di p. Attilio Franco Fabris
1. INTRODUZIONE
Ricerche filologiche e storiche, studi sulla simbolica dei riti, dei gesti e del linguaggio, fanno constatare come la meditazione sia un dato fondamentale e universale dell’esistenza umana. Da questa constatazione ne deriva tuttavia il fatto che la parola “meditazione” corre il rischio soprattutto nella nostra cultura di dimostrarsi ambigua in quanto usata in ambiti e culture diverse (es. preghiera mentale, metodi d’interiorizzazione Yoga, zen giapponese, riflessione di testo coranici, tecniche di psicoterapia, ecc…).
Analizzeremo dapprima la meditazione nel contesto cristiano. Essa vi si colloca come una delle forme della preghiera.
Nella teologia della spiritualità essa si definisce generalmente come forma di contemplazione acquisita in cui si succedono atti distinti dell’intelligenza, dell’affettività e della volontà. (Nella contemplazione pura l’attività di questi dinamismi è di molto semplificata e unificata). Quando si parla di meditazione si suppone dunque una applicazione attiva e metodica di questi dinamismi. Di per sé dunque la meditazione fa leva sulla struttura dell’essere umano, sui suoi dinamismi, dando la precedenza ad un discorso ordinato che venga a toccarli e a coinvolgerli.
Questa connotazione è presente pure nell’etimologia stessa della parola; in latino come in greco meditatio-melete esprime l’idea di un esercizio. In effetti serviva ad indicare originariamente ogni specie di esercizio fisico o intellettuale, ovvero ogni pratica destinata a preparare e ad affinare l’esercitante. In seguito il linguaggio ha riservato exercere agli esercizi fisici, e meditari a quelli dello spirito. Dunque meditatio nel suo significato etimologico indica un esercizio metodico dello spirito, che corrisponde agli esercizi preparatori e ripetitivi dei soldati o dei musicisti. Vediamo ad esempio Ugo di s. Vittore accostare la meditazione religiosa a quella di un testo ordinario: “La meditazione è il pensiero assiduo e riflesso, che cerca di conoscere la causa, l’origine, la maniera di essere e l’utilità di una cosa. La meditazione ha il suo principio nella lettura, tuttavia non è sottoposta ad alcuna regola o precetto nella maniera di leggere; essa ama infatti correre liberamente attraverso lo spazio”. Da questo testo emerge un dato importante: l’attività meditativa possiede un suo carattere naturale. Esiste una meditazione naturale: la persona che contempla un’opera d’arte, che ascolta della musica, che riflette su qualche aspetto della sua vita, il bambino colto da stupore di fronte a qualcosa di nuovo o di bello sono indicatori di tale attività naturale.
Si tratta ancor più di un lavoro di assimilazione di ciò che l’occhio ha letto, di ciò che l’orecchio ha udito, di ciò che la memoria ha ritenuto; si tratta di una masticazione-ruminatio delle idee al fine di penetrarsene completamente. (Cf P. Philipe). E’ per questo che la meditazione va accostata al tema più generale dell’ascesi.
Il concetto di meditazione cristiana conosce lungo la storia una continuità e una evoluzione.
L’evoluzione riguarda l’importanza crescente che viene data al fattore intellettivo-riflessivo.
La continuità si desume dal fatto che i diversi autori si ispirano alla rivelazione, in particolare la s. Scrittura.
2. MEDITAZIONE E VITA CRISTIANA
Il fine di chi medita, applicando l’esercizio di mente-cuore-volontà, i misteri della fede è quello di far sì che la sua fede diventi sempre più interiorizzata ovvero personale. Essa permette e facilita una assimilazione del senso e del contenuto del mistero che si medita.
Il cristiano per garantire questo processo spirituale procede come farebbe in una qualsiasi disciplina profana: applica la propria intelligenza, affettività e volontà ai dati del mistero, ne approfondisce il senso. Questo senso assimilato dall’intelligenza, scoperto amabile dal cuore, conduce ad atteggiamenti e a scelte concrete di vita, la quale in tal modo si viene a conformare sempre più al dato rivelato.
Pur sottolineando la massima libertà del processo meditativo come attestava Ugo di s. Vittore, ben presto si sentì tuttavia la necessità di ricorrere a dei metodi più o meno rigorosi. Intendiamo per metodo uno schema stereotipo, applicabile a qualsiasi oggetto.
Scopo del metodo è quello di condurre, sorreggere, lo spirito a investigare in maniera esaustiva e ordinata i vari aspetti del mistero.
Non sono mancate lungo la storia della Chiesa alcune obiezioni: sottomettendo l’attività spirituale a un metodo meditativo ferreo e razionale non si rischia di limitare o addirittura spegnere la libera azione dello Spirito? Come si vede si tratta di un problema analogo a quello che interessa l’attività ascetica e l’esperienza mistica.
La soluzione è la medesima: come l’ascesi dispone all’accoglimento della grazia, così la meditazione dispone all’assimilazione del mistero della fede. Essa non ha dunque la presunzione di possedere un’efficacia meccanica. Dio accorda sempre i suoi doni con grande libertà. A noi spetta il compito di predisporci a tale opera di Dio attraverso questa scuola di orazione.
3. LA MEDITAZIONE NELLA S. SCRITTURA
I. AT.
L’idea di meditazione si collega alla radice haga tradotto in greco con melete e il latino con meditari.
La radice originariamente significa “mormorare a bassa voce“. La sede o l’organo del meditare è dunque la gola, la laringe.
La meditazione può dunque originariamente avere valore sia religioso che profano (vi è ad es. un meditare anche contro Dio: “populi meditati sunt inania” Sl 2,1).
Talvolta alla componente auditiva-fisica si affianca una componente spirituale o mentale: “Non si allontani dalla tua bocca il libro della legge, ma meditalo giorno e notte, perché tu cerchi di agire secondo quanto vi è scritto” (Gs 1,8), la meditazione della legge conduce a regolare la propria vita su questa stessa legge (cfr. “la sua legge medita giorno e notte” Sl 1,2). La meditazione procede dunque dal cuore, dalla bocca del giusto e ha per oggetto la giustizia-legge di Dio.
In sl 77,13 (“mi vado ripetendo le tue opere, considero tutte le tue gesta”) e sl 143,5 (“Ricordo i giorni antichi, ripenso a tutte le tue opere, medito i tuoi prodigi”) haga è posto in relazione con zakar, il fare memoria meditandole delle meraviglie di Dio.
Nella letteratura sapienziale, dove non troviamo espressamente la radice haga, ritroviamo tuttavia più volte una sorta di meditazione sui testi più antichi che narrano gli interventi di Dio nella storia del popolo eletto (Sap 10-19: Sir 44-49).
La traduzione del termine ebraico in greco e in latino comporterà successivamente una espansione di significato. Infatti il termine greco significa “prendersi cura di”, “prendersi a cuore”; mentre il termine latino contiene il concetto di “esercitarsi” con un grande ventaglio di utilizzo (dal memorizzare parti teatrali, brani musicali, discorsi, ecc…). Questa accezione si mantenne nell’epoca patristica sino al medioevo: studenti e monaci, come vedremo, si esercitavano alla recita dei salmi o delle lezioni.
II. N.T.
Il termine esplicito è quasi introvabile. Il solo testo significativo e in 1 Tm 4,15: “abbi premura=medita di queste cose, dedicati ad esse interamente…”. Paolo prescrive al suo discepolo di “prendersi a cuore” la lettura della Scrittura.
Troviamo pure il “conservare nel proprio cuore parole o avvenimenti”. E’ ciò che fa Maria (cf Lc 2,19;51). Si tratta evidentemente di una forma di meditazione dell’opera di Dio.
4. PADRI E AUTORI MONASTICI
La caratteristica principale della primitiva meditazione cristiana è il ricordo e la ripetizione della Parola di Dio, al fine di farne il nutrimento dell’anima.
E’ questo il senso di alcune metafore molto ricorrenti: mensa verbi, ruminatio, palatum cordis, os cordis…
L’idea della ruminatio è ispirata a Lev. 11,3 e Dt 14,6, dove i ruminanti sono classificati tra gli animali puri. Questa analogia viene utilizzata dai Padri (es. Ep. Barnaba X,II; Clemente A., Pedag III,II,76; Apoftegmi di Antonio e Macario…). In occidente è più volte usata da Agostino: “Allorché tu ascolti o leggi, ti nutri; allorché tu mediti ciò che ascolti o leggi, tu rumini al fine di essere un animale puro e non impuro” (En. Ps. 36; Serm. III,5).
Da un lato si tratta di ripetere una parola o un testo, e di ripeterli in modo frequente se non continuo; dall’altro si tratta di assaporare, di assimilare interiormente questa parola, per far fruttificare la ripetizione” (F. Ruppert).
La modalità di meditazione del monachesimo antico pacomiano si avvicina singolarmente al “meditare” biblico. La regola richiede al monaco, durante ogni sua occupazione, una ripetizione a bassa voce di versetti salmodici o di brevi testi biblici (3,28.36.37).
Senza parlare esplicitamente di meditazione sant’Antonio pensa che il monaco può giungere alla misericordia di Dio attraverso il lavoro manuale, il digiuno, la veglia e “studiis multis verbi Dei et orationibus pluribus” (Lett. 1,77).
Se per certuni questa ripetizione incessante poteva trasformarsi in routine, pratica meccanica, essa per tanti altri era tuttavia strumento in grado di condurre ad una grande familiarità con la Parola (cf gli scritti patristici e monastici), capace di introdurre l’anima in un clima particolare di ascolto, in un atteggiamento interiore di silenzio, capace di far sbocciare spontaneamente la vera preghiera. Cassiano attesta questo dinamismo quando parla di una “meditatio spiritualis” in quanto è “oris pariter et corde officium” (Inst. II,15,1). Questa pratica nel monachesimo orientale veniva protratta durante la giornata e anche nel lavoro, essa prende il posto delle ore canoniche del monachesimo occidentale (cf. Inst. III,2).
Questo esercizio, con la sua parte di fisicità, appariva particolarmente adatto a quegli uomini spesso incapaci di riflessioni astratte; in effetti quella che poteva essere la componente intellettuale della vita spirituale era di pochi.
E’ infine da notare che nel monachesimo bizantino questa sorta di melete ha condotto alla pratica della Preghiera di Gesù.
In san Benedetto non ritroviamo alcuna sorta di questo tipo di meditazione. Si prescrive al monaco anzi il silenzio assoluto. Il meditari è riservato all’apprendere “qualcosa del salterio o delle lezioni” (RB 8,3).
Nell’ambito della cultura monastica occidentale meditatio sarà spesso associato a lectio e oratio, tanto che il trinomio lectio-meditatio-oratio diviene classico per esprimere la familiarità con la Parola di Dio. Questa può essere “mangiata” e “bevuta” nella lectio, assimilata e assaporata nella meditatio, sollecitata a produrre frutto nella vita tramite l’oratio. Ambrogio in un inno ripreso anche dalla nostra LH dice: “Christusque nobis sit cibus, potusque noster sit fides”.
5. LA PRATICA MEDIEVALE
Una premessa è fondamentale: nella storia della spiritualità gli autori hanno proposto forme di meditazione adatte alla formazione dei cristiani del loro tempo (alcuni insistendo sull’attività intellettiva, altri sulla immaginazione, altri sugli slanci affettivi a seconda del loro temperamento e cultura). Nessun metodo può dunque presumere di presentarsi come l’unico o il migliore, tutti sono sempre e solo strumenti legati a singole esperienze spirituali e culturali. Tuttavia si potranno ricavare alcune costanti che danno chiaramente un indirizzo sul quale camminare nella meditazione.
Tra l’XI e il XII sec. Si inaugura con sant’Anselmo di A. (+1109) il genere delle Orationes e delle Meditationes. In queste opere la ratio, le rationes iniziano a giocare un ruolo importante, esse introducono ad un nuovo modo di pensare e di pregare in cui il fattore intellettivo prende consistenza.
Un altro autore significativo è Ugo di s. Vittore (+1141). Scrive nel suo trattato De Meditatione: la meditazione è frequens cogitatio modum et causam et rationem uniuscuisque rei investigans. Presenta tra varie modalità un cammino meditativo in cinque tappe: “Primo lectio ad cognoscendam veritatem materiam ministrat, meditatio coaptat, oratio sublevat, operatio componit, contemplatio in ipsa exsultat”.
Ruolo della meditazione è “l’esercizio di discernimento sul modo di mettere in pratica ciò che si sa, poiché è inutile sapere ciò che poi non si mette in pratica”.
Per Ugo di s. Vittore la meditazione è dunque una attività di riflessione e di ricerca orientata in un senso verso la conformazione della vita all’insegnamento della scrittura e verso la contemplazione, nell’altro essa viene a rappresentare una tappa del cammino spirituale. Ed è in questa duplice linea che si muoveranno altri autori nelle sistematizzazioni posteriori.
Nell’ambiente monastico, oltre alla preghiera liturgica, entra in uso una preghiera personale mentale: essa consiste nella lectio divina.
L’aspetto più interessante per il nostro discorso è che anche qui la meditatio vi appare come una fase, un momento di un’attività contemplativa più vasta e complessa. Un testo fondamentale per comprendere questo lo ritroviamo nella lettera di Guigo II certosino. Egli scrive l’Epistola de vita contemplativa in cui distingue quattro “gradini spirituali” che formano la scala claustralium: lectio, meditatio, oratio et contemplatio: “La lettura è l’applicazione dello spirito alle sacre scritture; la meditazione è l’investigazione accurata di una verità nascosta con l’aiuto della ragione; la preghiera è la tensione devota del cuore verso Dio per allontanare il male e ottenere il bene; la contemplazione è l’elevazione dell’anima in Dio, anima che è avvinta dal gusto delle gioie terrene. La lettura ricerca la dolcezza ineffabile della vita beata, la meditazione la trova, la preghiera la chiede, la contemplazione la gusta. Si tratta delle parole stesse del Signore: “Cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto” (Mt 7,7). Cercate leggendo, troverete meditando, bussate pregando. La lettura porta il nutrimento alla bocca, la meditazione lo mastica e lo trita, la preghiera lo gusta e la contemplazione è questo sapore medesimo che riempie di gioia e rifocilla”.
Dunque la meditazione si colloca tra la lectio e l’oratio: essa investiga, approfondisce, rumina, cerca. In rapporto alla lettura è un’elaborazione che permette allo spirito di approfondire il testo. In rapporto alla orazione essa prepara il terreno affinché lo spirito possa aprirsi al dialogo con Dio, domandando ciò che esso ha compreso.
Ritroviamo quasi contemporaneamente le Meditationes viae Christi (sec. XIII). Queste propongono come modello all’anima che si vuole dedicare alla meditazione la figura di s. Cecilia che “portava sempre il Vangelo nascosto nel cuore” ovvero “lo meditava giorno e notte nel suo cuore, ruminandolo=meditandolo con dolcezza e soavità”. L’autore in questo caso offre un solo metodo: “Renditi presente alle parole e ai gesti riportati, come se tu le ascoltassi con le tue orecchie o le vedessi con i tuoi occhi”.
Anche Landolfo di Sassonia certosino (+1377) scrive una Vita Christi (opera che sarà letta da Ignazio di L.) il quale propone per ogni esercizio una struttura triplice legata alla lectio divina: lectio, meditatio, oratio.
Concludendo si può notare come lentamente venga a sottolinearsi l’aspetto riflessivo, vi è legame alla tradizione nel fatto che rimane ancora stretta l’unione della meditatio con la lectio e l’oratio-contemplatio dell’ambiente monastico.
6. L’ORAZIONE METODICA
Nel secolo XIII nascono gli ordini mendicanti; per i frati si scrivono le “Industriae”, ovvero suggerimenti del come pregare in mezzo alle distrazioni.
Anche nel mondo laicale, lontano dallo studio e dalla familiarità dei testi, e occupato in attività mondane si sentì il bisogno di riferirsi soprattutto a dei metodi pratici di meditazione, onde essere facilitato nella preghiera personale e contemplativa.
Nel XV sec. Nasce il movimento della Devotio moderna. Troviamo ad es. le Scalae di Wessel Gansfort. Si tratta di serie di meditazioni già preconfezionate per la durata di una settimana o un mese, al fine di approfondire ordinatamente le verità di fede. E’ possibile constatare come con l’avvento della devotio moderna si arriva a incoraggiare più la meditazione personale che la preghiera liturgica.
Il fondatore è Gerard Groote (1340-1383). Per il Groote la meditazione è una “mentis exercitatio” che pone in azione la riflessione e le rappresentazioni dell’immaginazione. Essa è una praeparatio che conduce alla preghiera e alla imitazione delle virtù di Cristo: “Inanis est mentis exercitatio, honore et fine carens, si non ducat nos et cogat ut ea que Christi sunt per oris confessionem et operis imitacionem perficere laboremus”.
La preghiera nasce dalla meditazione e si trasforma in meditazione: “omnis animi excitatio a meditacione oritur et meditacione perficitur”.
Sempre per il Groote esistono quattro genera meditabilia: la scrittura, le rivelazioni fatte ai santi, gli scritti dei dottori, le immgini composte dal credente stesso. Fonte della meditazione non appare più solo la Scrittura. Inizia in questo periodo a farsi strada altresì il problema dell’uso dell’immaginazione. Il suo ruolo per il Groote è adatto ai piccoli e ai principianti, mentre ai progrediti si domanda di superarlo. L’immaginazione ci aiuta a trasportarci nei tempi e nei luoghi dei misteri della vita del Signore, aiutandoci a prendervi parte.
Sempre all’interno della corrente della devotio moderna troviamo un piccolo testo anonimo dal titolo “Epistola de vita et passione D.N. Jesu Christi“. Si insiste sul fatto che il cuore dell’uomo debba necessariamente occuparsi di qualche cosa, e per il devoto ovviamente è necessario che “Dio sia meditato”. L’esercizio spirituale di questa meditazione, ripreso quotidianamente, crea un’abitudine, ovvero una mentalità, uno stile di vita. Questo esercizio giornaliero è per eccellenza la meditazione della passione di Cristo suddivisa cronologicamente e secondo punti precisi.
L’autore insiste sulla diversità di vie e di grazie per ciascuno. Si mediterà dunque questo o tal punto a seconda che convenga meglio. Ogni sforzo eccessivo è riprovevole. Se ci si trova nell’aridità, si leggeranno semplicemente i punti previsti per la giornata. Si rimane sempre liberi di utilizzarli tenendo conto delle ispirazioni dello Spirito e delle proprie disposizioni: “Benché la materia sia abbondante, non si utilizzerà se non ciò che meglio convenga“.
Tommaso da Kempis (1379-1471), autore controverso dell’Imitazione, insiste molto sulla solitudo cordis et corporis, sulla custodia cellae e il silenzio come strumenti che ci predispongono alla preghiera: “Haec solitudo docet sanctis inharere meditationibus” (Serm. 7).
Un suo abbozzo di metodo, appare nei Sermones de vita et passione Domini (cap. 26). L’autore presenta una successione di sette punti:
–quis est qui haec patitur
– a quibus patitur
– quanta patitur
– pro quibus
– quam longo tempore patitur
– in quibus locis patitur
– in quibus membris patitur.
Notiamo come la passione, nella Devotio, venga presentata come oggetto principale e privilegiato di meditazione.
In altri testi e autori vedremo successivamente un proliferare di punti e di tracce per la meditazione. Talvolta si rimane meravigliati per la loro complessità. Nel tardo medioevo troviamo un metodo che propone un itinerario meditativo in cui si succedono 23 momenti (la Scala di Gansfort). Questa complessità non va interpretata in senso peggiorativo: essa rispondeva all’esigenza di facilitare al massimo la riflessione vincendo il rischio della dispersione.
Jean Mombaer (1460-1501) è l’ultimo autore significativo della devotio moderna. La sua opera più significativa è il Rosetum. Si tratta di una raccolta di 30 trattati. All’interno troviamo il Meditatorium in cui si offre “meditationis modum, quippe exordiendi, procedendi terminandique praxim”.
Per Mombaer occorre perseveranza per poter apprezzare il suo metodo. Tuttavia colui che medita dovrà sempre far attenzione a seguire le ispirazioni della grazia.
Notiamo che in questo metodo la funzione dell’immaginazione è pressocché assente. Vi è solo qualche accenno nella fase dedicata alla memoria. Infine constatiamo come colui che medita alla fine non prende alcuna risoluzione concreta.
L’opera di Mombaer porta la metodologia ai suoi estremi limiti. Ciò preannuncia già un certo declino. Il metodo ignaziano a confronto apparirà di una grande semplicità.
7. LE FORME IGNAZIANE
Grande influsso lungo la storia della spiritualità ebbero gli schemi ignaziani contenuti negli Esercizi Spirituali di Ignazio di Loyola. In quest’opera fondamentale nella storia della spiritualità vengono offerti alcuni metodi di meditazione in funzione delle materie da meditare. Nella prima settimana si fa uso del metodo delle tre potenze applicando cioè memoria, intelletto e volontà alla realtà del peccato, della morte e dell’inferno. Nella seconda settimana Ignazio propone la contemplazione dei misteri di Cristo: si tratta di una meditazione molto semplice che fa ricorso molto alla applicazione dei sensi. Infine alcune modalità di pregare meditativa: contemplare il senso delle parole di una preghiera (nn. 349-257), e la preghiera ripetitiva e ritmata (n. 258-260) questi costituiscono dei veri metodi di preghiera semplici e fruttuosi.
Ignazio non è lo scopritore di questi metodi; egli infatti compendia e si fa erede di tradizioni monastiche e francescane da lui conosciute e assimilate.
Nonostante l’apparenza dia l’impressione di metodi rigidi e forse un po’ freddi, occorre partire dalla considerazione che Ignazio era un temperamento affettivo, e che i suoi scritti e consigli sono frutto di intense esperienze spirituali e mistiche. I suoi schemi non sono scritti a tavolino, ma costituiscono il risultato di ciò che egli ha vissuto in prima persona. E’ per questo che probabilmente essi possono essere apprezzati soprattutto da chi verifica la loro validità mediante la sua propria esperienza.
Esiste uno schema fondamentale ignaziano e il più conosciuto. Lo prendiamo in considerazione passo per passo.
I. Preparazione lontana
1. Ostacoli alla preghiera
– i peccati
– le passioni disordinate
– troppa sollecitudine per le cose materiali
– dissipazione e incostanza mentale
2. Disposizioni alla preghiera
– la purezza di coscienza
– il dominio di sé
– la magnanimità
– l’attenzione
II. Preparazione vespertina dei punti di meditazione
III. Addizioni
1. La sera, prima di dormire, pensare per il tempo di un’Ave Maria all’ora in cui devo alzarmi e su cosa mediterò.
2. Il mattino, provare a restare in quell’umore e disposizione che conviene
alla meditazione.
3. Consapevolezza della presenza di Dio.
4. Scelta della posizione fisica che conviene a quella meditazione
5. Invocazione allo Spirito
IV. Preamboli
1. Immaginazione del luogo
2. “Chiedere ciò che voglio”
V. Uso delle facoltà
1. Memoria
2. Intelletto
3. Volontà e affetto
VI. Colloquio conclusivo
VII. Esame
I. PREPARAZIONE LONTANA
Ignazio parla del “modo come disporre l’anima per la meditazione”. Quali le disposizioni che si richiedono? Egli inizia presentando in negativo quelli che possono essere gli ostacoli alla meditazione.
Un primo impedimento sono i peccati. Se la preghiera è conformazione alla volontà di Dio, chi può pregare agendo in contrario?
In secondo impedimento sono le cattive passioni. Per Origene al primo posto va collocata l’ira, e a questa possiamo aggiungere tutte le altre. Esse infatti distolgono, e sottraggono energia e attenzione.
Un terzo impedimento sono le preoccupazioni. Esse non permettono un giusto distacco e libertà interiore.
Un quarto impedimento è rappresentato dall’incostanza, dalla volubilità. In effetti la fantasia e la nostra immaginazione se non sono ben impiegate rischiano di affondare lo sforzo della preghiera. Inoltre la pigrizia può condurre a tralasciare la meditazione, oppure a prepararvisi e a svolgerla male e superficialmente.
In positivo Ignazio a chi si appresta alla meditazione richiede:
– la purezza di coscienza
– la mortificazione delle passioni
– la dedizione totale a Dio
– l’attenzione.
Queste virtù sono frutto di fatica e di una disposizione generale della propria vita: “Perciò quali vogliamo essere durante la preghiera, tali cerchiamo di essere prima di cominciare a pregare”. Il Faber aggiunge: “Chi volesse pregare solo quando viene dato il segno delle campane, difficilmente pregherà davvero, sarebbe un miracolo”.
II. PREPARAZIONE DELLA MATERIA (I PUNTI)
Sant’Ignazio annota: “Chi propone all’altro il modo e l’ordine sul come meditare e contemplare, deve fedelmente esporre la storia che è oggetto di quella contemplazione o meditazione, ma solo presentandola per punti con una breve e sommaria spiegazione, affinché colui che contempla abbia un vero fondamento; se poi egli riflette e medita da solo e trova qualche cosa, ciò dà una migliore chiarificazione ed un miglior senso alla storia. Sia per mezzo della propria meditazione, sia che la mente venga illuminata dalla potenza di Dio, vi è un maggiore gusto ed un maggiore profitto spirituale, che se colui che propone gli esercizi spiega a lungo il senso di quella storia; Perché non è il molto sapere che sazia e accontenta l’anima, ma il sentire e gustare le cose interiormente”.
Questi punti sono preparati la sera precedente: consistono nella lettura del testo, nella annotazione dei pensieri e delle domande.
Importante per Ignazio è che l’attenzione si fissi su ciò che sente importante. Lo scopo del metodo non è di limitare il libero discorso con Dio, ma di prepararlo con più possibilità di temi, affinché ad essi si possa ricorrere allorché ci si sentisse vuoti. Ciò nonostante la meditazione potrebbe non avere effetti. Si ritorni allora ad una lettura tranquilla e meditativa del testo.
III. ADDIZIONI
Siamo ancora nell’ambito della preparazione alla meditazione.
Prima addizione: quando mi metto a letto e ho già voglia di dormire penso, per il tempo di una Ave Maria, all’ora in cui dovrò svegliarmi, e mi ricorderò la meditazione della quale voglio occuparmi”
“Seconda addizione: quando mi sveglio non ammetto altri pensieri; ma concentro la mia attenzione su ciò che voglio meditare”.
Questi consigli li possiamo ritrovare anche in altri autori spirituali. San Bonaventura ad esempio scrive per i novizi: “Quando aspetti il sonno, recita i salmi, medita su qualche pensiero devoto o, ancora meglio, rappresentati nostro Signore sulla croce. Tutto questo mette in fuga il diavolo. Quando ti svegli, ritorna subito, non appena ti alzi, al pensiero del Crocifisso, segnati con il segno della croce e affrettati ad andare in chiesa”.
Tali consigli sono stati riscoperti dagli studi di psicologia che hanno sottolineato l’importanza delle immagini mentali, che soprattutto nel dormiveglia possono penetrare nel profondo di noi stessi. Karl Rahner annotava in un suo articolo: “Con una buona preghiera serale portiamo nel subconscio alcune immagini, le sacre rappresentazioni, visioni che corrispondono alle nostre profonde inclinazioni e desideri. Ciò poi agisce nel subconscio durante il sonno”.
La terza addizione è l’esercizio della presenza di Dio. Negli Esercizi la troviamo così descritta: “Uno o due passi davanti al luogo dove devo contemplare o meditare; mi soffermo, con la mente elevata verso l’alto, il tempo di un Padre nostro. Considererò come Dio, nostro Signore, mi guarda e farò un atto di adorazione o di umiltà”.
Giovanni Berchmans segue scrupolosamente questa indicazione: “Quando verrà il tempo della meditazione, mi chiederò: Dove vai? – Al Signore Dio! – E che cosa farai? – Parlerò con lui! Poi mi aspergerò con l’acqua benedetta. Quando suonerà la campana, farò il segno di croce, mi metterò ad uno o due passi dall’ inginocchiatoio e penserò che Gesù Cristo stia davanti a me guardando che cosa sto facendo. Gli manifesterò la mia stima con qualche gesto esteriore di umiltà, poi avanzerò, mi metterò in ginocchio e dirò: Signore Dio, ti prego, conduci tutti i miei pensieri, dirigi tutte le mie opere, affinché tutto sia consacrato al tuo servizio e alla tua gloria. Poi mi rivolgerò alla materia della meditazione con la memoria, con l’intelletto, con la volontà”.
In effetti nella preghiera è importantissima la consapevolezza della presenza di Dio, onde evitare il rischio che essa si trasformi in monologo. Per Ignazio è sufficiente un piccolo momento all’inizio. Notiamo come anche il corpo partecipa dell’adorazione. Anche il metodo sulpiciano attribuirà a questa immediata preparazione alla meditazione una grande importanza. Esso prevede la lunghezza di un quarto d’ora in cui si succederanno diversi atteggiamenti interiori: mettersi alla presenza di Dio, riconoscere la propria indegnità, riconoscere che il nostro peccato non ci fa degni di ascolto, la confessione dei peccati, la richiesta di perdono, il confiteor, l’invocazione allo Spirito.
IV. ATTEGGIAMENTO DEL CORPO
E’ la cosiddetta quarta addizione. Ignazio ne parla così: “Accediamo alla contemplazione sia in ginocchio, o giacendo con il volto verso terra, o supino, giacendo con il volto verso l’alto, sempre però con l’intenzione di cercare ciò che si vuole. Avremo due punti in evidenza: primo se trovo ciò che voglio inginocchiandomi, non andrò avanti (cioè non cambierò di posizione); se lo trovo giacendo volto a terra, similmente, ecc.; secondo, se trovo ciò che voglio in un punto (cioè in un pensiero preparato per la meditazione), vi resterò senza timore di dover procedere verso il punto seguente, vi resterò fino ad essere soddisfatto”.
Che senso hanno queste annotazioni? Servono a pacificare e semplificare al massimo la pratica meditativa soprattutto per chi è dissipato o troppo nervoso. Infatti la condizione essenziale per la meditazione è la pace interiore: “Prima di mettermi a pregare, cercherò di essere tranquillo: lo farò sia che mi siedo sia che passeggio. Solo dopo mi inginocchierò o mi metterò seduto a seconda di ciò che meglio aiuta alla devozione; chiuderò gli occhi o li fisserò su qualche oggetto senza muoverli”.
L’abate Cisneros raccomanda gesti espressivi che corrispondano esteriormente a ciò che si sta meditando. Nel giardino del Getsemani ci si metterà in ginocchio accanto a Gesù, o ai suoi piedi come Maria Maddalena, si volgeranno gli occhi a terra come il pubblicano, si guarderà al cielo come gli apostoli nell’ascensione.
Si ritiene dunque buono ogni sforzo che miri a far sì che il corpo aiuti e faciliti le funzioni dello Spirito.
V. CHIEDERE CIO’ CHE VOGLIO
E’ una nota che diede adito alla discussione circa il cosiddetto “volontarismo ignaziano”. Per alcuni gli esercizi sarebbero un’ottima scuola per esercitare il dinamismo della volontà.
Ma l’interesse di Ignazio è un altro. Egli si preoccupa che la meditazione abbia a sfociare nella vita, che sia ad essa strettamente collegata; che meditazione e vita interagiscano tra loro, affinché la vita venga sempre più trasformata nella volontà di Dio.
In questa fase la preghiera si fa più concreta. Infatti è il momento in cui occorre esprimere al Signore brevemente ciò che si intende raggiungere con quella meditazione specifica. Più chiaro è il fine più il risultato sarà buono.
Ad esempio si chiederà meditando la morte in croce di Gesù per i peccatori una penetrante conoscenza del proprio peccato.
Si prega per ottenere ciò che si desidera, ma sempre con il cuore aperto a qualsiasi illuminazione ci sia data da Dio.
VI. NUCLEO DELLA MEDITAZIONE: L’USO DELLE FACOLTA’
La meditazione è preghiera che coinvolge l’uomo interamente in tutti i suoi dinamismi. Questo corrisponde all’esperienza spirituale la quale sperimenta come la vita divina possa entrare in noi attraverso le nostre facoltà.
In uno scritto anonimo intitolato “Meditazioni devote dello stato dell’uomo” (PL 184) l’autore scrive: “Nel mio uomo interiore, nell’anima, troverò tre modi per ricordare Dio, pensare a lui e desiderarlo. E’ la memoria, l’intelletto e la volontà ossia l’amore. La memoria me lo ricorda, con l’intelletto lo guardo e con la volontà lo abbraccio”.
Teniamo presente che la meditazione ottiene oltre al fondamentale progresso spirituale anche, come conseguenza, un maggiore equilibrio e unificazioni delle facoltà umane che l’uomo sperimenta il più delle volte divise a causa del peccato.
Questo coinvolgimento delle facoltà avviene in modo proporzionato. Ciò sembrerebbe artificioso, ma notiamo che ogni schema pecca in questo senso, tuttavia esso rimane una strada necessaria affinché la meditazione possa essere viva, proficua e aperta all’influsso della grazia.
VII. RUOLO DELL’IMMAGINAZIONE
L’uso della memoria è legato a quello dell’immaginazione che sembra ai più tuttavia nuocere più che aiutare la pratica meditativa (es. il problema delle distrazioni). L’obiezione è in effetti giustificata.
Un cavaliere che cavalca un cavallo indomito ha due possibilità: o di domarlo sottomettendolo oppure di scendere rinunciandovi.
I padri della tradizione orientale scelsero la seconda soluzione: lo spirito, per essi, deve assolutamente e al più presto liberarsi da ogni tipo di immaginazione; occorre infatti creare le condizioni per un deserto esteriore ed interiore. Ritroviamo la stessa dottrina anche in Giovanni della croce: alla luce di Dio si giunge tramite la “notte dei sensi”. Non bisogna ricorrere a nessuna immagine neppure esteriore.
In Ignazio troviamo tuttavia il tentativo di scegliere la prima soluzione: per lui il pensare umano non può essere angelico. Esso è sempre accompagnato dall’immaginazione. Questa deve così rientrare anche nella meditazione. D’altra parte lo stesso vangelo non è infatti un racconto di fatti e non un insieme di regole astratte o teoriche?
Negli Esercizi, all’inizio della meditazione, Ignazio pone dei preamboli. Anzitutto l’immaginazione del luogo (compositio loci): “Vedrò nell’immaginazione il luogo, la via di Nazareth a Betlemme, osserverò la sua lunghezza, larghezza, se sia un cammino diritto o attraverso vallate e colline. Ugualmente guarderò, in spirito, il luogo della nascita, la grotta, se è grande o piccola, bassa o alta, come è ordinata”.
Di questo uso dell’immaginazione ne parla anche Francesco di Sales, come terzo punto del suo metodo: “Alcuni lo chiamano rappresentazione del luogo, altri lettura interiore. Consiste nel fatto che vedo nell’immaginazione l’intero mistero che devo meditare, come se fosse realmente davanti ai miei occhi. Per esempio, quando si deve meditare su Gesù Cristo in croce, si immagina di essere sul monte Calvario e di vedere tutto ciò che avvenne nel giorno della passione. O, se si vuole dare la preferenza al modo contrario, il cui effetto è medesimo, ci si immagina che la crocifissione accada nel luogo ove ci si trova nel modo descritto dai Vangeli. L’effetto di una tale rappresentazione è che la mente si mantiene legata a quel mistero che si vuol meditare e non divaga qua o là, come quando un uccello si chiude nella gabbia o quando un falco si lega alla corda affinché non voli via dalla mano del cacciatore”.
Vengono dunque offerte due possibilità: o di trasferirsi mentalmente nel luogo evangelico o di trasferire i protagonisti del fatto nel luogo in cui ci si trova. E’ da notare che questo secondo modo è stato amato dalla pietà popolare: essa ha fatto sorgere i Calvari, i santi sepolcri, i sacri monti, i presepi… in alternativa ai pellegrinaggi spesso impossibili.
Ignazio tuttavia ricorda che l’immaginazione va sempre usata con molta discrezione, e non a tutti in egual misura. “Quanto alla immaginazione del luogo, non è consigliabile dedicare ad essa né troppo tempo né troppa fatica. Non crediamo che essa sia lo scopo principale della meditazione. E’ solo un mezzo per raggiungere il frutto. Essa è più facile per quelli che hanno una fantasia viva. Agli altri è difficile. Non devono quindi affaticarsi per non stancare la testa e non ostacolare così la meditazione”. (Direttorio 1599).
Per alcuni sarà bastante una semplicissima immagine, una allegoria o addirittura un canto o un’antifona che introduca nel mistero da meditarsi.
VIII. IL COLLOQUIO
Per certuni più riflessivi il rischio è che la meditazione si trasformi in studio o riflessione perdendo la caratteristica di preghiera.
Ignazio raccomanda che la riflessione sia alternata da un parlare spontaneo a Dio o ai santi. Quanto più questo colloquio è praticato tanto meglio è. Esso non deve mai mancare, soprattutto verso la fine della meditazione.
Negli Esercizi troviamo diversi esempi di colloqui. Dopo la meditazione sul peccato si invita a “immaginare Cristo, nostro Signore, davanti a noi crocifisso. Il colloquio lo facciamo sul perché Gesù, il Creatore è venuto a farsi uomo scendendo dalla vita eterna, nella morte del tempo e come avvenne che è morto per i miei peccati. Poi guarderò me stesso, ciò che ho fatto io per Gesù Cristo e ciò che devo fare per lui, quando lo osservo così pendente dalla croce. Penserò a ciò che mi potrà accadere. Questo colloquio lo si fa in modo giusto se lo facciamo come quando un amico parla ad un altro amico o come un suddito al suo superiore, o come colui che chiede qualche grazia o che riconosce la sua colpa in qualche cattiva azione o come chi propone i suoi progetti chiedendo consiglio. Alla fine reciteremo un Padre nostro”.
Negli esercizi troviamo pure menzione di un “triplice colloquio“. Non è solo un sussidio a livello psicologico, ma rappresenta una espressione della verità di fede nella comunione dei santi, attraverso i quali si accede alla verità di Dio.
Ad es. dopo la meditazione sul peccato, Ignazio suggerisce: “Il primo colloquio sarà con la Nostra Signora affinché ella mi ottenga da suo Figlio tre cose: che io abbia una conoscenza profonda dei miei peccati e orrore di essi; che io veda il disordine delle mie azioni e che io senta avversione verso il peccato per migliorare e ordinare la mia vita: pregare per avere conoscenza del mondo, per sentire disprezzo per esso e affinché io tenga lontane da me le cose mondane e vane. Poi dirò un’Ave Maria. Il secondo colloquio lo si farà con il Figlio, affinché mi ottenga lo stesso dal Padre e poi pregherò “Anima di Cristo”. IL terzo con il Padre che mi conceda le stesse cose egli, eterno Signore; e poi reciterò un Padre Nostro”.
Non è indispensabile che sia un triplice colloquio, e può essere fatto con diversi interlocutori. Essi sono spontanei “come quando l’amico parla all’amico”.
IX. ESAME
Alla fine della meditazione sarà utile una specie di esame della meditazione svolta, circa la sua preparazione, lo svolgimento, il frutto. Talvolta sarebbe utile scrivere qualche breve nota su un diario spirituale, per poter anche in seguito risvegliare disposizioni, sentimenti, e propositi di vita interiore.
I maestri spirituali hanno cura che la meditazione sia sempre chiamata a penetrare nella vita, affinché essa venga sempre più trasformata e resa contemplativa.
S. Francesco di S. parlando di questo argomento scrive nella Filotea: “Da tutto ciò che abbiamo meditato dobbiamo legare un mazzetto spirituale. Quando uno ha camminato nel giardino dove si trovano vari fiori, non resiste a non coglierne qualcuno che porta con sé annusandone il profumo. Così anche noi, quando abbiamo meditato su qualche mistero dobbiamo tenere a memoria due o tre pensieri che ci sono particolarmente piaciuti e che ci sosterranno nel progresso spirituale; rievocheremo questi pensieri frequentemente durante la giornata, affinché il loro profumo penetri nel nostro spirito. Questo dobbiamo fare nel luogo della meditazione. Dopo di essa resteremo ancora un momento in silenzio o cammineremo da soli”.
8. LUIGI DA GRANADA
A partire da sant’Ignazio si farà grande uso dei metodi di meditazione, nei quali tuttavia ritroveremo più o meno sempre gli stessi elementi: un uso sistematico dell’immaginazione e dei sensi interiori, una affettività suscitata e alimentata, una trasposizione della materia meditata tesa ad un discorso di tipo ascetico o morale.
In questo senso l’opera “Libro de la oracìon y meditaciòn” del padre domenicano Luigi da Granada (1504- 1588) fu un vero e proprio best seller. L’autore propone un metodo in cinque punti:
– preparazione
– lettura dell’ oggetto da meditare
– meditazione
– azione di grazie
– domanda.
L’insegnamento qui offerto è molto equilibrato; anzitutto mette in guardia dal trasformare l’orazione in studio, inoltre si denunciano coloro che “non pretendono nient’altro che di ricavare piacere e gioia spirituale“. Per quanto riguarda l’immaginazione, per Luigi da Granada è bene usarla “al fine di giungere ad un più forte concetto e sentimento“, ma senza eccessi per “non cadere nel gioco di qualche illusione e scambiare delle semplici immagini per la realtà“. Equilibrio pure tra l’attenzione a sé e a Dio: la preparazione implica infatti ad es. la contrizione dei peccati, ma senza appessantirvisi perché è meglio “piangerli nell’abisso della misericordia domandando a Dio rimedio e perdono“. Più importante ancora è porsi “alla presenza di Dio” presentandosi a lui come il lebbroso del vangelo che domanda guarigione.
L’attività umana è necessaria nell’orazione, ma ricordando che “la devozione non si acquista a forza di braccia“, occorre attendere con pazienza la visita del Signore.
La preghiera di domanda può e deve portarci a chiedere “le cose di cui sentiamo un bisogno particolare“, allargando tuttavia il cuore ai bisogni della chiesa e del mondo intero.
Infine, nella logica del suo cristocentrismo, Luigi da Granada, invita a dare priorità alla meditazione della Passione del Salvatore e al mistero della redenzione.
9. IL CARMELO RIFORMATO
La spiritualità del Carmelo riformato ha per fine specifico la contemplazione, dunque l’orazione vi appare come lo strumento privilegiato per attendervi. I grandi maestri sono s. Teresa d’Avila (+1582) e s. Giovanni della Croce (+1591).
Sostanzialmente i metodi di meditazione riprendono quelli di Luigi da Granada. Tuttavia vi si introduce un punto nuovo, una contemplazione o colloquio affettivo tra la meditazione e il ringraziamento. Questa aggiunta susciterà alcune discussioni circa il rapporto tra meditazione, contemplazione acquisita e infusa.
Essi danno tre avvertimenti importanti circa la meditazione:
– mai tralasciare nell’orazione di aderire alla umanità del Salvatore
– non confondere nel proprio colloquio affettivo la propria immaginazione con la risposta di Dio.
– l’amore sensibile è secondario nei confronti di un amore puro frutto di una volontà di fede.
IL PASSAGGIO ALLA CONTEMPLAZIONE
Sottolineiamo il fatto che ritroviamo nella scuola carmelitana una duplice tendenza: essa possiede un forte carattere affettivo, e un orientamento verso forme superiori di orazione.
Ne consegue che i due riformatori non misconoscono l’importanza che ha la meditazione nella fase iniziale del cammino spirituale, ma insegnano che si tratta sempre e solo di un esercizio per principianti, perché la meta a cui tendere è una forma di preghiera che consiste nella contemplazione acquisita.
Infatti la letteratura spirituale afferma che la fase successiva alla meditazione è la contemplazione. Anche se ciò non accade né in modo automatico né necessario. Rimane però il problema di quali possono essere i segni indicatori di questo possibile passaggio. Giovanni della Croce (SMC e NO) da i suoi avvisi che rimangono classici:
– vi è quasi sempre un miscuglio di elementi naturali e soprannaturali
– mancanza di gusto per le cose di Dio e le cose create
– l’impossibilità di meditare producendo atti distinti di conoscenza e volont�
– l’anima si compiace di essere sola con Dio senza considerazioni interiori e in pace con se stessa.
10. LA SCUOLA FRANCESE: S. FRANCESCO DI SALES
Mentre Ignazio di Loyola e Luigi da Granada riservavano il loro metodo di meditazione soprattutto all’ambito della vita religiosa, la preoccupazione di s. Francesco di Sales (+1622) è di offrire anche ai laici un metodo semplice a loro adatto. L’opera più significativa è l’Introduzione alla vita devota (1608) dove l’autore presenta a Filotea “un metodo semplice e breve” che comporta tre parti e una conclusione.�
Quanto alla materia della meditazione Francesco di Sales presenta diverse tematiche a scelta, tuttavia raccomanda di fare orazione soprattutto sulla vita e passione di Cristo: “Noi non sapremmo come andare a Dio se non attraverso questa porta”.
Sottolineiamo due sue istanze :
1. anzitutto l’importanza data all’esercizio preparatorio della presenza di Dio, di cui egli esplicita quattro modalità (onnipresenza, inabitazione della grazia, l’umanità di Cristo in cielo, e in noi). Alle visitandine consegnerà addirittura un metodo di preghiera fondato semplicemente sulla consapevolezza della presenza di Dio.
2. Successivamente il carattere affettivo e soprattutto pratico che egli attribuisce all’orazione, al punto di giungere a stimare che, senza il frutto concreto di risoluzioni precise, la meditazione “è spesso non solamente inutile, ma riprovevole, poiché le virtù meditate e non praticate gonfiano ingannevolmente lo spirito e il coraggio”.
11. IL METODO SULPIZIANO
Fu formulato da J.J Olier (+1657) nell’ “Introduzione alla vita e alle virtù cristiane” (1661). Per quest’autore la meditazione rappresenta uno strumento privilegiato per conservarsi in un atteggiamento di umiltà interiore necessario affinché l’anima sia inabitata dallo Spirito di Gesù.
Scrive: “Abbiamo creduto di dover offrire a questo punto un metodo che faciliterà parecchio questo esercizio… Esso consiste nell’aver Gesù davanti agli occhi, nel cuore e nelle mani”. Questo metodo non fa che dare espressione all’essenziale della vita cristiana: “Il cristianesimo consiste in questi tre punti, e questo metodo di orazione li comprende tutti: imparare a guardare Gesù, a unirsi a Gesù, ad operare in Gesù. Il primo punto conduce al timore e alla religione, il secondo all’unione e all’unità con lui, il terzo all’agire non individualistico ma congiunto alla forza di Cristo Gesù” (cap. 4).
Avere Gesù davanti agli occhi, osservandolo adorare, santificare il nome Dio. Ciò corrisponde alla prima parte del Pater. Si tratta di rivestirsi di un atteggiamento adorante. Si tratta già di una impregnazione silenziosa di tutta la persona che si espone in qualche modo all’azione interiore dello Spirito di Gesù.
Avere Gesù nel cuore, e attraverso questo entrare in comunione con lui. Gesù continua infatti a rivivere nelle sue membra i suoi misteri e le sue virtù; lo Spirito che le operò in lui le riproduce ancora oggi nel cristiano. “In questa parte dell’orazione, ci si dona a Dio per entrare in comunione con ciò che lui è… La partecipazione che si fa nell’orazione si chiama comunione spirituale, a motivo dei doni che Dio vi comunica attraverso l’operazione intima del suo Spirito”.
La meditazione perciò diviene momento privilegiato di adesione a Cristo che si riversa in noi amandoci col e nel suo Spirito: essa implica un’offerta di se e un’attenzione silenziosa all’azione trasformante dello Spirito. Olier insiste molto su una docilità attenta e un’accoglienza silenziosa dello Spirito, verso il quale non bisogna opporre ostacolo. Questo secondo momento dell’orazione è la concretizzazione della seconda parte del Pater: “Il Regno di Dio viene in noi allorquando, nella preghiera, noi attiriamo il suo Spirito su di noi, il quale con la sua forza ci assoggetta interamente a lui”.
Il terzo tempo è Gesù nelle mani.. Si tratta della nostra cooperazione che tende alla realizzazione della terza domanda del Pater: “Portare Nostro Signore nelle mani significa volere che la sua divina volontà si compia in noi… Gesù Cristo… deve essere operante in noi e attraverso noi”.
A questo punto si farà il “buon proposito“. Coerente con l’accento posto sul dono di Dio e l’azione dello Spirito piuttosto che sullo sforzo dell’uomo, Olier preferisce alla parola risoluzione quella di cooperazione, la quale sottolinea più nettamente la dipendenza dalla grazia: la domanda essenziale sarà di offrirsi a l’azione dello Spirito perché sia lui a operare in noi i “buoni propositi”.Citiamo infine san G.B. de la Salle. Nella sua “Spiegazione del metodo di orazione“, mette in evidenza soprattutto l’importanza del porsi alla presenza di Dio. Egli addirittura consacra tutta la prima parte dell’orazione a questo esercizio: “Non bisogna fermarvisi poco tempo, perché esso contribuisce anzitutto a far scaturire lo spirito di orazione.
12. LA MEDITAZIONE DELLA PASSIONE
IN S. PAOLO DELLA CROCE
I. IMPORTANZA
Per S. Paolo della Croce (1694-1775) la meditazione della Passione è via eccellente per giungere alla perfezione della vita cristiana. Essa è “ss.ma scuola dove si impara la vera sapienza”.Per questo egli si augura che le anime da lui dirette siano fedeli alla pratica meditativa quotidiana sui misteri della Passione: “Sopra tutto prego il dolce Gesù che imprima nel di lei cuore la continua, tenera e divota memoria della sua SS.ma Passione, che è il mezzo più efficace per essere santo nel suo stato. A tale effetto supplico SDM che le conceda la grazia di non lasciare passare giorno senza meditare qualche mistero della SS.ma Passione per mezz’ora, lo accerto che conserverà l’anima sua monda di ogni peccato e ricca di virtù, tanto più se accompagnerà tale meditazione colla divota frequenza dei SS.mi Sacramenti e la lezione dei libri sacri” (LETT. IV,140)Per il santo tale meditazione rappresenta anzitutto una immersione nell’amore infinito di Dio per l’uomo, ed è perciò che non può assolutamente ritenersi superflua: “non si deve lasciare, abbenché vi fosse il più profondo raccoglimento e altro dono di orazione, anzi questa è la porta che conduce l’anima all’intima unione con Dio” (lett. I,582).
Si tratta di una meditazione adatta a tutti: clero, religiosi e laici. Ai genitori raccomanda ad esempio che insegnino già ai piccoli a meditare “con parole semplici e infantili” in modo da introdurre i figli in questo metodo di orazione.
II. METODO
Non si può dire che san Paolo abbia sviluppato un suo vero e proprio metodo. E’ molto interessante e significativo invece il fatto che egli facesse anzitutto attenzione alla singola persona, alle sue condizioni e possibilità. Partendo da questo presupposto si comprendono le differenti indicazioni che Paolo della Croce offre per l’esercizio della meditazione alle varie persone da lui dirette.
L’aspetto comunque fondamentale resta il fatto che egli proponesse a tutti un cammino ascendente: partendo da una riflessione discorsiva si giunge ad un riposo contemplativo passivo, ovvero, dall’impiego attivo dell’immaginazione si arriva ad un silenzio adorante privo di immagini e di parole. Egli vuole introdurre le anime ad una esperienza prettamente mistica.
I COLLOQUI CON GESU’ APPASSIONATO
Una sua caratteristica sono i colloqui con Gesù sofferente.
Di tale meditazione ne troviamo traccia già nel Diario Spirituale: “So che feci anche dei colloqui sopra la dolorosa Passione del mio caro Gesù, quando li parlo de’ suoi tormenti li dico: Ah! Mio caro Bene, quando foste flagellato come stava il vostro SS. Cuore, caro mio Sposo, quanto v’affliggeva la vista dei miei gran peccati e delle mie ingratitudini: Ah! Mio Amore perché non muoio per voi? Perché non vengo tutto spasimi? E poi sento che alle volte lo spirito non può più parlare, e se ne sta così in Dio con i suoi tormenti infusi nell’anima” (I,401).
Questi colloqui si riferiscono a scene concrete della passione storica di Cristo. Essi fanno parte sostanziale della meditazione, anche di quella a livello comunitario che egli prescrive da svolgersi durante le Missioni. Vediamo in questo metodo un ricorso soprattutto alle facoltà dell’immaginazione e dell’affettività.
Incentrandosi soprattutto sul mistero dell’amore, perno dell’evento salvifico della passione, si ottiene che la meditazione venga sempre più essenzializzata e spiritualizzata. In effetti la mira è che il pensiero lasci posto all’intuizione mistica.
I colloqui sono perciò definiti “intrattenimenti di amore”. Paolo Danei continua nel suo Diario: “Sappia che nel raccontare le pene al mio Gesù, alle volte come ne ho raccontata una o due, bisogna che mi fermi così perché l’anima non può più parlare e sente liquefarsi, sta così languendo con altissima soavità mista con lagrime, con la pena infusa nel suo Sposo infusa in sé, o pure, per più spiegarmi, immersa nel cuore e dolore santissimo del suo Sposo dolcissimo Gesù” (diario 8.12.1720). Non troviamo in san Paolo nessun ricorso a quel razionalismo tipico dell’età dei lumi, anzi riscontriamo un movimento quasi opposto.
MEDITAZIONE DELLA PASSIONE STORICA DI GESU’
Nelle lettere troviamo esempi concreti di meditazione sui fatti storici della Passione.
Paolo della C. Avverte, facendosi eco di tutta una tradizione precedente, di “non aver fretta di passare da un punto all’altro” ma di avere l’accortezza di fermarsi “dove si prova più devozione e raccoglimento”. Ciò che interessa infatti non è la completezza del metodo o del procedimento, ma che avvenga un dialogo sincero, cuore a cuore, con Dio. Sentiamo le parole del santo: “Io ve ne porgo un esempio. Figuratevi sopra la flagellazione. Ah, dolce Gesù mio, fosti condannato ad essere flagellato, onde qui perfidi ti condussero al luogo della flagellazione, ove avanti tutto il popolo ti spogliarono delle tue povere vesti… Oh Gesù mio, oh amor mio, oh vita mia, come ti vedo avanti tutto il popolo sì vilmente spogliato! Dunque colui che veste i nudi è spogliato sì vilmente delle vesti? Dunque colui che fa ardere i suoi amanti col suo dolce fuoco, or gela e trema di freddo? Dunque la gloria del cielo è così vilipesa? Ah amor mio! Vorrebbe pur il dovere che se tu, che sei il Re dei Regi, la gloria del cielo, per me sei spogliato, ancor io mi spogliassi affatto dell’amor del mondo e di tutte le creature. Ah! Quando, vita della mia vita, amerò te solo? Ah!, quando ti darò tutto il cuore? Ah! Quando sarò teco unita senza mezzo alcuno? Così potrete regolarvi nel meditare la flagellazione, le piaghe, i tormenti, ecc. E lo stesso negli altri misteri. Ma bisogna fermarsi alquanto negli affetti, fermarsi con vista di viva fede nel mistero, acciò l’anima più si infiammi d’amore” (lett. III,359).
Il filo conduttore resta dunque questo dialogo a tu per tu con Gesù appassionato. San Paolo non è affatto preoccupato di dipingere con particolarità le scene dell’azione; egli insiste piuttosto sull’infiammare il cuore con gli affetti. Le scene rimangono così solo sullo sfondo.
Il fine infatti, occorre far molta attenzione, non è di suscitare una mera compassione sentimentale, non sarebbe sufficiente per una vera meditazione, ma una compassione che spinga la volontà a muoversi, a conformarsi a ciò che medita. L’obiettivo cioè rimane l’imitazione delle virtù di Cristo.
DALLA MEDITAZIONE ALLA MISTICA DELLA PASSIONE
Si potrebbe enucleare tutto il discorso sulla meditazione di san Paolo della Croce dicendo che il suo interesse è quello di creare in colui che medita una visione interiorizzata e trasformante della Passione.
Scrive il fondatore dei passionisti: “Un semplice sguardo di fede a qualche mistero particolare della Passione o a tutta in genere, può tenere l’anima in alto raccoglimento”. Notiamo qui alcuni dati importanti:
si suggerisce un “semplice sguardo di fede” e un’attenzione amorosa (=raccoglimento) a Dio.
Gli affetti non fanno divagare in inutili distrazioni, ma fissano immediatamente sul mistero di Cristo sofferente, introducendo l’anima ad un’esperienza tipicamente contemplativa o quasi mistica: “In quanto all’oscurità e tenebre che prova nell’orazione, non sono segni questi che sia abbandonata, come V.R. crede, ma è segno che Dio benedetto vuole che la sua orazione sia tutta in fede purissima. La fede oscura guida sicura del santo amor. Oh! Qual dolcezza la sua certezza mi reca al cuor! Così cantava un’anima divota. V.R. si porti all’orazione un mistero della passione di Gesù Cristo, e spogliata di ogni immagine, con l’intelletto netto da ogni altro pensiero, se n’entri dentro il tempio interiore del suo spirito e con un dolce soliloquio sopra quel mistero, ma sempre in pura fede, si lasci tutta perdere nel mare immenso della divina carità ed ivi in sacro silenzio di fede e di s. Amore si riposi in Dio puramente, stando con la mente ossia con la parte superiore dello spirito con attenzione amorosa al Sommo Bene, ma non faccia ritornelli sopra se stessa, ma riposi in pace nel seno di Dio. E quando le mosche delle distrazioni svolazzano attorno al suo spirito non faccia altro che un pacifico ravvicinamento di fede della divina Presenza in se stessa ed accompagni quel ravvicinamento di fede con uno slancio amoroso, ma fatto con l’apice dello spirito, senza il minimo sforzo sensibile, per esempio: Ah! Padre! Ah Bontà! E basta o è ancor troppo, ed in tal forma prosegua a starsene tutta in Dio con attenzione amorosa nel sacro deserto interiore dello spirito suo. In tal forma l’anima sua rinascerà a vita deifica nel Divin Verbo, il dolce Gesù” (lett. IV,48).
In questa mistica del raccoglimento non si esige nessun sforzo di fantasia o di intelletto: “spogliata di ogni immagine, con l’intelletto netto da ogni altro pensiero”, questo facilita il rimanere completamente in Dio in un “sacro deserto interiore“. Siamo nella linea di quel “fondo dell’anima” di cui parla la mistica renana (Eckart, Taulero, ecc…).
Meditazione della Passione (e sua esperienza mistica) ed esercizio delle virtù in essa contenute sono il cammino che l’uomo deve intraprendere con l’aiuto della grazia per conformarsi alla volontà di Dio. E questa via non può mai essere abbandonata “abbenché vi fosse il più profondo raccoglimento ed alto dono di orazione”.
Per Paolo Danei dunque questa meditazione rappresenta la porta privilegiata per la contemplazione, ovvero per un’esperienza di Dio: “Ego sum ostium, et nemo venit ad Patrem nisi per me; ma quando poi l’anima si perde nell’immenso della Divinità, standosene in quella vista di fede e di amore dell’infinito Bene tutta cibata d’amore e di carità, deve star così; e sarebbe errore ben grande il divertirsi ad altro. E che si crede lei, che sebbene le pare di perder di vista la SS.ma Passione, che non resti ad essa unita? “Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo” (Gal 3,27). “La vostra vita è nascosta con Cristo in Dio” (Col 3,3)”” (lett. II,810).
EFFETTI DELLA MEDITAZIONE DELLA PASSIONE
Da perseveranza in questa meditazione si trarranno due principali effetti:
– il timore e l’abbandono del peccato avvertito come il più grande male
– l’accesso alla contemplazione.
L’anima si sentirà soprattutto “penetrata di amore e di dolore, cosicché i dolori di Gesù diventano i propri dolori“. Ciò non dipende da una particolare tecnica ma è puro dono di grazia. Sono “pene infuse” che rendono atti a partecipare alla stessa passione del Figlio di Dio. L’uomo diventa capace di amare nello stesso amore di Dio, aprendosi ad un mistero di compassione e di intercessione: “Questo è un lavoro tutto divino… Amore doloroso, dolore amoroso”. Ci troviamo nel linguaggio poetico dell’esperienza contemplativa.
Forte è pure l’accento che Paolo della Croce pone per invitare ad uno stile di vita meditativo: egli continuamente suggerisce la pratica del ritiro, del silenzio, del raccoglimento, dell’esercizio delle virtù. Questo rimane infatti sempre il substrato fondamentale per attuare un’autentica meditazione. A sua volta questo substrato favorisce la progressiva partecipazione alle virtù di Gesù sofferente.
Da quanto detto possiamo comprendere l’impegno che Paolo della Croce domanda ai suoi religiosi di promuovere la meditazione della passione: “risveglino le anime addormentate nel peccato colla continua, divota meditazione, delle medesime ss.me pene affinché s’accendano più di santo amor di Dio” (lett. IV,229).
Questo è per il fondatore dei passionisti il mezzo più efficace nell’apostolato.
13. CONCLUSIONE
Sembra utile evidenziare alcune costanti che si possono ricavare da questa sommaria panoramica, cercando di scoprire anche il loro significato.
Si possono evidenziare tre principali aspetti.
1. Vi è un’insistenza generale sull’esercizio primario del porsi alla presenza di Dio. In questa sottolineatura possiamo scoprire la consapevolezza che per la preghiera cristiana l’esercizio della meditazione, non è tanto uno sforzo di volontà, quanto piuttosto l’accoglienza e il riconoscimento di una relazione, non è tanto una conquista del dominio di sé quanto il consegnarsi all’Altro il quale è sorgente del nostro essere, agire, amare. La meditazione non è dunque un concentrarsi su di un’idea ma è frutto e radice di una apertura all’azione della grazia in noi.
Da ciò comprendiamo ad esempio l’invito di più autori a porre all’interno dell’attività meditativa i colloqui affettivi.
2. Tutti i metodi sottolineano il ruolo primario della s. Scrittura, in particolar modo la necessità di ritornare senza sosta sulla vita e gli insegnamenti di Cristo, sui suoi “misteri”, non in vista di studi esegetici, ma al fine di una trasformazione cristiana dell’esistenza, di una evangelizzazione della vita quotidiana. In questo senso tutti i metodi ripetono che la meditazione è indissociabile dal suo aggancio profondo della rivelazione con l’esistenza quotidiana, la sua verità e la sua utilità dipendono dallo stile cristiano di tutta l’esistenza.
3. I maestri di meditazioni raccomandano la povertà e l’umiltà interiore, l’accettazione dei ritmi lenti e imprevedibili dell’orazione, lo scopo è uno solo: l’unione profonda con il Dio vivente, la docilità alle mozioni dello Spirito. Per questo il metodo appare sempre un semplice strumento e mai un fine: è buono quando aiuta, cattivo quando asservisce. E’ lo Spirito il solo maestro di orazione.
Rimangono sempre aperti alcuni problemi che di volta in volta si ripropongono, i quali se teoricamente è facile risolvere, praticamente necessitano sempre di saggio discernimento: come conciliare il dono di Dio e lo sforzo ascetico dell’uomo? L’attività con la passività? La parola col silenzio? Il rendimento di grazie con la supplica?… Si tratterà di volta in volta di ricercare un saggio equilibrio in base alle situazioni concrete in cui la persona si trova.
14. LA MEDITAZIONE CORPOREA
La storia della spiritualità ha visto nel nostro occidente lo sviluppo di una certa metodologia della preghiera meditativa che fa ricorso al silenzio, alla dinamica intellettuale, immaginativa, affettiva e volontarista. In questo contesto il corpo appare più un impedimento che un aiuto alla pratica meditativa.
Fino all’epoca moderna in effetti la dimensione corporea non è stata presa in considerazione. Tuttavia sia nella tradizione monastica, negli Esercizi di sant’Ignazio come nella spiritualità domenicana ritroviamo una certo ricorso ad essa. San Tommaso (ST II,II,84,a2) insegna ad es. che la preghiera corporale è buona e valida, egli infatti si colloca sulla scia degli insegnamenti di san Domenico. (Cfr. il testo dal titolo “Le nove maniere di pregare di san Domenico“: la preghiera è fatta di inchini profondi e lenti, di prostrazioni, genuflessioni frequenti, di lacrime, nel tenersi tesi al cielo “sulla punta dei piedi, le mani levate al cielo”).
Trasformare il corpo in linguaggio
Il corpo è chiamato a innescare il processo interiore della preghiera. Un autore moderno fr. R. Schutz afferma: “Non saprei come pregare senza il corpo. In certi periodi ho coscienza di pregare più con il corpo che con la mente. Il corpo è là, ben presente, per ascoltare, capire, amare. Sarebbe una beffa fare i conti senza di lui”.
In rapporto alla pratica meditativa si tratterà ad esempio di far sì che il corpo raggiunga una certa sufficiente integrazione fisica, psichica e spirituale, perché è solo da una base di unità e di quiete che può scaturire una buona meditazione.
Un ulteriore aspetto è lo sforzo di far sì che lo stesso corpo si trasformi in linguaggio di preghiera: “i movimenti del corpo aiutano la liberazione della mente e le trasformazioni del mentale permettono al corpo di esplicare tutte le proprie potenzialità”.
Accanto a questo discorso quindi si affiancherà la ricerca di posizioni che facilitino la meditazione
15. LA MEDITAZIONE CRISTIANA OGGI
IL CONFRONTO CON ALTRE TRADIZIONI
Il concetto di meditazione ed elementi comuni
Oggi la tradizione meditativa cristiana viene a trovarsi a confronto con altre concezioni di meditazione di importazione soprattutto asiatica. Il successo di metodi importati dall’Est asiatico potrebbero essere considerati quasi un prolungamento della rivoluzione copernicana, di cui Kant e Jung potrebbero essere i nostri più immediati antecessori.
Certamente esistono dei punti in comune:
1. Si tratta di una esperienza di senso. Esperienza e quindi non semplicemente riflessione. Senso della vita, ovvero di una totalità e non di qualcosa di immediato e contingente.
2. Si tratta di un esercizio e di metodo.
3. Si tratta di un superamento del superficiale per tendere ad una realtà più profonda e vera. Superamento del proprio Io al fine di raggiungere un livello più profondo di consapevolezza di SE.
L’aspetto specificatamente cristiano
Possiamo ritrovare tre orientamenti di fondo:
1. In relazione allo Yoga: lo Hata-Yoga con la sua attenzione consapevole all’elemento corporeo.
2. In relazione con lo Zen: forma estrema del buddismo, esperienza del vuoto e dell’unità primordiale. La parola “zen” indica la concentrazione. Lo Zen non è né religione né filosofia, si tratta di un’esperienza personale che si colloca al di là dei concetti discorsivi. L’Illuminazione (“satori”) fa intuire o meglio toccare (sentire) il mistero dell’esistenza: è la riscoperta del significato primo ed elementare delle cose mediante un’adesione immediata che scavalca l’attività discorsiva. Comporta l’abbandono della guardia intellettuale. Fondamentale per lo zen è l’eperienza del vuoto di sé, l’abolizione di ogni differenziazione.
3. In relazione alla Meditazione Trascendentale: che si avvicina in qualche modo alla recita del rosario in occidente, o alla preghiera di Gesù.
Ciò che appare urgente sottolineare o meglio denunciare è una certa qual semplificazione e cattiva divulgazione nella nostra cultura dei dati offerti da queste tradizioni. Si assumono aspetti esteriori o metodi estetici prescindendo dalla loro antropologia; o viceversa vengono riletti autori cristiani (cf Eckart e i mistici) alla luce di quelle tradizioni. Così constatiamo ad esempio un ventaglio che si estende da esercizi utili e inoffensivi sino ad altri che mettono a rischio lo psichismo, da esercizi che possono essere ben integrati nella dottrina cristiana sino ad altri che coltivano un atteggiamento anti-cristiano.
Ritengo che tutte queste eccessive semplificazioni siano deleterie per entrambe le tradizioni, impedendo un loro effettivo e fruttuoso dialogo.
Sembra dunque necessario, più che fermarsi ad inutili discussioni e confronti circa metodi ed esercizi vari, andare direttamente alla radice del problema ovvero impiegare la propria riflessione e attenzione allo schema di base.
Il discorso circa la meditazione deve essere inserito in un discorso globale, ovvero all’interno del quadro della visione del mondo, del concetto di Dio, dell’esperienza spirituale, della mistica, della preghiera…
Qui si evidenzia subito in questo senso una fondamentale divergenza. Nella tradizione orientale la meditazione non ha direttamente significato religioso in quanto essa riveste importanza solo per una retta impostazione della propria coscienza, al fine di disporsi ad un’esperienza di sé.
Le teorie e le pratiche orientali fanno riferimento ad una “metafisica dell’unità”: ogni molteplicità e differenza deve essere superata e cancellata nella ricerca di un Principio Unitario Transpersonale, l’individuo deve creare dentro di sé il vuoto.
Nel cristianesimo al contrario la meditazione è un esercizio preparatorio ad un incontro, un volgersi verso l’Altro che non è considerato come oggetto ma come un “Tu” che mi interpella: si tratta di una relazione con la vita trinitaria, e non l’oceano indifferenziato dell’unità.
La meditazione cristiana è attività essenzialmente religiosa e che domanda una presenza attiva e consapevole del soggetto. Quindi la persona nella sua unicità è un dato fondamentale nella teologia. Da qui l’importanza della storia e la sua direzionalità, la ragione dell’azione morale e della scelta tra bene e male, (e non la loro indifferenziazione) affermando così di conseguenza il dato fondamentale della libertà dell’uomo
Per la meditazione cristiana la figura di Cristo non è un ostacolo per l’esperienza dell’infinità e misteriosità di Dio. Egli è piena e perfetta rivelazione del Padre. L’incarnazione vi è accolta in tutta la sua verità sconcertante: Dio presente totalmente nell’ umanità perfetta di Gesù di Nazareth. Così ancora una volta appare evidente come la Croce e la Risurrezione servono da criterio di discernimento per ogni forma di meditazione che si voglia dire cristiana. Croce intesa non solamente come simbolo di unificazione universale ma come continuazione “dell’agonia di Gesù fino alla fine dei tempi” (Pascal); Resurrezione dell’uomo nella sua totalità e non solamente come trasmigrazione dell’anima o suo scioglimento nell’assoluto.
Per il cristiano di conseguenza rimane fondante la virtù della speranza, che ad esempio per lo zen costituisce un ostacolo alla meditazione. La salvezza è ricercata nella rivelazione del Cristo.
Valore antropologico
Certamente la meditazione orientale possiede caratteristiche altamente positive che devono essere prese in considerazione e saggiamente utilizzate; ad esempio essa costituisce un valido aiuto per ritrovare l’equilibrio ed unità interiore, rendendosi meno dipendente dai fattori esterni. Dal punto di vista psichico i risultati della meditazione orientale sono addirittura avvicinabili a quelli di una psicoterapia reintegrativa.
E’ possibile considerare come risultato secondario di questi esercizi – così come ad esempio capita negli esercizi di Training autogeno – tutti quei fenomeni che talvolta accompagnano certe esperienze mistiche: esperienza del vuoto, di immersione nell’infinito, felicità, calma e riposo, di leggerezza (levitazione), calore, cessazione del dolore, scoperta del senso… Il risultato più importante è tuttavia il senso della pienezza del sé, che corre il rischio di essere frainteso con l’esperienza di Dio.
Altro effetto è la sensibilizzazione. Sovente lo sforzo per la concentrazione, le posizioni fondamentali fisiche, controllo dei ritmi vitali (es. Respirazione) possono aprire gli occhi del corpo e quelli dell’anima ai valori profondi della vita. Ma possono altresì sboccare in una apatia imperturbabile e stoica, concentrati sull’unico valore del sé.
Questa meditazione può contribuire a far sì che l’uomo moderno ritrovi se stesso e il suo equilibrio interno, oggi purtroppo messo continuamente in discussione da stili di vita errati.
In questo senso è importante che l’uomo occidentale faccia esperienza del corpo al fine di riappropriarsi del suo vero centro (l’hara-ventre contrapposto alla testa dello yoga), raggiungendo una nuova consapevolezza di sé che è porta di accesso alla meditazione.
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