• 05 Mar

    L’ESERCIZIO DEL RACCOGLIMENTO

     di Romano Guardini

    Abbiamo cercato di conoscere la natura del bene e della coscienza. Abbiamo com­preso il bene anzitutto nella sua pura essenza, come infinito nel suo contenuto e semplice nel­la sua struttura. La coscienza poi come quel­l’organo interiore, mediante il quale io co­nosco che vi è un bene; del quale questo bene si serve per spingermi ad attuarlo; il quale mi fa sentire la responsabilità, che il bene venga attuato. Siccome però questo bene è infinito e semplice ad un tempo, io non posso comprenderlo immediatamente come dovere pratico. Bisogna che si specifichi; che si scomponga in singoli doveri di contenuto parziale, affinchè io possa attuarlo. Ora que­sto avviene nella situazione, nell’intreccio del­le realtà e degli avvenimenti, quale si rinno­va continuamente intorno a me, e a me guar­da, e da me vuoI ricevere interpretazione e forma.
    Quello che di volta in volta mi viene indi­cato come giusto dalla situazione oggettiva ­questo è il bene. Coscienza poi significa la ca­pacità di riconoscere quello che ci vien presen­tato come tale e di dargli un’ impronta per l’azione.
    Già a questo stadio il concetto della coscien­za aveva qualche cosa di profondo e di inte­riore. Lo abbiamo espresso nella proposizione: “io ho cognizione, con me stesso, intorno al bene”. Questa interiorità proveniva dal fatto che il bene coinvolge il s.enso ultimo di tutto, compreso il senso ultimo della mia esistenza. La salvezza dunque, l’eterno destino. E pre­cisamente il mio destino, di cui nessuno può sgravarmi e che nessuno può rapirmi.
    Questo carattere d’interiorità si è approfon­dito maggiormente nella seconda conferenza. In essa abbiamo seguita la coscienza giù giù fino al suo fondo religioso. “Coscienza” non significa affatto soltanto un organo etico; a ciò l’ha ridotta appena l’età moderna e più che altrove, a quanto sembra, nei paesi di lingua tedesca. In sè e per sè “coscienza” significa l’organo per il dovere in genere, per ciò che è degno di essere, con manifesta ten­denza alla religione. Si può dimostrare storica­mente che parola e significato di “coscienza” stanno in nesso con gli ultimi strati della co­scienza religiosa:col “fondo dell’anima” e col “filo dello spirito”.
    Vedemmo inoltre, che il bene, in fon­do, è la vivente santità di Dio stesso; aver co­gnizione del bene quindi e della sua esigenza, è aver cognizione della santità di Dio e della sua legge. L’organo ne è la coscienza. E la situazione, dalla quale il bene viene speci­ficato, è disposizione dello stesso Iddio, il gua­le con il suo comando preme sul cuore, affin­chè questo voglia accogliere in sè ed attuare il bene-santità. Fin dall’eternità il mondo è nelle mani di Dio. Dall’eternità Egli coordina il tutto e il singolo. Il singolo, affinchè con al­tri singoli costruisca il tutto; questo tutto poi, perchè diventi piattaforma, contenuto, com­pito per il singolo. Noi abbiamo rassomi­gliato il rapporto di ogni singolo con l’uni­verso ad un’ elisse. Essa ha due fuochi: uno sta in me, l’altro nel tutto, davanti e intorno a me. Ogni qual volta v’è un uomo che dice « io », si tende un nuovo rapporto fra i due fuo­chi. Che in tal modo l’universo e l’individuo entrino in vicendevoli rapporti, che l’ evolu­zione dell’universo e il mio sviluppo siano po­sti in relazione strettissima, per disposizione della sapienza e dell’amore di Dio, – questo non è altro che la Provvidenza. E la Provvi­denza di Dio entra in azione, continuamente, nella situazione. In essa si specifica l’infinita esigenza della sua santità. 

    La coscienza poi è la cognizione di questo rivelarsi e specificarsi del volere divino nella disposizione della Provvidenza.
    lo non sono un “caso” fra i tanti, ma qualche cosa di unico. Non sono soltanto indi­viduo, ma anche persona. Non porto in me soltanto un’ essenza generica, ma un’ essenza che ha l’impronta dell’unicità: un nome. Que­sto nome l’ho da Dio. Sono nel mondo, ma non mi confondo con esso. Con ciò che ho di più intimo vengo immediatamente da Dio e sto in rapporto diretto con Lui. Egli mi ha creato come questo tal dei tali. Questo nome che mi ha imposto non è racchiuso nel­la natura generica “uomo”. Non è affatto incluso nella compagine del mondo, e Dio solo lo sa. Per cui io posso conoscere il mio nome, conoscere cioè quello che ho di più mio, solo ricavandolo di là, dove è custodito, cioè da Dio. I vari strati del mio essere possono diventar realtà cosciente con più o meno facilità. Quanto più nobili e più profon­di, tanto più difficilmente. L’ultimo diventa reale soltanto nell’ incontro con Dio. Questa cognizione intorno a Dio; questa cogni­zione di ciò che intercede tra Lui e me sol­tanto; questo rivelarmi a me stesso al suo cospetto, è la coscienza nella sua ultima pro­fondità religiosa. lo debbo fare la mia parte nel mondo in corrispondenza al nome che da Lui ho ricevuto. E tale divento solo a patto di compiere la volontà di Dio a mio riguardo. Ma questa volontà mi vien presentata, di volta in volta, dalla situazione.
    Ciò trova la sua piena espressione cristiana nella rivelazione della nostra dignità di figli di Dio. Come questo tal dei tali io vengo crea­to e ricevo un nome; come questo tal dei tali vengo rigenerato e ricevo un nuovo nome; vengo battezzato per divenir figlio del padre. L’Apocalisse esprime ciò che qui mi viene dato, che rimane ancora occulto, ma un giorno diverrà manifesto, nella proposizione: «Voglio dargli un sasso bianco con su scritto il nuovo nome, che nessuno conosce, se non colui che lo riceve».
    Ora dobbiamo domandarci: Tutto questo è forse la cosa più naturale del mondo? È cosa ormai attuata e assicurata? che procede auto­maticamente?
    Evidentemente no; come risulta da tutta la nostra considerazione. Più d’una volta abbia­mo rilevato che la coscienza non è un appa­rato perfetto che funzioni senza bisogno d’al­tro, bensÌ qualche cosa di vitale, che diviene e cresce, come tutto quello che vive in noi. Noi stessi vi siamo dentro, con tutte le nostre manchevolezze. Perciò essa può divenir quel­lo che deve essere solo a poco a poco.
    Di qui la nostra odierna domanda: Que­sto divenire procede da sè? Ovvero possiamo contribuirvi in qualche modo? Che se lo pos­siamo, in tal caso anche lo dobbiamo. 
    Vorrei fissare un primo concetto: Ciò che ha ragione di termine e di proprietà in­trinseca non può venir fatto. Il perfeziona­mento intrinseco dena coscienza, dal punto di vista naturale, è cosa degli anni e dell’ espe­rienza; dal punto di vista della fede, è cosa della grazia.
    Anche per la coscienza si tratta in fondo di un processo di maturazione. Che il nostro sentimento per il bene diventi più robusto e più chiaro; che la coscienza della responsabi­lità in questo riguardo diventi più precisa; che il nostro fiuto del diverso valore della situa­zione si affini; che lo sguardo per il suo defi­nitivo significato e la capacità di ridurne il mol­teplice contenuto all’ unità della sua esigen­za e la forza di decidere e di mantenere la decisione presa diventino più sicuri – il progresso in tutto ciò è cosa della maturazione interiore, è cosa dell’esperienza. Poichè quan­to importante è l’aumento della sensibilità in­teriore, il raccoglimento e il consolidamen­to interiore, altrettanto lo è che noi rinno­viamo continuamente il nostro contatto con la molteplicità delle cose e degli avvenimenti. Con ciò noi veniamo in possesso di una gran quantità di imagini, immagazziniamo dei fat­ti e allarghiamo le possibilità di confronto. I nostri criteri di misura, i nostri punti di vi­sta, le nostre abitudini, attraverso la nostra esperienza, vengono passati continuamente al vaglio della critica, analizzati e corretti.
    Maturazione interiore ed esperienza este­riore si aiutano a vicenda. Lo stesso vale anche per la vita cristiana: l’avvicinarsi a Dio; la disposizione a lasciarci istruire da Dio; la serietà dell’intesa con Lui; il comprender sempre più profondamente se stessi nel dovere, che ci è imposto – tutto que­sto è frutto di maturazione e dell’ esperienza ad un tempo. Frutto di incremento naturale di vita, ma sovrattutto cosa della grazia. E la grazia dobbiamo tenerci pronti a riceverla e ad impetrarla con incessante preghiera. E non dimentichiamo che vi è un sacramento della coscienza cristiana: la Cresima. Nella Cresima veniamo dichiarati maggiorenni nel regno di Dio – la gotata è appunto l’antico simbolo giuridico, col quale il giovane veniva liberato dalla tutela. E i doni dello Spirito Santo ci vengono dati, amnchè nel mondo in­gaggiamo la nostra responsabilità per il regno di Dio.
    Che cosa dobbiamo fare dunque, da que­sto punto di vista? Dobbiamo purificare il no­stro interno. Dobbiamo diventare attenti e pronti. Dobbiamo fare il nostro dovere. In­terpretar la situazione e corrispondervi nel modo migliore possibile. Dobbiamo tener l’à­nima aperta all’esperienza. Vivere bravamen­te la nostra vita. Non isfuggir l’evento che ci viene incontro; a meno che la nostra co­scienza non ci dica che in questo caso la solu­zione della situazione consiste appuntò nella fuga. Dobbiamo accettare i casi lieti e tristi; anche i tristi e proprio quelli. In poche parole dobbiamo aprir le braccia alla vita, come Dio ce l’ha destinata. Dobbiamo trar profitto da questa vita – dalla nostra vita; dilatando, correggendo, illuminando noi stessi.
    E non stancarci mai di impetrare la chia­rezza della coscienza. Così pregava Newmann:
    “Ho bisogno che Tu m’istruisca, giorno per giorno,
    su ciò che è l’esigenza e la ne­cessità di ogni giorno.
    Concedimi, o Signore, la chiarezza della coscienza,
    la quale sola può sentire e comprendere la Tua ispirazione.
    I miei orecchi sono sordi; non posso percepire la Tua voce.
    I miei occhi sono offuscati; non posso vedere i Tuoi segni.
    Tu solo può affina­re il mio orecchio, acuire il mio sguardo
    e purificare e rinnovare il mio cuore.
    Insegna­mi a star seduto ai Tuoi piedi
    e a prestare a­scolto alla Tua parola. Amen».
    E allora l’una cosa riceverà luce dall’altra. Oltre a questo è però possibile un’altra cosa: l’esercizio.Sull’argomento ci sarebbe molto da dire.
    Tutto il problema della formazione della co­scienza, il problema della formazione della vita interiore, sta qui.
    Tutte le questioni: come render l’occhio capace di distinguer la varia moltiplicità del reale e dei suoi valori? Come svegliare e irrobustire la forza di pe­netrare e d’improntare la situazione? Come educarmi alla larghezza e nello stesso tempo alla precisione? Come prosciogliere a poco a poco gli strati profondi del mio essere, affin­chè diventino liberi ed entrino in azione?
    Qui si tratta dei compiti più importanti del­l’educazione. Da questo vasto campo scegliamo una cosa sola: l’esercizio del raccoglimento.
    Tutti i maestri della vita interiore ne par­lano. Si può dire che, sotto un certo aspetto, tutta la formazione morale e spirituale si rias­sume nell’esercizio del raccoglimento. Su che si basa quest’esercizio?
    Si basa sul fatto che il nostro essere vivente è costruito in due direzioni: dall’ interno al­l’esterno e viceversa. Sulla cognizione dunque che vi è in esso superficie e profondità, moto di espansione verso il largo e di concentra­mento verso il mezzo. Sulla cognizione inoltre, che quello che è interiore, profondo, al cen­tro, è più importante; che l’uomo però in­clina all’ esteriorità, alla superficialità, alla di­strazione; che perciò il compito più urgente sta dalla parte, dove maggiore è il pericolo. E si tratta di un compito veramente gran­de, che decide di interessi supremi. Di che si tratti qui possiamo forse esprimerlo nei termi­ni seguenti:
    Si tratta anzitutto della cella interiore.
    Questa cella interiore esiste; la sfera inte­riore, nella quale posso ritirarmi, nella quale mi posso occupare degli oggetti, e dove sono, da solo a solo, con me stesso; là dove vengon prese le decisioni vitali, dove mi trovo con Dio, alla Sua presenza, sotto il Suo sguardo… Questa cella esiste e può diventare più am­pia, più profonda, più viva, più tranquilla, più sicura.
    Tutto ciò non è così naturale, come potrebbe apparire. Se ci chiedessimo con since­rità: Ho io in me una tal « cella interiore»? Ho io questa sfera opposta alla semplice este­riorità, nella quale posso esistere e vivere? ­credo che dovremmo spesso rispondere nega­tivamente. Dovremmo confessare di avere la sensazione che in noi tutto sia chiuso, concre­sciuto e impenetrabile. Comunque non riconosceremmo certo il caso nostro in ciò che i maestri dicono del mondo interiore: della sua segretezza e tranquilIità, della sua gradazione in profondità, della pienezza della sua vita in­tima, della su potenza; della grandezza del­le sue decisioni… Ecco qui dunque un com­pito da assolvere. Bisogna creare, ampliare, munire di volta la cella interiore. Il mondo in­teriore deve venir dischiuso.
    Quello che abbiamo detto della cella inte­riore include già un secondo concetto: la profondità.
    Che cosa significa il dire: un uomo è « pro­fondo”? Non vuoI dire che i suoi pensieri sia­no complicati e difficili da capire; nemmeno che i motivi del suo agire siano occulti e le sue mete nascoste, o aIcunchè di simile. La profondità è una proprietà specifica. Possia­mo esprimerla soltanto metaforicamente, ma abbiamo la sensazione precisa di che si tratta. Profondità significa una dimensione speciale, diversa da « quantità», o « estensione», o « complicazione». È una stratificazione verso l’interno, e precisamente in maniera, che gli strati, quanto più interni, tanto più diventano preziosi, nostri, delicati, viventi. Il pensiero più semplice può esser profondo, e i senti­menti più complicati, superficiali; il sentimen­to più forte può esser superficiale e la più lie­ve impressione, profonda. Anche questa pro.­fondità va conquistata, e chi l’ha ricevuta in dono deve coltivarla. Quando conosciamo un uomo da bambino e poi lo seguiamo nella sua gioventù e così avanti secondo che procede negli anni; se egli vive onestamente e fa il suo dovere, allora notiamo che la qualità. Di cui si è parlato sopra, si afferma in tutto il suo carattere, nelle sue parole, nelle sue azioni.
    Facciamo un passo innanzi: l’interna vi­gilanza.
    La sensibilità e la perspicacia per ciò che è giusto; per la pienezza e la varietà dell’essere ,e della situazione; per le gradazioni e le sfu­mature della realtà e dei valori. Di nuovo an­che qui una cosa che non è cosÌ naturale, come potrebbe sembrare. Quasi quasi può dir­si naturale il suo contrario: la cecità e l’an­gustia dello sguardo, l’ottusità del senso inte­riore, l’indolenza del cuore. Quella vigilanza importa, che si avverta la potenza e la pie­nezza dell’esistenza, che si abbia in sè la pas­sione per il bene e per il dovere, che si soffra sotto il peso dell’ imperfezione; significa che interiormente qualche cosa sia sempre pronto a scattare verso ciò che è giusto e buono… Anche questa piena chiarezza, sensibilità, pron­tezza è un compito. 

    Ed eccoci al raccoglimento nel senso più stretto :
    Che tutta la molteplicità delle forze venga energicamente disciplinata da un punto inte­riore; che tutta l’attività abbia un solo punto di partenza e, per vie spesso nascoste, ad esso ritorni; che la vita abbia un centro e con ciò un ritmo… Anche qui, se ci chiediamo: «Ho io ciò? Ha la mia vita qualche cosa che assomigli a un centro? Ed è ordinata verso questo centro?” – la risposta difficilmente sarà soddisfacente. La nostra vita è tutta esterio­rità. Nella nostra vita domina il caso. Le cose esteriori, secondo che ci si avvicinano, ci attirano a sè. Noi siamo in balia di quello che ci tocca di bene e di male. Le nostre forze si disperdono in mille oggetti. Anzi molti uomini non hanno nemmeno la più lontana sensazione di un centro. L’ esperien­za del proprio centro è ben determinata c non vive certo in molti, altrimenti la nostra cultura avrebbe un altro aspetto. Dunque un altro compito anche qui.
    E finalmente si potrebbe accennare anche alla spiritualizzazione:
    Che in noi si irrobustisca lo spirito; lo spi­rito, che è qualche cosa di diverso dalle cose materiali; di diverso da ciò che è solamente corporeo; di diverso dalla vita puramente sen­sitiva. Quello che sta in rapporti speciali col bene, con ciò che deve essere, con la verità, con l’amore, con la purità, con Dio. Che que­sto spirito cresca nell’ uomo, è ciò che de­termina il nostro valore umano. Che lo spirito tutto compenetri; signoreggi la vita dell’istin­to e la passione; che si esprima in tutto – se guardiamo attentamente, è proprio da ciò che dipende tutto quello, di cui testè abbiamo par­lato. Cella interiore, profondità, vigilanza, rac­coglimento e centro – sono espressioni diverse per dire che in noi lo spirito è robusto. Anche questo però non è cosa che venga da sè. Pro­nunciamo una volta attentamente la parola « io »! Se da questo io, da quello che io ho e sono venissero eliminate le cose che posseggo, gli organi del mio corpo, le sensazioni dei miei sensi; se cancellassi i miei concetti, le mie co­gnizioni, le mie abilità – al di fuori di tutto questo resterebbe ancora qualche cosa? La do­manda è fatta molto all’ingrosso, ma il senso è chiaro. Se cancello tutto questo, mi rimane ancora quel resto, per il quale tutto il sopra­detto è soltanto materia strumentale e mezzo di manifestazione? Quella tal cosa intima che in tutto ciò vive, che in ciò raggiunge il suo de­stino, decide della sua sorte, si afferma o fallisce? Ciò, da cui, in definitiva, dipende la mia dignità e la mia salvezza? Certo, lo so, questa cosa la c’è è lo spirito, la mia anima spi­rituale… Ma non è vero forse per l’appunto che per lo più ciò lo so soltanto, ma non lo vivo? Che l’anima spirituale dorme con quello che ha di più intrinseco? Deve pur esser così, altri­menti gli uomini sarebbero diversi da quelli che sono.
    Molto di quello che possiamo fare, per tra­durre in atto tutto questo, è espresso nella pa­rola: esercizio del raccoglimento.
    Vogliamo parlarne alquanto a lungo, pren­dendo le mosse dall’esterno, per addentrarci poi sempre più verso l’essenziale. Ma qui poco ci gioverebbe, se’ dovessimo limitarci a pen­sieri generali. Al principio del nostro ritrovo ci siamo accordati di voler parlare di « ciò che dobbiamo fare». Perciò vorrei venire al pratico. Spetterà poi a voi di prender posizione in questo campo. Vorrei però ricordarvi che qui si tratta di cose dell’esperienza, delle quali, a sua volta, si può giudicare soltanto in base all’ esperienza. Che dunque premessa per un retto giudizio è il fare.
    La forma più ovvia del raccoglimento sa­rebbe certo l’ordine. Ordine della vita e del lavoro quotidiani, degli oggetti in camera e in casa, delle occupazioni nel corso della gior­nata e dei giorni; della lettura, dei pensieri e così via. L’ordine raccoglie.
    Ma di ciò basti un cenno.
    Più profonda è l’efficacia di quella che si po­trebbe chiamare l’educazione dei sensi e del­l’attenzione.
    Socrate ad un padre, che veniva a chiedergli consiglio a cagione di un suo figliuolo, disse una volta, sembrargli strano che gli uomini” mentre si guardan bene dal mangiar cibi gua­sti, sapendo che non è indifferente quello che introducono nello stomaco, non si facciano poi alcuno scrupolo di riempirsi l’anima di pen­sieri perversi. Questo è strano davvero. Noi abbiamo un’igiene del mangiare, ma non du­bitiamo neppure, che vi possa essere anche una igiene del vedere, dell’ ascoltare, del leggere. Dobbiamo lasciar entrare in noi proprio tutto? Facciamo una volta ]a prova: dopo aver attra­versata ]a città, passando per vie frequentate, davanti a persone e a vetrine, esaminiamo il nostro interno per vedere che aspetto abbia. Che guazzabuglio di impressioni! Che disordine di pensieri! Che altalena di emozioni e di desi­deri! Che inquietudine e che malcontento! Ed anche quante brutture! È proprio necessario che sia così? Qui è al suo posto ciò che l’ ascetica chiama la «custodia dei sensi», la disciplina dell’ attenzione.
    Esercitare il raccoglimento vorrebbe dunque dire che qui si intervenga. Che non si lasci en­trare tutto quello, che batte alla porta dei sensi e dell’attenzione; che si sappia distinguere fra il bene e il male, fra ciò che è nobile e ciò che è ignobile, fra quello che ha valore e ciò che non vaI nulla, fra quello che porta consapevolezza e ordine e ciò che crea soltanto confusione e trascina in basso. Un simile esercizio potrebbe dunque essere, a mo’ d’esempio, questo:
    Quando vado per le vie voglio rimanere pa­drone di me stesso e non permetto che ogni affisso attragga il mio sguardo. Conservo la mia indipendenza e non mi lascio attirare da ogni vetrina. Mi rendo interiormente indipendente da tutto quel tramestio di gente, di veicoli, di figure, di chiasso e di calca, e non permetto che il mio interno venga distratto da ogni cosa che abbia dell’insolito. In ciò mi esercito, e torno ad esercitarmi continuamente. Con tale esercizio apprendo l’arte di compiere un giro in città senza danno e di arrivare alla mia meta con coscienza incolume e tranquilla.
    Esercizio del raccoglimento sarebbe anche il non permettere che un giornale riversi nel mio interno tutto quel guazzabuglio di ciar­pame politico, di cenciume spirituale, di cro­naca nera e sensazionale, di vero e di falso, di bello e di volgare, di pettegolezzo e di al­tro ancora! Dovrei dunque apprendere a sce­glier dal giornale solo quello che mi riguarda, con rapidità e con sicurezza, e non appena esso mi ha reso questo servizio tutt’ altro che importante, buttarlo via e metter mano a qualche cosa che meriti maggiormente il nostro scarso tempo e le nostre scarse energie.
    Si potrebbe così esemplificare a lungo. Eser­cizio del raccoglimento significherebbe dun­que che di fronte al disordine del caso, alle pressioni dti destra e da sinistra, alla folla del­le impressioni e delle vicende, a tutto ciò che ci turba, ci eccita e ci inquina, sappiamo di­ventare indipendenti. Che di fronte a tutto im­pariamo a conservar la nostra calma. Che sap­piamo passare al vaglio le nostre impressioni. Che troviamo un piacere, anzi uno sport molto nobile, nell’ingaggiar la lotta contro la pre­potente barbarie chc ci circonda; la lotta per non essere lo zimbello del caos culturale che ci attornia, e per diventare al contrario liberi padroni di noi stessi.
    E non soltanto col vagliare le cose e col­l’eliminare di tutto ciò che non è nè utile nèbuono. Ma anche e innanzi tutto col rivolge­re la nostra attenzione interiore a qualche cosa di essenziale: ad un pensiero che va ap­profondito, ad una questione che va chiarita; ad un uomo, o ad una cosa che vogli~!mo ca­pire… Ma di ciò diremo di più fra poco.
    Ora facciamo un passo avanti e più adden­tro: eccoci alla solitudine ed al silenzio.
    Noi siamo schiavi non soltanto delle im­pressioni, ma anche degli uomini. Abbiamo istinti da mandra. So che esiste anche la misantropia e, certo, non è il caso di coltivarla. C’è il destino della solitudine, che non trova nessuno con cui possa convivere. Nemmeno di questo intendiamo parlare. Parliamo di qual­che cosa che non ha nulla di tragico, ma è invece estremamente miserabile, dell’istinto da mandra, troppo diffuso fra gli uomini; di quel bisogno di sentire intorno a sè sempre del chiasso; di dover sentir sempre chiacche­rare; di non saper riservar nulla per noi soli e di non saper da noi stessi venir a capo di nulla.
    Il raccoglimento sarebbe qui l’esercizio del­ la solitudine e del silenzio. Come sarebbe dunque a dire: Che non si corra subito da altri, ma si sappia rimaner soli. E non per altro motivo che per cavarsela Una buona volta da soli. Che si sbrighi una fac­cenda da soli, pur avendo alla mano qualcu­no da poterne discorrere; e ciò all’unico sco­po di acquistare una maggiore indipendenza di giudizio e di deliberazione. Esercizio del raccoglimento sarebbe il tener per sè una sto­ria o un avvenimento, o una trovata spiritosa, o un’ osservazione calzante, che corra alla men­te. Tutto ciò può costare del bel sacrificio. Ma superando questo istinto sfrenato di correr da altri, di parlare o di ascoltare a parlare, si gua­dagna in profondità interiore.
    Poi la ricerca della quiete e della solitudi­ne: scegliere la via più modesta, anzichè quel­la ricca di vetrine e di lampioni, fare un pas­seggio da solo, anzichè in compagnia; rima­nersene una sera tranquilli a casa, invece che andare in visita; rimaner soli una giornata in­tera, a casa, oppure, ciò che è particolarmen­te bello, all’ aperto. Forse addirittura alcuni giorni di ritiro. Tali periodi portano refrigerio e concentrazione. Se ne esce del tutto puri­ficati.
    E, a sua volta, che questa quiete sia ricm­pita con qualche cosa di positivo: con un buon pensiero, con un buon libro, con un proble­ma. Teniamo presente tutto questo. Torne­remo sull’argomento, per spiegarne il signi­ficato.
    Al di là di quello che si è detto conduce la tacita attenzione rivolta al proprio interno.
    Essa non è altro che un’inclinazione gene­rale a. sostare di tanto in tanto e a riflettere sulla portata delle cose, a sottrarsi talvolta all’incalzante tumulto delle cose che passano, e a tender l’orecchio a ciò che sta avvenendo. È un assuefarsi a dar degli sguardi retrospettivi, per esaminare il proprio operato; a ri­guardare il passato non come defÌnitivamente liquidato, per la sola circostanza esteriore ch’è trascorso, ma di farlo agire su di noi dai suoi strati più profondi…­
    Guglielmo Raabe dice una volta quali let­tori egli desideri per sè: «Ecco, egli dice, che si sta fabbricando una casa, e la gente che os­serva fa i suoi commenti. L’uno critica, l’al­tro loda, un terzo pensa come l’ ammobilie­rebbe se fosse sua. Ognuno considera la fab­brica in pietra e in legno e la valuta dal gu­sto e dall’utile che potrebbe cavarne. Ma c’èanche uno, il quale pensa qual vita si svolge­rà in quelle camere, qual destino, quali dolo­ri, quali gioie vi passeranno. Costui – dice il grande novelliere – che vede le cose in tal modo, è il lettore che mi desidero).
    Qualche cosa di simile intendiamo espri­mere anche qui. Una specie di gravitazione, vorremmo dire, verso l’interno; la quale non deve però ostacolare un’ energia consapevole, ma solo dare all’energia e all’azione un valore e un legame con l’interno.
    In altri termini si potrebbe dire: una spe­cie di attenzione rivolta all’ al di là. Rainer Maria Rilche esce una volta in questa profonda invocazione: « Dio, tu, mio vicino… « Sono in continuo ascolto, dammi un segno, « Ti sono assai vicina. « Solo una parete sottile ci separa…».
    Anche questo serve a render chiaro quello che intendiamo dire. Si può viver senza dub­bio anche altrimenti. Si può vivere assorbiti nell’attualità che si tocca con mano, affidati aUe sue ben note forze, nella chiusa èerchia delle cose visibili e dei fatti dell’ esperienza, e con ciò punto e basta. Si può però anche man­tener vivo in noi il pensiero che non è tutto qui. Che attiguo a noi, separato da una sola parete, abita l’Altro. Che lungo tutta la fron­tiera del nostro essere Dio ci è d’accanto. Si può tener desta la consapevolezza che nel no­stro proprio interno, là dove confiniamo col nulla, sta il Dio vivente.
    Quì non c’è nulla di particolare da « fare,,; non riflessioni e non sforzi speciali. Basta lo star sempre e tranquillamente in ascolto, un esser presenti a se stessi e un mantenere lieve­mente i contatti.
    Fin qui si trattava di premesse del racco­glimento. Veniamo ora al suo esercizio nel senso più rigoroso della parola. Esso può as­sumere varie forme, che però in fondo rie­scono tutte alla stessa cosa.
    E
    sso può consistere in quanto segue: Nelle nostre azioni e aspirazioni di tutti i giorni noi siamo trasportati dalla corrente im­petuosa degli avvenimenti. «Raccoglimento» significa qui l’uscire da questo vortice e metter­si in pace. Portar calma nel nostro essere, nelle nostre forze, nella nostra volontà. Far pene­trare la pace sempre più profondamente in noi stessi. Noi facciamo sempre questo o quello, siamo sempre in attività, progettiamo, voglia­mo, organizziamo, esercitiamo. Quando non facciamo niente, diventiamo nervosi e intorno a noi sentiamo il vuoto. La voce ha come un’eco cupa; ci si sente a disagio e ci si an­noia. E a forza di fare e di agire ammazziamo la nostra esistenza. Idolatriamo l’attività e perdiamo l’uomo.
    Raccoglimento significa qui che sappiamo, una buona volta, non tanto fare, quanto vi­vere. Avere un’ esistenza tranquilla. Un’esistenza piena, libera dall’ ossessione del fare e del volere.
    Noi tendiamo sempre ad una meta, poi ad un’altra ulteriore, e così di seguito. Sempre verso qualche cosa che non esiste. Sbrighiamo una cosa e la gettiamo dietro le spalle. Vivia­mo gli avvenimenti, rapidamente, e già essi non sono più. Così viviamo sempre scivolando fra quello che non è più e quello che non è ancora.
    Raccoglimento significa qui creare il pre­sente, sostare e divenir presenti. Presenti in noi stessi, realizzare l'”oggi” per quanto è concesso alla nostra instabilità; almeno averne l’intenzione e la disposizione. Vivere tranquillamente l’attimo fuggente è appunto raccoglimento.
    Le nostre forze sono disperse fra molti og­getti. La nostra attenzione viene attratta da mille cose. La nostra volontà e i nostri desi­deri sono incatenati in mille modi. Non siamo in possesso di noi stessi, ma in balia delle cose. La molteplicità delle cose è anzi penetrata in noi stessi, come ne fanno fede la varietà dei nostri pensieri, il contrasto dei nostri desideri, l’irrequietudine dei nostri sentimenti.
    Raccoglimento significa che richiamiamo noi a noi stessi; le nostre forze dalla disper­sione all’unità. Che superiamo la confusione e ristabiliamo una tranquilla semplicità. Che sgombriamo il guazzabuglio, per attenerci a pochi, forti e buoni pensieri. Che semplifi­chiamo i nostri desideri; impariamo a ripo­sare in noi stessi senza brame, a diventar tran­’luilli e sereni. Che apprendiamo ad esser pa­-droni di noi stessi.
    Il nostro interno è spesso oppresso da preoc­cupazioni, agitato da passioni e accascÌato dal. le contrarietà e dalle sofferenze.
    Quì il raccoglimento significa che interior­mente torniamo a noi stessi. Che in noi si levi qualche cosa di profondo, che a tutte que­ste cose per noi ripugnanti dica: « Questo ve­ramente non mi appartiene. Devo sopportar­lo e lo farò lealmente, ma non sono tutt’uno con esso. C’è in me qualche cosa al di là di tutto questo. Questo qualche cosa è sereno, è forte, è l’essere vivente del mio spirito. Que­sto vive in sè, realmente, nella sua indistrut­tibile sostanzialità. Raccoglimento significa che io cerchi il contatto con questo centro spiri­tuale vivente, il contatto da me stesso a me stesso. E che di lì attinga l’energia e la fiducia per rinnovarmi. Il Vangelo parla della luce interiore che. è in noi e può « rischiarar tut­to ». Questa non è immagine, è realtà. Lo spi­rito è luce sostanziale. E chi sa liberare lo spio rito, ne rimane illuminato. « Tutto il corpo illuminato», dice il Signore.
    Di questo passo si potrebbe continuare un pezzo…
    Ma non ci rincresca di venire al concreto.

    Come possiamo compiere quest’esercizio?

    La sera, quando abbiamo fornita la nostra opera quotidiana, potremmo ritirarci. Potrem­mo metterci a sedere; Meglio ancora se in gi­nocchio; perchè lo stare in ginocchio esprime quiete e insieme contegno. Poi potremmo crea­re il silenzio; intorno a noi e in noi. Potrem­mo poi dirci: “Ora sono tranquillo; perfet­tamente tranquillo; fino nel più intimo della mia anima”. Potremmo cercar di sgombrare del tutto il nostro interno e di metterci in una calma assoluta. Quando facciamo così, ci ac­corgiamo, e solo allora adeguatamente, quan­to sia profonda l’irrequietudine dei nostri ner­vi. Mille cose si affacciano e vogliono esser fatte. Cose dimenticate chiedono riparazione, preoccupazioni si affacciano, progetti si incal­zano… Via tutto questo! Bisogna acquistar la calma e non con uno sforzo di volontà, ma con una lenta liberazione interiore. E lasciar discendere il silenzio, sempre più giù, nel pro­prio io. I pensieri di tutte le specie – via! I desideri senza pace – via! Non con un atto im­perioso della volontà, bensì mettendoli silenzio­samente e insieme però anche risolutamente alla porta. Non pensare nè all’ieri, nè al domani. Essere del tutto presente, del tutto qui. E così sostare un po’; questo solo porta già risveglio interiore, padronanza di sè, ristoro e rinno­vamento.
    Ma poi, a misura che la nostra padronanza interiore diventa più sicura, dobbiamo portare in questo silenzio, in questa presenza a noi stessi, in questo raccoglimento, qualche cosa che venga dalla sfera del bene. Riflettiamo al significato di una nostra azione passata: che senso può veramente aver avuto? E vi abbia­mo fatto buona prova? O avremmo dovuto agi­re altrimenti? L’azione cattiva può venir ri­parata, in certo modo rigenerata, nel penti­mento e nella sincerità della conversione. Op­pure in questo silenzio portiamo qualche cosa che è ancor da fare: un dovere, un problema. Apriamoci al bene: « Lo voglio, sono pronto, sinceramente, fino nel più profondo delle mie viscere. Che debbo fare? ». In certe per­plessità, nelle quali non si sa a che santo votarsi – quando internamente ci si mette in calma” e si supera la ribellione contro il bene, non con la violenza, ma con una liberazione inte­riore e ci si mette in buone disposizioni – allo­ra, spesso tutto d’un tratto, si sa che cosa con­venga fare. Poichè quello che cagionava l’incer­tezza, non erano in fondo solidi argomenti in contrario, ma cattiva volontà. Oppure portiamo con noi nella nostra quiete una parola profon­da, un pensiero sostanziale, una buona lettura.
    Questa è la cella conveniente sovrattutto alla Sacra Scrittura: la cella della meditazione. Qui è la «dimora» per Iddio. Quando mi metto in pace e dico: lo sono qui, piena­mente presente – allora si affaccia quasi spon­taneo il pensiero: È qui Dio, il Dio vivente. Pregare significa elevare il cuore a Dio, signi­fica cercare il cospetto di Dio, con lo sguardo interiore, affinchè il movimento del nostro cuore e la parola del nostro spirito trovino il loro posto. Questa cosa profonda, che consiste nell’orientamento verso Dio, nel muoversi ver­so di Lui, e nel giungere presso di Lui, nel parlarGli a tu per tu – tutto ciò è frutto di un tal raccoglimento. « Quanto tu preghi, prepara il tuo cuore, e non essere come un uomo, che tenta Dio», dice la Scrittura. Chi si prepara in tal modo, sente sgorgare quasi spontanea la preghiera dal suo cuore.
    Quì convien far attenzione ad una cosa im­portante. Dell’ esercizio del raccoglimento si può anche abusare. Qui si tratta di realtà, di forze reali, di profondità reali. Queste forze possono venire evocate e cagionare anche dei guai; le profondità possono venir spalancate ed esporre a dei pericoli. Ciò può avvenire per­chè tali forze non vengono dirette ad uno scopo e allora cagionano rovina, come avviene di una sorgente che si faccia scaturire, senza poi incanalarla. Ovvero perchè tutto vien fat~ to per vanità; per dilettantismo, per capriccio, per avidità di sensazione, per qualche deside­rio di potenza. Le correnti occultistiche e pa­rapsicologiche sono spesso un criminoso gioco con tali forze. Quello che qui facciamo, dob­biamo farlo con moderazione e con calma. E – ciò che è di importanza decisiva – tarlo con intenzioni rette e pure. Quello stesso rac­coglimento, che rivolto, ad esempio, ad una parola della Scrittura, è sorgente di vita santa, cagiona gravi malanni, quando è ozioso e vano, oppure ha mire false e capricciose. La stessa concentrazione, che è fattore di ordine e di risveglio, quando, ad esempio, è unita al pentimento per un errore commesso e alla sin­cera disposizione di compiere un dovere futu­ro, crea invece della confusione, quando mira a qualche scopo perverso o fantastico.
    Questo raccoglimento è proprio il vero luo­go per la parola di Dio, la quale deve appun­to essere ascoltata in silenzio e in adorazione, accolta nella quiete profonda del cuore. Per­chè la parola di Dio non è una semplice co­municazione, ma anche una forza genera­trice di vita santa.
    Il raccoglimento è la dimora per Dio stesso. Così possiamo fare la sera. Così anche al mattino. Qui dieci minuti possono far molto. Tutto quello che si fa e si sopporta durante il il giorno riceve l’impronta di tutt’altra fiducia e purezza, quando promana da un tal racco­glimento.
    Così al mattino è bene riflettere: « Eccomi qui! Proprio io; colle mie forze; colla vigi­lanza del mio spirito; col calore e colla pron­tezza del mio cuore. Dio pure è qui presente. lo vengo da Lui ed ho la Sua grazia in me. La sua chiamata alla santità mi incalza nel mio interno, perchè la traduca in atto… lo so che mi accadrà questo o quello… ed ora af­fronto la mia giornata armato di quella forza interiore. Voglio far bene la mia parte ».
    Poi a sua volta, la sera, la resa dei conti in­nanzi al bene vivente, al Dio Santo: « Come ho passata la giornata? Ho dato ascolto alla voce del bene? Vi ho corrisposto? »… Rendi­conto, pentimento, rinnovamento del cuore… E poi abbandono totale nelle mani di Dio, che è il padrone di ogni riposo.
    E sarà bene che anche durante la giornata si torni a prender contatto, di tanto in tanto, con l’ ambiente interiore, che si rinnova ogni mattina e ogni sera. Anteo, figlio della terra, era invincibile, perchè, ogni qual volta toccava la madre, acquistava nuove forze. Così è an­che dello spirito. Sia come un tocco leggero alle porte di quel mondo interiore; special­mente quando ci si imbatte in qualche cosa di difficile e di imbarazzante, che esige il massi­mo sforzo. Ciò porta ogni volta ad un rinno­vamento del nostro slancio e delle nostre e­nergIe.
    Altre cose di questo genere rimarrebberò ancor da dire. Tuttavia quanto si è detto po­trà bastare. Tutto questo – e aggiunto a que­sto ancora ciò di cui abbiamo parlato al prin­cipio: l’interno e segreto processo di matura­zione del nostro essere, l’incessante lavoro del­l’esperienza, l’accettazione coraggiosa della vita quotidiana e di ciò che essa ci porta – tutto questo fa sbocciare a poco a poco dentro di noi il centro vitale; fa sì che lo spirito si rinvigo­risca e compenetri tutto il nostro essere; che la cella interiore si apra; che il fondo del no­stro io si richiari; e l’energia si concentri e di­venti efficace. E cosÌ la «coscienza» diviene a poco a poco quello che deve essere secondo la sua es­senza: la voce vivente della santità di Dio in noi.

     

     

     

    Posted by attilio @ 14:57

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