L’ESERCIZIO DEL RACCOGLIMENTO
di Romano Guardini
Abbiamo cercato di conoscere la natura del bene e della coscienza. Abbiamo compreso il bene anzitutto nella sua pura essenza, come infinito nel suo contenuto e semplice nella sua struttura. La coscienza poi come quell’organo interiore, mediante il quale io conosco che vi è un bene; del quale questo bene si serve per spingermi ad attuarlo; il quale mi fa sentire la responsabilità, che il bene venga attuato. Siccome però questo bene è infinito e semplice ad un tempo, io non posso comprenderlo immediatamente come dovere pratico. Bisogna che si specifichi; che si scomponga in singoli doveri di contenuto parziale, affinchè io possa attuarlo. Ora questo avviene nella situazione, nell’intreccio delle realtà e degli avvenimenti, quale si rinnova continuamente intorno a me, e a me guarda, e da me vuoI ricevere interpretazione e forma.
Quello che di volta in volta mi viene indicato come giusto dalla situazione oggettiva questo è il bene. Coscienza poi significa la capacità di riconoscere quello che ci vien presentato come tale e di dargli un’ impronta per l’azione.
Già a questo stadio il concetto della coscienza aveva qualche cosa di profondo e di interiore. Lo abbiamo espresso nella proposizione: “io ho cognizione, con me stesso, intorno al bene”. Questa interiorità proveniva dal fatto che il bene coinvolge il s.enso ultimo di tutto, compreso il senso ultimo della mia esistenza. La salvezza dunque, l’eterno destino. E precisamente il mio destino, di cui nessuno può sgravarmi e che nessuno può rapirmi.
Questo carattere d’interiorità si è approfondito maggiormente nella seconda conferenza. In essa abbiamo seguita la coscienza giù giù fino al suo fondo religioso. “Coscienza” non significa affatto soltanto un organo etico; a ciò l’ha ridotta appena l’età moderna e più che altrove, a quanto sembra, nei paesi di lingua tedesca. In sè e per sè “coscienza” significa l’organo per il dovere in genere, per ciò che è degno di essere, con manifesta tendenza alla religione. Si può dimostrare storicamente che parola e significato di “coscienza” stanno in nesso con gli ultimi strati della coscienza religiosa:col “fondo dell’anima” e col “filo dello spirito”.
Vedemmo inoltre, che il bene, in fondo, è la vivente santità di Dio stesso; aver cognizione del bene quindi e della sua esigenza, è aver cognizione della santità di Dio e della sua legge. L’organo ne è la coscienza. E la situazione, dalla quale il bene viene specificato, è disposizione dello stesso Iddio, il guale con il suo comando preme sul cuore, affinchè questo voglia accogliere in sè ed attuare il bene-santità. Fin dall’eternità il mondo è nelle mani di Dio. Dall’eternità Egli coordina il tutto e il singolo. Il singolo, affinchè con altri singoli costruisca il tutto; questo tutto poi, perchè diventi piattaforma, contenuto, compito per il singolo. Noi abbiamo rassomigliato il rapporto di ogni singolo con l’universo ad un’ elisse. Essa ha due fuochi: uno sta in me, l’altro nel tutto, davanti e intorno a me. Ogni qual volta v’è un uomo che dice « io », si tende un nuovo rapporto fra i due fuochi. Che in tal modo l’universo e l’individuo entrino in vicendevoli rapporti, che l’ evoluzione dell’universo e il mio sviluppo siano posti in relazione strettissima, per disposizione della sapienza e dell’amore di Dio, – questo non è altro che la Provvidenza. E la Provvidenza di Dio entra in azione, continuamente, nella situazione. In essa si specifica l’infinita esigenza della sua santità.
La coscienza poi è la cognizione di questo rivelarsi e specificarsi del volere divino nella disposizione della Provvidenza.
lo non sono un “caso” fra i tanti, ma qualche cosa di unico. Non sono soltanto individuo, ma anche persona. Non porto in me soltanto un’ essenza generica, ma un’ essenza che ha l’impronta dell’unicità: un nome. Questo nome l’ho da Dio. Sono nel mondo, ma non mi confondo con esso. Con ciò che ho di più intimo vengo immediatamente da Dio e sto in rapporto diretto con Lui. Egli mi ha creato come questo tal dei tali. Questo nome che mi ha imposto non è racchiuso nella natura generica “uomo”. Non è affatto incluso nella compagine del mondo, e Dio solo lo sa. Per cui io posso conoscere il mio nome, conoscere cioè quello che ho di più mio, solo ricavandolo di là, dove è custodito, cioè da Dio. I vari strati del mio essere possono diventar realtà cosciente con più o meno facilità. Quanto più nobili e più profondi, tanto più difficilmente. L’ultimo diventa reale soltanto nell’ incontro con Dio. Questa cognizione intorno a Dio; questa cognizione di ciò che intercede tra Lui e me soltanto; questo rivelarmi a me stesso al suo cospetto, è la coscienza nella sua ultima profondità religiosa. lo debbo fare la mia parte nel mondo in corrispondenza al nome che da Lui ho ricevuto. E tale divento solo a patto di compiere la volontà di Dio a mio riguardo. Ma questa volontà mi vien presentata, di volta in volta, dalla situazione.
Ciò trova la sua piena espressione cristiana nella rivelazione della nostra dignità di figli di Dio. Come questo tal dei tali io vengo creato e ricevo un nome; come questo tal dei tali vengo rigenerato e ricevo un nuovo nome; vengo battezzato per divenir figlio del padre. L’Apocalisse esprime ciò che qui mi viene dato, che rimane ancora occulto, ma un giorno diverrà manifesto, nella proposizione: «Voglio dargli un sasso bianco con su scritto il nuovo nome, che nessuno conosce, se non colui che lo riceve».
Ora dobbiamo domandarci: Tutto questo è forse la cosa più naturale del mondo? È cosa ormai attuata e assicurata? che procede automaticamente?
Evidentemente no; come risulta da tutta la nostra considerazione. Più d’una volta abbiamo rilevato che la coscienza non è un apparato perfetto che funzioni senza bisogno d’altro, bensÌ qualche cosa di vitale, che diviene e cresce, come tutto quello che vive in noi. Noi stessi vi siamo dentro, con tutte le nostre manchevolezze. Perciò essa può divenir quello che deve essere solo a poco a poco.
Di qui la nostra odierna domanda: Questo divenire procede da sè? Ovvero possiamo contribuirvi in qualche modo? Che se lo possiamo, in tal caso anche lo dobbiamo.
Vorrei fissare un primo concetto: Ciò che ha ragione di termine e di proprietà intrinseca non può venir fatto. Il perfezionamento intrinseco dena coscienza, dal punto di vista naturale, è cosa degli anni e dell’ esperienza; dal punto di vista della fede, è cosa della grazia.
Anche per la coscienza si tratta in fondo di un processo di maturazione. Che il nostro sentimento per il bene diventi più robusto e più chiaro; che la coscienza della responsabilità in questo riguardo diventi più precisa; che il nostro fiuto del diverso valore della situazione si affini; che lo sguardo per il suo definitivo significato e la capacità di ridurne il molteplice contenuto all’ unità della sua esigenza e la forza di decidere e di mantenere la decisione presa diventino più sicuri – il progresso in tutto ciò è cosa della maturazione interiore, è cosa dell’esperienza. Poichè quanto importante è l’aumento della sensibilità interiore, il raccoglimento e il consolidamento interiore, altrettanto lo è che noi rinnoviamo continuamente il nostro contatto con la molteplicità delle cose e degli avvenimenti. Con ciò noi veniamo in possesso di una gran quantità di imagini, immagazziniamo dei fatti e allarghiamo le possibilità di confronto. I nostri criteri di misura, i nostri punti di vista, le nostre abitudini, attraverso la nostra esperienza, vengono passati continuamente al vaglio della critica, analizzati e corretti.
Maturazione interiore ed esperienza esteriore si aiutano a vicenda. Lo stesso vale anche per la vita cristiana: l’avvicinarsi a Dio; la disposizione a lasciarci istruire da Dio; la serietà dell’intesa con Lui; il comprender sempre più profondamente se stessi nel dovere, che ci è imposto – tutto questo è frutto di maturazione e dell’ esperienza ad un tempo. Frutto di incremento naturale di vita, ma sovrattutto cosa della grazia. E la grazia dobbiamo tenerci pronti a riceverla e ad impetrarla con incessante preghiera. E non dimentichiamo che vi è un sacramento della coscienza cristiana: la Cresima. Nella Cresima veniamo dichiarati maggiorenni nel regno di Dio – la gotata è appunto l’antico simbolo giuridico, col quale il giovane veniva liberato dalla tutela. E i doni dello Spirito Santo ci vengono dati, amnchè nel mondo ingaggiamo la nostra responsabilità per il regno di Dio.
Che cosa dobbiamo fare dunque, da questo punto di vista? Dobbiamo purificare il nostro interno. Dobbiamo diventare attenti e pronti. Dobbiamo fare il nostro dovere. Interpretar la situazione e corrispondervi nel modo migliore possibile. Dobbiamo tener l’ànima aperta all’esperienza. Vivere bravamente la nostra vita. Non isfuggir l’evento che ci viene incontro; a meno che la nostra coscienza non ci dica che in questo caso la soluzione della situazione consiste appuntò nella fuga. Dobbiamo accettare i casi lieti e tristi; anche i tristi e proprio quelli. In poche parole dobbiamo aprir le braccia alla vita, come Dio ce l’ha destinata. Dobbiamo trar profitto da questa vita – dalla nostra vita; dilatando, correggendo, illuminando noi stessi.
E non stancarci mai di impetrare la chiarezza della coscienza. Così pregava Newmann:
“Ho bisogno che Tu m’istruisca, giorno per giorno,
su ciò che è l’esigenza e la necessità di ogni giorno.
Concedimi, o Signore, la chiarezza della coscienza,
la quale sola può sentire e comprendere la Tua ispirazione.
I miei orecchi sono sordi; non posso percepire la Tua voce.
I miei occhi sono offuscati; non posso vedere i Tuoi segni.
Tu solo può affinare il mio orecchio, acuire il mio sguardo
e purificare e rinnovare il mio cuore.
Insegnami a star seduto ai Tuoi piedi
e a prestare ascolto alla Tua parola. Amen».
E allora l’una cosa riceverà luce dall’altra. Oltre a questo è però possibile un’altra cosa: l’esercizio.Sull’argomento ci sarebbe molto da dire.
Tutto il problema della formazione della coscienza, il problema della formazione della vita interiore, sta qui.
Tutte le questioni: come render l’occhio capace di distinguer la varia moltiplicità del reale e dei suoi valori? Come svegliare e irrobustire la forza di penetrare e d’improntare la situazione? Come educarmi alla larghezza e nello stesso tempo alla precisione? Come prosciogliere a poco a poco gli strati profondi del mio essere, affinchè diventino liberi ed entrino in azione?
Qui si tratta dei compiti più importanti dell’educazione. Da questo vasto campo scegliamo una cosa sola: l’esercizio del raccoglimento.
Tutti i maestri della vita interiore ne parlano. Si può dire che, sotto un certo aspetto, tutta la formazione morale e spirituale si riassume nell’esercizio del raccoglimento. Su che si basa quest’esercizio?
Si basa sul fatto che il nostro essere vivente è costruito in due direzioni: dall’ interno all’esterno e viceversa. Sulla cognizione dunque che vi è in esso superficie e profondità, moto di espansione verso il largo e di concentramento verso il mezzo. Sulla cognizione inoltre, che quello che è interiore, profondo, al centro, è più importante; che l’uomo però inclina all’ esteriorità, alla superficialità, alla distrazione; che perciò il compito più urgente sta dalla parte, dove maggiore è il pericolo. E si tratta di un compito veramente grande, che decide di interessi supremi. Di che si tratti qui possiamo forse esprimerlo nei termini seguenti:
Si tratta anzitutto della cella interiore.
Questa cella interiore esiste; la sfera interiore, nella quale posso ritirarmi, nella quale mi posso occupare degli oggetti, e dove sono, da solo a solo, con me stesso; là dove vengon prese le decisioni vitali, dove mi trovo con Dio, alla Sua presenza, sotto il Suo sguardo… Questa cella esiste e può diventare più ampia, più profonda, più viva, più tranquilla, più sicura.
Tutto ciò non è così naturale, come potrebbe apparire. Se ci chiedessimo con sincerità: Ho io in me una tal « cella interiore»? Ho io questa sfera opposta alla semplice esteriorità, nella quale posso esistere e vivere? credo che dovremmo spesso rispondere negativamente. Dovremmo confessare di avere la sensazione che in noi tutto sia chiuso, concresciuto e impenetrabile. Comunque non riconosceremmo certo il caso nostro in ciò che i maestri dicono del mondo interiore: della sua segretezza e tranquilIità, della sua gradazione in profondità, della pienezza della sua vita intima, della su potenza; della grandezza delle sue decisioni… Ecco qui dunque un compito da assolvere. Bisogna creare, ampliare, munire di volta la cella interiore. Il mondo interiore deve venir dischiuso.
Quello che abbiamo detto della cella interiore include già un secondo concetto: la profondità.
Che cosa significa il dire: un uomo è « profondo”? Non vuoI dire che i suoi pensieri siano complicati e difficili da capire; nemmeno che i motivi del suo agire siano occulti e le sue mete nascoste, o aIcunchè di simile. La profondità è una proprietà specifica. Possiamo esprimerla soltanto metaforicamente, ma abbiamo la sensazione precisa di che si tratta. Profondità significa una dimensione speciale, diversa da « quantità», o « estensione», o « complicazione». È una stratificazione verso l’interno, e precisamente in maniera, che gli strati, quanto più interni, tanto più diventano preziosi, nostri, delicati, viventi. Il pensiero più semplice può esser profondo, e i sentimenti più complicati, superficiali; il sentimento più forte può esser superficiale e la più lieve impressione, profonda. Anche questa pro.fondità va conquistata, e chi l’ha ricevuta in dono deve coltivarla. Quando conosciamo un uomo da bambino e poi lo seguiamo nella sua gioventù e così avanti secondo che procede negli anni; se egli vive onestamente e fa il suo dovere, allora notiamo che la qualità. Di cui si è parlato sopra, si afferma in tutto il suo carattere, nelle sue parole, nelle sue azioni.
Facciamo un passo innanzi: l’interna vigilanza.
La sensibilità e la perspicacia per ciò che è giusto; per la pienezza e la varietà dell’essere ,e della situazione; per le gradazioni e le sfumature della realtà e dei valori. Di nuovo anche qui una cosa che non è cosÌ naturale, come potrebbe sembrare. Quasi quasi può dirsi naturale il suo contrario: la cecità e l’angustia dello sguardo, l’ottusità del senso interiore, l’indolenza del cuore. Quella vigilanza importa, che si avverta la potenza e la pienezza dell’esistenza, che si abbia in sè la passione per il bene e per il dovere, che si soffra sotto il peso dell’ imperfezione; significa che interiormente qualche cosa sia sempre pronto a scattare verso ciò che è giusto e buono… Anche questa piena chiarezza, sensibilità, prontezza è un compito.
Ed eccoci al raccoglimento nel senso più stretto :
Che tutta la molteplicità delle forze venga energicamente disciplinata da un punto interiore; che tutta l’attività abbia un solo punto di partenza e, per vie spesso nascoste, ad esso ritorni; che la vita abbia un centro e con ciò un ritmo… Anche qui, se ci chiediamo: «Ho io ciò? Ha la mia vita qualche cosa che assomigli a un centro? Ed è ordinata verso questo centro?” – la risposta difficilmente sarà soddisfacente. La nostra vita è tutta esteriorità. Nella nostra vita domina il caso. Le cose esteriori, secondo che ci si avvicinano, ci attirano a sè. Noi siamo in balia di quello che ci tocca di bene e di male. Le nostre forze si disperdono in mille oggetti. Anzi molti uomini non hanno nemmeno la più lontana sensazione di un centro. L’ esperienza del proprio centro è ben determinata c non vive certo in molti, altrimenti la nostra cultura avrebbe un altro aspetto. Dunque un altro compito anche qui.
E finalmente si potrebbe accennare anche alla spiritualizzazione:
Che in noi si irrobustisca lo spirito; lo spirito, che è qualche cosa di diverso dalle cose materiali; di diverso da ciò che è solamente corporeo; di diverso dalla vita puramente sensitiva. Quello che sta in rapporti speciali col bene, con ciò che deve essere, con la verità, con l’amore, con la purità, con Dio. Che questo spirito cresca nell’ uomo, è ciò che determina il nostro valore umano. Che lo spirito tutto compenetri; signoreggi la vita dell’istinto e la passione; che si esprima in tutto – se guardiamo attentamente, è proprio da ciò che dipende tutto quello, di cui testè abbiamo parlato. Cella interiore, profondità, vigilanza, raccoglimento e centro – sono espressioni diverse per dire che in noi lo spirito è robusto. Anche questo però non è cosa che venga da sè. Pronunciamo una volta attentamente la parola « io »! Se da questo io, da quello che io ho e sono venissero eliminate le cose che posseggo, gli organi del mio corpo, le sensazioni dei miei sensi; se cancellassi i miei concetti, le mie cognizioni, le mie abilità – al di fuori di tutto questo resterebbe ancora qualche cosa? La domanda è fatta molto all’ingrosso, ma il senso è chiaro. Se cancello tutto questo, mi rimane ancora quel resto, per il quale tutto il sopradetto è soltanto materia strumentale e mezzo di manifestazione? Quella tal cosa intima che in tutto ciò vive, che in ciò raggiunge il suo destino, decide della sua sorte, si afferma o fallisce? Ciò, da cui, in definitiva, dipende la mia dignità e la mia salvezza? Certo, lo so, questa cosa la c’è è lo spirito, la mia anima spirituale… Ma non è vero forse per l’appunto che per lo più ciò lo so soltanto, ma non lo vivo? Che l’anima spirituale dorme con quello che ha di più intrinseco? Deve pur esser così, altrimenti gli uomini sarebbero diversi da quelli che sono.
Molto di quello che possiamo fare, per tradurre in atto tutto questo, è espresso nella parola: esercizio del raccoglimento.
Vogliamo parlarne alquanto a lungo, prendendo le mosse dall’esterno, per addentrarci poi sempre più verso l’essenziale. Ma qui poco ci gioverebbe, se’ dovessimo limitarci a pensieri generali. Al principio del nostro ritrovo ci siamo accordati di voler parlare di « ciò che dobbiamo fare». Perciò vorrei venire al pratico. Spetterà poi a voi di prender posizione in questo campo. Vorrei però ricordarvi che qui si tratta di cose dell’esperienza, delle quali, a sua volta, si può giudicare soltanto in base all’ esperienza. Che dunque premessa per un retto giudizio è il fare.
La forma più ovvia del raccoglimento sarebbe certo l’ordine. Ordine della vita e del lavoro quotidiani, degli oggetti in camera e in casa, delle occupazioni nel corso della giornata e dei giorni; della lettura, dei pensieri e così via. L’ordine raccoglie.
Ma di ciò basti un cenno.
Più profonda è l’efficacia di quella che si potrebbe chiamare l’educazione dei sensi e dell’attenzione.
Socrate ad un padre, che veniva a chiedergli consiglio a cagione di un suo figliuolo, disse una volta, sembrargli strano che gli uomini” mentre si guardan bene dal mangiar cibi guasti, sapendo che non è indifferente quello che introducono nello stomaco, non si facciano poi alcuno scrupolo di riempirsi l’anima di pensieri perversi. Questo è strano davvero. Noi abbiamo un’igiene del mangiare, ma non dubitiamo neppure, che vi possa essere anche una igiene del vedere, dell’ ascoltare, del leggere. Dobbiamo lasciar entrare in noi proprio tutto? Facciamo una volta ]a prova: dopo aver attraversata ]a città, passando per vie frequentate, davanti a persone e a vetrine, esaminiamo il nostro interno per vedere che aspetto abbia. Che guazzabuglio di impressioni! Che disordine di pensieri! Che altalena di emozioni e di desideri! Che inquietudine e che malcontento! Ed anche quante brutture! È proprio necessario che sia così? Qui è al suo posto ciò che l’ ascetica chiama la «custodia dei sensi», la disciplina dell’ attenzione.
Esercitare il raccoglimento vorrebbe dunque dire che qui si intervenga. Che non si lasci entrare tutto quello, che batte alla porta dei sensi e dell’attenzione; che si sappia distinguere fra il bene e il male, fra ciò che è nobile e ciò che è ignobile, fra quello che ha valore e ciò che non vaI nulla, fra quello che porta consapevolezza e ordine e ciò che crea soltanto confusione e trascina in basso. Un simile esercizio potrebbe dunque essere, a mo’ d’esempio, questo:
Quando vado per le vie voglio rimanere padrone di me stesso e non permetto che ogni affisso attragga il mio sguardo. Conservo la mia indipendenza e non mi lascio attirare da ogni vetrina. Mi rendo interiormente indipendente da tutto quel tramestio di gente, di veicoli, di figure, di chiasso e di calca, e non permetto che il mio interno venga distratto da ogni cosa che abbia dell’insolito. In ciò mi esercito, e torno ad esercitarmi continuamente. Con tale esercizio apprendo l’arte di compiere un giro in città senza danno e di arrivare alla mia meta con coscienza incolume e tranquilla.
Esercizio del raccoglimento sarebbe anche il non permettere che un giornale riversi nel mio interno tutto quel guazzabuglio di ciarpame politico, di cenciume spirituale, di cronaca nera e sensazionale, di vero e di falso, di bello e di volgare, di pettegolezzo e di altro ancora! Dovrei dunque apprendere a sceglier dal giornale solo quello che mi riguarda, con rapidità e con sicurezza, e non appena esso mi ha reso questo servizio tutt’ altro che importante, buttarlo via e metter mano a qualche cosa che meriti maggiormente il nostro scarso tempo e le nostre scarse energie.
Si potrebbe così esemplificare a lungo. Esercizio del raccoglimento significherebbe dunque che di fronte al disordine del caso, alle pressioni dti destra e da sinistra, alla folla delle impressioni e delle vicende, a tutto ciò che ci turba, ci eccita e ci inquina, sappiamo diventare indipendenti. Che di fronte a tutto impariamo a conservar la nostra calma. Che sappiamo passare al vaglio le nostre impressioni. Che troviamo un piacere, anzi uno sport molto nobile, nell’ingaggiar la lotta contro la prepotente barbarie chc ci circonda; la lotta per non essere lo zimbello del caos culturale che ci attornia, e per diventare al contrario liberi padroni di noi stessi.
E non soltanto col vagliare le cose e coll’eliminare di tutto ciò che non è nè utile nèbuono. Ma anche e innanzi tutto col rivolgere la nostra attenzione interiore a qualche cosa di essenziale: ad un pensiero che va approfondito, ad una questione che va chiarita; ad un uomo, o ad una cosa che vogli~!mo capire… Ma di ciò diremo di più fra poco.
Ora facciamo un passo avanti e più addentro: eccoci alla solitudine ed al silenzio.
Noi siamo schiavi non soltanto delle impressioni, ma anche degli uomini. Abbiamo istinti da mandra. So che esiste anche la misantropia e, certo, non è il caso di coltivarla. C’è il destino della solitudine, che non trova nessuno con cui possa convivere. Nemmeno di questo intendiamo parlare. Parliamo di qualche cosa che non ha nulla di tragico, ma è invece estremamente miserabile, dell’istinto da mandra, troppo diffuso fra gli uomini; di quel bisogno di sentire intorno a sè sempre del chiasso; di dover sentir sempre chiaccherare; di non saper riservar nulla per noi soli e di non saper da noi stessi venir a capo di nulla.
Il raccoglimento sarebbe qui l’esercizio del la solitudine e del silenzio. Come sarebbe dunque a dire: Che non si corra subito da altri, ma si sappia rimaner soli. E non per altro motivo che per cavarsela Una buona volta da soli. Che si sbrighi una faccenda da soli, pur avendo alla mano qualcuno da poterne discorrere; e ciò all’unico scopo di acquistare una maggiore indipendenza di giudizio e di deliberazione. Esercizio del raccoglimento sarebbe il tener per sè una storia o un avvenimento, o una trovata spiritosa, o un’ osservazione calzante, che corra alla mente. Tutto ciò può costare del bel sacrificio. Ma superando questo istinto sfrenato di correr da altri, di parlare o di ascoltare a parlare, si guadagna in profondità interiore.
Poi la ricerca della quiete e della solitudine: scegliere la via più modesta, anzichè quella ricca di vetrine e di lampioni, fare un passeggio da solo, anzichè in compagnia; rimanersene una sera tranquilli a casa, invece che andare in visita; rimaner soli una giornata intera, a casa, oppure, ciò che è particolarmente bello, all’ aperto. Forse addirittura alcuni giorni di ritiro. Tali periodi portano refrigerio e concentrazione. Se ne esce del tutto purificati.
E, a sua volta, che questa quiete sia ricmpita con qualche cosa di positivo: con un buon pensiero, con un buon libro, con un problema. Teniamo presente tutto questo. Torneremo sull’argomento, per spiegarne il significato.
Al di là di quello che si è detto conduce la tacita attenzione rivolta al proprio interno.
Essa non è altro che un’inclinazione generale a. sostare di tanto in tanto e a riflettere sulla portata delle cose, a sottrarsi talvolta all’incalzante tumulto delle cose che passano, e a tender l’orecchio a ciò che sta avvenendo. È un assuefarsi a dar degli sguardi retrospettivi, per esaminare il proprio operato; a riguardare il passato non come defÌnitivamente liquidato, per la sola circostanza esteriore ch’è trascorso, ma di farlo agire su di noi dai suoi strati più profondi…
Guglielmo Raabe dice una volta quali lettori egli desideri per sè: «Ecco, egli dice, che si sta fabbricando una casa, e la gente che osserva fa i suoi commenti. L’uno critica, l’altro loda, un terzo pensa come l’ ammobilierebbe se fosse sua. Ognuno considera la fabbrica in pietra e in legno e la valuta dal gusto e dall’utile che potrebbe cavarne. Ma c’èanche uno, il quale pensa qual vita si svolgerà in quelle camere, qual destino, quali dolori, quali gioie vi passeranno. Costui – dice il grande novelliere – che vede le cose in tal modo, è il lettore che mi desidero).
Qualche cosa di simile intendiamo esprimere anche qui. Una specie di gravitazione, vorremmo dire, verso l’interno; la quale non deve però ostacolare un’ energia consapevole, ma solo dare all’energia e all’azione un valore e un legame con l’interno.
In altri termini si potrebbe dire: una specie di attenzione rivolta all’ al di là. Rainer Maria Rilche esce una volta in questa profonda invocazione: « Dio, tu, mio vicino… « Sono in continuo ascolto, dammi un segno, « Ti sono assai vicina. « Solo una parete sottile ci separa…».
Anche questo serve a render chiaro quello che intendiamo dire. Si può viver senza dubbio anche altrimenti. Si può vivere assorbiti nell’attualità che si tocca con mano, affidati aUe sue ben note forze, nella chiusa èerchia delle cose visibili e dei fatti dell’ esperienza, e con ciò punto e basta. Si può però anche mantener vivo in noi il pensiero che non è tutto qui. Che attiguo a noi, separato da una sola parete, abita l’Altro. Che lungo tutta la frontiera del nostro essere Dio ci è d’accanto. Si può tener desta la consapevolezza che nel nostro proprio interno, là dove confiniamo col nulla, sta il Dio vivente.
Quì non c’è nulla di particolare da « fare,,; non riflessioni e non sforzi speciali. Basta lo star sempre e tranquillamente in ascolto, un esser presenti a se stessi e un mantenere lievemente i contatti.
Fin qui si trattava di premesse del raccoglimento. Veniamo ora al suo esercizio nel senso più rigoroso della parola. Esso può assumere varie forme, che però in fondo riescono tutte alla stessa cosa.
Esso può consistere in quanto segue: Nelle nostre azioni e aspirazioni di tutti i giorni noi siamo trasportati dalla corrente impetuosa degli avvenimenti. «Raccoglimento» significa qui l’uscire da questo vortice e mettersi in pace. Portar calma nel nostro essere, nelle nostre forze, nella nostra volontà. Far penetrare la pace sempre più profondamente in noi stessi. Noi facciamo sempre questo o quello, siamo sempre in attività, progettiamo, vogliamo, organizziamo, esercitiamo. Quando non facciamo niente, diventiamo nervosi e intorno a noi sentiamo il vuoto. La voce ha come un’eco cupa; ci si sente a disagio e ci si annoia. E a forza di fare e di agire ammazziamo la nostra esistenza. Idolatriamo l’attività e perdiamo l’uomo.
Raccoglimento significa qui che sappiamo, una buona volta, non tanto fare, quanto vivere. Avere un’ esistenza tranquilla. Un’esistenza piena, libera dall’ ossessione del fare e del volere.
Noi tendiamo sempre ad una meta, poi ad un’altra ulteriore, e così di seguito. Sempre verso qualche cosa che non esiste. Sbrighiamo una cosa e la gettiamo dietro le spalle. Viviamo gli avvenimenti, rapidamente, e già essi non sono più. Così viviamo sempre scivolando fra quello che non è più e quello che non è ancora.
Raccoglimento significa qui creare il presente, sostare e divenir presenti. Presenti in noi stessi, realizzare l'”oggi” per quanto è concesso alla nostra instabilità; almeno averne l’intenzione e la disposizione. Vivere tranquillamente l’attimo fuggente è appunto raccoglimento.
Le nostre forze sono disperse fra molti oggetti. La nostra attenzione viene attratta da mille cose. La nostra volontà e i nostri desideri sono incatenati in mille modi. Non siamo in possesso di noi stessi, ma in balia delle cose. La molteplicità delle cose è anzi penetrata in noi stessi, come ne fanno fede la varietà dei nostri pensieri, il contrasto dei nostri desideri, l’irrequietudine dei nostri sentimenti.
Raccoglimento significa che richiamiamo noi a noi stessi; le nostre forze dalla dispersione all’unità. Che superiamo la confusione e ristabiliamo una tranquilla semplicità. Che sgombriamo il guazzabuglio, per attenerci a pochi, forti e buoni pensieri. Che semplifichiamo i nostri desideri; impariamo a riposare in noi stessi senza brame, a diventar tran’luilli e sereni. Che apprendiamo ad esser pa-droni di noi stessi.
Il nostro interno è spesso oppresso da preoccupazioni, agitato da passioni e accascÌato dal. le contrarietà e dalle sofferenze.
Quì il raccoglimento significa che interiormente torniamo a noi stessi. Che in noi si levi qualche cosa di profondo, che a tutte queste cose per noi ripugnanti dica: « Questo veramente non mi appartiene. Devo sopportarlo e lo farò lealmente, ma non sono tutt’uno con esso. C’è in me qualche cosa al di là di tutto questo. Questo qualche cosa è sereno, è forte, è l’essere vivente del mio spirito. Questo vive in sè, realmente, nella sua indistruttibile sostanzialità. Raccoglimento significa che io cerchi il contatto con questo centro spirituale vivente, il contatto da me stesso a me stesso. E che di lì attinga l’energia e la fiducia per rinnovarmi. Il Vangelo parla della luce interiore che. è in noi e può « rischiarar tutto ». Questa non è immagine, è realtà. Lo spirito è luce sostanziale. E chi sa liberare lo spio rito, ne rimane illuminato. « Tutto il corpo illuminato», dice il Signore.
Di questo passo si potrebbe continuare un pezzo…
Ma non ci rincresca di venire al concreto.
Come possiamo compiere quest’esercizio?
La sera, quando abbiamo fornita la nostra opera quotidiana, potremmo ritirarci. Potremmo metterci a sedere; Meglio ancora se in ginocchio; perchè lo stare in ginocchio esprime quiete e insieme contegno. Poi potremmo creare il silenzio; intorno a noi e in noi. Potremmo poi dirci: “Ora sono tranquillo; perfettamente tranquillo; fino nel più intimo della mia anima”. Potremmo cercar di sgombrare del tutto il nostro interno e di metterci in una calma assoluta. Quando facciamo così, ci accorgiamo, e solo allora adeguatamente, quanto sia profonda l’irrequietudine dei nostri nervi. Mille cose si affacciano e vogliono esser fatte. Cose dimenticate chiedono riparazione, preoccupazioni si affacciano, progetti si incalzano… Via tutto questo! Bisogna acquistar la calma e non con uno sforzo di volontà, ma con una lenta liberazione interiore. E lasciar discendere il silenzio, sempre più giù, nel proprio io. I pensieri di tutte le specie – via! I desideri senza pace – via! Non con un atto imperioso della volontà, bensì mettendoli silenziosamente e insieme però anche risolutamente alla porta. Non pensare nè all’ieri, nè al domani. Essere del tutto presente, del tutto qui. E così sostare un po’; questo solo porta già risveglio interiore, padronanza di sè, ristoro e rinnovamento.
Ma poi, a misura che la nostra padronanza interiore diventa più sicura, dobbiamo portare in questo silenzio, in questa presenza a noi stessi, in questo raccoglimento, qualche cosa che venga dalla sfera del bene. Riflettiamo al significato di una nostra azione passata: che senso può veramente aver avuto? E vi abbiamo fatto buona prova? O avremmo dovuto agire altrimenti? L’azione cattiva può venir riparata, in certo modo rigenerata, nel pentimento e nella sincerità della conversione. Oppure in questo silenzio portiamo qualche cosa che è ancor da fare: un dovere, un problema. Apriamoci al bene: « Lo voglio, sono pronto, sinceramente, fino nel più profondo delle mie viscere. Che debbo fare? ». In certe perplessità, nelle quali non si sa a che santo votarsi – quando internamente ci si mette in calma” e si supera la ribellione contro il bene, non con la violenza, ma con una liberazione interiore e ci si mette in buone disposizioni – allora, spesso tutto d’un tratto, si sa che cosa convenga fare. Poichè quello che cagionava l’incertezza, non erano in fondo solidi argomenti in contrario, ma cattiva volontà. Oppure portiamo con noi nella nostra quiete una parola profonda, un pensiero sostanziale, una buona lettura.
Questa è la cella conveniente sovrattutto alla Sacra Scrittura: la cella della meditazione. Qui è la «dimora» per Iddio. Quando mi metto in pace e dico: lo sono qui, pienamente presente – allora si affaccia quasi spontaneo il pensiero: È qui Dio, il Dio vivente. Pregare significa elevare il cuore a Dio, significa cercare il cospetto di Dio, con lo sguardo interiore, affinchè il movimento del nostro cuore e la parola del nostro spirito trovino il loro posto. Questa cosa profonda, che consiste nell’orientamento verso Dio, nel muoversi verso di Lui, e nel giungere presso di Lui, nel parlarGli a tu per tu – tutto ciò è frutto di un tal raccoglimento. « Quanto tu preghi, prepara il tuo cuore, e non essere come un uomo, che tenta Dio», dice la Scrittura. Chi si prepara in tal modo, sente sgorgare quasi spontanea la preghiera dal suo cuore.
Quì convien far attenzione ad una cosa importante. Dell’ esercizio del raccoglimento si può anche abusare. Qui si tratta di realtà, di forze reali, di profondità reali. Queste forze possono venire evocate e cagionare anche dei guai; le profondità possono venir spalancate ed esporre a dei pericoli. Ciò può avvenire perchè tali forze non vengono dirette ad uno scopo e allora cagionano rovina, come avviene di una sorgente che si faccia scaturire, senza poi incanalarla. Ovvero perchè tutto vien fat~ to per vanità; per dilettantismo, per capriccio, per avidità di sensazione, per qualche desiderio di potenza. Le correnti occultistiche e parapsicologiche sono spesso un criminoso gioco con tali forze. Quello che qui facciamo, dobbiamo farlo con moderazione e con calma. E – ciò che è di importanza decisiva – tarlo con intenzioni rette e pure. Quello stesso raccoglimento, che rivolto, ad esempio, ad una parola della Scrittura, è sorgente di vita santa, cagiona gravi malanni, quando è ozioso e vano, oppure ha mire false e capricciose. La stessa concentrazione, che è fattore di ordine e di risveglio, quando, ad esempio, è unita al pentimento per un errore commesso e alla sincera disposizione di compiere un dovere futuro, crea invece della confusione, quando mira a qualche scopo perverso o fantastico.
Questo raccoglimento è proprio il vero luogo per la parola di Dio, la quale deve appunto essere ascoltata in silenzio e in adorazione, accolta nella quiete profonda del cuore. Perchè la parola di Dio non è una semplice comunicazione, ma anche una forza generatrice di vita santa.
Il raccoglimento è la dimora per Dio stesso. Così possiamo fare la sera. Così anche al mattino. Qui dieci minuti possono far molto. Tutto quello che si fa e si sopporta durante il il giorno riceve l’impronta di tutt’altra fiducia e purezza, quando promana da un tal raccoglimento.
Così al mattino è bene riflettere: « Eccomi qui! Proprio io; colle mie forze; colla vigilanza del mio spirito; col calore e colla prontezza del mio cuore. Dio pure è qui presente. lo vengo da Lui ed ho la Sua grazia in me. La sua chiamata alla santità mi incalza nel mio interno, perchè la traduca in atto… lo so che mi accadrà questo o quello… ed ora affronto la mia giornata armato di quella forza interiore. Voglio far bene la mia parte ».
Poi a sua volta, la sera, la resa dei conti innanzi al bene vivente, al Dio Santo: « Come ho passata la giornata? Ho dato ascolto alla voce del bene? Vi ho corrisposto? »… Rendiconto, pentimento, rinnovamento del cuore… E poi abbandono totale nelle mani di Dio, che è il padrone di ogni riposo.
E sarà bene che anche durante la giornata si torni a prender contatto, di tanto in tanto, con l’ ambiente interiore, che si rinnova ogni mattina e ogni sera. Anteo, figlio della terra, era invincibile, perchè, ogni qual volta toccava la madre, acquistava nuove forze. Così è anche dello spirito. Sia come un tocco leggero alle porte di quel mondo interiore; specialmente quando ci si imbatte in qualche cosa di difficile e di imbarazzante, che esige il massimo sforzo. Ciò porta ogni volta ad un rinnovamento del nostro slancio e delle nostre energIe.
Altre cose di questo genere rimarrebberò ancor da dire. Tuttavia quanto si è detto potrà bastare. Tutto questo – e aggiunto a questo ancora ciò di cui abbiamo parlato al principio: l’interno e segreto processo di maturazione del nostro essere, l’incessante lavoro dell’esperienza, l’accettazione coraggiosa della vita quotidiana e di ciò che essa ci porta – tutto questo fa sbocciare a poco a poco dentro di noi il centro vitale; fa sì che lo spirito si rinvigorisca e compenetri tutto il nostro essere; che la cella interiore si apra; che il fondo del nostro io si richiari; e l’energia si concentri e diventi efficace. E cosÌ la «coscienza» diviene a poco a poco quello che deve essere secondo la sua essenza: la voce vivente della santità di Dio in noi.