso progetto di Dio che tutti ci abbraccia e supera, e al quale tutti siamo invitati a cooperare “ciascuno per la sua parte“. Così ognuno ritrova il suo posto e il suo significato e di risvolto quello altrettanto importante e diverso dell’altro. Tutto questo va al di là di un generico e inconcludente “vogliamoci bene”, comporta invece una solida visione di fede molto più ampia e profonda alla quale il testo di Paolo apostolo ci invita. 

    Oratio

    Ti ringraziamo, Signore, per il dono d’averci fatto entrare nello straordinario disegno che è la creazione e il tuo Regno. La consapevolezza di questo nostro trovarci iscritti in esso talvolta si affievolisce in noi, e così ci ripieghiamo nei nostri piccoli mondi, nei nostri miseri progetti e disegni. Quando dimentichiamo il nostro essere fatti per qualcosa “di più grande” che a tutto dà senso le nostre relazioni spesso si ammalano, e il tessuto che ci lega gli uni agli altri si allenta, si sfilaccia e si strappa. Facci uscire dalle nostre solitudini per intessere relazioni vitali generatrici di gioia e di pace.
    Aiutaci ad alzare lo sguardo, apri i nostri occhi perché possiamo riconoscere che colui che ci sta accanto è un fratello, non un nemico, col quale in cordata incamminarci al fine di giungere insieme a quella vetta che è il tuo Regno. Impareremo a stenderci vicendevolmente la mano, segno di un’alleanza donata da te a tutti noi e nella quale siamo chiamati ad entrare, dando fiducia alla tua promessa di un’umanità nuova.
    Che le nostre comunità siano già ora luoghi di guarigione per tutte le relazioni malate che sono in noi e attorno a noi: che possiamo essere guariti dall’indifferenza e dallo sfruttamento, da ogni forma di violenza e rifiuto. Nella bellezza e nella fatica del costruire le nostre relazioni, ogni giorno scopriremo di avvicinarci sempre più al tuo volto, o Dio Trinità d’amore, così che il nostro vivere insieme, per tua grazia, si trasformerà in specchio capace di dire al mondo, seppur in modo sempre  incerto e appannato, il tuo mistero.

  • 10 Mar

    Liberami da me stesso

     

    Signore, fa’ che la mia persona ispiri fiducia
    a chi soffre e si lamenta,

    a chi cerca luce perché è lontano da te,

    a chi vorrebbe incominciare

    e non se ne sente capace.

    Signore, aiutami a non passare accanto a nessuno
    con volto indifferente e con cuore chiuso,

    con passo affrettato.

    Signore, aiutami ad accorgermi subito
    di quelli che mi stanno accanto.

    Fammi vedere quelli preoccupati e disorientati,

    quelli che soffrono e non lo mostrano,

    quelli che si sentono isolati senza volerlo,

    e dammi quella sensibilit�
    che mi fa incontrare i loro cuori.

    Signore, liberami da me stesso
    perché ti possa servire,

    perché ti possa mare,

    perché riesca ad incontrarti
    in ogni fratello che tu mi fai incontrare.

     

    G. Volpi

  • 08 Mar

    Esci dalla tua terra e va!

    Lectio di Gn 12,1-10

     

    di p. Attilio Franco Fabris

    Invochiamo all’inizio di questo tempo dedicato all’ascolto lo Spirito affinché pieghi con il suo soffio potente il nostro cuore alla docilità nei confronti della Parola. Si realizzi nella nostra vita l’esperienza del Servo di Jhwh che prega: “Ogni mattina fa attento il mio orecchio, perché io ascolti come gli iniziati” (Is 50,4).
    Solo da questo ascolto docile “da iniziati” al mistero può scaturire l’obbedienza autentica alla volontà di Dio.
    Si tratta di una docilità non facile perché il cuore dell’uomo è duro, ribelle. Il profeta Isaia dirà: “Questo è un popolo ribelle, sono figli bugiardi, figli che non vogliono ascoltare la legge del Signore” (33,19). Noi per paura e diffidenza facciamo resistenza alla Parola e si comprende la necessità dell’azione stessa del Signore perché è solo in lui in grado di pronunciare l'”effatà”, ovvero la parola capace di vincere la nostra sordità: “Il Signore mi ha aperto (=forato) l’orecchio e io non ho opposto resistenza e non mi sono tirato indietro” (Is 50,5). Ecco perché con insistenza e fiducia preghiamo lo Spirito, il suo soffio perché “pieghi ciò che è rigido“.
    Signore, la tua Parola che oggi ci farai udire resti in noi sempre presente e operante. Continua a farla risuonare al nostro orecchio, fora la nostra sordità: “Piega il nostro cuore verso i tuoi insegnamenti” (Sal 118,36).
    La Parola che ora depositerai in noi come seme di vita, non permettere che rimbalzi drammaticamente contro il muro della nostra sordità. Che il nostro ascolto ci renda capaci di vera obbedienza.

    Lectio

    La lettura biblica con cui vogliamo meditare il tema dell’obbedienza è un testo caro alla tradizione e alla spiritualità della vita consacrata: si tratta dell’ormai “classico” racconto della vocazione di Abramo (Gn 12,1-9). Siamo infatti sempre stati invitati a meditare sulla straordinaria obbedienza del nostro “padre nella fede” (cfr Rm 4,11) alla chiamata di Dio. Ma la domanda che vorremmo oggi rivolgere al nostro vecchio patriarca è questa: Abramo in virtù di chi e di che cosa sei giunto a quest’atto di coraggiosa e totale obbedienza alla voce di Dio?
    Per rispondere a tale domanda occorre partire un po’ prima, ovvero da quello che potremmo definire il “presupposto antropologico” in cui la Parola si fa udire alla coscienza di Abramo. Egli è un uomo che ha un estremo bisogno di una parola di speranza. La sua vita umanamente è un fallimento, infatti è senza futuro e non può assicurare né a sé e tanto meno agli altri la speranza di una continuità. È impantanato in un vicolo cieco che lo conduce ad una sempre più dolorosa esperienza di morte contrassegnata dalla sua sterilità.
    Dio disse ad Abramo” (Gn 12,1): il racconto comincia con una parola di Dio che assomiglia molto alla prima parola del Genesi: “In principio… Dio disse…” (cfr Gn 1,1ss) . Questo lascia intuire che la chiamata di Abramo ha nella storia della salvezza la valenza di una nuova creazione, di una rinnovata benedizione in vista della vita e della fecondità per cui Dio ha creato l’uomo (Gn 1,28).
    Non solo Abramo ma tutta l’umanità, ha bisogno di un rilancio della creazione e della benedizione dopo che il peccato con la sua maledizione aveva trascinato con sé ogni cosa nel vortice del nulla e della morte.
    Questa parola di speranza da parte di Dio ad Abramo è il cuore del racconto. Il centro del discorso di Dio ad Abramo non è il comando “parti e lascia”, ma un altro. Solo alla luce di una speranza che scaturisce da una parola che è promessa si può giustificare e capire il comando di “partire e lasciare”.
    In altre parole: il comando che esige obbedienza (v. 1) è sostenuto e giustificato dalle tre straordinarie (e umanamente impossibili) promesse (vv. 2-3). Queste rappresentano la “Buona Notizia” donata al vecchio e disperato Abramo. Esse sono complementari l’una all’altra: anzitutto Dio promette che farà di Abramo una grande nazione, il che significa che avrà una discendenza. “cosicché io faccia di te una grande nazione” numerosa “come le stelle del cielo e come la sabbia che è sulla spiaggia del mare“. Questa numerosissima discendenza avrà pur bisogno di una terra grande e fertile; ecco allora la seconda promessa che assicura “un paese“. Infine – e questa è la promessa più grande e importante – Abramo diverrà “benedizione per tutte le nazioni della terra“. Egli è chiamato a divenire, proprio in forza delle promesse, segno e portatore di speranza-salvezza per tutti i popoli.
    L’obbedienza richiesta ad Abramo certo comporta delle esigenze. Le esigenze sono pesanti e “dolorose”: Dio infatti enumera tutto ciò che Abramo è invitato a lasciare, e si tratta di una sequenza che segue, in ordine psicologico, dal  più facile al più difficile: la patria, la propria cultura, la propria parentela. Per un nomade è facile lasciare la terra, ne è abituato. Più difficile abbandonare il proprio clan, la propria famiglia. Lasciare la casa del proprio padre è abbandonare ogni riferimento culturale, è lasciare le proprie radici.
    Queste fratture sono inevitabili se Abramo desidera superare i punti morti e stagnanti della sua vita. Ma questi distacchi “obedienziali” di Abramo sono sostenuti e motivati solo dalla fiducia accordata alla parola udita. Senza la docilità alla parola-promessa in Abramo non scaturirebbe alcuna obbedienza di fede!
    Questa risposta-obbedienza di Abramo sarà stata semplice ed immediata, avrà faticato a porsi in questa obbedienza? Pensiamo che Abramo ha settantacinque anni. E’ un’età non sicuramente ideale per iniziare una nuova vita, per dare una svolta alla propria esistenza. Oggettivamente nel momento in cui Abramo parte mutando radicalmente vita, le probabilità che si realizzino le promesse di Jhwh sono praticamente nulle. Tutte le circostanze sembrano “ragionevolmente” contrarie al contenuto delle promesse, e rendono umanamente insensata la sua obbedienza.
    La grandezza delle fede di Abramo sta proprio in questo ascolto che si fa obbedienza nei confronti di una Parola di speranza “impossibile”: “Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli” (Rm 4,18).
    Solo la promessa possiede la forza capace di mettere in moto il nostro settantenne Abramo. La sua obbedienza si è strutturata unicamente sulla speranza scaturita dalla docilità offerta alla Parola ascoltata. 

    Meditatio

    Purtroppo (e indebitamente occorre dire!) nella predicazione e nella catechesi, si è insistito spesso solo sul comando del Signore dato ad Abramo di “partire e lasciare”, dando un po’ l’impressione e la sensazione all’ascoltatore di un Dio che col dito puntato obbliga il povero Abramo a cose impossibili e assurde in virtù unicamente della sua autorità. Ci si offre l’immagine di un povero Abramo che come un soldato reclutato a forza non può far altro che sottostare ad una sorta di “obbedienza “militare” che non si può minimamente discutere. Veniva così presentata sì l’obbedienza “eroica” di Abramo, ma di certo essa non aiutava ad amare di più un Dio così tremendamente esigente.
    Aver insistito in questa linea ha travisato molto e  tragicamente la ricchezza della teologia della rivelazione biblica contenuta nel brano. Di conseguenza anche le applicazioni che del testo si sono fatte in riferimento alla vita del credente erano povere spiritualmente e pervase più che altro da un sterile volontarismo.
    Il “devi partire e lasciare” è risuonato continuamente negli ambienti di convento, nelle volte delle chiese, nelle aule buie di catechismo. Un “devi” che piombava pesantemente dall’alto domandando un’obbedienza indiscussa, e non bastasse, il più delle volte accompagnata dalla prospettiva di fiamme nel caso di “diserzione”. L’obbedienza così andava spavaldamente a braccetto con la paura.
    Il racconto della vocazione di Abramo ha molto da insegnare al fine di correggere l’infausta lettura che da più parti si è fatta della vocazione di Abramo e dell’obbedienza.
    L’obbedienza che scaturisce dalla fede biblica non ha nulla a che vedere con un’obbedienza di tipo disciplinare: quest’ultima ha come punti di riferimento dei comandi impartiti e un’autorità con il potere di comandare. L’obbedienza di Abramo, quella biblica per intenderci, si inscrive invece in tutt’altra categoria: quella della “docilità”. Tale categoria fa riferimento non alla sfera gerarchica ma affettiva. Essa non nasce dall’imposizione dell’altro, ma dalla fiducia accordata all’altro.
    Si tratta di una fiducia-obbedienza che trova radice nell’ascolto. Non per nulla anche la stessa etimologia della parola “obbedienza” è significativa. Essa deriva dal latino ob-audio, che è un composto di audio (= udire, ascoltare). Questo ci mette nella giusta direzione circa una corretta comprensione e prassi dell’obbedienza della fede: fondamento dell’obbedienza del credente non sta il comando, ma l’ascolto! Dall’ascolto scaturisce la persuasione e dalla persuasione la docilità.  E finalmente dalla docilità si giunge all’obbedienza. Siamo ben lontani così da ogni ristretta interpretazione di carattere semplicemente disciplinare e moralistico!
    Ciò che sorregge l’obbedienza di Abramo non è perciò il comando impartito dall’ “autorità divina” ma al contrario è la docilità che egli accorda alla parola-buona notizia-promessa udita.
    Spesso la nostra interpretazione e prassi dell’obbedienza è purtroppo priva di questo elemento essenziale: poggia sul vuoto e cresce fra le spine velenose del “dovere morale” e sulla paura.
    Questo accade perché la nostra “obbedienza” non è preceduta dall’ascolto della “Buona Notizia”, ovvero della promessa di Dio capace di “far mettere ali” all’obbedienza.
    Ne consegue che un’obbedienza che non scaturisca dall’ascolto della Parola  diviene solo un peso insopportabile, ci spinge a tenerci stretta con mille piccoli e grandi espedienti la nostra “libertà”, a rischiare il meno possibile, a non giocarci fino in fondo nell’avventura della fede.
    Mentre è nell’ascolto che si fa obbedienza che si gioca l’autenticità della fede biblica. Scrive un famoso biblista: “La fede non è l’obbedienza, ne è il segreto; l’obbedienza è il segno ed il frutto della fede” (J. Guillet). E la fede nasce dall’ascolto (cfr Rm 10,17).
    Tutto dunque ci riporta a quel nocciolo di partenza al quale la Chiesa del terzo millennio è invitata pressantemente e urgentemente a tornare: ripartire dalla centralità dell’ascolto. 

    Oratio

    Abramo insegna: l’obbedienza prima che essere una virtù è un dono che scaturisce dall’ascolto della Parola che contiene in sé una promessa di vita.
    Solo l’ascolto attento renderà man mano il nostro cuore docile e verremo sospinti dall’amore a consegnarci liberamente al tuo disegno, o Padre, in un’offerta libera, gioiosa e generosa. Sapremo sempre più rinunciare ai nostri soliti innumerevoli calcoli e progetti, che scaturiscono dal nostro cuore di pietra e che appesantiscono tristemente la vita.
    Sappiamo come l’obbedienza che nasce dall’ascolto della Parola mediata dai nostri fratelli, comporti spesso una croce: il nostro cuore infatti è talmente lontano dal progetto che hai su di noi. Ma fa’ che non ci spaventiamo di questo ma che, con perseveranza e fiducia, impariamo ogni “mattino” a rimetterci in ascolto della tua parola “come gli iniziati”.
    Facci udire soprattutto, o Padre, Buona Notizia che è lo stesso Figlio tuo Crocifisso e Risorto. Sarà lui la speranza capace di strapparci come Abramo da tutti i “lacci di morte” (Sal 115,3) e a porci in cammino obbediente alla sua esigente sequela.
    Con Gesù e come Gesù impareremo ogni giorno a dire: “Ho detto: Ecco io vengo. Sul rotolo del libro di me è scritto, che io faccia il tuo volere. Mio Dio questo io desidero, la tua parola è nel profondo del mio cuore” (Sal 40,7).

  • 08 Mar

     CONTEMPLARE LA PAROLA

     di p. Attilio Franco Fabris

    Noi crediamo che nella pienezza dei tempi la Parola di Dio si è “fatta carne”. S. Giovanni della Croce dirà: “Dandoci il suo Figlio, che è la sua unica Parola, Dio ci ha detto tutto in una volta con questa sola Parola”.
    La Parola è cibo che deve essere assimilato per sostenerci.
    Questa assimilazione è possibile tramite un ascolto obedienziale:
    “Ascolta, popolo mio, ti volgio ammonire, Israele se tu mi ascoltassi… Se il mio popolo mi ascoltasse, se Israele camminasse per le mie vie! Subito piegherei i suoi nemici e contro i suoi avversari portrei la mia mano. Lo nutrirei con fiore di frumento, lo sazierei con miele di roccia” (Sal 81).
    Tutto inizia con l’ascolto.
    Non dimentichiamo che l’orazione è anzitutto questo ascolto totale, è entrare nella volontà di Dio che si rivela a noi tramite la sua Parola.
    I metodi sono molti per meditare la Scrittura sono molti, ma tutti fanno perno su un elemento essenziale: la lettera deve diventare spirito.
    Cerchiamo di abbozzare ora un metodo. 

    1. Raccogliti alla presenza di Dio  e arrenditi all’azione dello Spirito

    Sii presente anzitutto a te stesso, qui e ora, in un atteggiamento di pacificazione esterna ed interna.
    Lascia da parte per ora le tue preoccupazioni: il passato e il futuro. Sii qui totalmente.
    Poniti alla presenza di Dio con un atto di fede interiore.
    Poi invoca lo Spirito, perché è lui il maestro della preghiera: “Lo Spirito santo che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14,26)

    2. Non pensare prima ai tuoi problemi…

    Essi sono molti e di vario genere, di ordine pratico e conoscitivo.
    Di fronte alla Parola ad esempio vorremmo una risposta immediata ai nostri problemi. Non dimentichiamo: la meditazione dice: Dimenticati! Come puoi contemplare la Parola se pensi soltanto a te stesso?
    Si può essere tentati di voler capire tutto, comprendere, consultare, approfondire… questo sarebbe studio, non preghiera!Quando meditiamo la Parola non si tratta di fermarsi all’interpretazioone esegetica del testo, né di cercare una soluzione ai nostri interrogativi. Certo uno studio è utile, ma deve essere previo.
    Nella meditazione ci avverte s. Ignazio, più che la conoscenza conta l’assaporare del cuore, l’atteggiamento interiore accogliente, ricettivo. Un cuore duro è sasso che non può essere impregnato dall’acqua viva della parola (cf Gv 6,60).

    3. …Ma raggiungi il Signore 

    Non scordiamo che dietro quella Parola vi è Qualcuno che mi sta parlando, che si sta rivolgendo proprio a me. Più che la Parola è lui che devi cercare ed incontrare. La Parola è solo strada verso l’incontro. Quando lo hai raggiunto lascia la Parola quando avverti che lo Spirito ti sta introducendo al silenzio della contemplazione. 

    Primo tempo: leggo il testo sacro

     Lo leggo e lo rileggo. Con calma.
    Ritorno con amore sulle singole frasi e lascio che ogni parola venga assimilata dalla mente e dal cuore, che si depositi nella memoria.
    Se il testo non è lungo, più breve è meglio è, lo posso trascrivere o imparare a memoria, lo ripeto lentamente dentro di me, lo “mormoro” interiormente. 

    Secondo tempo: la chiave che apre all’incontro

     In ogni testo c’è una chiave, un’espressione che apre la porta all’incontro, una scintilla che fa accendere la devozione: una frase, un’espressione, o solo un nome. A volte questa chiave la si scopre in modo spontaneo, altre volte occorrerà pazienza e silenzio finché emerga.
    Quando hai raggiunto questo centro rimani in ascolto, rileggi poi ogni frase alla sua luce. 

    Terzo tempo: personalizza l’annuncio

     Questo è molto semplice. Diventa interlocutore e protagonista. Lascia che ogni parola, gesto, azione del brano siano rivolti direttamente a te.
    Poniti in discussione. Lascia che la Parola sia pada a doppio taglio che ferisce, separa, disbosca… 

    Quarto tempo: resta solo con Colui che ti parla

     La parola è l’involucro che rivela una presenza: il Padre, il Figlio, lo Spirito… Quando gli hai dato il nome, rimani con lui.
    Questo è il tempo della contemplazione. E’ Mosè che parla “bocca a bocca” con Dio”. E’ il “cuore a cuore” con Dio, il momento dell’intimità.
    Lentamente ti accorgi che non hai bisogno più di tante parole, di tanti pensieri. Più che di parole si tratta di assumere un atteggiamento della e nella totalità del proprio essere.
    La Parola mi rigenera con il semplice dono della Presenza. 

    Qunto tempo: concretizza un impegno che scaturisca dall’ascolto e invoca l’aiuto e  ringrazia il Signore

     L’ascolto non deve rimanere sterile. Deve portare frutti di conversione nella vita. Quindi cerca di concretizzare questa dinamica di conversione in un impegno verificabile (non è necessario che sia grande, anzi…).
    Chiedi dunque al Signore che ti aiuti a portare a termine ciò che hai compreso.
    Ringrazia per ultimo il Signore per la luce e la forza che ti ha donato in questo tempo di meditazione.
    Non sentirti legato o schiavo del metodo. E’ uno schema, uno strumento utile soprattutto nei momenti di aridità. Spesso la Parola non richiede altro da parte tua che semplicità e disponibilità. “Farsi piccoli come bambini” “Ad essi è rivelato il segreto del Regno”.
    Tieni comunque presente che un esercizio metodico instaura un automatismo mentale che facilita e naturalizza poi la meditazione.
    Accetta pure di rimanere a volte apparentemente a mani vuote. Impari a dare senza pretendere il contraccambio, ami senza la pretesa di essere riamato. Impari la gratuità e il puro dono di te stesso. Nella notte continua ad ardere la fiamma della fede, ciò che più conta perché è il dono più prezioso che tu puoi offrire a chi ti viene incontro ed è presente benché tu non lo veda e non lo senta.
    Impari a rapportarti con Dio nella gratuità vincendo la grave tentazione di ridurlo a tuo beneficio.

  • 07 Mar

    10 

    PASSAGGIO DALL’EGOISMO ALL’AMORE

     

     Il progetto di Dio sull’uomo è di farlo entrare in comunione con lui, nella dignità di figlio nel Figlio:
    Benedetto sia Dio
    Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
    che ci ha benedetti
    con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo.
    In Lui ci ha scelti
    prima della creazione del mondo
    per trovarci al suo cospetto
    santi e immacolati nell’amore.
    Ci ha predestinati
    ad essere suoi figli adottivi
    per opera di Gesù Cristo,
    secondo il beneplacito del suo volere (Ef 1,3ss).
    Questa scelta e predestinazione è preannunciata già nel racconto della creazione allorché JHWH crea l’uomo “a sua immagine e somiglianza” (Gn 1,26). Ciò implica una partecipazione alla vita divina.
    Il peccato ha rotto, e rompe questo progetto di Dio, e l’immagine ne è continuamente infranta e deturpata. L’uomo infrange l’immagine e la somiglianza divine quando vuole costituirsi lui stesso Dio, origine di se stesso. Il peccato è distacco da Dio, fonte dell’esistenza e della grazia.
    La partecipazione alla natura divina pur non potendo mai essere interrotta, viene tuttavia in qualche modo bloccata, inespressa, mortificata, e ciò a scapito della crescita non solo umana bensì anche spirituale.
    Il cammino spirituale, l’ascesi, è lo sforzo umano unito alla forza dello Spirito per ristabilire l’ordine originale. Far riemergere quella “immagine e quella somiglianza” tante volte deturpata in noi dal peccato.
    I mezzi che la tradizione spirituale e biblica ha sempre indicato consistono in sintesi nella parola “conversione”.
    Potremmo definire la conversione come il ristabilimento dell’ordine naturale iniziale stabilito da Dio per l’uomo.
    Convertirsi equivale a rettificare.
    Conversione indica il ritorno: un ritorno che comporta un avanzamento dell’uomo verso Dio.
    Si tratta di un incessante passaggio pasquale dalle strutture di morte dell’uomo vecchio, alle strutture dell’uomo nuovo, creato ad immagine di Cristo:
    “Dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici, e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera” (Ef 4,22-23).
    Questo rivestirsi dell’uomo nuovo, anche se sacramentalmente si è attuato in germe nel nostro battesimo, deve essere attuato continuamente nella nostra vita.
    Nei detti dei padri più di una volta ricorre l’ammonimento: “C’è una voce che grida all’uomo fino al suo ultimo respiro: Oggi convertiti!”.
    Se ora ci domandiamo in che direzione deve muoversi questa nostra rettificazione, la risposta è molto precisa: si tratta del cammino percorso da Gesù, quello della carità perché Dio è amore:
    Carissimi amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore (1Gv 4,7).
    L’amare è proprio dei figli di Dio perché è proprio di Dio:
    Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore: chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui  (1Gv 4,16).
    Ancora la parola ci indica un piano più concreto con cui attuare il comandamento: è il discorso della montagna.
    Ogni beatitudine è via di liberazione dall’egoismo e dalla violenza verso l’amore.
    Ogni esigenza o presunzione idolatrica dell’io vi è rifiutata: le energie purificate vengono utilizzate al servizio dell’amore, un amore sempre più esigente: superamento della legge del taglione, necessità dell’amore per un retto culto, l’amore per i nemici…
    La vera penitenza-conversione è un incessante “passaggio” dall’egoismo all’amore.
    Questo amore che per noi cristiani è comandamento, di fronte al quale non può esistere scelta ma aut-aut: amore o odio.
    Il comandamento ci evita di intendere l’amore come sentimento emotivamente instabile, esso nasce dalla volontà dell’essere fedeli alla parola.
    In questo senso è possibile ricavare l’asserzione che la nostra capacità di amare è l’unica verifica e la migliore espressione del nostro cammino spirituale.
    Un amore che non è possessivo, ma è fatto di rispetto, servizio, affetto disinteressato che non esige di essere ricambiato, fatto di com-passione. Un amore aperto al mistero dell’altro, alla sua interiorità profonda quanto la mia, ma differente e voluta tale da Dio.
    Gesù richiama e invita i discepoli a questo “passaggio” di morte-risurrezione, in vista della liberazione: “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo” (Gv 12,24-26).
    Gesù chiaramente ci propone un programma esigente (=morire), capovolgente (=essere servo).
    Per vivere bisogna morire come il chicco di grano. La croce è via obbligata per la risurrezione, esse sono inseparabili. Il risorto mantiene nella gloria quelle piaghe gloriose della crocifissione, non le ha cancellate. 

    MORTIFICAZIONE

     La conversione implica la cosiddetta mortificazione. Dunque non si equivalgono ma una è complementare all’altra.
    Non vi può essere conversione senza mortificazione, né la mortificazione avrebbe alcun senso se non in rapporto con la conversione.
    Oggi la parola mortificazione è caduta in disuso ed appare quanto mai sospetta.
    In una società dettata dalla logica del consumismo parlare di “rinuncia” appare se non assurdo almeno un non senso.
    In campo spirituale la mortificazione, la rinuncia a determinate realtà di per sé buone sono l’affermazione concreta che facciamo anzitutto a noi stessi, della grande stima in cui teniamo e viviamo i valori spirituali nel loro rapporto con gli altri.
    Essi vengono posti al primo posto. Sono i più importanti.
    In ogni mortificazione prendiamo posizione in favore della preminenza di tali valori, su quelli che possono essere i bisogni immediati dell’esistenza.
    Si può rinunciare positivamente a qualcosa solo per amore, gli altri motivi indicherebbero realtà più o meno problematiche o addirittura patologiche.
    Nell’amore la privazione apporta un senso di completezza, infatti più compensazioni e gratificazioni infantili ci concediamo più ci sentiremo vuoti e insoddisfatti. Uno sguardo attorno a noi (e in noi): mai come oggi abbiamo tante soddisfazioni, non ci manca nulla e nello stesso tempo quanto ci si sente insoddisfatti, vuoti con un senso di amarezza e insoddisfazione.
    Un pozzo infinito non si può riempire di cose finite, solo l’infinito lo può riempire! Così è il nostro cuore. “Solo Dio basta” ammonisce santa Teresa d’Avila.
    Dobbiamo “allenarci” all’amore (l'”arte di amare”) e ciò avviene attraverso forme di rinuncia volontaria,, esercizi di amore oblativo.
    Solo in quest’ottica la mortificazione non può identificarsi con forme sottili di masochismo, o altro…
    Scriveva Cassiano nelle sue Conferenze: “Niente ci gioverà una rinuncia soltanto carnale e locale, somigliante alla partenza degli Ebrei dall’Egitto. Quella che conta è la rinuncia del cuore: quella sola è sublime e utile”

    SOSTITUZIONE O SOLIDARIETA’

     Il tema della mortificazione si collega al tema della sofferenza. Rimane pur sempre vero tuttavia che il dolore, soprattutto innocente, può essere una grande ostacolo per la fede, come può divenire al contrario il trampolino di lancio. Perché il male? Perché la sofferenza? Perché il dolore dei buoni, dei semplici? Perché la sofferenza dei bambini?
    A volte ci rendiamo conto dell’esistenza di persone che si direbbero nate per soffrire, e nei modi più disparati fisicamente e psichicamente. Entriamo in quel delicatissimo e misterioso tema dell’espiazione.
    La  potremmo intendere e cercare di capire alla luce della vocazione-necessità della solidarietà profonda, misteriosa, ma concreta, con una umanità che soffre e che è peccatrice.
    L’espiazione è il mistero di comunione che lega tutti gli esseri tra loro.
    La figura del Servo di JHWH è quanto mai significazione della solidarietà che lega l’uomo, ogni uomo, all’altro, nel bene e nel male:
    Uomo dei dolori che ben conosce il dolore… egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori, e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui, per le sue piaghe noi siamo guariti” (Is 53,4-5).
    La sofferenza del servo è vicaria, espiatrice. Acquista un senso anche se difficilissimo da comprendere e accogliere: “E’ così misterioso il paese delle lacrime” (A. De S: Exupey).
    Potremmo qui affermare che è tragico soffrire, ma è disperazione e angoscia ancor maggiore soffrire senza un significato.
    Il riuscire a dare un senso, un perché al dolore fa’ sì che a questi venga tolto il suo veleno mortifero e amaro.
    Il soffrire inevitabile, simile a quello del Servo schiacciato, abbattuto può allora trasformarsi in chiamata, appello ad una missione trascendente e redentrice.
    Sarebbe spontaneo allora a questo punto domandarsi se non sia una ingiustizia che alcuni debbano soffrire al posto di altri, o almeno molto più di tanti altri.
    Tentiamo, in punta di piedi e tentennando nel buio, di cercare una possibile risposta.
    Dio cerca sempre la collaborazione dell’uomo per la sua opera salvifica (“completo nella mia carne ciò che manca ai patimenti di Cristo“: afferma san Paolo), occorre stabilire un equilibrio tra profitti e perdite, tra bene e male.
    All’interno dell’umanità non siamo dei semplici soci, bensì membra gli uni degli altri di un unico corpo:
    “Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme: e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte” 1Cor 12,26-27.
    Esiste nella Chiesa e di riflesso nel mondo una intercomunicazione di bene e di male (il mio peccato non riguarda mai solo me e Dio) di salute e di infermità, di grazia (“Cerca la pace interiore e migliaia troveranno salvezza in te: ammoniva san Serafino di Sarov).
    Non è indifferente perciò che io sia santo o peccatore… La mia indifferenza, il mio peccato ricade oltre che su di me, sempre sugli altri, su qualche innocente “chiamato” a compensare la mia perdita.
    Una forte coscienza ecclesiale ha potuto formare santi che si sono offerti “vittime”.
    Nella vita di san Domenico del XIII sec. Si legge: “Dio gli aveva dato una grazia speciale per i peccatori, i poveri, gli afflitti. Egli portava i loro dolori nel santuario intimo della sua compassione e le lacrime che gli uscivano gorgogliando dagli occhi manifestavano l’ardore del sentimento che divorava il suo cuore. Egli pensava che sarebbe stato veramente membro di Cristo soltanto quel giorno in cui avrebbe potuto offrirsi interamente, con tutte le sue forze, per conquistare il mondo” (Cronache domenicane).
    Ai nostri giorni insieme a tanti testimoni troviamo ad esempio il beato Luigi Orione il quale scriveva: “La perfetta letizia non può essere che nella perfetta donazione(=sacrificio) di sé a Dio e agli uomini, a tutti gli uomini, ai più miseri come ai più fisicamente, moralmente deformi, ai più lontani, ai più colpevoli, ai più avversi. Ponimi, Signore, sulla bocca dell’inferno perché io, per la misericordia tua, la chiuda. Che il mio segreto martirio per la salvezza delle anime, di tutte le anime, sia il mio paradiso e la suprema beatitudine. Amore delle anime, anime, anime. Scriverò la mia vita con le lacrime e con il sangue”.
    E’ forse questo l’atteggiamento più vero da assumere quando domandiamo a Cristo sacerdote di rendere il nostro cuore simile al suo: sacerdotale, sacrificio, offerta, espiazione per  il mondo intero.
    E’ una preghiera terribilmente esigente, da vertigini!
    Forse spesso non ce ne rendiamo conto, e ci accontentiamo di annacquare il tutto fino al renderlo insipido.

    sintesi di: I. Larranaga, Mostrami il tuo volto

  • 06 Mar

    Rimase nel deserto per quaranta giorni

    Lectio di Marco 1,12-13

    di padre Attilio Franco Fabris  

    L’uomo contemporaneo frastornato, “sfilacciato” e disperso nel rumore e nell’anonimato della folla e delle nostre città, ha bisogno di riscoprire urgentemente il valore della solitudine come luogo, tempo, occasione e condizione per ritrovare se stesso e le radici della propria libertà.
    Risvegliare in sé stessi le domande più profonde, per nuovamente udire la voce della propria coscienza così mortificata nel ritmo esagitato e nel rumore che ci circonda è urgenza culturale e spirituale di rimordine.
    Abbiamo bisogno di riscoprire la solitudine affinché possa avvenire l’incontro col Mistero che ci circonda e che ci abita, e perché proprio nella solitudine l’uomo diviene più uomo: ovvero più capace di cogliere, percepire, il suo essere fatto per “altro” e per l'”Altro”.
    Chiediamo perciò ora allo Spirito che ci introduca, come Gesù, dolcemente e fortemente nel deserto per parlare al cuore di ciascuno di noi (cf Os 2,16).
    Vieni o Spirito che aleggiavi all’inizio della creazione sulla solitudine del cosmo per farvi sbocciare la vita. Scendi su di noi, sui nostri deserti bisognosi dell’acqua della vita che solo tu puoi far zampillare. Vieni, o Spirito che nel silenzio parlavi ai profeti ponendo sulle loro labbra parole di fuoco da annunciare ai fratelli. Vieni o Spirito di Gesù: tu lo conducesti nel deserto affinché come nuovo Adamo sperimentasse per noi vittorioso la prova e lì ci mostrasse la via della vera libertà. Vieni o Spirito di comunione che nel mistero della nostra solitudine ci apri al mistero dell’Altro.

    Lectio

    In Marco il brano che riporta la permanenza di Gesù nel deserto e le tentazioni da lui subite è, a differenza di Matteo e Luca, brevissimo. Pur lapidario esso è tuttavia di estrema importanza: infatti, unitamente alla scena del battessimo, si presenta come una sorta di prologo alla vita e alla missione di Gesù.
    Dopo il battesimo nelle acque del Giordano in cui Gesù è proclamato solennemente “Figlio prediletto” (Mc 1,11) la prima opera dello Spirito è trascinare questo “Figlio” non nelle piazze e strade affollate della Palestina ma nella solitudine del deserto. E’ lo Spirito, sottolinea Marco, che “conduce” (lett: trascina, sospinge, getta) Gesù nel deserto. Perché? Egli è “sospinto” a ripercorrere, condividere, l’esperienza di quel “figlio amato” che è il popolo di Israele (cfr Mt 2,15), il quale dopo il passaggio battesimale del Mar Rosso, fu condotto nel deserto del Sinai per quarant’anni. Gesù nella sua umanità ha bisogno di ripercorre e condividere le tappe del suo popolo, e in definitiva di tutta la storia di ogni uomo. Proprio nella solitudine del deserto egli può sperimentare, come Israele e Adamo, tutta la straordinaria libertà del suo essere “Figlio prediletto” rivelatogli nel battesimo al Giordano.
    L’evangelista annota che Gesù di Nazaret trascorse nel deserto “quaranta giorni”. Annotazione oltremodo precisa ma non da intendersi in senso strettamente cronologico ma simbolico. Il numero “quaranta” nella sacra scrittura è un’espressione tipica: Mosè rimane da solo sull’Oreb quaranta giorni (Es 34,28); quarant’anni Israele dimora nel deserto del Sinai prima di entrare nella terra di Canaan; il profeta Elia compie in un momento difficile della sua missione un pellegrinaggio che comporta un cammino di quaranta giorni al monte santo di Dio (1Re 19,8)… Quale la cifra simbolica che occorre intravedere in questo numero? Esso sta ad indicare un tempo particolarmente importante, intenso e decisivo e nello stesso tempo richiama la durata di un’intera generazione.
    Che Gesù rimanga nel deserto “quaranta giorni” è dunque un messaggio attraverso il quale il testo biblico ci dice che dopo il battesimo Gesù visse nella solitudine un tempo importante e decisivo per la sua esperienza interiore e di missione, e che questo stesso “tempo” ed esperienza si estese poi a tutta la sua vita. Parafrasando un’espressione dell’ “Imitazione di Cristo” potremmo dire che “tutta la vita di Cristo fu tempo importante di deserto”.
    Nella solitudine Gesù è tentato da Satana. Letteralmente la parola “satana” deriva dall’aramaico e significa: “Colui che accusa – Colui che divide“. Satana è il Male che insinua nel cuore dell’uomo il sospetto e la diffidenza nei confronti di Dio al fine di separarlo da lui, di strapparlo dalla sorgente della vita sprofondandolo nella maledizione di una solitudine che è isolamento senza comunione.
    Il deserto è luogo di tentazione perché luogo in cui l’uomo sperimenta la libertà più grande, in cui è chiamato a scelte decisive nei riguardi della sua vita (cfr Sal 77,17; 105,19).
    Gesù nella sua umanità vive nella solitudine profonda (del deserto e successivamente del Getsemani: cfr Lc 4,13) la seduzione diabolica: alla sua coscienza umana si affacciano possibili vie alternative, altre possibilità di realizzazione della sua vita. Egli non è tentato nelle nostre piccole e grossolane tentazioni di ogni giorno, ma nella grande insinuazione di rifiutare, nella sua libertà di Figlio, il cammino messianico che il Padre gli propone che non è all’insegna della potenza, della gloria, del miracolo, ma dell’abbraccio scandaloso alla croce (cfr 8,31).
    Ma Gesù è il primo che nella solitudine in cui tutti caddero (Sal 77,40) esce vincitore, ossia pienamente confermato nella volontà del Padre che gli chiede di percorrere nella sua libertà di Figlio la via della piena condivisione e della solidarietà nei confronti dell’uomo peccatore.
    La scena finale presentata da Marco è emblematica. Gesù sta “con le fiere”. Se la presenza delle fiere nell’antico testamento sta a significare la presenza del male, ora la scena evangelica ci parla di Gesù che sovranamente siede “Signore” in mezzo alle animali selvaggi: nessun male ha potere su di lui. E’ chiaro che il testo vuol presentarci come realizzate in Gesù le promesse profetiche:Essi (gli angeli) ti porteranno sulla palma della mano, perché il tuo piede non inciampi in nessuna pietra. Tu camminerai sul leone e sulla vipera, schiaccerai il leoncello e il serpente” (Sal 91,12), e soprattutto realizzata la visione di Isaia a riguardo dei tempi del messia: “Fascia dei suoi lombi sarà la giustizia, cintura dei suoi fianchi la fedeltà. Il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà. La vacca e l’orsa pascoleranno insieme; si sdraieranno insieme i loro piccoli. Il leone si ciberà di paglia, come il bue. Il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide; il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi.” (Is 11,8-11; cfr 65,25).
    Gesù nel deserto, nuovo Eden,  appare come nuovo Adamo, il quale convive pacifico in mezzo alle fiere (cf Gn 2,19-20). Egli inoltre è “servito dagli angeli” nella sua dignità di Figlio: in lui terra e cielo finalmente si ricongiungono e rappacificano come nel disegno originario. Questo si realizza nella solitudine del deserto trasformato in paradiso. E’ qui che si inizia a ristabilire l’ordine originario della creazione. Farò scaturire fiumi su brulle colline, fontane in mezzo alle valli; cambierò il deserto in un lago d’acqua, la terra arida in sorgenti” (Is 41,18).
    Ora Gesù può uscire dalla solitudine, nuovo Adamo e nuovo Israele, per percorrere le strade della Galilea e Giudea annunciando il Regno di Dio in lui già pienamente realizzato (Lc 17,21). 

    Collatio

     Solitudine è una parola che può risvegliare dentro di noi risonanze contraddittorie. Della solitudine possiamo avere paura perché essa ci può sprofondare nell’angoscia dell’abbandono, ma possiamo anche ricercarla con appassionato desiderio, come condizione per riprendere contatto con le profondità che ci abitano. La solitudine è per l’uomo occasione per un incontro con sé stesso e col Mistero. Non per nulla è amata da tutte le grandi tradizioni religiose.
    Nella vita di ciascuno deve giungere il tempo di smettere di fuggire da se stessi accettando di entrare nell’esperienza stupenda e drammatica della solitudine insita al mistero dell’uomo. Solo qui finalmente ci troviamo faccia  faccia con noi stessi, senza falsi specchi che ci rinviano false e desiderate immagini. Qui si impara, talvolta drammaticamente, a conoscere la verità della vita, a discernere ciò che conta da ciò che non conta. Inevitabilmente si giunge alla solitudine, non fosse altro nell’ora dell’estrema solitudine che è la nostra malattia, insuccesso, abbandono, morte.
    Ma spesso l’uomo teme e fugge la solitudine, affannosamente vuol scomparire nel chiasso di una folla anonima, in nascondigli rumorosi e affollati: teme la solitudine perché essa è portatrice di temibili rivelazioni. Essa fa emergere paure, vuoti, conflitti che si vorrebbero mettere a tacere ad ogni costo. Il deserto smaschera i demoni che subdolamente abitano il fondo della nostra coscienza, porta allo scoperto la “grande tentazione” del “Satana” che si vorrebbe sempre insinuare negli anfratti nascosti della coscienza. Essere soli significa entrare in battaglia con i “nostri demoni”, prendere coscienza della propria libertà e responsabilità nei confronti della propria vita. La solitudine esige delle scelte in ordine alla direzione e al senso da imprimere alla propria esistenza.
    Nella solitudine siamo obbligati a scegliere continuamente tra la morte e la vita, tra il ripiegamento pauroso e l’aprirsi fiducioso alla promessa, perché essa ci pone in stato di perenne tensione, di cammino, ci costringe ad allargare l’orizzonte, a cercare sempre al di là. La solitudine contiene in sé una promessa di un tesoro che occorre scoprire ma che non è lì immediato, alla portata di mano, ma esige la pazienza, la libertà e la decisione di un faticoso cammino.
    Obiettivo dello spirito del male, padre di ogni menzogna e separazione, è quello di obbligarci per paura e comodità, a fuggire il deserto, a tornare indietro dalla solitudine, a non avanzare fidandoci solo della promessa contenuta nella Parola.
    La solitudine è prezioso tempo e luogo di grazia: “A dire il vero – scrive il teologo psicoterapeuta Eugen Drewermann – dal punto di vista psicologico non esiste forse niente di più augurabile che venire messi, ad un certo momento, di fronte a se stessi senza orpelli, ma non è una cosa che si può forzare. Si presenta quando è matura, e non siamo noi a recarci in questo genere di deserto, ma come dice Marco, in questi spazi decisivi dell’esistenza ci veniamo sospinti”.
    E un grande testimone della fecondità del deserto quale è stato Charles de Foucauld scriveva dalle infuocate distese di sabbia del Sahara: “Bisogna passare attraverso il deserto e dimorarvici per ricevere la grazia di Dio: è là che ci si svuota, che si scaccia da noi tutto ciò che non è Dio e che si vuota completamente questa piccola casa della nostra anima per lasciare il posto a Dio solo”.
    Di quale grazia si tratta? A chi, come Gesù, è dato di varcare le porte del silenzio e della solitudine per intraprendere il cammino della vita vi è una promessa: la solitudine del deserto può rifiorire come un nuovo Eden in cui le porte del Regno si spalancano. All’uomo è dato, in Cristo, di vivere già ora il Regno che è dono di pace e di comunione con se stesso, gli altri, la realtà, Dio. L’uomo può stare gioioso “tra le bestie” godendo del “servizio degli angeli”. 

    Oratio

     Signore, ti ringraziamo per il mistero dei tuoi quaranta giorni nel deserto.
    Ci consola il fatto che tu abbia voluto sperimentare e condividere la fatica della nostra libertà di figli.
    Tu conosci le nostre innumerevoli cadute nel duro cammino nel deserto della vita. Quante volte ne siamo fuggiti angosciati Conosci la paura che ci assale quando la vita ci chiede di incamminarci sulle sabbie del deserto e della solitudine: vorremmo fuggire lontano. Eppure tu ci rassicuri che non saremo mai soli. Nella bisaccia avremo sempre la Parola e il Pane: essi sono cibo, acqua, luce. Con questi tuoi doni possiamo attraversare ogni solitudine certi della promessa che proprio dove sembra assente la vita lì si spalanca per noi l’accesso al tuo Regno, a quell’Eden a cui il cuore sospira con nostalgia.

  • 06 Mar

    VERSO LA LIBERAZIONE

     

     Può succedere che l’orazione, il nostro “stare” con Dio, non sia esente da imperfezioni.
    Anzi può succedere che si trasformi in evasione egoistica, senza peraltro che ce ne accorgiamo.
    Questo accade quando il nostro cercare Dio non è dettato da una retta intenzione, da gratuità e amore, ma dal tentativo di fuggire dalla propria responsabilità, da una ricerca di un piacere spirituale fine a se stesso.
    Inutile dire quanto sia illusoria questa direzione del cammino spirituale, minato alla base da una subdola inautenticità.
    Domadiamoci come mai tante persone che hanno pregato molto, dedite alla vita spirituale, sono però rimaste immature, aggressive, fredde, critiche…
    Quasi sicuramente invece di dialogare con l’Altro, con Dio, non si sono accorte di essersi ripiegate, di aver dialogato sempre e solo con se stesse. Il Dio invocato non era il vero Dio, ma una proiezione di se stessi, la divinizzazione della propria immagine.
    La preghiera autentica deve provocare, mettere in discussione la vita, e la vita deve sfidare l’orazione. Se questo interscambio tra preghiera e vita non avviene vi è buona probabilità che siamo indirizzati nella direzione errate, nell’illusione spirituale, nella proiezione di noi stessi in Dio.
    Il Dio che si rivela nella storia del popolo eletto è un Dio liberatore. E’ un Dio che chiama il suo popolo ad alzarsi e ad intraprendere un cammino.
    E’ un Dio che scomoda continuamente, che non vuole lasciare l’uomo seduto nelle sue false sicurezze, comodità, nei suoi scoraggiamenti, rassegnazione, morti.
    Quando ci troviamo in queste situazioni rischiamo di ridurre Dio a “nostra misura”, a nostra immagine e somiglianza: è un Dio illusorio, che dobbiamo far morire. Dio è morto! Ma quale dio?
    Il vero Dio è un Dio che celebra con l’uomo eternamente pasquale il passaggio ad una vita sempre più piena ed intima.
    Egli ci spinge continuamente a rivedere e riprogrammare la nostra esistenza in base al suo progetto di liberazione.
    E’ un Dio che non ci fa restare bambini, ma che ci prende per mano spingendoci con amore a divenire persone adulte: umanamente e cristianamente.
    Egli rende l’uomo responsabile della sua storia personale e collettiva.
    Allora constatiamo che Dio non è “oppio”, non aliena l’uomo da se stesso e dalla storia, ma è “liberatore” che chiama a libertà e maturità la sua creatura. 

    SALVARSI ALLE RADICI

     Non dovremmo mai parlare solo di “salvezza dell’anima”: la salvezza che ci è donata da Dio abbraccia e coinvolge tutto l’uomo.
    Si tratta di una salvezza integrale.
    Ma questo dono della salvezza è ostacolato dalla presenza del peccato nell’uomo: la sua pretesa di essere lui “Dio a se stesso”, la sua origine.
    E da questa pretesa origine di ogni altro peccato, sorga la divisione, l’inimicizia, la guerra, la menzogna, la schiavitù, lo sfruttamento.
    Alla chiamata alla libertà corrisponde il più spesso il soggiacere alla schiavitù del peccato, schiavo delle sue passioni.
    In questa situazione il bisogno di liberazione si fa sentire quanto mai urgente. 

    DARE A DIO UN LUOGO

     Se la schiavitù consiste allora nella “egolatria”, il problema della liberazione sta nel rimuovere il Dio-Io, affinché lasci lo spazio al Dio unico e vero.
    Ciò vuol dire smantellare tutto il mio piccolo angolo di mondo che mi sono costruito e mai misura, smantellare il mio idolo che mi sono costruito a mia immagine.
    Questo cammino è verso la verità, la liberazione poiché comporta spoliazione da tutto ciò che in noi è falsità, schiavitù:
    Il povero che è nudo sarà vestito, e l’anima che si sarà spogliata dei suoi appetiti, che tu voglia o no, la vestirà Dio della sua purezza, diletto e volontà  (s. Giovanni della Croce).
    Secondo la terminologia mistica solo il sentiero doloroso del “nulla”, la liberazione assoluta, ci conduce alla cima del Tutto che è Dio: Da tutto ciò che non è Dio si deve liberare l’anima per andare a Dio (s. Giovanni di Dio).
    Comprendiamo che se la liberazione consiste nel fatto che Dio sia Dio in noi, e se l’unico “altro Dio” che può impedire l’adorazione all’unico Dio è il Dio-Io, giungiamo alla conclusione che o regnerà Dio o regnerà al suo posto il nostro uomo vecchio “corrotto dalle passioni ingannatrici”, con il suo desiderio egoistico di dominare, di possedere, di godere. In tutto questo Dio non può trovare posto.
    11 L‘uomo abbasserà gli occhi orgogliosi,
     l’alterigia umana si piegherà;
    sarà esaltato il Signore, lui solo
    in quel giorno.
    12 Poiché ci sarà un giorno del Signore degli eserciti
    contro ogni superbo e altero,
    contro chiunque si innalza ad abbatterlo;
    13 contro tutti i cedri del Libano alti ed elevati,
    contro tutte le querce del Basan,
    14 contro tutti gli alti monti,
    contro tutti i colli elevati,
    15 contro ogni torre eccelsa,
    contro ogni muro inaccessibile,
    16 contro tutte le navi di Tarsis
    e contro tutte le imbarcazioni di lusso.
    17 Sarà piegato l’orgoglio degli uomini,
    sarà abbassata l’alterigia umana;
    sarà esaltato il Signore, lui solo
    in quel giorno
    18 e gli idoli spariranno del tutto.
    19 Rifugiatevi nelle caverne delle rocce
    e negli antri sotterranei,
    di fronte al terrore che desta il Signore
    e allo splendore della sua maestà,
    quando si alzerà a scuotere la terra.
    20 In quel giorno ognuno getter�
    gli idoli d’argento e gli idoli d’oro,
    che si era fatto per adorarli,
    ai topi e ai pipistrelli,
    21 per entrare nei crepacci delle rocce
    e nelle spaccature delle rupi,
    di fronte al terrore che desta il Signore
    e allo splendore della sua maestà,
    quando si alzerà a scuotere la terra.
    22 Guardatevi dunque dall’uomo,
    nelle cui narici non v’è che un soffio,
    perché in quale conto si può tenere?  (Is 2,11-22).
    La liberazione avanza per la via della povertà interiore ed esteriore.
    Dio si rivela Dio realmente per gli anawim, i poveri del Signore, coloro che si abbandonano completamente a JHWH.
    Il povero è proprietà di Dio e Dio è l’eredità del povero. 

    LIBERI PER AMARE

     Essere liberi, ovvero poveri, è condizione indispensabile per amare in modo adulto ovvero oblativo, gratuito, un amore che si dona senza l’ansia di essere contraccambiato.
    E’ condizione per creare autentica fraternità. Il desiderio di possesso induce alla difesa, il difendersi induce alla violenza, e la violenza (sotto mille forme) è distruttrice della comunità. Al contrario la liberazione da sé stessi e dalle cose conduce al vero amore vissuto nella gioia della libertà.
    Accettare di non essere ciò che non si è e di non avere ciò che non si ha.
    La nostra povertà, riconosciuta ed amata, ci pone in un atteggiamento di verità nei confronti di noi stessi. Riusciamo ad intravvederci in modo “abbastanza” realistico.
    E’ necessario che ci liberiamo dalle false sicurezze, maschere, dietro le quali ci nascondiamo, ed accettare la realtà della nostra contingenza, precarietà, indigenza e limitazione.
    Solo allora avremo la sapienza, la maturità e la salvezza.
    Il povero, l’anawim, del vangelo è un “aristocratico dello spirito”. Niente e nessuno, né la gloria né il vituperio, può turbare la sua pace, poiché egli non si lega né si appropria di nulla.
    Nei detti dei padri del deserto si legge: “Un fratello si recò dal padre Macario l’Egiziano e gli chiese: Padre dimmi una parola, come posso salvarmi? Gli dice l’anziano: Va al cimitero e insulta i morti. Il fratello vi andò, li insultò e li prese a sassate. Quindi ritornò a dirlo all’anziano e questi gli disse: Non ti hanno detto nulla?. Ed Egli: No! Gli dice l’anziano: Ritorna domani a lodarli. Il fratello vi andò e li lodò, chiamandoli apostoli santi e giusti. Quindi ritornò dall’anziano e gli disse: Li ho lodati. Ed egli: Non ti hanno risposto nulla?. “No” rispose. Tu sai quanto li hai insultati – dice l’anziano – e non hanno risposto nulla, e quanto li hai lodati, e non ti hanno detto nulla: diventa anche tu morto in questo modo, se vuoi salvarti. Non far conto né dell’ingiuria né della lode degli uomini, come i morti; e potrai salvarti”.
    Come il morto, se niente abbiamo e niente vogliamo essere né avere, che cosa ci può turbare?
    Povertà è liberazione, e liberazione è pace e gioia nel profondo di noi stessi. 

    UN CIRCUITO VITALE

     Il processo di liberazione si attua nell’incontro con Dio in un circuito che va dalla vita a Dio e da Dio alla vita.
    Quando mi metto alla presenza di Dio, lo faccio con tutto il mio carico di limiti, sofferenze, insuccessi, successi, doni gioie.
    A Dio domanderò luce, il dono dello Spirito per il discernimento.
    Con questo Dio che ho conosciuto e amato devo scendere a contatto con al vita, con la storia degli uomini.
    “L’incontro con lui è come un motore che genera forza. Quando l’uomo di Dio vive in profondità l’incontro con lui, sente che il TU prende, estrae, assorbe il suo IO: allora sperimenta la libertà assoluta nella quale scompaiono la timidezza, l’insicurezza, il ridicolo, i complessi. Mai nessuno sentirà un altro modo una così intensa pienezza di personalizzazione. Questa sensazione equivale esattamente a quella onnipotenza inebriante e sfidante di cui parlava san Paolo: Se Dio è per noi chi sarà contro di noi (Rm 8,31).
    Il problema sta nello sperimentare che Dio è con me. Chi lo ha sentito veramente, sa cosa è la liberazione assoluta”
    Troviamo nella scrittura l’esperienza di Geremia:
    4 Mi fu rivolta la parola del Signore:
    5 «Prima di formarti nel grembo materno, ti <conoscevo,
    prima che tu uscissi alla luce, ti avevo <consacrato;
    ti ho stabilito profeta delle nazioni».
    6 Risposi: «Ahimè, Signore Dio, ecco io non so <parlare,
    perché sono giovane».
    7 Ma il Signore mi disse: «Non dire: Sono giovane,
    ma va’ da coloro a cui ti manderò
    e annunzia ciò che io ti ordinerò.
    8 Non temerli,
    perché io sono con te per proteggerti».
    Oracolo del Signore.
    9 Il Signore stese la mano, mi toccò la bocca
    e il Signore mi disse:
    «Ecco, ti metto le mie parole sulla bocca.
    10 Ecco, oggi ti costituisco
    sopra i popoli e sopra i regni
    per sradicare e demolire,
    per distruggere e abbattere,
    per edificare e piantare».
    “Il Signore è alla mia destra di chi avrò timore?”. Con Dio, nella fiducia e nell’abbandono torno alla vita desideroso di immettere quelle forze di vita, di liberazione che ho sperimentato.
    Potremmo concludere dicendo che per liberazione possiamo intendere l’abbandono di ciò che non si è e non si ha. E’ accettare la propria realtà a volte con sofferenza, facendo lutto ma senza rancori o amareggiamenti, aggressività.
    La liberazione si apre sempre al perdono, dimentica i torti, è capace di accettare ed accogliere le persone antipatiche e difficili, non porta alla suscettibilità, allo scatto improvviso e violento, non è ipersensibilità emotiva la quale non lascia posto alla libertà. La liberazione è un cammino di acquisizione di dominio su se stessi.
    “La liberazione non si attua in modo magico o meccanico con il passare del tempo… ma con l’apertura decisa e coraggiosa dell’uomo alla possibilità del nuovo e del  gratuito contro tutti i determinismi che alimentano la rassegnazione e la passività” (Rinaldo Fabris).
    Il discepolo chiese al maestro:
    Come posso ottenere la liberazione?
    Rispose: Scopri chi ti ha imprigionato.
    Il discepolo tornò una settimana e disse:
    nessuno mi ha imprigionato
    Il maestro disse: Allora perché chiedi di essere liberato.
    Quello fu il momento d’illuminazione per il discepolo che improvvisamente divenne libero. (A. De Mello).
    “Il Signore ha liberato la vita del povero” (Gr 20,13)
    “Siamo liberati dal peccato e fatti servi di Dio” (Rm 6,22) 

    TESTI

    Is 14-15
    Is 1,10-17
    Sal 105
    Mc 5,1-13

    Sintesi di: I. Larranaga, Mostrami il tuo volto

     

  • 05 Mar

    L’ESERCIZIO DEL RACCOGLIMENTO

     di Romano Guardini

    Abbiamo cercato di conoscere la natura del bene e della coscienza. Abbiamo com­preso il bene anzitutto nella sua pura essenza, come infinito nel suo contenuto e semplice nel­la sua struttura. La coscienza poi come quel­l’organo interiore, mediante il quale io co­nosco che vi è un bene; del quale questo bene si serve per spingermi ad attuarlo; il quale mi fa sentire la responsabilità, che il bene venga attuato. Siccome però questo bene è infinito e semplice ad un tempo, io non posso comprenderlo immediatamente come dovere pratico. Bisogna che si specifichi; che si scomponga in singoli doveri di contenuto parziale, affinchè io possa attuarlo. Ora que­sto avviene nella situazione, nell’intreccio del­le realtà e degli avvenimenti, quale si rinno­va continuamente intorno a me, e a me guar­da, e da me vuoI ricevere interpretazione e forma.
    Quello che di volta in volta mi viene indi­cato come giusto dalla situazione oggettiva ­questo è il bene. Coscienza poi significa la ca­pacità di riconoscere quello che ci vien presen­tato come tale e di dargli un’ impronta per l’azione.
    Già a questo stadio il concetto della coscien­za aveva qualche cosa di profondo e di inte­riore. Lo abbiamo espresso nella proposizione: “io ho cognizione, con me stesso, intorno al bene”. Questa interiorità proveniva dal fatto che il bene coinvolge il s.enso ultimo di tutto, compreso il senso ultimo della mia esistenza. La salvezza dunque, l’eterno destino. E pre­cisamente il mio destino, di cui nessuno può sgravarmi e che nessuno può rapirmi.
    Questo carattere d’interiorità si è approfon­dito maggiormente nella seconda conferenza. In essa abbiamo seguita la coscienza giù giù fino al suo fondo religioso. “Coscienza” non significa affatto soltanto un organo etico; a ciò l’ha ridotta appena l’età moderna e più che altrove, a quanto sembra, nei paesi di lingua tedesca. In sè e per sè “coscienza” significa l’organo per il dovere in genere, per ciò che è degno di essere, con manifesta ten­denza alla religione. Si può dimostrare storica­mente che parola e significato di “coscienza” stanno in nesso con gli ultimi strati della co­scienza religiosa:col “fondo dell’anima” e col “filo dello spirito”.
    Vedemmo inoltre, che il bene, in fon­do, è la vivente santità di Dio stesso; aver co­gnizione del bene quindi e della sua esigenza, è aver cognizione della santità di Dio e della sua legge. L’organo ne è la coscienza. E la situazione, dalla quale il bene viene speci­ficato, è disposizione dello stesso Iddio, il gua­le con il suo comando preme sul cuore, affin­chè questo voglia accogliere in sè ed attuare il bene-santità. Fin dall’eternità il mondo è nelle mani di Dio. Dall’eternità Egli coordina il tutto e il singolo. Il singolo, affinchè con al­tri singoli costruisca il tutto; questo tutto poi, perchè diventi piattaforma, contenuto, com­pito per il singolo. Noi abbiamo rassomi­gliato il rapporto di ogni singolo con l’uni­verso ad un’ elisse. Essa ha due fuochi: uno sta in me, l’altro nel tutto, davanti e intorno a me. Ogni qual volta v’è un uomo che dice « io », si tende un nuovo rapporto fra i due fuo­chi. Che in tal modo l’universo e l’individuo entrino in vicendevoli rapporti, che l’ evolu­zione dell’universo e il mio sviluppo siano po­sti in relazione strettissima, per disposizione della sapienza e dell’amore di Dio, – questo non è altro che la Provvidenza. E la Provvi­denza di Dio entra in azione, continuamente, nella situazione. In essa si specifica l’infinita esigenza della sua santità. 

    La coscienza poi è la cognizione di questo rivelarsi e specificarsi del volere divino nella disposizione della Provvidenza.
    lo non sono un “caso” fra i tanti, ma qualche cosa di unico. Non sono soltanto indi­viduo, ma anche persona. Non porto in me soltanto un’ essenza generica, ma un’ essenza che ha l’impronta dell’unicità: un nome. Que­sto nome l’ho da Dio. Sono nel mondo, ma non mi confondo con esso. Con ciò che ho di più intimo vengo immediatamente da Dio e sto in rapporto diretto con Lui. Egli mi ha creato come questo tal dei tali. Questo nome che mi ha imposto non è racchiuso nel­la natura generica “uomo”. Non è affatto incluso nella compagine del mondo, e Dio solo lo sa. Per cui io posso conoscere il mio nome, conoscere cioè quello che ho di più mio, solo ricavandolo di là, dove è custodito, cioè da Dio. I vari strati del mio essere possono diventar realtà cosciente con più o meno facilità. Quanto più nobili e più profon­di, tanto più difficilmente. L’ultimo diventa reale soltanto nell’ incontro con Dio. Questa cognizione intorno a Dio; questa cogni­zione di ciò che intercede tra Lui e me sol­tanto; questo rivelarmi a me stesso al suo cospetto, è la coscienza nella sua ultima pro­fondità religiosa. lo debbo fare la mia parte nel mondo in corrispondenza al nome che da Lui ho ricevuto. E tale divento solo a patto di compiere la volontà di Dio a mio riguardo. Ma questa volontà mi vien presentata, di volta in volta, dalla situazione.
    Ciò trova la sua piena espressione cristiana nella rivelazione della nostra dignità di figli di Dio. Come questo tal dei tali io vengo crea­to e ricevo un nome; come questo tal dei tali vengo rigenerato e ricevo un nuovo nome; vengo battezzato per divenir figlio del padre. L’Apocalisse esprime ciò che qui mi viene dato, che rimane ancora occulto, ma un giorno diverrà manifesto, nella proposizione: «Voglio dargli un sasso bianco con su scritto il nuovo nome, che nessuno conosce, se non colui che lo riceve».
    Ora dobbiamo domandarci: Tutto questo è forse la cosa più naturale del mondo? È cosa ormai attuata e assicurata? che procede auto­maticamente?
    Evidentemente no; come risulta da tutta la nostra considerazione. Più d’una volta abbia­mo rilevato che la coscienza non è un appa­rato perfetto che funzioni senza bisogno d’al­tro, bensÌ qualche cosa di vitale, che diviene e cresce, come tutto quello che vive in noi. Noi stessi vi siamo dentro, con tutte le nostre manchevolezze. Perciò essa può divenir quel­lo che deve essere solo a poco a poco.
    Di qui la nostra odierna domanda: Que­sto divenire procede da sè? Ovvero possiamo contribuirvi in qualche modo? Che se lo pos­siamo, in tal caso anche lo dobbiamo. 
    Vorrei fissare un primo concetto: Ciò che ha ragione di termine e di proprietà in­trinseca non può venir fatto. Il perfeziona­mento intrinseco dena coscienza, dal punto di vista naturale, è cosa degli anni e dell’ espe­rienza; dal punto di vista della fede, è cosa della grazia.
    Anche per la coscienza si tratta in fondo di un processo di maturazione. Che il nostro sentimento per il bene diventi più robusto e più chiaro; che la coscienza della responsabi­lità in questo riguardo diventi più precisa; che il nostro fiuto del diverso valore della situa­zione si affini; che lo sguardo per il suo defi­nitivo significato e la capacità di ridurne il mol­teplice contenuto all’ unità della sua esigen­za e la forza di decidere e di mantenere la decisione presa diventino più sicuri – il progresso in tutto ciò è cosa della maturazione interiore, è cosa dell’esperienza. Poichè quan­to importante è l’aumento della sensibilità in­teriore, il raccoglimento e il consolidamen­to interiore, altrettanto lo è che noi rinno­viamo continuamente il nostro contatto con la molteplicità delle cose e degli avvenimenti. Con ciò noi veniamo in possesso di una gran quantità di imagini, immagazziniamo dei fat­ti e allarghiamo le possibilità di confronto. I nostri criteri di misura, i nostri punti di vi­sta, le nostre abitudini, attraverso la nostra esperienza, vengono passati continuamente al vaglio della critica, analizzati e corretti.
    Maturazione interiore ed esperienza este­riore si aiutano a vicenda. Lo stesso vale anche per la vita cristiana: l’avvicinarsi a Dio; la disposizione a lasciarci istruire da Dio; la serietà dell’intesa con Lui; il comprender sempre più profondamente se stessi nel dovere, che ci è imposto – tutto que­sto è frutto di maturazione e dell’ esperienza ad un tempo. Frutto di incremento naturale di vita, ma sovrattutto cosa della grazia. E la grazia dobbiamo tenerci pronti a riceverla e ad impetrarla con incessante preghiera. E non dimentichiamo che vi è un sacramento della coscienza cristiana: la Cresima. Nella Cresima veniamo dichiarati maggiorenni nel regno di Dio – la gotata è appunto l’antico simbolo giuridico, col quale il giovane veniva liberato dalla tutela. E i doni dello Spirito Santo ci vengono dati, amnchè nel mondo in­gaggiamo la nostra responsabilità per il regno di Dio.
    Che cosa dobbiamo fare dunque, da que­sto punto di vista? Dobbiamo purificare il no­stro interno. Dobbiamo diventare attenti e pronti. Dobbiamo fare il nostro dovere. In­terpretar la situazione e corrispondervi nel modo migliore possibile. Dobbiamo tener l’à­nima aperta all’esperienza. Vivere bravamen­te la nostra vita. Non isfuggir l’evento che ci viene incontro; a meno che la nostra co­scienza non ci dica che in questo caso la solu­zione della situazione consiste appuntò nella fuga. Dobbiamo accettare i casi lieti e tristi; anche i tristi e proprio quelli. In poche parole dobbiamo aprir le braccia alla vita, come Dio ce l’ha destinata. Dobbiamo trar profitto da questa vita – dalla nostra vita; dilatando, correggendo, illuminando noi stessi.
    E non stancarci mai di impetrare la chia­rezza della coscienza. Così pregava Newmann:
    “Ho bisogno che Tu m’istruisca, giorno per giorno,
    su ciò che è l’esigenza e la ne­cessità di ogni giorno.
    Concedimi, o Signore, la chiarezza della coscienza,
    la quale sola può sentire e comprendere la Tua ispirazione.
    I miei orecchi sono sordi; non posso percepire la Tua voce.
    I miei occhi sono offuscati; non posso vedere i Tuoi segni.
    Tu solo può affina­re il mio orecchio, acuire il mio sguardo
    e purificare e rinnovare il mio cuore.
    Insegna­mi a star seduto ai Tuoi piedi
    e a prestare a­scolto alla Tua parola. Amen».
    E allora l’una cosa riceverà luce dall’altra. Oltre a questo è però possibile un’altra cosa: l’esercizio.Sull’argomento ci sarebbe molto da dire.
    Tutto il problema della formazione della co­scienza, il problema della formazione della vita interiore, sta qui.
    Tutte le questioni: come render l’occhio capace di distinguer la varia moltiplicità del reale e dei suoi valori? Come svegliare e irrobustire la forza di pe­netrare e d’improntare la situazione? Come educarmi alla larghezza e nello stesso tempo alla precisione? Come prosciogliere a poco a poco gli strati profondi del mio essere, affin­chè diventino liberi ed entrino in azione?
    Qui si tratta dei compiti più importanti del­l’educazione. Da questo vasto campo scegliamo una cosa sola: l’esercizio del raccoglimento.
    Tutti i maestri della vita interiore ne par­lano. Si può dire che, sotto un certo aspetto, tutta la formazione morale e spirituale si rias­sume nell’esercizio del raccoglimento. Su che si basa quest’esercizio?
    Si basa sul fatto che il nostro essere vivente è costruito in due direzioni: dall’ interno al­l’esterno e viceversa. Sulla cognizione dunque che vi è in esso superficie e profondità, moto di espansione verso il largo e di concentra­mento verso il mezzo. Sulla cognizione inoltre, che quello che è interiore, profondo, al cen­tro, è più importante; che l’uomo però in­clina all’ esteriorità, alla superficialità, alla di­strazione; che perciò il compito più urgente sta dalla parte, dove maggiore è il pericolo. E si tratta di un compito veramente gran­de, che decide di interessi supremi. Di che si tratti qui possiamo forse esprimerlo nei termi­ni seguenti:
    Si tratta anzitutto della cella interiore.
    Questa cella interiore esiste; la sfera inte­riore, nella quale posso ritirarmi, nella quale mi posso occupare degli oggetti, e dove sono, da solo a solo, con me stesso; là dove vengon prese le decisioni vitali, dove mi trovo con Dio, alla Sua presenza, sotto il Suo sguardo… Questa cella esiste e può diventare più am­pia, più profonda, più viva, più tranquilla, più sicura.
    Tutto ciò non è così naturale, come potrebbe apparire. Se ci chiedessimo con since­rità: Ho io in me una tal « cella interiore»? Ho io questa sfera opposta alla semplice este­riorità, nella quale posso esistere e vivere? ­credo che dovremmo spesso rispondere nega­tivamente. Dovremmo confessare di avere la sensazione che in noi tutto sia chiuso, concre­sciuto e impenetrabile. Comunque non riconosceremmo certo il caso nostro in ciò che i maestri dicono del mondo interiore: della sua segretezza e tranquilIità, della sua gradazione in profondità, della pienezza della sua vita in­tima, della su potenza; della grandezza del­le sue decisioni… Ecco qui dunque un com­pito da assolvere. Bisogna creare, ampliare, munire di volta la cella interiore. Il mondo in­teriore deve venir dischiuso.
    Quello che abbiamo detto della cella inte­riore include già un secondo concetto: la profondità.
    Che cosa significa il dire: un uomo è « pro­fondo”? Non vuoI dire che i suoi pensieri sia­no complicati e difficili da capire; nemmeno che i motivi del suo agire siano occulti e le sue mete nascoste, o aIcunchè di simile. La profondità è una proprietà specifica. Possia­mo esprimerla soltanto metaforicamente, ma abbiamo la sensazione precisa di che si tratta. Profondità significa una dimensione speciale, diversa da « quantità», o « estensione», o « complicazione». È una stratificazione verso l’interno, e precisamente in maniera, che gli strati, quanto più interni, tanto più diventano preziosi, nostri, delicati, viventi. Il pensiero più semplice può esser profondo, e i senti­menti più complicati, superficiali; il sentimen­to più forte può esser superficiale e la più lie­ve impressione, profonda. Anche questa pro.­fondità va conquistata, e chi l’ha ricevuta in dono deve coltivarla. Quando conosciamo un uomo da bambino e poi lo seguiamo nella sua gioventù e così avanti secondo che procede negli anni; se egli vive onestamente e fa il suo dovere, allora notiamo che la qualità. Di cui si è parlato sopra, si afferma in tutto il suo carattere, nelle sue parole, nelle sue azioni.
    Facciamo un passo innanzi: l’interna vi­gilanza.
    La sensibilità e la perspicacia per ciò che è giusto; per la pienezza e la varietà dell’essere ,e della situazione; per le gradazioni e le sfu­mature della realtà e dei valori. Di nuovo an­che qui una cosa che non è cosÌ naturale, come potrebbe sembrare. Quasi quasi può dir­si naturale il suo contrario: la cecità e l’an­gustia dello sguardo, l’ottusità del senso inte­riore, l’indolenza del cuore. Quella vigilanza importa, che si avverta la potenza e la pie­nezza dell’esistenza, che si abbia in sè la pas­sione per il bene e per il dovere, che si soffra sotto il peso dell’ imperfezione; significa che interiormente qualche cosa sia sempre pronto a scattare verso ciò che è giusto e buono… Anche questa piena chiarezza, sensibilità, pron­tezza è un compito. 

    Ed eccoci al raccoglimento nel senso più stretto :
    Che tutta la molteplicità delle forze venga energicamente disciplinata da un punto inte­riore; che tutta l’attività abbia un solo punto di partenza e, per vie spesso nascoste, ad esso ritorni; che la vita abbia un centro e con ciò un ritmo… Anche qui, se ci chiediamo: «Ho io ciò? Ha la mia vita qualche cosa che assomigli a un centro? Ed è ordinata verso questo centro?” – la risposta difficilmente sarà soddisfacente. La nostra vita è tutta esterio­rità. Nella nostra vita domina il caso. Le cose esteriori, secondo che ci si avvicinano, ci attirano a sè. Noi siamo in balia di quello che ci tocca di bene e di male. Le nostre forze si disperdono in mille oggetti. Anzi molti uomini non hanno nemmeno la più lontana sensazione di un centro. L’ esperien­za del proprio centro è ben determinata c non vive certo in molti, altrimenti la nostra cultura avrebbe un altro aspetto. Dunque un altro compito anche qui.
    E finalmente si potrebbe accennare anche alla spiritualizzazione:
    Che in noi si irrobustisca lo spirito; lo spi­rito, che è qualche cosa di diverso dalle cose materiali; di diverso da ciò che è solamente corporeo; di diverso dalla vita puramente sen­sitiva. Quello che sta in rapporti speciali col bene, con ciò che deve essere, con la verità, con l’amore, con la purità, con Dio. Che que­sto spirito cresca nell’ uomo, è ciò che de­termina il nostro valore umano. Che lo spirito tutto compenetri; signoreggi la vita dell’istin­to e la passione; che si esprima in tutto – se guardiamo attentamente, è proprio da ciò che dipende tutto quello, di cui testè abbiamo par­lato. Cella interiore, profondità, vigilanza, rac­coglimento e centro – sono espressioni diverse per dire che in noi lo spirito è robusto. Anche questo però non è cosa che venga da sè. Pro­nunciamo una volta attentamente la parola « io »! Se da questo io, da quello che io ho e sono venissero eliminate le cose che posseggo, gli organi del mio corpo, le sensazioni dei miei sensi; se cancellassi i miei concetti, le mie co­gnizioni, le mie abilità – al di fuori di tutto questo resterebbe ancora qualche cosa? La do­manda è fatta molto all’ingrosso, ma il senso è chiaro. Se cancello tutto questo, mi rimane ancora quel resto, per il quale tutto il sopra­detto è soltanto materia strumentale e mezzo di manifestazione? Quella tal cosa intima che in tutto ciò vive, che in ciò raggiunge il suo de­stino, decide della sua sorte, si afferma o fallisce? Ciò, da cui, in definitiva, dipende la mia dignità e la mia salvezza? Certo, lo so, questa cosa la c’è è lo spirito, la mia anima spi­rituale… Ma non è vero forse per l’appunto che per lo più ciò lo so soltanto, ma non lo vivo? Che l’anima spirituale dorme con quello che ha di più intrinseco? Deve pur esser così, altri­menti gli uomini sarebbero diversi da quelli che sono.
    Molto di quello che possiamo fare, per tra­durre in atto tutto questo, è espresso nella pa­rola: esercizio del raccoglimento.
    Vogliamo parlarne alquanto a lungo, pren­dendo le mosse dall’esterno, per addentrarci poi sempre più verso l’essenziale. Ma qui poco ci gioverebbe, se’ dovessimo limitarci a pen­sieri generali. Al principio del nostro ritrovo ci siamo accordati di voler parlare di « ciò che dobbiamo fare». Perciò vorrei venire al pratico. Spetterà poi a voi di prender posizione in questo campo. Vorrei però ricordarvi che qui si tratta di cose dell’esperienza, delle quali, a sua volta, si può giudicare soltanto in base all’ esperienza. Che dunque premessa per un retto giudizio è il fare.
    La forma più ovvia del raccoglimento sa­rebbe certo l’ordine. Ordine della vita e del lavoro quotidiani, degli oggetti in camera e in casa, delle occupazioni nel corso della gior­nata e dei giorni; della lettura, dei pensieri e così via. L’ordine raccoglie.
    Ma di ciò basti un cenno.
    Più profonda è l’efficacia di quella che si po­trebbe chiamare l’educazione dei sensi e del­l’attenzione.
    Socrate ad un padre, che veniva a chiedergli consiglio a cagione di un suo figliuolo, disse una volta, sembrargli strano che gli uomini” mentre si guardan bene dal mangiar cibi gua­sti, sapendo che non è indifferente quello che introducono nello stomaco, non si facciano poi alcuno scrupolo di riempirsi l’anima di pen­sieri perversi. Questo è strano davvero. Noi abbiamo un’igiene del mangiare, ma non du­bitiamo neppure, che vi possa essere anche una igiene del vedere, dell’ ascoltare, del leggere. Dobbiamo lasciar entrare in noi proprio tutto? Facciamo una volta ]a prova: dopo aver attra­versata ]a città, passando per vie frequentate, davanti a persone e a vetrine, esaminiamo il nostro interno per vedere che aspetto abbia. Che guazzabuglio di impressioni! Che disordine di pensieri! Che altalena di emozioni e di desi­deri! Che inquietudine e che malcontento! Ed anche quante brutture! È proprio necessario che sia così? Qui è al suo posto ciò che l’ ascetica chiama la «custodia dei sensi», la disciplina dell’ attenzione.
    Esercitare il raccoglimento vorrebbe dunque dire che qui si intervenga. Che non si lasci en­trare tutto quello, che batte alla porta dei sensi e dell’attenzione; che si sappia distinguere fra il bene e il male, fra ciò che è nobile e ciò che è ignobile, fra quello che ha valore e ciò che non vaI nulla, fra quello che porta consapevolezza e ordine e ciò che crea soltanto confusione e trascina in basso. Un simile esercizio potrebbe dunque essere, a mo’ d’esempio, questo:
    Quando vado per le vie voglio rimanere pa­drone di me stesso e non permetto che ogni affisso attragga il mio sguardo. Conservo la mia indipendenza e non mi lascio attirare da ogni vetrina. Mi rendo interiormente indipendente da tutto quel tramestio di gente, di veicoli, di figure, di chiasso e di calca, e non permetto che il mio interno venga distratto da ogni cosa che abbia dell’insolito. In ciò mi esercito, e torno ad esercitarmi continuamente. Con tale esercizio apprendo l’arte di compiere un giro in città senza danno e di arrivare alla mia meta con coscienza incolume e tranquilla.
    Esercizio del raccoglimento sarebbe anche il non permettere che un giornale riversi nel mio interno tutto quel guazzabuglio di ciar­pame politico, di cenciume spirituale, di cro­naca nera e sensazionale, di vero e di falso, di bello e di volgare, di pettegolezzo e di al­tro ancora! Dovrei dunque apprendere a sce­glier dal giornale solo quello che mi riguarda, con rapidità e con sicurezza, e non appena esso mi ha reso questo servizio tutt’ altro che importante, buttarlo via e metter mano a qualche cosa che meriti maggiormente il nostro scarso tempo e le nostre scarse energie.
    Si potrebbe così esemplificare a lungo. Eser­cizio del raccoglimento significherebbe dun­que che di fronte al disordine del caso, alle pressioni dti destra e da sinistra, alla folla del­le impressioni e delle vicende, a tutto ciò che ci turba, ci eccita e ci inquina, sappiamo di­ventare indipendenti. Che di fronte a tutto im­pariamo a conservar la nostra calma. Che sap­piamo passare al vaglio le nostre impressioni. Che troviamo un piacere, anzi uno sport molto nobile, nell’ingaggiar la lotta contro la pre­potente barbarie chc ci circonda; la lotta per non essere lo zimbello del caos culturale che ci attornia, e per diventare al contrario liberi padroni di noi stessi.
    E non soltanto col vagliare le cose e col­l’eliminare di tutto ciò che non è nè utile nèbuono. Ma anche e innanzi tutto col rivolge­re la nostra attenzione interiore a qualche cosa di essenziale: ad un pensiero che va ap­profondito, ad una questione che va chiarita; ad un uomo, o ad una cosa che vogli~!mo ca­pire… Ma di ciò diremo di più fra poco.
    Ora facciamo un passo avanti e più adden­tro: eccoci alla solitudine ed al silenzio.
    Noi siamo schiavi non soltanto delle im­pressioni, ma anche degli uomini. Abbiamo istinti da mandra. So che esiste anche la misantropia e, certo, non è il caso di coltivarla. C’è il destino della solitudine, che non trova nessuno con cui possa convivere. Nemmeno di questo intendiamo parlare. Parliamo di qual­che cosa che non ha nulla di tragico, ma è invece estremamente miserabile, dell’istinto da mandra, troppo diffuso fra gli uomini; di quel bisogno di sentire intorno a sè sempre del chiasso; di dover sentir sempre chiacche­rare; di non saper riservar nulla per noi soli e di non saper da noi stessi venir a capo di nulla.
    Il raccoglimento sarebbe qui l’esercizio del­ la solitudine e del silenzio. Come sarebbe dunque a dire: Che non si corra subito da altri, ma si sappia rimaner soli. E non per altro motivo che per cavarsela Una buona volta da soli. Che si sbrighi una fac­cenda da soli, pur avendo alla mano qualcu­no da poterne discorrere; e ciò all’unico sco­po di acquistare una maggiore indipendenza di giudizio e di deliberazione. Esercizio del raccoglimento sarebbe il tener per sè una sto­ria o un avvenimento, o una trovata spiritosa, o un’ osservazione calzante, che corra alla men­te. Tutto ciò può costare del bel sacrificio. Ma superando questo istinto sfrenato di correr da altri, di parlare o di ascoltare a parlare, si gua­dagna in profondità interiore.
    Poi la ricerca della quiete e della solitudi­ne: scegliere la via più modesta, anzichè quel­la ricca di vetrine e di lampioni, fare un pas­seggio da solo, anzichè in compagnia; rima­nersene una sera tranquilli a casa, invece che andare in visita; rimaner soli una giornata in­tera, a casa, oppure, ciò che è particolarmen­te bello, all’ aperto. Forse addirittura alcuni giorni di ritiro. Tali periodi portano refrigerio e concentrazione. Se ne esce del tutto puri­ficati.
    E, a sua volta, che questa quiete sia ricm­pita con qualche cosa di positivo: con un buon pensiero, con un buon libro, con un proble­ma. Teniamo presente tutto questo. Torne­remo sull’argomento, per spiegarne il signi­ficato.
    Al di là di quello che si è detto conduce la tacita attenzione rivolta al proprio interno.
    Essa non è altro che un’inclinazione gene­rale a. sostare di tanto in tanto e a riflettere sulla portata delle cose, a sottrarsi talvolta all’incalzante tumulto delle cose che passano, e a tender l’orecchio a ciò che sta avvenendo. È un assuefarsi a dar degli sguardi retrospettivi, per esaminare il proprio operato; a ri­guardare il passato non come defÌnitivamente liquidato, per la sola circostanza esteriore ch’è trascorso, ma di farlo agire su di noi dai suoi strati più profondi…­
    Guglielmo Raabe dice una volta quali let­tori egli desideri per sè: «Ecco, egli dice, che si sta fabbricando una casa, e la gente che os­serva fa i suoi commenti. L’uno critica, l’al­tro loda, un terzo pensa come l’ ammobilie­rebbe se fosse sua. Ognuno considera la fab­brica in pietra e in legno e la valuta dal gu­sto e dall’utile che potrebbe cavarne. Ma c’èanche uno, il quale pensa qual vita si svolge­rà in quelle camere, qual destino, quali dolo­ri, quali gioie vi passeranno. Costui – dice il grande novelliere – che vede le cose in tal modo, è il lettore che mi desidero).
    Qualche cosa di simile intendiamo espri­mere anche qui. Una specie di gravitazione, vorremmo dire, verso l’interno; la quale non deve però ostacolare un’ energia consapevole, ma solo dare all’energia e all’azione un valore e un legame con l’interno.
    In altri termini si potrebbe dire: una spe­cie di attenzione rivolta all’ al di là. Rainer Maria Rilche esce una volta in questa profonda invocazione: « Dio, tu, mio vicino… « Sono in continuo ascolto, dammi un segno, « Ti sono assai vicina. « Solo una parete sottile ci separa…».
    Anche questo serve a render chiaro quello che intendiamo dire. Si può viver senza dub­bio anche altrimenti. Si può vivere assorbiti nell’attualità che si tocca con mano, affidati aUe sue ben note forze, nella chiusa èerchia delle cose visibili e dei fatti dell’ esperienza, e con ciò punto e basta. Si può però anche man­tener vivo in noi il pensiero che non è tutto qui. Che attiguo a noi, separato da una sola parete, abita l’Altro. Che lungo tutta la fron­tiera del nostro essere Dio ci è d’accanto. Si può tener desta la consapevolezza che nel no­stro proprio interno, là dove confiniamo col nulla, sta il Dio vivente.
    Quì non c’è nulla di particolare da « fare,,; non riflessioni e non sforzi speciali. Basta lo star sempre e tranquillamente in ascolto, un esser presenti a se stessi e un mantenere lieve­mente i contatti.
    Fin qui si trattava di premesse del racco­glimento. Veniamo ora al suo esercizio nel senso più rigoroso della parola. Esso può as­sumere varie forme, che però in fondo rie­scono tutte alla stessa cosa.
    E
    sso può consistere in quanto segue: Nelle nostre azioni e aspirazioni di tutti i giorni noi siamo trasportati dalla corrente im­petuosa degli avvenimenti. «Raccoglimento» significa qui l’uscire da questo vortice e metter­si in pace. Portar calma nel nostro essere, nelle nostre forze, nella nostra volontà. Far pene­trare la pace sempre più profondamente in noi stessi. Noi facciamo sempre questo o quello, siamo sempre in attività, progettiamo, voglia­mo, organizziamo, esercitiamo. Quando non facciamo niente, diventiamo nervosi e intorno a noi sentiamo il vuoto. La voce ha come un’eco cupa; ci si sente a disagio e ci si an­noia. E a forza di fare e di agire ammazziamo la nostra esistenza. Idolatriamo l’attività e perdiamo l’uomo.
    Raccoglimento significa qui che sappiamo, una buona volta, non tanto fare, quanto vi­vere. Avere un’ esistenza tranquilla. Un’esistenza piena, libera dall’ ossessione del fare e del volere.
    Noi tendiamo sempre ad una meta, poi ad un’altra ulteriore, e così di seguito. Sempre verso qualche cosa che non esiste. Sbrighiamo una cosa e la gettiamo dietro le spalle. Vivia­mo gli avvenimenti, rapidamente, e già essi non sono più. Così viviamo sempre scivolando fra quello che non è più e quello che non è ancora.
    Raccoglimento significa qui creare il pre­sente, sostare e divenir presenti. Presenti in noi stessi, realizzare l'”oggi” per quanto è concesso alla nostra instabilità; almeno averne l’intenzione e la disposizione. Vivere tranquillamente l’attimo fuggente è appunto raccoglimento.
    Le nostre forze sono disperse fra molti og­getti. La nostra attenzione viene attratta da mille cose. La nostra volontà e i nostri desi­deri sono incatenati in mille modi. Non siamo in possesso di noi stessi, ma in balia delle cose. La molteplicità delle cose è anzi penetrata in noi stessi, come ne fanno fede la varietà dei nostri pensieri, il contrasto dei nostri desideri, l’irrequietudine dei nostri sentimenti.
    Raccoglimento significa che richiamiamo noi a noi stessi; le nostre forze dalla disper­sione all’unità. Che superiamo la confusione e ristabiliamo una tranquilla semplicità. Che sgombriamo il guazzabuglio, per attenerci a pochi, forti e buoni pensieri. Che semplifi­chiamo i nostri desideri; impariamo a ripo­sare in noi stessi senza brame, a diventar tran­’luilli e sereni. Che apprendiamo ad esser pa­-droni di noi stessi.
    Il nostro interno è spesso oppresso da preoc­cupazioni, agitato da passioni e accascÌato dal. le contrarietà e dalle sofferenze.
    Quì il raccoglimento significa che interior­mente torniamo a noi stessi. Che in noi si levi qualche cosa di profondo, che a tutte que­ste cose per noi ripugnanti dica: « Questo ve­ramente non mi appartiene. Devo sopportar­lo e lo farò lealmente, ma non sono tutt’uno con esso. C’è in me qualche cosa al di là di tutto questo. Questo qualche cosa è sereno, è forte, è l’essere vivente del mio spirito. Que­sto vive in sè, realmente, nella sua indistrut­tibile sostanzialità. Raccoglimento significa che io cerchi il contatto con questo centro spiri­tuale vivente, il contatto da me stesso a me stesso. E che di lì attinga l’energia e la fiducia per rinnovarmi. Il Vangelo parla della luce interiore che. è in noi e può « rischiarar tut­to ». Questa non è immagine, è realtà. Lo spi­rito è luce sostanziale. E chi sa liberare lo spio rito, ne rimane illuminato. « Tutto il corpo illuminato», dice il Signore.
    Di questo passo si potrebbe continuare un pezzo…
    Ma non ci rincresca di venire al concreto.

    Come possiamo compiere quest’esercizio?

    La sera, quando abbiamo fornita la nostra opera quotidiana, potremmo ritirarci. Potrem­mo metterci a sedere; Meglio ancora se in gi­nocchio; perchè lo stare in ginocchio esprime quiete e insieme contegno. Poi potremmo crea­re il silenzio; intorno a noi e in noi. Potrem­mo poi dirci: “Ora sono tranquillo; perfet­tamente tranquillo; fino nel più intimo della mia anima”. Potremmo cercar di sgombrare del tutto il nostro interno e di metterci in una calma assoluta. Quando facciamo così, ci ac­corgiamo, e solo allora adeguatamente, quan­to sia profonda l’irrequietudine dei nostri ner­vi. Mille cose si affacciano e vogliono esser fatte. Cose dimenticate chiedono riparazione, preoccupazioni si affacciano, progetti si incal­zano… Via tutto questo! Bisogna acquistar la calma e non con uno sforzo di volontà, ma con una lenta liberazione interiore. E lasciar discendere il silenzio, sempre più giù, nel pro­prio io. I pensieri di tutte le specie – via! I desideri senza pace – via! Non con un atto im­perioso della volontà, bensì mettendoli silenzio­samente e insieme però anche risolutamente alla porta. Non pensare nè all’ieri, nè al domani. Essere del tutto presente, del tutto qui. E così sostare un po’; questo solo porta già risveglio interiore, padronanza di sè, ristoro e rinno­vamento.
    Ma poi, a misura che la nostra padronanza interiore diventa più sicura, dobbiamo portare in questo silenzio, in questa presenza a noi stessi, in questo raccoglimento, qualche cosa che venga dalla sfera del bene. Riflettiamo al significato di una nostra azione passata: che senso può veramente aver avuto? E vi abbia­mo fatto buona prova? O avremmo dovuto agi­re altrimenti? L’azione cattiva può venir ri­parata, in certo modo rigenerata, nel penti­mento e nella sincerità della conversione. Op­pure in questo silenzio portiamo qualche cosa che è ancor da fare: un dovere, un problema. Apriamoci al bene: « Lo voglio, sono pronto, sinceramente, fino nel più profondo delle mie viscere. Che debbo fare? ». In certe per­plessità, nelle quali non si sa a che santo votarsi – quando internamente ci si mette in calma” e si supera la ribellione contro il bene, non con la violenza, ma con una liberazione inte­riore e ci si mette in buone disposizioni – allo­ra, spesso tutto d’un tratto, si sa che cosa con­venga fare. Poichè quello che cagionava l’incer­tezza, non erano in fondo solidi argomenti in contrario, ma cattiva volontà. Oppure portiamo con noi nella nostra quiete una parola profon­da, un pensiero sostanziale, una buona lettura.
    Questa è la cella conveniente sovrattutto alla Sacra Scrittura: la cella della meditazione. Qui è la «dimora» per Iddio. Quando mi metto in pace e dico: lo sono qui, piena­mente presente – allora si affaccia quasi spon­taneo il pensiero: È qui Dio, il Dio vivente. Pregare significa elevare il cuore a Dio, signi­fica cercare il cospetto di Dio, con lo sguardo interiore, affinchè il movimento del nostro cuore e la parola del nostro spirito trovino il loro posto. Questa cosa profonda, che consiste nell’orientamento verso Dio, nel muoversi ver­so di Lui, e nel giungere presso di Lui, nel parlarGli a tu per tu – tutto ciò è frutto di un tal raccoglimento. « Quanto tu preghi, prepara il tuo cuore, e non essere come un uomo, che tenta Dio», dice la Scrittura. Chi si prepara in tal modo, sente sgorgare quasi spontanea la preghiera dal suo cuore.
    Quì convien far attenzione ad una cosa im­portante. Dell’ esercizio del raccoglimento si può anche abusare. Qui si tratta di realtà, di forze reali, di profondità reali. Queste forze possono venire evocate e cagionare anche dei guai; le profondità possono venir spalancate ed esporre a dei pericoli. Ciò può avvenire per­chè tali forze non vengono dirette ad uno scopo e allora cagionano rovina, come avviene di una sorgente che si faccia scaturire, senza poi incanalarla. Ovvero perchè tutto vien fat~ to per vanità; per dilettantismo, per capriccio, per avidità di sensazione, per qualche deside­rio di potenza. Le correnti occultistiche e pa­rapsicologiche sono spesso un criminoso gioco con tali forze. Quello che qui facciamo, dob­biamo farlo con moderazione e con calma. E – ciò che è di importanza decisiva – tarlo con intenzioni rette e pure. Quello stesso rac­coglimento, che rivolto, ad esempio, ad una parola della Scrittura, è sorgente di vita santa, cagiona gravi malanni, quando è ozioso e vano, oppure ha mire false e capricciose. La stessa concentrazione, che è fattore di ordine e di risveglio, quando, ad esempio, è unita al pentimento per un errore commesso e alla sin­cera disposizione di compiere un dovere futu­ro, crea invece della confusione, quando mira a qualche scopo perverso o fantastico.
    Questo raccoglimento è proprio il vero luo­go per la parola di Dio, la quale deve appun­to essere ascoltata in silenzio e in adorazione, accolta nella quiete profonda del cuore. Per­chè la parola di Dio non è una semplice co­municazione, ma anche una forza genera­trice di vita santa.
    Il raccoglimento è la dimora per Dio stesso. Così possiamo fare la sera. Così anche al mattino. Qui dieci minuti possono far molto. Tutto quello che si fa e si sopporta durante il il giorno riceve l’impronta di tutt’altra fiducia e purezza, quando promana da un tal racco­glimento.
    Così al mattino è bene riflettere: « Eccomi qui! Proprio io; colle mie forze; colla vigi­lanza del mio spirito; col calore e colla pron­tezza del mio cuore. Dio pure è qui presente. lo vengo da Lui ed ho la Sua grazia in me. La sua chiamata alla santità mi incalza nel mio interno, perchè la traduca in atto… lo so che mi accadrà questo o quello… ed ora af­fronto la mia giornata armato di quella forza interiore. Voglio far bene la mia parte ».
    Poi a sua volta, la sera, la resa dei conti in­nanzi al bene vivente, al Dio Santo: « Come ho passata la giornata? Ho dato ascolto alla voce del bene? Vi ho corrisposto? »… Rendi­conto, pentimento, rinnovamento del cuore… E poi abbandono totale nelle mani di Dio, che è il padrone di ogni riposo.
    E sarà bene che anche durante la giornata si torni a prender contatto, di tanto in tanto, con l’ ambiente interiore, che si rinnova ogni mattina e ogni sera. Anteo, figlio della terra, era invincibile, perchè, ogni qual volta toccava la madre, acquistava nuove forze. Così è an­che dello spirito. Sia come un tocco leggero alle porte di quel mondo interiore; special­mente quando ci si imbatte in qualche cosa di difficile e di imbarazzante, che esige il massi­mo sforzo. Ciò porta ogni volta ad un rinno­vamento del nostro slancio e delle nostre e­nergIe.
    Altre cose di questo genere rimarrebberò ancor da dire. Tuttavia quanto si è detto po­trà bastare. Tutto questo – e aggiunto a que­sto ancora ciò di cui abbiamo parlato al prin­cipio: l’interno e segreto processo di matura­zione del nostro essere, l’incessante lavoro del­l’esperienza, l’accettazione coraggiosa della vita quotidiana e di ciò che essa ci porta – tutto questo fa sbocciare a poco a poco dentro di noi il centro vitale; fa sì che lo spirito si rinvigo­risca e compenetri tutto il nostro essere; che la cella interiore si apra; che il fondo del no­stro io si richiari; e l’energia si concentri e di­venti efficace. E cosÌ la «coscienza» diviene a poco a poco quello che deve essere secondo la sua es­senza: la voce vivente della santità di Dio in noi.

     

     

     

  • 05 Mar

    SILENZIO E PREGHIERA

     

    SILENZIO E SOLITUDINE

    Il nostro rapportarci con gli altri, e quindi anche con Dio è costituito soprattutto da parole.
    Ma esiste un rapporto, un dialogo, più profondo, ed è quello che fa a meno delle parole perché queste vengono rimosse dal silenzio pregno di significato.
    Nella misura in cui progrediamo nell’intimità di una persona, e perciò anche di Dio, spariscono le parole perché non più necessarie in vista dell’incontro: il dialogo si attua attraverso il volto, lo sguardo.
    L’incontro è permeato di una sola parola pregna di amore e di silenzio. E’ un silenzio non vuoto né sterile, ma estremamente fecondo.
    Purtroppo viviamo in un contesto culturale in cui prevale l’esteriorità che si vuole creativa, ma che è solo proliferazione di stimoli di immagini e parole perché l’interiore è vuoto e fa paura.
    Questa proliferazione rivela il disagio della persona a rimanere con se stessa nel silenzio.
    Ma nello stesso tempo occorre che prendiamo coscienza di come spesso viviamo in un silenzio sterile, vuoto, triste, carico di rancore e risentimento verso noi stessi, gli altri, l’ambiente.
    Si tratta di un silenzio negativo, che ci ripiega su noi stessi: è una fuga dalla realtà e rivela l’incapacità di dialogo.
    Il silenzio autentico e fecondo non ci spinge al ripiegamento su noi stessi, ma ci apre alla realtà di noi stessi, agli altri e a Dio.
    E’ un silenzio che parla, che si pone in dialogo e ascolto, è fatto soprattutto di amore.
    Ogni vera parola è avvolta dal silenzio meditativo, la vera parola non è mai solo esteriore, ma promana dal silenzio del profondo del cuore.
    Solo a questa condizione essa è feconda. Tanta predicazione è vuota perché la parola non attinge alla fecondità del silenzio.
    Comprendiamo che il silenzio è indispensabile alla vita spirituale ve desideriamo porci in ascolto autentico, dialogico con la Parola che nel silenzio ci raggiunge: “La ricerca dell’intimità con Dio porta con sé la necessità veramente vitale di un silenzio di tutto l’essere, sia per coloro che devono incontrare Dio perfino in mezzo allo strepito, sia per i contemplativi” (Ev. Test. 46). 

     CONTEMPLAZIONE E COMBATTIMENTO

    Di Mosè il libro dell’esodo dice: “Il signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con un altro” (Es. 33,11).

    Mosè è la figura di colui che “contempla faccia a faccia” il mistero di Dio. Tra lui e Dio intercorreva un dialogo intimo di amicizia e amore.
    Potremmo affermare che ogni orante quando si lascia “prendere”, “afferrare”, “mettere in catene dallo Spirito” (cf At 20), dalla vicinanza con Dio che è sempre travolgente, si trasforma, viene trasformato in un essere forgiato dalla forza, dalla purezza e dal fuoco dello Spirito (cf Detti: “Diventa tutto di fuoco”). E di questo i santi sono tutti testimoni.
    E’ significativo di come Dio esiga nei suoi incontri con Mosè una solitudine assoluta:
    – “Mosè avanzerà solo verso il Signore” Es 24,2
    – “Mosè salì dunque sul monte e la nube coprì il monte. La Gloria di JHWH venne a dimorare sul monte Sinai e la nube lo coprì per sei giorni. Al settimo giorno il Signore chiamò Mosè dalla nube. La Gloria del Signore appariva agli occhi degli israeliti come fuoco divorante sulla cima della montagna. Mosè entrò dunque in mezzo alla nube e salì sul monte. Mosè rimase sul monte quaranta giorni e quaranta notti” Es 24,15-18
    Dall’incontro con questo “fuoco divoratore” Mosè esce col volto trasfigurato e abbagliante: è il segno dell’incontro avvenuto con l’inaccessibile: “Quando Mosè scese dal Monte Sinai… non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con lui” Es 34,35.
    La prima considerazione allora è data dal fatto che Mosè “estremamente impegnato” nella sua opera a favore del popolo fu un uomo che come pochi coltivò una contemplazione fatta di silenzio e di solitudine.
    Così Elia, il profeta di fuoco, fiamma devastatrice e purificatrice, dalla tradizione è chiamato l'”Uomo di Dio”. Anche per lui è indispensabile entrare nel silenzio e nella solitudine per incontrare JHWH: “Vattene di qui, dirigiti verso oriente, nasconditi presso il torrente Kerit” (1Re 17,6).
    Caratteristica sua sarà il non avere una dimora, una casa di pietra: sua abitazione è la solitudine del deserto come per san Giovanni battista.
    Ed è nel deserto del Monte Oreb che egli farà l’esperienza del Dio terribile che si manifesta nella brezza (cf 1Re 19,8-18).
    L’unica sua preoccupazione ed interesse è la gloria di Dio. Ed è per questo che la potenza, la forza, la determinatezza del Signore si manifestano nei suoi gesti e nelle sue parole.
    Profeta di JHWH diviene strumento docile nelle sue mani perché la sua vita è un continuo ritirarsi nella solitudine per dimorare con Dio, e un andare agli uomini per essere annunciatore della vera fede. 

    IL VERBO SILENZIOSO

    Anche la venuta del Verbo nel mondo contempla fasi di grande silenzio.
    – L’Incarnazione è il momento dell’umiltà, del nascondimento, del silenzio.
    – La sua nascita avviene di notte, “mentre il silenzio avvolgeva ogni cosa e la notte era a metà del suo corso”.
    – Nazaret: trent’anni di inspiegabile e sconcertante silenzio  e nascondimento (solo un versetto nel vangelo!)
    – Il suo ministero: un alternarsi di parole e di silenzio contemplativo e adorante.
    – La sua passione: Gesù accusato tace
    – la sepoltura: il silenzio della morte
    – la risurrezione: avviene nel silenzio del primo mattino. “Beata sei tu o notte che sola conoscesti l’ora” (Preconio pasquale).
    Possiamo aggiungere il silenzio del sacramento eucaristico: un povero segno che rimanda alla fede, all’apertura degli occhi del cuore come per i discepoli di Emmaus. 

    CONTEMPLAZIONE

    Nel silenzio consapevole che ci pone dinanzi a Dio e a noi stessi la nostra vita viene trasformata, rettificata. La presenza di Dio dissipa tutto ciò che vi si oppone.
    La contemplazione fa sì che tutto ciò che era oggetto di una fede, in un certo senso staccata da noi (quae creditur), diventi oggetto di un’esperienza vitale, totalizzante, misteriosa ma realissima (qua creditur).
    E’ a questo livello che si comprende. Si tratta di una comprensione del cuore più che di intelletto.
    Nella contemplazione ci rendiamo consapevoli di come la nostra stessa esperienza di Dio sia sempre parziale, mai posseduta: essa è spesso presentimento e pregustazione.
    Impariamo così a porci dinanzi al Padre nel silenzio umile e adorante limitandoci a guardare con amore sapendo di essere a nostra volta guardati con amore attraverso gli occhi del Figlio crocifisso.
    Potremmo definire la contemplazione come una operazione spirituale sintetica, totalizzante, affettiva e unificante. 

     CHIAMATI ALLA CONTEMPLAZIONE

     Ogni uomo è chiamato in forza della sua natura di creatura intelligente alla contemplazione. Afferma a questo proposito la Gaudium et Spes 18: ” Dio chiama l’uomo ad aderire a lui con tutta intera la sua natura, in una perpetua comunione con l’incorruttibile vita divina“.
    Chiamati ad aderire a Dio! E questo tramite l’amore, la conoscenza, l’impegno e l’abbandono in lui.
    E quando parliamo di contemplazione dovremmo sempre unire due termini: l’adesione del cuore e la conoscenza ella mente.
    Nella Scrittura  il “conoscere” non equivale al semplice sapere, ad una cognizione puramente intellettuale; esso esprime sempre una relazione esistenziale fra chi conosce e l’oggetto o la persona conosciuta.
    Conoscere Dio comporta l’entrare in relazione con lui, l’immergersi nella corrente della sua vita, che procede da Dio e a lui ritorna.
    Paolo VI in un discorso pronunciava queste parole: “Che Dio esiste, che è reale, che è vivente, che è personale, che è provvido, che è infinitamente buono, nostro creatore, nostra verità, nostra felicità; in tal modo che lo sforzo di fissare in lui lo sguardo e il cuore, ciò che chiamiamo contemplazione viene ad essere l’atto più alto e più pieno dello spirito, l’atto che oggi può e deve gerarchizzare l’immensa piramide dell’attività umana”.
    Nella contemplazione l’immagine di Dio è estremamente semplificata, riducendosi ads un accostarsi al suo mistero in purezza essenziale di fede.
    Le parole meditative, discorsive, della nostra preghiera portano con sé frammenti, particelle di dio, solo la contemplazione silenziosa che non si serve di parole, ma è puro sguardo totalizzante, può tentare di abbracciare l’infinito e l’incomprensibile.
    Il Siracide domanda: “Chi lo ha contemplato e lo descriverà? Chi può magnificarlo come egli è?” (43,32). 

    IN PIENEZZA

    Dio “chiama l’uomo ad aderire a Lui con tutta intera la sua natura” (GS).
    Il nemico della contemplazione è dunque ciò che vi è contrario, ovvero la dispersione, la molteplicità.
    Dispersione è il frantumarsi dell’io in mille direzioni contrastanti. Il suo contrario è la “con-centrazione”, l’essere tratto in un sol luogo, è ciò che permette di ritrovare se stessi, cosa impossibile nella dispersione.
    Attraverso la concentrazione ci è possibile incontrare Dio al centro di noi stessi, come nostra sorgente. Infatti l’uomo percepisce il suo essere, il suo esistere quando diviene consapevole di se stesso.
    Ma il più delle volte non siamo in noi stessi, perché spezzettati in mille direzioni.

    Sintesi di: I. Larannaga, Mostrami il tuo volto

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