• 31 Mar

    Consacrazione della nostra vita a Cristo attraverso Maria

     

    Maria tu sei la Madre di Cristo,

    Madre della Comunione

    che tuo Figlio ci dà,

    come dono sempre nuovo e potente,

    che è un gusto di vita nuova.

    Attraverso di Te noi perciò

    consacriamo tutto noi stessi,

    tutte le gioie e le sofferenze che Tuo Figlio

    sceglie per noi e la nostra stessa vita,

    affinchè tu diventi la Madre della Vita,

    e Cristo doni a tutti gli uomini

    lo stesso gusto di vita nuova 

    che ha donato a noi.
    Amen

     

     

  • 30 Mar

    La tua bontà Signore

     

    Piango il presente
    e detesto il passato,

    temo per il futuro
    la colpa che ho commesso:

    e nel mio orgoglio
    leggo il tuo giudizio.

    La tua bontà, Signore,

    supera la mia ingiuria:

    usala con dolcezza,

    come fa il padre col figlio:

    meno avessi peccato,

    minore sarebbe la tua grazia.

     

    Mathurin Régnier (1573-1613)

  • 27 Mar

    Un mediatore necessario

    Il quarto canto del Servo: Isaia 53

     

     di p. Attilio Franco Fabris

     

    Messaggio centrale

     Nella misteriosa figura del Servo sofferente i cristiani hanno riletto la vicenda di Gesù di Nazaret. Nella passione del Servo, provocata dal peccato di tutti, il mondo trova riconciliazione e perdono: è lui infatti l’unico innocente che può giustificarci davanti a Dio. Lui l’unico mediatore di una alleanza nuova ed eterna perché sancita nel suo sangue senza colpa. A noi il prendere coscienza dell’ “alto prezzo” (1 Cor 7,23) di quest’opera d’amore.

     

    Nella sacra Scrittura il nome di “Servo di JWHW” è un titolo onorifico che viene dato a colui che YHWH chiama a collaborare in modo del tutto particolare al suo progetto di salvezza.
    L’essere “servo di JWHW” doveva essere prerogativa essenziale di Israele in mezzo a tutti gli altri popoli, ovvero chiamato ad essere destinatario e mediatore dell’alleanza donatagli non a titolo esclusivo ma perché potesse essere testimoniata e offerta a tutti gli altri popoli. Ma così non è stato a causa del peccato di Israele, ovvero dell’infedeltà all’alleanza che lo ha portato a “servire altri dei” e non l’unico suo Dio (cfr Dt 6,14).
    Nei profeti è contemplato il fatto che Dio non si arrende al suo progetto, eccolo allora tra il popolo infedele scegliersi un “piccolo resto” che avrebbe risposto positivamente alla chiamata ponendosi al servizio esclusivo di JHWH. È appunto a questo piccolo e ipotetico futuro resto fedele che sono rivolti gli oracoli del “Libro della Consolazione” del profeta Isaia (cc 40-55). In questi carmi, tra i più famosi, della Bibbia, appare la misteriosa figura di un “profeta” che Dio chiama ripetutamente “suo servo“: “Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e molto innalzato” (52,13). Questo “servo” riceverà una missione tutta particolare, unica: quella di riconciliare l’umanità intera a Dio, rinnovando l’antica alleanza: questo “ritorno” si attuerà attraverso il sacrificio della sua vita che renderà manifesto il peccato di tutti (Israele e gli altri popoli compresi), affinché tutti prendano coscienza della loro lontananza da Dio e della necessità di aderire all’alleanza di cui il “Servo” si è fatto mediatore.
    Anche noi salendo sulla carrozza dell’eunuco della regina Candace diretto a sud all’ora di mezzogiorno, ci mettiamo a leggere con lui questi testi, lasciando risuonare in noi la sua stessa domanda: “Per favore, di chi il profeta dice questo? Di sé o di un altro?“. Filippo prende allora l’occasione per annunciare la Buona Notizia di Gesù il Servo fedele (cfr At 8,34s).  Nel nuovo Testamento la figura del “Servo di YHWH” trova così la sua realizzazione in Gesù di Nazareth: egli è il “servo fedele” che rendendosi pienamente disponibile alla volontà del Padre “fino alla morte e alla morte di croce“(Fil 6,5) diviene mediatore della nuova alleanza.
    Meditiamo ora le stupende e drammatiche parole della profezia del quarto canto del Servo Sofferente: 

    Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione?
    A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?
    È cresciuto come un virgulto davanti a lui
    e come una radice in terra arida.
    Non ha apparenza né bellezza
    per attirare i nostri sguardi,
    non splendore per provare in lui diletto.
    Disprezzato e reietto dagli uomini,
    uomo dei dolori che ben conosce il patire,
    come uno davanti al quale ci si copre la faccia,
    era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.

    E’ un gruppo anonimo che inizia a parlare. Da chi è composto? Suggerirei una possibile risposta in: tutti, nessuno è escluso. Viene pronunciata, quasi ansiosamente, una domanda: “Chi…A chi?“: “Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione? A chi…“. È successo qualcosa di sconcertante, di sbalorditivo, di cui a fatica si riesce a dare spiegazione.
    Ciò che è annunciato come “accaduto” non è una teoria, un’idea, bensì un fatto, anzi una persona e tutta la sua vicenda storica. La sua nascita è rappresentata con un simbolo: un piccolo arbusto insignificante che a stento cresce nel deserto. Questo servo-arbusto nel deserto è estremamente fragile e debole, la sua stessa esistenza è grazia perché non può essere generato e alimentato da una terra desolata. Egli è un’umile presenza viva in un mondo divenuto un deserto e luogo di morte a causa del peccato.
    Non ha nulla che possa attirare l’attenzione: non ha bellezza, né forza, né potere. Che valore può avere una storia così “banale” a confronto con le gloriose biografie di Sansone vincitore, di Mosè condottiero, del forte Davide, e del sapiente Salomone? Egli non possiede antenati e genealogie trionfali.
    Egli, al contrario, è disprezzato e respinto dai suoi: Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia”. Tale disprezzo fa ricordare il lebbroso messo al bando, allontanato da tutti come apportatore di morte, un castigato da Dio. Timorosi di contagiarsi tutti fuggono da lui, evitano di incontrarlo; è un tema ricorrente nei salmi di lamentazione: “Hai allontanato da me i miei compagni,mi hai reso per loro un orrore. Sono prigioniero senza scampo; si consumano i miei occhi nel patire. Tutto il giorno ti  chiamo, Signore, verso di te protendo le mie mani (Sal 87,9s; 38,13s; 38, 8ss; Lam 3,1.14). La sofferenza fisica del servo è da tutti interpretata come un castigo divino, e perciò lo si tiene lontano come un peccatore.

    Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze,
    si è addossato i nostri dolori
    e noi lo giudicavamo castigato,
    percosso da Dio e umiliato.
    Egli è stato trafitto per i nostri delitti,
    schiacciato per le nostre iniquità.
    Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui;
    per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
    Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,
    ognuno di noi seguiva la sua strada;
    il Signore fece ricadere su di lui
    l’iniquità di noi tutti.
    Maltrattato, si lasciò umiliare
    e non aprì la sua bocca;
    era come agnello condotto al macello,
    come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
    e non aprì la sua bocca.

    Sono gli spettatori che a questo punto confessano la loro colpa: si riconoscono responsabili del dolore arrecato al Servo. Il peccato è loro non suo, mentre all’inizio, come gli “amici” di Giobbe, hanno creduto che fosse Dio stesso a castigarlo.
    In realtà il Servo accetta di portare su di sé le conseguenze del male di tutti gli altri, e con la sua sofferenza innocente può aprire i loro occhi perché riconoscano il loro peccato. I dolori del Servo infatti dimostrano sì l’esistenza del male e del peccato, ma non del peccato di colui che soffre, bensì di coloro che gli procurano dolore e morte. Il “castigo” è nostro, il “dolore” è suo! E il suo “dolore” è salvifico perché capace di suscitare pentimento, di provocare una dolorosa rivelazione del male che abita il profondo del cuore di ciascuno di noi.
    Tutto questo rientra in un preciso disegno: “il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti”. Questa sarà un’espressione frequentemente usata nel kerygma cristiano per designare la consegna del Figlio da parte del Padre all’umanità peccatrice (“Mentre si trovavano insieme in Galilea, Gesù disse loro: «Il Figlio dell’uomo sta per esser consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno, ma il terzo giorno risorgerà» Mt17,22s; Gv 18,30.35; At. 3,13).
    Il silenzio del Servo è emblematico: di solito un uomo in preda alla sofferenza urla la sua disperazione e la propria rabbia. Nel libro di Giobbe e nei salmi l’uomo che soffre “grida, invoca, geme…”. Il Servo invece tace “come un agnello“; egli affida la sua causa interamente a Dio, e il suo silenzio nel medesimo tempo diviene messaggio profetico di un amore che senza limiti si mette nelle mani dei suoi persecutori. 

    Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo;
    chi si affligge per la sua sorte?
    Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi,
    per l’iniquità del mio popolo fu percosso a morte.
    Gli si diede sepoltura con gli empi,
    con il ricco fu il suo tumulo,
    sebbene non avesse commesso violenza
    né vi fosse inganno nella sua bocca.
    Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
    Quando offrirà se stesso in espiazione,
    vedrà una discendenza, vivrà a lungo,
    si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
    Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce
    e si sazierà della sua conoscenza; 

    Viene riconosciuto da parte di tutti che nei confronti del Servo vi è stato un giudizio errato e applicata una condanna tremendamente ingiusta (con oppressione). Di fronte a tale condanna ingiusta il servo non si è difeso, non ha invocato il castigo e il giudizio da parte di Dio (come invece fece Geremia: 17,18). Non ha reagito al male con il male, alla violenza con la violenza: egli ha spezzato una volta per tutte la catena del male che lo circondava, caricando tutto l’enorme peso del peccato del mondo su di sé. Un giorno, sulle rive del Giordano, il profeta Giovanni Battista indicherà ai suoi Gesù di Nazaret definendolo “l’Agnello-Servo  di Dio che porta su di sé il peccato del mondo” (Gv 1,29)!
    Egli è stato alla fine “eliminato“: il male non sopporta il bene, le tenebre non sopportano la luce. Nella battaglia sembra che male e tenebre abbiano il sopravvento. Così l’esistenza del Servo sembra terminare in una tragitta sconfitta. La sepoltura ignominiosa sigilla tutta una vita abbeverata di dolore e disprezzo: egli finisce nella fossa comune dei giustiziati a morte (“sepoltura con gli empi” 14,19).
    Dopo la sua morte viene riconosciuta la sua innocenza: ma non è ormai troppo tardi? Il crimine è stato ormai commesso.
    Ma la morte non è lo sbocco tragico e definitivo verso cui la vita del Servo è ormai irrimediabilmente sprofondata. Anzi, proprio la sua morte ignominiosa, apre ad un mistero di vita inaspettato: il germoglio che si credeva ormai estinto continua a crescere a fiorire.
    Al giusto e fedele Servo viene dato di contemplare nuovamente la luce (cfr Sal 36,10), si sazia nella dolcezza della gloria che gli è attribuita che è il “conoscere”  Dio (“la vita eterna  è conoscere te”: Gv 17,3).

    il giusto mio servo giustificherà molti,
    egli si addosserà la loro iniquità.
    Perciò io gli darò in premio le moltitudini,
    dei potenti egli farà bottino,
    perché ha consegnato se stesso alla morte
    ed è stato annoverato fra gli empi,
    mentre egli portava il peccato di molti
    e intercedeva per i peccatori. 

    Nel finale del carme entra in scena Do stesso; è lui a pronunciare un giudizio definitivo sulla vicenda del Servo. Ciò che gli uomini hanno considerato un fallimento per YHWH risulta invece una straordinaria vittoria. Una vittoria che, scandalosamente, passa attraverso il sacrificio della vita stessa del Servo: “offrirà se stesso in espiazione“. Vi è qui un forte riferimento al sacrificio liturgico dell’agnello offerto per i peccati commessi da tutto il popolo (cfr Lv 4-5). La morte del Servo possiede un risvolto sacrificale espiatorio: rappresenta un sacrificio perfetto offerto in espiazione dei peccati, proprio perché vittima innocente dell’odio, dell’ingiustizia, della violenza che abitano il cuore dell’uomo essa può liberarne tutti noi suoi persecutori: “giustificherà molti“. Egli sarà in grado di condividere con tutti noi la sua innocenza realizzando così tutte le promesse fatte da Dio (Is 40,14; Rm 3,26).
    Il canto termina con le note della glorificazione del Servo, al quale è data da Dio la signoria su tutti i regni e i popoli della terra: “Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino”. Il Servo appare ora come Signore e Giudice della storia dinanzi al quale ogni creatura può solo prostrarsi in adorazione:E quando l’ebbe preso, i quattro esseri viventi e i ventiquattro vegliardi si prostrarono davanti all’Agnello, avendo ciascuno un’arpa e coppe d’oro colme di profumi, che sono le preghiere dei santi.  Cantavano un canto nuovo: «Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo sangueuomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione»” (Ap 5,8-10).
    La figura del Servo sofferente per noi ha un nome: Gesù. Gli evangelisti rileggendo le profezie di Isaia hanno potuto comprendere e rileggere il mistero della passione, morte e resurrezione del Crocifisso risorto. Solo attraverso di lui vi è perdono, riconciliazione, con Dio, nel suo sangue è stipulata quella nuova e perfetta alleanza che nulla potrà mai distruggere perché fondata su di lui unico servo fedele e obbediente nel quale tutti siamo riscattati. 

    Per la riflessione

     Nella vicenda del Servo sofferente siamo posti dinanzi ad una tragica rivelazione: quella del male che abita il cuore di ciascuno di noi. La croce di Gesù è infatti rivelazione del peccato che ci abita, delle resistenze e del rifiuto alla luce e alla verità, male irrimediabile che determinerebbe solo la nostra condanna. Ma Dio non arretra: paga tutte le conseguenze del nostro rifiuto caricandole, nel Servo-Gesù-suo Figlio, sulle sue stesse spalle, e questo perché l’uomo alla fine si arrenda all’offerta di alleanza e di amicizia che nell’umiltà sconcertante e nel silenzio enigmatico del Servo sofferente egli fa all’uomo.

     Preghiera conclusiva

    Fil 2,5-11

     P.         Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, 

    1 C.     il quale, pur essendo di natura divina,
    non considerò un tesoro geloso
    la sua uguaglianza con Dio;

    2 C.     ma spogliò se stesso,
    assumendo la condizione di servo
    e divenendo simile agli uomini;

    1 C.     apparso in forma umana,
    umiliò se stesso
    facendosi obbediente fino alla morte
    e alla morte di croce.

    1 C      Per questo Dio l’ha esaltato
    e gli ha dato il nome
    che è al di sopra di ogni altro nome; 

    2 C.     perché nel nome di Gesù
    ogni ginocchio si pieghi
    nei cieli, sulla terra e sotto terra; 

    1 C.     e ogni lingua proclami
    che Gesù Cristo è il Signore,
    a gloria di Dio Padre.

  • 27 Mar

    Maestro dove abiti?

    Lectio di Gv 1,35-42

     

     di p. Attilio Franco Fabris

     

    La sequela di Cristo non si improvvisa mai, perché è sempre il frutto di un paziente cammino di conformazione a lui. È frutto di un incontro che nasce dalla fame dell’uomo di una parola “sostanziale” e “sapienziale” che dia finalmente gusto e significato alla sua vita, alla sua gioia, al suo dolore e alla sua morte. È frutto di una ricerca che sfocia nello stupore di una risposta che gli giunge come dono dall’esterno, come il pane e l’acqua che Elia si trovò accanto al suo risveglio nel suo disperato pellegrinaggio al monte di Dio.
    È un incontro possibile perché desiderato e programmato anzitutto da Dio stesso che “ama tutto ciò che ha creato“. Nella rivelazione biblica si narra di come Dio ha risposto, a partire da Abramo, al bisogno dell’uomo di una casa, di un paese, dove “abitare” con lui: “a tutti sei venuto incontro perché coloro che ti cercano ti possano trovare” (Preghiera Eucaristica III).
    L’incontro con Cristo, nel nuovo testamento, segna per chi lo incrocia sulla strada questa scoperta contrassegnata dallo “stupore e dalla gioia di una salvezza ritrovata” (Preghiera eucaristica III). Esso incide nel cuore di coloro che se ne lasciano toccare una svolta indelebile che si incarna nella memoria di tutto il loro essere: “erano circa le quattro del pomeriggio“. Finalmente l’uomo ha trovato “casa” e di che soddisfare la sua sete: “Chi ha sete venga a me e beva, chiunque crede in me fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno“.
    Invochiamo il dono della sapienza perché, attraverso l’ascolto della Parola, susciti in noi la stessa sete dei primi discepoli: “La Sapienza grida per le strade, nelle piazze fa udire la voce; dall’alto delle mura essa chiama, pronunzia i suoi detti alle porte della città: «Fino a quando, o inesperti, amerete l’inesperienza e i beffardi si compiaceranno delle loro beffe e gli sciocchi avranno in odio la scienza? Volgetevi alle mie esortazioni: ecco, io effonderò il mio spirito su di voi e vi manifesterò le mie parole. Poiché vi ho chiamato e avete rifiutato, ho steso la mano e nessuno ci ha fatto attenzione; avete trascurato ogni mio consiglio e la mia esortazione non avete accolto; anch’io riderò delle vostre sventure, mi farò beffe quando su di voi verrà la paura, quando come una tempesta vi piomberà addosso il terrore, quando la disgrazia vi raggiungerà come un uragano, quando vi colpirà l’angoscia e la tribolazione. Allora mi invocheranno, ma io non risponderò, mi cercheranno, ma non mi troveranno” (Proverbi 1,20-25).

    Lectio

    Nel brano ascoltato abbiamo sentito narrare la chiamata, da parte di Gesù, dei primi tre discepoli: di Andrea e dell'”altro discepolo” (si tratta di quello che verrà definito come “il discepolo che Gesù amava”? Si tratta forse di Giovanni? Cf 21,20), e infine di Pietro condotto dal fratello Andrea a colui che subito egli definito come: “Il Messia”. Nel brano successivo verrà narrata la chiamata di Filippo e infine di Natanaele (vv.43-51).
    L’evangelista, in questo secondo capitolo, scandisce il susseguirsi degli avvenimenti riguardanti la testimonianza del Battista e la chiamata dei discepoli in tre giornate (cfr “Il giorno dopo“: v. 29.35.43). L’episodio della chiamata dei primi tre si colloca precisamente al “secondo giorno“, dopo la solenne testimonianza del Battista nei confronti di Gesù presentato come l’ “Agnello di Dio” (v.29).
    Ora Giovanni il Battista aveva al suo seguito una schiera di discepoli che avevano aderito alla sua predicazione tutta improntata sulla necessità della conversione in vista del prossimo avvento del Regno di Dio nella persona del Messia atteso: “Viene uno dopo di me al quale io non sono degno di sciogliere il legaccio del sandalo” (v. 27). Tra questi suoi discepoli si collocano i futuri primi discepoli di Gesù di Nazaret.
    La scena dell’incontro di Gesù con il Battista e con i primi tre discepoli avviene “al di là del Giordano” (vv 28.35): siamo probabilmente nei presso Betania della Trangiordania dove il battezzatore svolgeva generalmente la sua missione profetica.  È impossibile districarsi cercando di trovare delle concordanze tra il racconto della chiamata fatto dal quarto evangelista e i tre sinottici. Questi ultimi infatti collocano la chiamata dei primi discepoli sulle rive del lago di Tiberiade presentandoli come semplici pescatori e non come discepoli del Battista (cf Mc 1,16-20; c’è tuttavia da menzionare il fatto che in Atti 1,21 Luca ribadirà che gli apostoli per essere tali devono essere stati testimoni di Cristo a partire proprio “dal battesimo di Giovanni“). Tutte queste divergenze non ci inquietano ma stanno ad indicare che in tutti questi testi di vocazione l’intento degli scrittori è prevalentemente teologico e cristologico.
    In questo “secondo giorno”, dopo che Giovanni il Battista aveva già indicato a Israele Gesù come: “L’agnello di Dio… ecco colui del quale io dissi” (v. 29s),  il battezzatore indica Gesù negli stessi termini direttamente ai suoi (v. 36).
    Il ruolo che assume Giovanni in questo capitolo è fondamentale: infatti l’incontro con Gesù da parte dei primi due discepoli è mediato da lui che qui chiaramente appare nella sua qualità di testimone. Egli fà da ponte tra le due economie della salvezza e fa’ si che si passi dalla profezia al vederne con i propri occhi il suo compimento.
    Nel nostro testo lo sguardo del Battista è attratto subito dal nazareno: “fissando lo sguardo su Gesù” (v. 36). Il verbo usato indica uno sguardo intenso e penetrante (“emblèpas“) capace di andare al di là del semplice “vedere”. Giovanni ci viene presentato fermo sulle rive del fiume: “stava là” (v. 35), una situazione dissimile da quella di Gesù che invece ci viene presentato in cammino: “passava“. La missione di Gesù è un costante camminare “verso” Gerusalemme. Ormai l’antica alleanza ha concluso il suo lungo percorso di preparazione, ha raggiunto la sua meta fermandosi, ha condotto l’uomo alla soglia dell’incontro a tu per tu con Dio.
    A Giovanni allora non resta, con grande umiltà e verità, che ribadire questa sua testimonianza ai suoi discepoli: “Ecco l’agnello di Dio” (v. 35). È splendida questa testimonianza del Battista che riconoscendo il suo ruolo di ponte, di “voce della Parola” (sant’Agostino), si fa da parte: egli non è geloso, anzi spinge i suoi ad andare oltre la sua persona: Egli deve crescere e io invece diminuire” (3,30). I discepoli “sentendolo parlare così seguirono Gesù” (v. 37): il verbo “parlarelaluntòs” è espressione che implica una rivelazione. Questa rivelazione smuove i due discepoli a lasciare il loro primo maestro. “Seguirono“: il verbo “èkoluthesan” è quello specifico per indicare il discepolato.
    La reazione da parte di Gesù nei confronti dei due che iniziano a seguirlo si risolve in una domanda semplice, ma come ogni parola estremamente semplice è capace di andare all’essenziale, al cuore della realtà: “Che cercate?” (v. 38). Se l’iniziativa della sequela sembra apparentemente appartenere ai due discepoli, il fatto che sia Gesù per primo a rivolgere loro la parola sta ad indicare come sia lui in verità il protagonista della chiamata. Gesù stesso lo ricorderà: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (15,16). Venendo al vero usato “cercare – thètein” nella sacra Scrittura lo troviamo usato con accezioni vastissime: la sua radice aramaica significa sia “cercare” come “volere”. In questo caso l’equivalente della domanda posta da Gesù è: “Che cosa volete?”. In ogni caso nella Scrittura l’invito rivolto all’uomo che teme Dio è di “cercare” il “volto di Dio”, o in altre parole il dono della Sapienza (Pr 8-9). Sembrerebbe dunque che l’evangelista ponga qui un sottile, benché fortissimo, rapporto tra Gesù quale “icona di Dio” (Col 1,15) e la Sapienza veterotestamentaria.
    Alla domanda: “Che cercate?” i due discepoli rispondono anzitutto con l’appellattivo di “Rabbi” (v. 38). Si tratta di un titolo onorifico che originariamente in aramaico stava a significare “Mio grande signore” (da “rab” = grande). La traduzione data dall’evangelista non è dunque fedele a livello letterario, tuttavia è un titolo che gli è molto caro: lo usa ben otto volte ma solo nella prima parte del vangelo quella denominata “Libro dei Segni”. Nella seconda parte (il “Libro della Gloria”) il titolo dato a Gesù sarà più esplicitamente di fede: “Kyrios – Signore“. Vi è una perciò espressa una crescita di comprensione da parte dei discepoli (cfr 13,13-14) nei confronti di colui che seguono.  Chiamandolo “rabbi” i due riconoscono ed esplicitano la loro attesa di una parola salvifica che intravedono possibile sulla labbra di Cristo, e che neppure Giovanni ha potuto loro donare. Ma se Gesù può offrire loro un tale definitivo “insegnamento” da questa sua parola non può non scaturire la sequela! �
    I discepoli domandano: “Dove abiti (méneis)?” (v.38). Non è solo una curiosità geografica. La domanda sottindente tutta la ricerca da parte dell’uomo, angosciato dalla sua finitudine, di trovare ciò che è “eterno” fissandovi la sua dimora.
    La risposta di Gesù è quasi lapidaria: “Venite e vedrete” (v. 39). Nel quarto vangelo i verbi “venire” e “vedere” sono espressioni tecniche per indicare la chiamata e l’azione del discepolo: questi deve andare a Gesù e vedere, ossia aprirsi alla sua rivelazione. È Gesù che invita ad andare a lui e si va a lui al fine di poter “vedere” ovvero accostarsi alla sua esperienza (cfr 1Gv 1,1-5).
    I due “andarono… e restarono (“émeinan”) con lui“: è il caso di sottolineare l’insistenza tipica di Giovanni del verbo “ménein – rimanere, restare, abitare…“. Esso sta a significare una strettissima comunione di vita che è riflesso di quella che sussiste anzitutto tra il Figlio e il Padre e che viene estesa, partecipata, a tutti coloro che credono in lui. Per il discepolo si tratta di un “permanere-restare” che scaturisce anzitutto da un ascolto costante della Parola: “Gesù allora disse a quei Giudei che avevano creduto in lui: «Se rimanete (méinete) fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli” (8,31).
    A questo punto troviamo una precisazione che un po’ stupisce: “Era circa l’ora decima“, ovvero circa le quattro pomeridiane. Come mai questa precisazione cronologica? Essa sembra essere posta al fine di sottolineare che quel momento è indelebile nella memoria perché ha segnato una svolta nella vita dei discepoli. Altri esegeti la interpretano invece in modo simbolico: dieci sta a dire la pienezza del tempo ormai giunto. Per altri starebbe a significare l’ora del tramonto, con riferimento all’antica alleanza rappresentata dal Battista che prelude al giorno nuovo.
    Giungiamo così all’ultimo passaggio (vv.40-42): Andrea si reca dal fratello Simon Pietro per annunciargli lo straordinario incontro avvenuto con Gesù. Le parole di Andrea al fratello sono già un chiaro indizio di fede: “Abbiamo trovato il Messia“. Se prima era solo un “rabbi”, dopo “lo stare” con lui egli è ora il “messia“. Vi è una crescita di fede che deriva dal fatto di “abitare” con Cristo, ovvero di conoscerlo sempre più profondamente. Per il quarto evangelista è dunque Andrea che riconosce per primo in Gesù il Messia e non Pietro come nei sinottici (cf Mc 8,31).
    Tu sei Simone, figlio di Giovanni; tu ti chiamerai Cefa“: queste sono le prime parole indirizzate da Gesù a Simone. Simone viene definito “figlio di Giovanni” in relazione forse al fatto dell’essere anch’egli discepolo del Battista? Alcuni esegeti lo sostengono. Poi Gesù compie un gesto di grande autorità cambiandogli il nome: “Ti chiamerai Cefa”. Nella tradizione biblica un nome nuovo sta a dire un mandato da assumere, un cambiamento nella vita e nel destino di una persona. Ma in questo caso più che un nome si tratta di un soprannome che può stare ad indicare l’essere duro come una pietra sia in senso amichevolmente ironico: “Simone Testadura” ovvero colui che difficilmente si sposta dalle sue idee, oppure in senso più spirituale: “solido come una roccia” (cf Mt 16,17s) in riferimento al mandato che Pietro dovrà assumere di “pascere il gregge” di Cristo con la sicurezza dettata dall’amore (21,15). 

    Collactio

     Le prime parola di Gesù sono una domanda che rivolge al futuro discepolo: “Che cercate?“. Nella “Regula Benedicti” l’abate al postulante pone la stessa domanda. Nel Battesimo avviene la medesima cosa: “Cosa chiedi?”. La domanda di Gesù non è una banale richiesta o curiosità al fine di sapere il motivo per cui i due gli stanno andando dietro. Si tratta invece di un interrogativo tutto teso a far emergere il bisogno fondamentale che soggiace alla coscienza di ogni uomo e che lo pone in cammino, in ricerca: è in definitiva far emergere il suo bisogno di salvezza. Se l’uomo avverte un bisogno di salvezza, al discepolo Gesù propone la sua sequela. Ai due decidere se “andare dietro” a Gesù per trovare risposta: “sentendolo parlare così, seguirono Gesù“.
    Alla luce di questo comprendiamo come il discepolo non è anzitutto chiamato ad “imitare” Gesù ma a seguirlo. Questo perché appaia chiaramente che l’opera della salvezza, la risposta al bisogno dell’uomo, è tutta sua e non nostra. Forse in una certa visione ascetica passata si insisteva troppo sul tema dell’ “imitazione”: questo però poteva far incorrere in un rischio molto pericoloso, quello dell’intendere la “sequela” in termini prettamente moralistici. Il tema dell’imitazione correva sull’onda di una sorta di competizione più che con il Signore con l’ideale di noi stessi; l’accento in questo caso era posto sulla scia di quello che noi dovevamo compiere per essere salvati più che sull’ascolto della sua Parola che salva. Gesù per il discepolo non deve essere tanto il modello da imitare quanto la persona con cui condividere l’esperienza di comunione di vita: solo così la sequela non si pone sulla scia della perfezione da seguire ma dell'”abitare con lui” che sta alla nostra porta e bussa!
    Il discepolo evidentemente cammina verso una sempre maggiore conformazione al suo Maestro e Signore, ma ciò che attua tale conformazione non è anzitutto il suo sforzo morale ma la docilità all’opera dello Spirito che Gesù stesso dona. E tale conformazione-sequela raggiungerà la sua completezza solo al di là della nostra esistenza quando “Dio sarà tutto in tutti“. Solo allora il discepolo avrà “seguito” Cristo non solo sino al Calvario ma anche nella sua resurrezione che lo conformerà pienamente a sé.
    Tutto questo esige tempo: la sequela non è opera di un giorno, di una decisione presa il giorno del battesimo o della professione. Essa non si improvvisa mai, ma domanda la pazienza del cammino quotidiano con tutte le sue fatiche, incertezze, cadute , entusiasmi. Ma è un cammino nel quale siamo educati dalla Parola, cesellati, il più delle volte dalle contraddizioni e sofferenze, ad immagine del nostro Maestro.
    In questo senso l’essere discepoli esige una conversione costante. Seguire Cristo, accogliere il suo invito: “Venite!” implica una decisione che struttura e qualifica fin nella radice più profonda l’esistenza del discepolo e della comunità. Ma in che consiste questa “metanoia”? Essenzialmente nel “rimettersi dietro” a Cristo ogni giorno, in ogni nostra concreta situazione di vita, domandandosi: cosa significa per me seguire Cristo qui e in questo momento? Infatti la tentazione sarà sempre quella di piegare, “sciogliere”, Cristo affinché sia lui a seguire noi e non noi lui. Pietro “Testadura” insegna (cfr Mt 16,23)!
    Questa conversione continua esige perciò una stabile e “rocciosa” fedeltà a Cristo ma nello stesso tempo una grande duttilità e creatività nell’incarnare tale fedeltà. Non si tratta di “eseguire” ma di… seguire! Purtroppo spesso ci accontentiamo più facilmente e comodamente di “eseguire” una sequela che non scombussola poi più di tanto la vita. Perché questo non avvenga è imprescindibile una sintonia, una comunione con Cristo: è ossia essenziale per il discepolo l’ “abitare con lui”, perché “nel rapporto con Dio, non ci si può impegnare fino ad un certo grado, perché Dio è proprio l’esatto contrario di quel che esiste in certo grado” (Kierkegaard, Diari).
    In quest’ottica comprendiamo come la sequela dell’unico Maestro non è identica per tutti. Essa è diversa per ciascuno, diversa nelle epoche, diversa nelle varie situazioni. Annalena Tonelli, uccisa in Somalia nell’ottobre 2003, lasciava ad esempio scritto: “Scelsi di essere per gli altri che ero una bambina e così sono stata e confido di continuare a essere fino alla fine della mia vita. Volevo seguire solo Gesù Cristo. Null’altro mi interessava così fortemente: lui e i poveri  in Lui”.  La nostra sequela deve essere perciò riesaminata e riaccolta ogni giorno, alla luce di quanto la Parola suscita in noi, soprattutto nei momenti più difficili della vita, nelle svolte decisive e spesso dolorose che si affacciano sulla nostra storia personale, comunitaria, ecclesiale. Questo atteggiamento è essenziale per vincere la più grande tentazione del discepolo che è la “riduttività”. Nella sequela persiste sempre il pericolo per il discepolo di falsare, frantumare, “sciogliere Gesù Cristo” (1Gv 1,42 vulg.) ovvero ridurlo a schemi precostituiti soggettivi e riduttivi. Scrive D. Bonhoeffer a tal proposito: “Il discepolo si mette a disposizione e quindi ha il diritto di porre le sue condizioni. Ma è anche chiaro che a questo punto la sequela cessa di essere sequela” (da “Sequela”). In questa tentazione vi si cade quando il singolo o l’istituzione si fossilizzano in concretizzazioni ormai superate: quando si vive di memoria stantia preoccupata più di conservare che di ascoltare ciò che “lo Spirito dice alle Chiese”, cessa la sequela quando cessa d’essere profezia che guarda in avanti nella direzione del Regno.
    Allora nel discorso sulla sequela non si insisterà mai a sufficienza sul fatto che il discepolo e la comunità devono costantemente vivere in un sano” strabismo” ovvero dal saper tenere attenti gli orecchi e lo sguardo, come i due discepoli, su due realtà contemporaneamente: la Parola e la storia. Solo così non ci si accontenterà solo di sopravvivere di glorie passate, fossero pure quelle gloriose e sante delle proprie origini o dei fondatori. Quelle pagine devono essere “riscritte costantemente” (come ci ricordava Giovanni Paolo II nell’esortazione “Vita Consacrata”). Questo significa accogliere “Gesù Maestro e Signore nella pienezza del suo mistero e questa non è opera di un giorno nella consapevolezza che non si dà autentica sequela senza l’amore per chi si segue. 

    Oratio

     O Signore, tu ci comandi di seguirti non perché tu abbia bisogno del nostro servizio, ma soltanto per procurare a noi la salvezza. Infatti seguir te, nostro Salvatore, è partecipare alla salvezza, e seguire la tua luce è percepire la luce… Il nostro servizio non apporta nulla a te, perché tu non hai bisogno del servizio degli uomini: ma a coloro che ti servono e ti seguono, tu doni la vita, l’incorruttibilità e la gloria eterna… Se tu ricerchi il servizio degli uomini è per poter accordare, tu che sei buono e misericordioso, i tuoi benefici a coloro che perseverano nel tuo servizio. Perché, come tu, o Signore, non hai bisogno di nulla, così noi abbiamo bisogno della comunione con te; infatti la nostra gloria è di perseverare e rimanere saldi nel tuo servizio. Amen (Sant’Ireneo, vescovo di Lione del IV sec, da “Contro le eresie” IV).

  • 27 Mar

    Ricevimi, Signore

     

    Sono davanti alle porte della tua Chiesa
    e non mi libero dai cattivi pensieri.

    Ma tu, o Cristo,

    che hai giustificato il pubblicano
    che hai avuto compassione della Cananea,

    e hai aperto al ladrone le porte del paradiso,

    aprimi il tesoro della tua bontà
    e poiché mi avvicino e ti tocco,

    accoglimi come la peccatrice
    e l’inferma che hai guarito.

    Questa, che ha toccato il lembo del tuo vestito,

    riebbe la salute;

    e quella, che ha abbracciato

    i tuoi piedi incontaminati,

    ottenne il perdono dei peccati.

     

    San Giovanni Damasceno

  • 26 Mar

    Custodire la Parola

    Lectio di Lc 2,19.51

    di p. Attilio Franco Fabris

    Custodiamo lungo l’arco della vita ciò che riteniamo più prezioso e indispensabile alla nostra vita. Infatti non custodiamo le cose superflue, quelle inutili o il ciarpame che si accumula nei cassetti e di cui ci sbarazziamo senza fatica né dolore ogni tanto. Ma ci sono “cose” dalle quali non vogliamo staccarci, che vogliamo “custodire” ad ogni costo. Per Gollum – uno degli indimenticabili protagonisti del romanzo tolkiano “Il Signore degli Anelli” – il suo prezioso “tessoro” (così morbosamente lo chiamava) era purtroppo l’ultimo anello che lo faceva schiavo del suo delirio di onnipotenza. Rischiamo anche noi, come Gollum, di attaccarci a cose, persone, situazioni, sbagliate e di volerle “custodire” come indispensabili alla vita, come portatrici di promesse illusorie di felicità.
    Ecco la necessità di continuare a domandare alla nostra coscienza: ma cosa sto custodendo nella mia vita? Cosa stiamo custodendo come tesoro prezioso nella mia comunità, nella mia famiglia? Cosa ritengo essenziale salvaguardare e proteggere come il mio inseparabile bene e mia fonte di speranza?
    Perché, è vero: “dove è il tuo tesoro lì sarà anche il tuo cuore” (Lc 12,34),  ovvero dove è inclinato il nostro cuore, lì pensiamo e desideriamo appagare il nostro desiderio di pienezza di vita.
    Per il credente il “tesoro prezioso” non è l’anello che promette potere e successo ma il dono della fede, ovvero dell’amicizia con Cristo. Questa nasce e cresce dall’assiduità dell’ascolto della sua Parola in cui crediamo risieda il germe della vita: “Sii buono con il tuo servo e avrò vita, custodirò la tua parola“(Sal 118,17); “Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,6).
    Da ciò scaturisce che il cristiano dovrebbe custodire gelosamente la Parola del Signore come l’energia nascosta ed inesauribile della fede dalla quale attingiamo la “sublime conoscenza del mistero di Cristo“:Figlio mio, se tu accoglierai le mie parole e custodirai in te i miei precetti, tendendo il tuo orecchio alla sapienza, inclinando il tuo cuore alla prudenza,  se appunto invocherai l’intelligenza e chiamerai la saggezza, se la ricercherai come l’argento e per essa scaverai come per i tesori, allora comprenderai il timore del Signore e troverai la scienza di Dio” (Pr 2,1-5). Tutto il resto, usando l’espressione di Paolo apostolo, egli “considera come spazzatura” (cfr Fil 3,8) indegna d’essere conservata.
    Domandiamo allo Spirito il dono del discernimento al fine di imparare a riconoscere e custodire la nostra vera ricchezza per poterla poi testimoniare e comunicare al mondo intero.
    Lo Spirito Santo effettuerà in me una continua incarnazione del verbo: io posso dare al Verbo un cuore umano per amare ancora nel tempo i fratelli e il Padre, gli posso dare le mie membra e il mio spirito perché vi compia “ciò che manca alla passione per il Corpo di Lui che è la Chiesa”. Lasciar vivere Gesù in me: lui la mia umiltà, la mia purezza, la mia carità, la mia pazienza, la mia forza, la mia amabilità. Sparire per lasciar regnare lui; non devo imitare Gesù ma rimanere io; devo sparire e lasciar vivere lui divenire il mio io, le specie trasparenti che nascondono Cristo” (Maria Gubbi)

    Lectio

    Uno dei termini usati nell’antico e nel nuovo testamento per indicare l’azione del “custodire” è “shamar” (in greco: terein) che in senso traslato viene a esprimere la premura con cui l’uomo custodisce non solo delle cose bensì anche un comando, una parola, una tradizione. Il verbo ribadisce l’idea del “proteggere-sorvegliare con premura” (Gv 2,10; 2Pt 2,4; 1Ts 5,23…) da cui scaturisce quella dell’ “osservare-obbedire- rimanere saldi” (ad esempio è frequente l’espressione “custodire i comandamenti“: cfr 1Sam 15,11; Pro 13,3; 19,16; Gc 2,10; Gv 9,16; 14,15.21; Ap 2,26…).
    E’ dunque significativo che questo termine, usato anche nei due versetti di Luca che commentiamo, abbracci non solo l’idea del “conservare-custodire” ma anche quello dell'”obbedire-osservare-mettere in pratica“. In effetti colui che custodisce gelosamente una parola nel suo cuore inevitabilmente fa sì che questa parola impregni tutta la sua vita così che anche il suo agire ne è determinato: “Il seme caduto sulla terra buona sono coloro che, dopo aver ascoltato la parola con cuore buono e perfetto, la custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza” (Lc 8,15).
    Veniamo allora ai due brevissimi testi proposti alla nostra meditazione. Sono entrambi tratti dal secondo capitolo di Luca dove l’evangelista narra gli avvenimenti della nascita di Cristo.
    Il primo testo è il vers. 19 conclusivo all’episodio dell’annunciazione ai pastori e del loro andare a contemplare ciò che è stato loro detto. I pastori sono presi dallo “stupore-spavento” (v.9) dinanzi al realizzarsi della promessa di Dio fatta a Davide. Ma questo stupore non è che una fase iniziale del cammino di ascolto della parola. Ad esso deve seguire l’approfondimento e l’interiorizzazione della Parola.
    Ecco allora che Luca sposta l’attenzione dell’ascoltatore invitandolo a centrare la sua attenzione su Maria.
    Essa viene presentata come colei che  non solo “custodisce” parole e fatti – fosse anche solo per tramandarli successivamente – ma soprattutto cerca di coglierne il senso, il filo conduttore, capace di dispiegargli passo passo il progetto di Dio. È questo il significato della forma verbale usata: sun-terein(lett. custodire insieme). Questo impegno a una custodia delle parole-fatti (nelle lingue semitiche il termine “parola” indica anche il “fatto”!) tutta tesa a coglierne il trama nascosta è il processo caratteristico di una fede che desidera crescere e progredire nella comprensione del mistero. Questo sforzo interiore di Maria è ancora sottolineato da Luca attraverso un verbo molto caratteristico:  “symballein” che letteralmente significa “riuniremettere insieme-ravvicinare le partimettere a confronto“. Nella tradizione cristiana questo processo sarà poi espresso con la parola “meditare“.
    Luca ci vuole presentare Maria – modello del discepolo – che impiega tutte le sue energie (“nel suo cuore“) nel “custodire nel cuore” una continua meditazione degli eventi e delle parole di un mistero che di certo la superano ma nel quale è chiamata ad entrare attivamente e sempre maggiormente. Così Maria fin dall’inizio viene formata ad una fede che è destinata a crescere attraverso un progressivo cammino di interiorizzazione e comprensione. Luca riporterà la frase di Gesù che elogia indirettamente questo fondamentale e prioritario impegno di ogni discepolo: “Ma Gesù rispose: «Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica»” (Lc 8,21).
    Nel nostro versetto il “custodire” la Parola assume la valenza del progredire nella sua comprensione attraverso un costante esercizio di meditazione al fine di porsi in sintonia col disegno di Dio.
    Ma veniamo al secondo testo. E’ il vers. 51 che conclude il cosiddetto “vangelo dell’infanzia”. Siamo infatti al termine dell’episodio tragico della perdita e del ritrovamento di Gesù nel Tempio.
    Seduto fra i maestri della Legge Gesù ha manifestato ai suoi la sua missione e ha rivendicato la sua figliolanza e quindi dipendenza unicamente dal “Padre suo” (v. 49). Il vangelo riporta che queste parole di Gesù non sono comprese né da Maria tanto meno da Giuseppe (“Ma essi non compresero le sue parole” v. 50).  Il mistero non può essere totalmente e immediatamente compreso!
    Dopo questo momento di tensione la scena è riportata nell’atmosfera familiare della quotidianità della vita di Nazaret. Una esistenza semplice in cui il figlio è chiamato ad osservare il quarto comandamento: “Onora tuo padre e tua madre” (Dt 5,16).
    Il contrasto con la scena precedente del contrasto con i genitori è appositamente stridente: se prima Gesù rivendica la sua autonomia e indipendenza dalla famiglia umana in quanto relazionato essenzialmente con Dio ora egli ci è presentato “sottomesso” ai suoi genitori terreni.
    A questo punto l’evangelista fa ancora emergere la figura di Maria quale immagine  del discepolo che è chiamato a “custodire” conservandola nel tempo la Parola.
    Se nel vers. 19 Maria veniva presentata tutta intenta a collegare e scoprire il filo conduttore capace di dare senso agli avvenimenti, qui ella ci viene presentata come discepola che “custodisce attraverso il tempo” (è l’etimologia di “dia-terein“) quelle “parole-fatti” al fine di approfondirle, comprenderle sempre più. Sono seme destinato a crescere e a fruttificare lungo l’arco dell’esistenza.
    Luca dunque all’interno del secondo capitolo per ben due volte sottolinea la figura di Maria come discepola che “custodisce costantemente, collega e confronta lungo l’arco della sua esistenza” quelle parole e avvenimenti che danno senso alla sua esistenza e vocazione. Ella ne ha bisogno per accogliere quel Figlio che rimane sempre per lei sempre un mistero che non le appartiene.
    L’intento dell’evangelista è probabilmente quello di suggerire alla comunità quale debba essere la pedagogia con cui accompagnare i chiamati alla fede: il catecumeno non comprende tutto e subito; ha bisogno di tempo, ha bisogno di confrontare e collegare costantemente, interiorizzare la Parola di Dio con la vita al fine di scoprirvi il disegno di Dio. Solo in questa esercizio di “custodia” del mistero si attiva la fede.
    Da questo momento Maria scompare dalla scena: ella fa ormai posto ai discepoli tra i quali si pone anche lei. Discepoli che sono chiamati a ripercorrere l’esperienza di Maria per diventare a loro volta capaci di generare nella vita il Verbo ascoltato e custodito nel cuore.

    Collatio

    L’uomo prende nella custodia del suo cuore, della mente e della volontà ciò che ritiene prezioso per la sua vita, ciò che considera un valore. Si custodisce solo ciò che si ritiene importante per la propria vita. L’imprenditore custodisce gelosamente i suoi contratti e i suoi lavori, l’affarista i suoi blocchetti d’assegni, l’anziano i suoi lontani ricordi, il bambino i suoi giochi preferiti, la sposa l’amore per il suo sposo. Noi che ci definiamo credenti – e consacrati – cosa custodiamo gelosamente nel nostro cuore come tesoro inseparabile?
    La risposta è importante perché ciò che custodisco nel cuore, ovvero al centro della mia vita, mi impegna totalmente: il tempo, le energie, l’attenzione:  “che io faccia il tuo volere. Mio Dio, questo io desidero, la tua legge è nel profondo del mio cuore” (Sal 39,9).
    Rischiamo sempre di custodire cose sbagliate, di rincorrere chimere, di sprecare energie inutilmente e allora il dono della sapienza è necessario per imparare a discernere l’oro dalla sabbia:  “Dammi la sapienza…che conosce le tue opere, che era presente quando creavi il mondo; essa conosce che cosa è gradito ai tuoi occhi e ciò che è conforme ai tuoi decreti” (Sap 9,9). “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rom 12,2).
    Ma perché custodire la Parola del Signore nel cuore?
    Nel salmo 118 preghiamo dicendo: “La legge della tua bocca mi è preziosa più di mille pezzi d’oro e d’argento” (v. 4). Per il salmista la Parola di Dio è un tesoro inestimabile, e un tale tesoro del valore più grande di mille lingotti d’oro va custodisco ad ogni costo: “Io custodisco i tuoi insegnamenti e li amo sopra ogni cosa” (Sal 118,167).
    La parola è preziosa perché è il seme della fede che è la fonte della speranza e della vita: “Egli mi istruiva dicendomi: «Il tuo cuore ritenga le mie parole; custodisci i miei precetti e vivrai” (Prov. 4,4). Infatti la fede senza l’ascolto della Parola non può germogliare e portare frutto. Come il contadino conserva e custodisce gelosamente la sua semente da gettare nel campo così il discepolo custodisce nel cuore il seme della parola perché poi fruttifichi nella vita: “Figlio mio, custodisci le mie parole e fa’ tesoro dei miei precetti” (Prov. 7,1).
    Vogliamo vigilare nella custodia di questo immenso tesoro in una duplice consapevolezza.
    La prima è che si custodisce qualcosa perché corriamo il rischio di perderla, che ci sia sottratta o rubata. Così è della Parola di Dio che deve essere custodita affinché il nemico non la strappi dal nostro cuore. Questo nemico è Satana ma si chiama anche pigrizia, non vigilanza (che è il contrario della custodia), noncuranza, superficialità, dispersione. Se non custodiamo con vigilanza gli uccelli, la strada, i rovi, o i sassi disperdono il tesoro (cfr Mt 13,24ss).
    La seconda consapevolezza è che questo tesoro – “Custodisci il buon deposito con l’aiuto dello Spirito Santo che abita in noi” (2Tt 1,14) – è destinato non solo a se stessi bensì a tutti i nostri fratelli: per cui questo tesoro della fede che scaturisce dall’annuncio della parola lo custodiamo in noi stessi perché possa essere donato a tutti. Una sua eventuale perdita non andrebbe perciò a detrimento solo di noi stessi ma di tutti!Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Questo considerate: se il padrone di casa sapesse in quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa.” (Mt 24,,42-43).
    Necessariamente il teme della custodia si accompagna a quello della vigilanza: san Gregorio di Nissa scrive in una sua opera: “Occorre dunque vigilare con diligenza, volgendosi spesso all’anima e gridandole e ingiungendole come uno stratega: «O uomo, custodisci il tuo cuore sorvegliandolo bene» (Prov 4,23). Da questa sorveglianza dipende l’esito della vita. Il custode dell’anima è la ragione pia, fortificata dal timore di Dio, dalla grazia dello spirito e dalle opere della virtù” (Il fine cristiano).
    Maria ci è posta dinanzi modello del nostro essere discepoli seduti ai piedi del Maestro e in cammino dietro a lui (cfr Lc 10,39; Mc 3,32): “Che io faccia il tuo volere. Mio Dio, questo io desidero, la tua legge è nel profondo del mio cuore” (Sal 39,9). Maria attenta ad ascoltare “tutte le Parole” che Dio le rivolge non ne lascia cadere a terra neppure una, le raccoglie, le confronta ne approfondisce ed interiorizza (sun-terein)  il senso mai interamente posseduto, le custodisce gelosamente e amorevolmente nel tempo (diaterein) perché la sua fede possa sempre crescere “finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo” (Ef 4,13).
    La Parola custodita illumina i fatti e i fatti a loro volta custoditi sono interpretati alla luce della Parola in una dinamiche di crescita ed interiorizzazione mai conclusi. Senza questa custodia, che diviene memoria anzi “memoriale”, gli avvenimenti e le parole dell’esistenza apparirebbero inconcludenti, senza un filo logico, contraddittori e non portatori di senso. Come infatti Maria potrebbe affrontare il suo “pellegrinare nella fede” (LG) che Dio le propone senza un suo costante impegno nel restare in ascolto della Parola custodita nel cuore come chiave di lettura della sua storia?
    Nei dipinti raffiguranti l’Annunciazione Maria è quasi sempre raffigurata sempre in un atteggiamento di preghiera avendo dinanzi a sé aperto – se  pur su di un anacronistico inginocchiatoio –  il libro della Parola di Dio. Vi si esprime l’essenziale della fede di Maria che si riassume nella sua costante disponibilità a collaborare – è il frutto della preghiera – al realizzarsi della promessa di Dio.
    I Padri insegnano che ciò che si dice di Maria vale per la Chiesa e per ogni credente.
    L’impegno a custodire la Parola del Signore nel nostro cuore è della Chiesa, della comunità e di ciascuno di noi: nessuno escluso. Desideriamo custodirla gelosamente “più di mille pezzi d’oro e d’argento” come fermento della fede, chiave di lettura della storia e fuoco che sospinge all’annuncio del vangelo.
    L’importante documento della CEI, “Comunicare il vangelo in un mondo che cambia” al n. 31 afferma che “ogni uomo è chiamato a prestare attenzione in ogni momento al rivelarsi gratuito di Dio, della sua misericordia che purifica e risana, è chiamato a scorgere la presenza della grazia divina attraverso persone ed eventi”.
    Ciò è possibile nella misura in cui nel cuore è custodito il dono di Dio.  “Prega dunque per chiedere la grazia del vero silenzio di cui Maria ha il segreto, ella che custodiva fedelmente i suoi ricordi e li meditava nel suo cuore” (Fraternità Monastiche di Gerusalemme, Libro di vita).

    Oratio

    Ascolterò la tua Parola, nel profondo del mio cuore.
    Nel buio della notte essa come luce risplenderà.
    Mediterò la tua Parola, nel silenzio della mente.
    Nel deserto delle voci essa risuonerà.
    Seguirò la tua Parola nel sentiero della vita.
    Nel passaggio del dolore la Parola della Croce mi salverà.
    Custodirò la tua Parola, per la sete dei miei giorni.
    Nello scorrere del tempo la Parola dell’Eterno non passerà.
    Annuncerò la tua Parola, camminando in questo mondo.
    Le frontiere del tuo Regno,
    la Parola come un vento  le spalancherà


    (E. Sequeri)

  • 24 Mar

    1. Tempio di Luce

     

    O Tempio della Luce
    senza ombra e senza macchia,
    intercedi per noi presso il figlio tuo,
    mediatore della nostra riconciliazione,
    perché egli perdoni le nostre debolezze,
    allontani da noi ogni discordia,
    e conceda alle anime nostre
    la gioia di amare i fratelli.
    O Maria, al tuo cuore immacolato
    raccomandiamo tutto il genere umano;
    fa’ che conosca l’unico e vero salvatore,
    Gesù Cristo;
    allontana da esso le calamit�
    provocate dal peccato,
    dona al mondo intero la pace nella verità,
    nella giustizia, nella libertà e nell’amore.
    Amen.

     

     

     

    2. A Maria benigna

     

    Vergine santa,
    nella tua dimora gloriosa
    non dimenticare le tristezze della terra.
    Rivolgi uno sguardo di bont�
    su coloro che soffrono,
    che lottano contro le difficoltà,
    che appressano continuamente le loro labbra
    alle amarezze della vita.
    Abbi pietà di coloro che ti amano,
    e son  costretti a vivere separati.
    Abbi pietà di coloro che sono abbandonati
    nella solitudine del loro cuore.
    Abbi pietà della nostra fede
    così vacillante.
    Abbi pietà di quelli che piangono,
    di quelli che pregano, di quelli che tremano.
    Dona a tutti la speranza e la pace.
    Così sia.

    Henri Perreyve (1831-1865)

     

    3. Come Maria

     

    Come Maria,
    sconosciuta donna di Nazaret,
    che nel silenzio adorante ha sperato e ha atteso
    l’avverarsi delle tue promesse,
    anche noi, o Signore Iddio,
    nel silenzio operoso della nostra fatica quotidiana,
    abbiamo atteso il dono del tuo Figlio,
    generatore di una nuova umanità.
    Ed ora egli è qui, dentro di noi,
    pane disceso dal cielo,
    fatto cibo per noi,
    affamati di speranze eterne e di valori assoluti.
    È qui dentro di noi,
    nel segno di un pezzo di pane,
    come lo era nel grembo di  Maria
    nella fragile carne d’un feto.
    Come Maria,
    leviamo a te il nostro grazie
    perché grandi cose hai operato
    per noi e in noi,
    anche oggi!

    A.D.

  • 22 Mar

    Le mie mani

     

     

     

    Le mie mani,

    coperte di cenere,

    segnate dal mio peccato
    e da cose fallite,

    davanti a te, Signore, io le apro,

    perché ridiventino capaci di costruire
    e perché tu ne cancelli la sporcizia.

                Le mie mani,

    avvinghiate ai miei possessi
    e alle mie idee già fatte,

    davanti a te, Signore, io le apro,

    perché lascino sfuggire i miei tesori.
                Le mie mani,

    pronte a lacerare e a ferire,

    davanti a te, Signore, io le apro,

    perché ridiventino capaci di accarezzare.

                Le mie mani,

    chiuse come pugni di odio e violenza,

    davanti a te, Signore, io le apro,

    tu vi deponi la tua tenerezza.

                Le mie mani,

    si separano dal loro peccato;

    davanti a te, Signore, io le apro:

    attendo il tuo perdono.

     

    Charles Singer

  • 19 Mar

    A san Giuseppe

     

    A te, o beato Giuseppe, stretti dalla tribolazione, ricorriamo,
    e fiduciosi invochiamo il tuo patrocinio,
    dopo quello della tua santissima sposa.
    Per, quel sacro vincolo di carità, 
    che ti strinse all’Immacolata Vergine Maria, Madre di Dio,
    e per l’amore paterno che portasti al fanciullo Gesù,
    riguarda, te ne preghiamo, con occhio benigno
    la cara eredità che Gesù Cristo acquistò col suo Sangue,
    e col tuo potere ed aiuto sovvieni ai nostri bisogni.
    Proteggi, o provvido custode della divina Famiglia,
    l’eletta prole di Gesù Cristo:
    allontana da noi, o Padre amatissimo,
    gli errori e i vizi, che ammorbano il mondo;
    assistici propizio dal cielo
    in questa lotta col potere delle tenebre,
    o nostro fortissimo protettore;
    e come un tempo salvasti dalla morte
    la minacciata vita del pargoletto Gesù,
    così ora difendi la santa Chiesa di Dio
    dalle ostili insidie e da ogni avversità;
    e stendi ognora sopra ciascuno di noi il tuo patrocinio,
    affinché a tuo esempio e mediante il tuo soccorso,
    possiamo virtuosamente vivere,
    piamente morire e conseguire l’eterna beatitudine in cielo.
    Amen.

  • 14 Mar

    di p. Attilio Franco Fabris

    1. INTRODUZIONE

     Ricerche filologiche e storiche, studi sulla simbolica dei riti, dei gesti e del linguaggio, fanno constatare come la meditazione sia un dato fondamentale e universale dell’esistenza umana. Da questa constatazione ne deriva tuttavia il fatto che la parola “meditazione” corre il rischio soprattutto nella nostra cultura di dimostrarsi ambigua in quanto usata in ambiti e culture diverse (es. preghiera mentale, metodi d’interiorizzazione Yoga, zen giapponese, riflessione di testo coranici, tecniche di psicoterapia, ecc…).
    Analizzeremo dapprima la meditazione nel contesto cristiano. Essa vi si colloca come una delle forme della preghiera.
    Nella teologia della spiritualità essa si definisce generalmente come forma di contemplazione acquisita in cui si succedono atti distinti dell’intelligenza, dell’affettività e della volontà. (Nella contemplazione pura l’attività di questi dinamismi è di molto semplificata e unificata). Quando si parla di meditazione si suppone dunque una applicazione attiva e metodica di questi dinamismi. Di per sé dunque la meditazione fa leva sulla struttura dell’essere umano, sui suoi dinamismi, dando la precedenza ad un discorso ordinato che venga a toccarli e a coinvolgerli.
    Questa connotazione è presente pure nell’etimologia stessa della parola; in latino come in greco meditatio-melete esprime l’idea di un esercizio. In effetti serviva ad indicare originariamente ogni specie di esercizio fisico o intellettuale, ovvero ogni pratica destinata a preparare e ad affinare l’esercitante. In seguito il linguaggio ha riservato exercere agli esercizi fisici, e meditari a quelli dello spirito. Dunque meditatio nel suo significato etimologico indica un esercizio metodico dello spirito, che corrisponde agli esercizi preparatori e ripetitivi dei soldati o dei musicisti. Vediamo ad esempio Ugo di s. Vittore accostare la meditazione religiosa a quella di un testo ordinario: “La  meditazione è il pensiero assiduo e riflesso, che cerca di conoscere la causa, l’origine, la maniera di essere e l’utilità di una cosa. La meditazione ha il suo principio nella lettura, tuttavia non è sottoposta ad alcuna regola o precetto nella maniera di leggere; essa ama infatti correre liberamente attraverso lo spazio”. Da questo testo emerge un dato importante: l’attività meditativa possiede un suo carattere naturale. Esiste una meditazione naturale: la persona che contempla un’opera d’arte, che ascolta della musica, che riflette su qualche aspetto della sua vita, il bambino colto da stupore di fronte a qualcosa di nuovo o di bello sono indicatori di tale attività naturale.
    Si tratta  ancor più di un lavoro di assimilazione di ciò che l’occhio ha letto, di ciò che l’orecchio ha udito, di ciò che la memoria ha ritenuto; si tratta di una masticazione-ruminatio delle idee al fine di penetrarsene completamente. (Cf P. Philipe). E’ per questo che la meditazione va accostata al tema più generale dell’ascesi.
    Il
    concetto di meditazione cristiana conosce lungo la storia una continuità e una evoluzione.
    L’evoluzione riguarda l’importanza crescente che viene data al fattore intellettivo-riflessivo.
    La continuità si desume dal fatto che i diversi autori si ispirano alla rivelazione, in particolare la s. Scrittura. 

     

    2. MEDITAZIONE E VITA CRISTIANA

    Il fine di chi medita, applicando l’esercizio di mente-cuore-volontà, i misteri della fede è quello di far sì che la sua fede diventi sempre più interiorizzata ovvero personale. Essa permette e facilita una assimilazione del senso e del contenuto del mistero che si medita.
    Il cristiano per garantire questo processo spirituale procede come farebbe in una qualsiasi disciplina profana: applica la propria intelligenza, affettività e volontà ai dati del mistero, ne approfondisce il senso. Questo senso assimilato dall’intelligenza, scoperto amabile dal cuore, conduce ad atteggiamenti e a scelte concrete di vita, la quale in tal modo si viene a conformare sempre più al dato rivelato.
    Pur sottolineando la massima libertà del processo meditativo come attestava Ugo di s. Vittore, ben presto si sentì tuttavia la necessità di ricorrere a dei metodi più o meno rigorosi. Intendiamo per metodo uno schema stereotipo, applicabile a qualsiasi oggetto.
    Scopo del metodo è quello di condurre, sorreggere, lo spirito a investigare in maniera esaustiva e ordinata i vari aspetti del mistero.
    Non sono mancate lungo la storia della Chiesa alcune obiezioni: sottomettendo l’attività spirituale a un metodo meditativo ferreo e razionale non si rischia di limitare o addirittura spegnere la libera azione dello Spirito? Come si vede si tratta di un problema analogo a quello che interessa l’attività ascetica e l’esperienza mistica.
    La soluzione è la medesima: come l’ascesi dispone all’accoglimento della grazia, così la meditazione dispone all’assimilazione del mistero della fede. Essa non ha dunque la presunzione di possedere un’efficacia meccanica. Dio accorda sempre i suoi doni con grande libertà. A noi spetta il compito di predisporci a tale opera di Dio attraverso questa scuola di orazione.

     

    3. LA MEDITAZIONE NELLA S. SCRITTURA

     I. AT.

     L’idea di meditazione si collega alla radice haga tradotto in greco con melete  e il latino con meditari.
    La radice originariamente significa “mormorare a bassa voce“. La sede o l’organo del meditare è dunque la gola, la laringe.
    La meditazione può dunque originariamente avere valore sia religioso che profano (vi è ad es. un meditare anche contro Dio: “populi meditati sunt inania” Sl 2,1).
    Talvolta alla componente auditiva-fisica si affianca una componente spirituale o mentale: “Non si allontani dalla tua bocca il libro della legge, ma meditalo giorno e notte, perché tu cerchi di agire secondo quanto vi è scritto” (Gs 1,8), la meditazione della legge conduce a regolare la propria vita su questa stessa legge (cfr. “la sua legge medita giorno e notte” Sl 1,2). La meditazione procede dunque dal cuore, dalla bocca del giusto e ha per oggetto la giustizia-legge di Dio.
    In sl 77,13 (“mi vado ripetendo le tue opere, considero tutte le tue gesta”)  e sl 143,5  (“Ricordo i giorni antichi, ripenso a tutte le tue opere, medito i tuoi prodigi”) haga è posto in relazione con zakar, il fare memoria meditandole delle meraviglie di Dio.
    Nella letteratura sapienziale, dove non troviamo espressamente la radice haga, ritroviamo tuttavia più volte una sorta di meditazione sui testi più antichi che narrano gli interventi di Dio nella storia del popolo eletto (Sap 10-19: Sir 44-49).
    La traduzione del termine ebraico in greco e in latino comporterà successivamente una espansione di significato. Infatti il termine greco significa “prendersi cura di”, “prendersi a cuore”; mentre il termine latino contiene il concetto di “esercitarsi” con un grande ventaglio di utilizzo (dal memorizzare parti teatrali, brani musicali, discorsi, ecc…). Questa accezione si mantenne nell’epoca patristica sino al medioevo: studenti e monaci, come vedremo, si esercitavano alla recita dei salmi o delle lezioni.

    II. N.T.

     Il termine esplicito è quasi introvabile. Il solo testo significativo e in 1 Tm 4,15: “abbi premura=medita di queste cose, dedicati ad esse interamente…”. Paolo prescrive al suo discepolo di “prendersi a cuore” la lettura della Scrittura.
    Troviamo pure il “conservare nel proprio cuore parole o avvenimenti”. E’ ciò che fa Maria (cf Lc 2,19;51). Si tratta evidentemente di una forma di meditazione dell’opera di Dio. 

     

    4. PADRI E AUTORI MONASTICI

     La caratteristica principale della primitiva meditazione cristiana è il ricordo e la ripetizione della Parola di Dio, al fine di farne il nutrimento dell’anima.
    E’ questo il senso di alcune metafore molto ricorrenti: mensa verbi, ruminatio, palatum cordis, os cordis…
    L’idea della ruminatio è ispirata a Lev. 11,3 e Dt 14,6, dove i ruminanti sono classificati tra gli animali puri. Questa analogia viene utilizzata dai Padri (es. Ep. Barnaba X,II; Clemente A., Pedag III,II,76; Apoftegmi di Antonio e Macario…). In occidente è più volte usata da Agostino: “Allorché tu ascolti o leggi, ti nutri; allorché tu mediti ciò che ascolti o leggi, tu rumini al fine di essere un animale puro e non impuro” (En. Ps. 36; Serm. III,5).
    Da un lato si tratta di ripetere una parola o un testo, e di ripeterli in modo frequente se non continuo; dall’altro si tratta di assaporare, di assimilare interiormente questa parola, per far fruttificare la ripetizione” (F. Ruppert).
    La modalità di meditazione del monachesimo antico pacomiano si avvicina singolarmente al “meditare” biblico. La regola richiede al monaco, durante ogni sua occupazione, una ripetizione a bassa voce di versetti salmodici o di brevi testi biblici (3,28.36.37).
    Senza parlare esplicitamente di meditazione sant’Antonio pensa che il monaco può giungere alla misericordia di Dio attraverso il lavoro manuale, il digiuno, la veglia e “studiis multis verbi Dei et orationibus pluribus” (Lett. 1,77).
    Se per certuni questa ripetizione incessante poteva trasformarsi in routine, pratica meccanica, essa per tanti altri era tuttavia strumento in grado di condurre ad una grande familiarità con la Parola (cf gli scritti patristici e monastici), capace di introdurre l’anima in un clima particolare di ascolto, in un atteggiamento interiore di silenzio, capace di far sbocciare spontaneamente la vera preghiera. Cassiano attesta questo dinamismo quando parla di una “meditatio spiritualis” in quanto è “oris pariter et corde officium” (Inst. II,15,1). Questa pratica nel monachesimo orientale veniva protratta durante la giornata e anche nel lavoro, essa prende il posto delle ore canoniche del monachesimo occidentale (cf.  Inst. III,2).
    Questo esercizio, con la sua parte di fisicità, appariva particolarmente adatto a quegli uomini spesso incapaci di riflessioni astratte; in effetti quella che poteva essere la componente intellettuale della vita spirituale era di pochi.
     E’ infine da notare che nel monachesimo bizantino questa sorta di melete ha condotto alla pratica della Preghiera di Gesù.
    In san Benedetto non ritroviamo alcuna sorta di questo tipo di meditazione. Si prescrive al monaco anzi il silenzio assoluto. Il meditari è riservato all’apprendere “qualcosa del salterio o delle lezioni” (RB 8,3).
    Nell’ambito della cultura monastica occidentale meditatio sarà spesso associato a lectio e oratio, tanto che il trinomio lectio-meditatio-oratio diviene classico per esprimere la familiarità con la Parola di Dio. Questa può essere “mangiata” e “bevuta” nella lectio, assimilata e assaporata nella meditatio, sollecitata a produrre frutto nella vita tramite l’oratio. Ambrogio in un inno ripreso anche dalla nostra LH dice: “Christusque nobis sit cibus, potusque noster sit fides”.

    5. LA PRATICA MEDIEVALE

     Una premessa è fondamentale: nella storia della spiritualità gli autori hanno proposto forme di meditazione adatte alla formazione dei cristiani del loro tempo (alcuni insistendo sull’attività intellettiva, altri sulla immaginazione, altri sugli slanci affettivi a seconda del loro temperamento e cultura). Nessun metodo può dunque presumere di presentarsi come l’unico o il migliore, tutti sono sempre e solo strumenti legati a singole esperienze spirituali e culturali. Tuttavia si potranno ricavare alcune costanti che danno chiaramente un indirizzo sul quale camminare nella meditazione.
    Tra l’XI e il XII sec. Si inaugura con sant’Anselmo di A. (+1109) il genere delle Orationes e delle Meditationes. In queste opere la ratio, le rationes iniziano a giocare un ruolo importante, esse introducono ad un nuovo modo di pensare e di pregare in cui il fattore intellettivo prende consistenza.
    Un altro autore significativo è Ugo di s. Vittore (+1141). Scrive nel suo trattato De Meditatione: la meditazione è frequens cogitatio modum et causam et rationem uniuscuisque rei investigans. Presenta tra varie modalità un cammino meditativo in cinque tappe: “Primo lectio ad cognoscendam veritatem materiam ministrat, meditatio coaptat, oratio sublevat, operatio componit, contemplatio in ipsa exsultat”.
    Ruolo della meditazione è “l’esercizio di discernimento sul modo di mettere in pratica ciò che si sa, poiché è inutile sapere ciò che poi non si mette in pratica”.
    Pe
    r Ugo di s. Vittore la meditazione è dunque una attività di riflessione e di ricerca orientata in un senso verso la conformazione della vita all’insegnamento della scrittura e verso la contemplazione, nell’altro essa viene a rappresentare una tappa del cammino spirituale. Ed è in questa duplice linea che si muoveranno altri autori nelle sistematizzazioni posteriori.
    Nell’ambiente monastico, oltre alla preghiera liturgica, entra in uso una preghiera personale mentale: essa consiste nella lectio divina.
    L’aspetto più interessante per il nostro discorso è che anche qui la meditatio vi appare come una fase, un momento di un’attività contemplativa più vasta e complessa. Un testo fondamentale per comprendere questo lo ritroviamo nella lettera di Guigo II certosino. Egli scrive l’Epistola de vita contemplativa in cui distingue quattro “gradini spirituali” che formano la scala claustralium: lectio, meditatio, oratio et contemplatio: “La lettura è l’applicazione dello spirito alle sacre scritture; la meditazione è l’investigazione accurata di una verità nascosta con l’aiuto della ragione; la preghiera è la tensione devota del cuore verso Dio per allontanare il male e ottenere il bene; la contemplazione è l’elevazione dell’anima in Dio, anima che è avvinta dal gusto delle gioie terrene. La lettura ricerca la dolcezza ineffabile della vita beata, la meditazione la trova, la preghiera la chiede, la contemplazione la gusta. Si tratta delle parole stesse del Signore: “Cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto” (Mt 7,7). Cercate leggendo, troverete meditando, bussate pregando. La lettura porta il nutrimento alla bocca, la meditazione lo mastica e lo trita, la preghiera lo gusta e la contemplazione è questo sapore medesimo che riempie di gioia e rifocilla”.
    Dunque la meditazione si colloca tra la lectio e l’oratio: essa investiga, approfondisce, rumina, cerca. In rapporto alla lettura è un’elaborazione che permette allo spirito di approfondire il testo. In rapporto alla orazione essa prepara il terreno affinché lo spirito possa aprirsi al dialogo con Dio, domandando ciò che esso ha compreso.
    Ritroviamo quasi contemporaneamente le Meditationes viae Christi (sec. XIII). Queste propongono come modello all’anima che si vuole dedicare alla meditazione la figura di s. Cecilia che “portava sempre il Vangelo nascosto nel cuore” ovvero “lo meditava giorno e notte nel suo cuore, ruminandolo=meditandolo con dolcezza e soavità”. L’autore in questo caso offre un solo metodo: “Renditi presente alle parole e ai gesti riportati, come se tu le ascoltassi con le tue orecchie o le vedessi con i tuoi occhi”.
    Anche Landolfo di Sassonia certosino (+1377) scrive una Vita Christi (opera che sarà letta da Ignazio di L.) il quale propone per ogni esercizio una struttura triplice legata alla lectio divina: lectio, meditatio, oratio.
    Concludendo si può notare come lentamente venga a sottolinearsi l’aspetto riflessivo, vi è legame alla tradizione nel fatto che rimane ancora stretta l’unione della meditatio con la lectio e l’oratio-contemplatio dell’ambiente monastico. 

    6. L’ORAZIONE METODICA

     Nel secolo XIII nascono gli ordini mendicanti; per i frati si scrivono le “Industriae”, ovvero suggerimenti del come pregare in mezzo alle distrazioni.
    Anche nel mondo laicale, lontano dallo studio e dalla familiarità dei testi, e occupato in attività mondane si sentì il bisogno di riferirsi soprattutto a dei metodi pratici di meditazione, onde essere facilitato nella preghiera personale e contemplativa.
    Nel XV sec. Nasce il movimento della Devotio moderna. Troviamo ad es. le Scalae di Wessel Gansfort. Si tratta di serie di meditazioni già preconfezionate per la durata di una settimana o un mese, al fine di approfondire ordinatamente le verità di fede. E’ possibile constatare come con l’avvento della devotio moderna si arriva a incoraggiare più la meditazione personale che la preghiera liturgica.
    Il fondatore è Gerard Groote (1340-1383). Per il Groote la meditazione è una “mentis exercitatio” che pone in azione la riflessione e le rappresentazioni dell’immaginazione. Essa è una praeparatio che conduce alla preghiera e alla imitazione delle virtù di Cristo: “Inanis est mentis exercitatio, honore et fine carens, si non ducat nos et cogat ut ea que Christi sunt per oris confessionem et operis imitacionem perficere laboremus”.
    La preghiera nasce dalla meditazione e si trasforma in meditazione: “omnis animi excitatio a meditacione oritur et meditacione perficitur”.
    Sempre per il Groote esistono quattro genera meditabilia: la scrittura, le rivelazioni fatte ai santi, gli scritti dei dottori, le immgini composte dal credente stesso. Fonte della meditazione non appare più solo la Scrittura. Inizia in questo periodo a farsi strada altresì il problema dell’uso dell’immaginazione. Il suo ruolo per il Groote è adatto ai piccoli e ai principianti, mentre ai progrediti si domanda di superarlo. L’immaginazione ci aiuta a trasportarci nei tempi e nei luoghi dei misteri della vita del Signore, aiutandoci a prendervi parte.
    Sempre all’interno della corrente della devotio moderna troviamo un piccolo testo anonimo dal titolo “Epistola de vita et passione D.N. Jesu Christi. Si insiste sul fatto che il cuore dell’uomo debba necessariamente occuparsi di qualche cosa, e per il devoto ovviamente è necessario che “Dio sia meditato”. L’esercizio spirituale di questa meditazione, ripreso quotidianamente, crea un’abitudine, ovvero una mentalità, uno stile di vita. Questo esercizio giornaliero è per eccellenza la meditazione della passione di Cristo suddivisa cronologicamente e secondo punti precisi.
    L’autore insiste sulla diversità di vie e di grazie per ciascuno. Si mediterà dunque questo o tal punto a seconda che convenga meglio. Ogni sforzo eccessivo è riprovevole. Se ci si trova nell’aridità, si leggeranno semplicemente i punti previsti per la giornata. Si rimane sempre liberi di utilizzarli tenendo conto delle ispirazioni dello Spirito e delle proprie disposizioni: “Benché la materia sia abbondante, non si utilizzerà se non ciò che meglio convenga“.
    Tommaso da Kempis (1379-1471), autore controverso dell’Imitazione, insiste molto sulla solitudo cordis et corporis, sulla custodia cellae  e il silenzio come strumenti che ci predispongono alla preghiera: “Haec solitudo docet sanctis inharere meditationibus” (Serm. 7).
    Un suo abbozzo di metodo, appare nei Sermones de vita et passione Domini (cap. 26). L’autore presenta una successione di sette punti:
     –quis est qui haec patitur
    – a quibus patitur
    – quanta patitur
    – pro quibus
    – quam longo tempore patitur
    – in quibus locis patitur
    – in quibus membris patitur.
    Notiamo  come la passione, nella Devotio, venga presentata come oggetto principale e privilegiato di meditazione.
    In altri testi e autori vedremo successivamente un proliferare di punti e di tracce per la meditazione. Talvolta si rimane meravigliati per la loro complessità. Nel tardo medioevo troviamo un metodo che propone un itinerario meditativo in cui si succedono 23 momenti (la Scala di Gansfort). Questa complessità non va interpretata in senso peggiorativo: essa rispondeva all’esigenza di facilitare al massimo la riflessione vincendo il rischio della dispersione.
    Jean Mombaer (1460-1501) è l’ultimo autore significativo della devotio moderna. La sua opera più significativa è il Rosetum. Si tratta di una raccolta di 30 trattati. All’interno troviamo il Meditatorium in cui si offre “meditationis modum, quippe exordiendi, procedendi terminandique praxim”.
    Per Mombaer occorre perseveranza per poter apprezzare il suo metodo. Tuttavia colui che medita dovrà sempre far attenzione a seguire le ispirazioni della grazia.
    Notiamo che in questo metodo la funzione dell’immaginazione è pressocché assente. Vi è solo qualche accenno nella fase dedicata alla memoria. Infine constatiamo come colui che medita alla fine non prende alcuna risoluzione concreta.
    L’opera di Mombaer porta la metodologia ai suoi estremi limiti. Ciò preannuncia già un certo declino. Il metodo ignaziano a confronto apparirà di una grande semplicità. 

     

    7. LE FORME IGNAZIANE

     Grande influsso lungo la storia della spiritualità ebbero gli schemi ignaziani contenuti negli Esercizi Spirituali di Ignazio di Loyola.  In quest’opera fondamentale nella storia della spiritualità vengono offerti alcuni metodi di meditazione in funzione delle materie da meditare. Nella prima settimana si fa uso del metodo delle tre potenze applicando cioè memoria, intelletto e volontà alla realtà del peccato, della morte e dell’inferno. Nella seconda settimana Ignazio propone la contemplazione dei misteri di Cristo: si tratta di una meditazione molto semplice che fa ricorso molto alla applicazione dei sensi. Infine alcune modalità di pregare meditativa: contemplare il senso delle parole di una preghiera (nn. 349-257), e la preghiera ripetitiva e ritmata (n. 258-260) questi costituiscono dei veri metodi di preghiera semplici e fruttuosi.
    Ignazio non è lo scopritore di questi metodi; egli infatti compendia e si fa erede di tradizioni monastiche e francescane da lui conosciute e assimilate.
    Nonostante l’apparenza dia l’impressione di metodi rigidi e forse un po’ freddi, occorre partire dalla considerazione che Ignazio era un temperamento affettivo, e che i suoi scritti e consigli sono frutto di intense esperienze spirituali e mistiche. I suoi schemi non sono scritti a tavolino, ma costituiscono il risultato di ciò che egli ha vissuto in prima persona. E’ per questo che probabilmente essi possono essere apprezzati soprattutto da chi verifica la loro validità mediante la sua propria esperienza.
    Esiste uno schema fondamentale ignaziano e il più conosciuto. Lo prendiamo in considerazione passo per passo.
    I. Preparazione lontana

               1. Ostacoli alla preghiera

                         – i peccati

                         – le passioni disordinate

                         – troppa sollecitudine per le cose materiali

                         – dissipazione e incostanza mentale

               2. Disposizioni alla preghiera

                         – la purezza di coscienza

                         – il dominio di sé

                         – la magnanimità

                         – l’attenzione

    II. Preparazione vespertina dei punti di meditazione

    III. Addizioni

               1. La sera, prima di dormire, pensare per il tempo di un’Ave Maria                       all’ora in cui devo alzarmi e su cosa mediterò.

               2. Il mattino, provare a restare in quell’umore e disposizione che conviene

               alla meditazione.

               3. Consapevolezza della presenza di Dio.

               4. Scelta della posizione fisica che conviene a quella meditazione

               5. Invocazione allo Spirito

    IV. Preamboli

               1. Immaginazione del luogo

               2. “Chiedere ciò che voglio”

    V. Uso delle facoltà

               1. Memoria

               2. Intelletto

               3. Volontà e affetto

    VI. Colloquio conclusivo

    VII. Esame

    I. PREPARAZIONE LONTANA

     Ignazio parla del “modo come disporre l’anima per la meditazione”. Quali le disposizioni che si richiedono? Egli inizia presentando in negativo quelli che possono essere gli ostacoli alla meditazione.
    Un primo impedimento sono i peccati. Se la preghiera è conformazione alla volontà di Dio, chi può pregare agendo in contrario?
    In secondo impedimento sono le cattive passioni. Per Origene al primo posto va collocata l’ira, e a questa possiamo aggiungere tutte le altre. Esse infatti distolgono, e sottraggono energia e attenzione.
    Un terzo impedimento sono le preoccupazioni. Esse non permettono un giusto distacco e libertà interiore.
    Un quarto impedimento è rappresentato dall’incostanza, dalla volubilità. In effetti la fantasia e la nostra immaginazione se non sono ben impiegate rischiano di affondare lo sforzo della preghiera. Inoltre la pigrizia può condurre a tralasciare la meditazione, oppure a prepararvisi e a svolgerla male e superficialmente.
    In positivo Ignazio a chi si appresta alla meditazione richiede:
    – la purezza di coscienza
    – la mortificazione delle passioni
    – la dedizione totale a Dio
    – l’attenzione.
    Queste virtù sono frutto di fatica e di una disposizione generale della propria vita: “Perciò quali vogliamo essere durante la preghiera, tali cerchiamo di essere prima di cominciare a pregare”. Il Faber aggiunge: “Chi volesse pregare solo quando viene dato il segno delle campane, difficilmente pregherà davvero, sarebbe un miracolo”. 

    II. PREPARAZIONE DELLA MATERIA (I PUNTI)

     Sant’Ignazio annota: “Chi propone all’altro il modo e l’ordine sul come meditare e contemplare, deve fedelmente esporre la storia che è oggetto di quella contemplazione o meditazione, ma solo presentandola per punti con una breve e sommaria spiegazione, affinché colui che contempla abbia un vero fondamento; se poi egli riflette e medita da solo e trova qualche cosa, ciò dà una migliore chiarificazione ed un miglior senso alla storia. Sia per mezzo della propria meditazione, sia che la mente venga illuminata dalla potenza di Dio, vi è un maggiore gusto ed un maggiore profitto spirituale, che se colui che propone gli esercizi spiega a lungo il senso di quella storia; Perché non è il molto sapere che sazia e accontenta l’anima, ma il sentire e gustare le cose interiormente”.
    Questi punti sono preparati la sera precedente: consistono nella lettura del testo, nella annotazione dei pensieri e delle domande.
    Importante per Ignazio è che l’attenzione si fissi su ciò che sente importante. Lo scopo del metodo non è di limitare il libero discorso con Dio, ma di prepararlo con più possibilità di temi, affinché ad essi si possa ricorrere allorché ci si sentisse vuoti. Ciò nonostante la meditazione potrebbe non avere effetti. Si ritorni allora ad una lettura tranquilla e meditativa del testo. 

    III. ADDIZIONI

     Siamo ancora nell’ambito della preparazione alla meditazione.
    Prima addizione: quando mi metto a letto e ho già voglia di dormire penso, per il tempo di una Ave Maria, all’ora in cui dovrò svegliarmi, e mi ricorderò la meditazione della quale voglio occuparmi”
    Seconda addizione: quando mi sveglio non ammetto altri pensieri; ma concentro la mia attenzione su ciò che voglio meditare”.
    Questi consigli li possiamo ritrovare anche in altri autori spirituali. San Bonaventura ad esempio scrive per i novizi: “Quando aspetti il sonno, recita i salmi, medita su qualche pensiero devoto o, ancora meglio, rappresentati nostro Signore sulla croce. Tutto questo mette in fuga il diavolo. Quando ti svegli, ritorna subito, non appena ti alzi, al pensiero del Crocifisso, segnati con il segno della croce e affrettati ad andare in chiesa”.
    Tali consigli sono stati riscoperti dagli studi di psicologia che hanno sottolineato l’importanza delle immagini mentali, che soprattutto nel dormiveglia possono penetrare nel profondo di noi stessi. Karl Rahner annotava in un suo articolo: “Con una buona preghiera serale portiamo nel subconscio alcune immagini, le sacre rappresentazioni, visioni che corrispondono alle nostre profonde inclinazioni e desideri. Ciò poi agisce nel subconscio durante il sonno”.
    La terza addizione è l’esercizio della presenza di Dio. Negli Esercizi la troviamo così descritta: “Uno o due passi davanti al luogo dove devo contemplare o meditare; mi soffermo, con la mente elevata verso l’alto, il tempo di un Padre nostro. Considererò come Dio, nostro Signore, mi guarda e farò un atto di adorazione o di umiltà”.
    Giovanni Berchmans segue scrupolosamente questa indicazione: “Quando verrà il tempo della meditazione, mi chiederò: Dove vai? – Al Signore Dio! – E che cosa farai? – Parlerò con lui! Poi mi aspergerò con l’acqua benedetta. Quando suonerà la campana, farò il segno di croce, mi metterò ad uno o due passi dall’ inginocchiatoio e penserò che Gesù Cristo stia davanti a me guardando che cosa sto facendo. Gli manifesterò la mia stima con qualche gesto esteriore di umiltà, poi avanzerò, mi metterò in ginocchio e dirò: Signore Dio, ti prego, conduci tutti i miei pensieri, dirigi tutte le mie opere, affinché tutto sia consacrato al tuo servizio e alla tua gloria. Poi mi rivolgerò alla materia della meditazione con la memoria, con l’intelletto, con la volontà”.
    In effetti nella preghiera è importantissima la consapevolezza della presenza di Dio, onde evitare il rischio che essa si trasformi in monologo. Per Ignazio è sufficiente un piccolo momento all’inizio. Notiamo come anche il corpo partecipa dell’adorazione. Anche il metodo sulpiciano attribuirà a questa immediata preparazione alla meditazione una grande importanza. Esso prevede la lunghezza di un quarto d’ora in cui si succederanno diversi atteggiamenti interiori: mettersi alla presenza di Dio, riconoscere la propria indegnità, riconoscere che il nostro peccato non ci fa degni di ascolto, la confessione dei peccati, la richiesta di perdono, il confiteor, l’invocazione allo Spirito.

     IV. ATTEGGIAMENTO DEL CORPO

     E’ la cosiddetta quarta addizione. Ignazio ne parla così: “Accediamo alla contemplazione sia in ginocchio, o giacendo con il volto verso terra, o supino, giacendo con il volto verso l’alto, sempre però con l’intenzione di cercare ciò che si vuole. Avremo due punti in evidenza: primo se trovo ciò che voglio inginocchiandomi, non andrò avanti (cioè non cambierò di posizione); se lo trovo giacendo volto a terra, similmente, ecc.; secondo, se trovo ciò che voglio in un punto (cioè in un pensiero preparato per la meditazione), vi resterò senza timore di dover procedere verso il punto seguente, vi resterò fino ad essere soddisfatto”.
    Che senso hanno queste annotazioni? Servono a pacificare e semplificare al massimo la pratica meditativa soprattutto per chi è dissipato o troppo nervoso. Infatti la condizione essenziale per la meditazione è la pace interiore: “Prima di mettermi  a pregare, cercherò di essere tranquillo: lo farò sia che mi siedo sia che passeggio. Solo dopo mi inginocchierò o mi metterò seduto a seconda di ciò che meglio aiuta alla devozione; chiuderò gli occhi o li fisserò su qualche oggetto senza muoverli”.
    L’abate Cisneros raccomanda gesti espressivi che corrispondano esteriormente a ciò che si sta meditando. Nel giardino del Getsemani ci si metterà in ginocchio accanto a Gesù, o ai suoi piedi come Maria Maddalena, si volgeranno gli occhi a terra come il pubblicano, si guarderà al cielo come gli apostoli nell’ascensione.
    Si ritiene dunque buono ogni sforzo che miri a far sì che il corpo aiuti e faciliti le funzioni dello Spirito.

     V. CHIEDERE CIO’ CHE VOGLIO

     E’ una nota che diede adito alla discussione circa il cosiddetto “volontarismo ignaziano”. Per alcuni gli esercizi sarebbero un’ottima scuola per esercitare il dinamismo della volontà.
    Ma l’interesse di Ignazio è un altro. Egli si preoccupa che la meditazione abbia a sfociare nella vita, che sia ad essa strettamente collegata; che meditazione e vita interagiscano tra loro, affinché la vita venga sempre più trasformata nella volontà di Dio.
    In questa fase la preghiera si fa più concreta. Infatti è il momento in cui occorre esprimere al Signore brevemente ciò che si intende raggiungere con quella meditazione specifica. Più chiaro è il fine più il risultato sarà buono.
    Ad esempio si chiederà meditando la morte in croce di Gesù per i peccatori una penetrante conoscenza del proprio peccato.
    Si prega per ottenere ciò che si desidera, ma sempre con il cuore aperto a qualsiasi illuminazione ci sia data da Dio.

     VI. NUCLEO DELLA MEDITAZIONE: L’USO DELLE FACOLTA’

     La meditazione è preghiera che coinvolge l’uomo interamente in tutti i suoi dinamismi. Questo corrisponde all’esperienza spirituale la quale sperimenta come la vita divina possa entrare in noi attraverso le nostre facoltà.
    In uno scritto anonimo intitolato “Meditazioni devote dello stato dell’uomo” (PL 184) l’autore scrive: “Nel mio uomo interiore, nell’anima, troverò tre modi per ricordare Dio, pensare a lui e desiderarlo. E’ la memoria, l’intelletto e la volontà ossia l’amore. La memoria me lo ricorda, con l’intelletto lo guardo e con la volontà lo abbraccio”.
    Teniamo presente che la meditazione ottiene oltre al fondamentale progresso spirituale anche, come conseguenza, un maggiore equilibrio e unificazioni delle facoltà umane che l’uomo sperimenta il più delle volte divise a causa del  peccato.
    Questo coinvolgimento delle facoltà avviene in modo proporzionato. Ciò sembrerebbe artificioso, ma notiamo che ogni schema pecca in questo senso, tuttavia esso rimane una strada necessaria affinché la meditazione possa essere viva, proficua e aperta all’influsso della grazia. 

    VII. RUOLO DELL’IMMAGINAZIONE

     L’uso della memoria è legato a quello dell’immaginazione che sembra ai più tuttavia nuocere più che aiutare la pratica meditativa (es. il problema delle distrazioni). L’obiezione è in effetti giustificata.
    Un cavaliere che cavalca un cavallo indomito ha due possibilità: o di domarlo sottomettendolo oppure di scendere rinunciandovi.
    I padri della tradizione orientale scelsero la seconda soluzione: lo spirito, per essi, deve assolutamente e al più presto liberarsi da ogni tipo di immaginazione; occorre infatti creare le condizioni per un deserto esteriore ed interiore. Ritroviamo la stessa dottrina anche in Giovanni della croce: alla luce di Dio si giunge tramite la “notte dei sensi”. Non bisogna ricorrere a nessuna immagine neppure esteriore.
    In Ignazio troviamo tuttavia il tentativo di scegliere la prima soluzione: per lui il pensare umano non può essere angelico. Esso è sempre accompagnato dall’immaginazione. Questa deve così rientrare anche nella meditazione. D’altra parte lo stesso vangelo non è infatti un racconto di fatti e non un insieme di regole astratte o teoriche?
    Negli Esercizi, all’inizio della meditazione, Ignazio pone dei preamboli. Anzitutto l’immaginazione del luogo (compositio loci): “Vedrò nell’immaginazione il luogo, la via di Nazareth a Betlemme, osserverò la sua lunghezza, larghezza, se sia un cammino diritto o attraverso vallate e colline. Ugualmente guarderò, in spirito, il luogo della nascita, la grotta, se è grande o piccola, bassa o alta, come è ordinata”.
    Di questo uso dell’immaginazione ne parla anche Francesco di Sales, come terzo punto del suo metodo:  “Alcuni lo chiamano rappresentazione del luogo, altri lettura interiore. Consiste nel fatto che vedo nell’immaginazione l’intero mistero che devo meditare, come se fosse realmente davanti ai miei occhi. Per esempio, quando si deve meditare su Gesù Cristo in croce, si immagina di essere sul monte Calvario e di vedere tutto ciò che avvenne nel giorno della passione. O, se si vuole dare la preferenza al modo contrario, il cui effetto è medesimo, ci si immagina che la crocifissione accada nel luogo ove ci si trova nel modo descritto dai Vangeli. L’effetto di una tale rappresentazione è che la mente si mantiene legata a quel mistero che si vuol meditare e non divaga qua o là, come quando un uccello si chiude nella gabbia o quando un falco si lega alla corda affinché non voli via dalla mano del cacciatore”.
    Vengono dunque offerte due possibilità: o di trasferirsi mentalmente nel luogo evangelico o di trasferire i protagonisti del fatto nel luogo in cui ci si trova. E’ da notare che questo secondo modo è stato amato dalla pietà popolare: essa ha fatto sorgere i Calvari, i santi sepolcri, i sacri monti, i presepi… in alternativa ai pellegrinaggi spesso impossibili.
    Ignazio tuttavia ricorda che l’immaginazione va sempre usata con molta discrezione, e non a tutti in egual misura. “Quanto alla immaginazione del luogo, non è consigliabile dedicare ad essa né troppo tempo né troppa fatica. Non crediamo che essa sia lo scopo principale della meditazione. E’ solo un mezzo per raggiungere il frutto. Essa è più facile per quelli che hanno una fantasia viva. Agli altri è difficile. Non devono quindi affaticarsi per non stancare la testa e non ostacolare così la meditazione”. (Direttorio 1599).
    Per alcuni sarà bastante una semplicissima immagine, una allegoria o addirittura un canto o un’antifona che introduca nel mistero da meditarsi.

     VIII. IL COLLOQUIO

     Per certuni più riflessivi il rischio è che la meditazione si trasformi in studio o riflessione perdendo la caratteristica di preghiera.
    Ignazio raccomanda che la riflessione sia alternata da un parlare spontaneo a Dio o ai santi. Quanto più questo colloquio è praticato tanto meglio è. Esso non deve mai mancare, soprattutto verso la fine della meditazione.
    Negli Esercizi troviamo diversi esempi di colloqui. Dopo la meditazione sul peccato si invita a “immaginare Cristo, nostro Signore, davanti a noi crocifisso. Il colloquio lo facciamo sul perché Gesù, il Creatore è venuto a farsi uomo scendendo dalla vita eterna, nella morte del tempo e come avvenne che è morto per i miei peccati. Poi guarderò me stesso, ciò che ho fatto io per Gesù Cristo e ciò che devo fare per lui, quando lo osservo così pendente dalla croce. Penserò a ciò che mi potrà accadere. Questo colloquio lo si fa in modo giusto se lo facciamo come quando un amico parla ad un altro amico o come un suddito al suo superiore, o come colui che chiede qualche grazia o che riconosce la sua colpa in qualche cattiva azione o come chi propone i suoi progetti chiedendo consiglio. Alla fine reciteremo un Padre nostro”.
    N
    egli esercizi troviamo pure menzione di un “triplice colloquio“. Non è solo un sussidio a livello psicologico, ma rappresenta una espressione della verità di fede nella comunione dei santi, attraverso i quali si accede alla verità di Dio.
    Ad es. dopo la meditazione sul peccato, Ignazio suggerisce: “Il primo colloquio sarà con la Nostra Signora affinché ella mi ottenga da suo Figlio tre cose: che io abbia una conoscenza profonda dei miei peccati e orrore di essi; che io veda il disordine delle mie azioni e che io senta avversione verso il peccato per migliorare e ordinare la mia vita: pregare per avere conoscenza del mondo, per sentire disprezzo per esso e affinché io tenga lontane da me le cose mondane e vane. Poi dirò un’Ave Maria. Il secondo colloquio lo si farà con il Figlio, affinché mi ottenga lo stesso dal Padre e poi pregherò “Anima di Cristo”. IL terzo con il Padre che mi conceda le stesse cose egli, eterno Signore; e poi reciterò un Padre Nostro”.
    Non è indispensabile che sia un triplice colloquio, e può essere fatto con diversi interlocutori. Essi sono spontanei “come quando l’amico parla all’amico”.  

    IX. ESAME

    Alla fine della meditazione sarà utile una specie di esame della meditazione svolta, circa la sua preparazione, lo svolgimento, il frutto. Talvolta sarebbe utile scrivere qualche breve nota su un diario spirituale, per poter anche in seguito risvegliare disposizioni, sentimenti, e propositi di vita interiore.
    I maestri spirituali hanno cura che la meditazione sia sempre chiamata a penetrare nella vita, affinché essa venga sempre più trasformata  e resa contemplativa.
    S. Francesco di S. parlando di questo argomento scrive nella Filotea: “Da tutto ciò che abbiamo meditato dobbiamo legare un mazzetto spirituale. Quando uno ha camminato nel giardino dove si trovano vari fiori, non resiste a non coglierne qualcuno che porta con sé annusandone il profumo. Così anche noi, quando abbiamo meditato su qualche mistero dobbiamo tenere a memoria due o tre pensieri che ci sono particolarmente piaciuti e che ci sosterranno nel progresso spirituale; rievocheremo questi pensieri frequentemente durante la giornata, affinché il loro profumo penetri nel nostro spirito. Questo dobbiamo fare nel luogo della meditazione. Dopo di essa resteremo ancora un momento in silenzio o cammineremo da soli”. 

    8. LUIGI DA GRANADA

     A partire da sant’Ignazio si farà grande uso dei metodi di meditazione, nei quali tuttavia ritroveremo più o meno sempre gli stessi elementi: un uso sistematico dell’immaginazione e dei sensi interiori, una affettività suscitata e alimentata, una trasposizione della materia meditata tesa ad un discorso di tipo ascetico o morale.
    In questo senso l’opera “Libro de la oracìon y meditaciòn” del padre domenicano Luigi da Granada (1504- 1588) fu un vero e proprio best seller. L’autore propone un metodo in cinque punti:
    – preparazione
    – lettura dell’ oggetto da meditare
    –  meditazione
    – azione di grazie
    – domanda.
    L’insegnamento qui offerto è molto equilibrato; anzitutto mette in guardia dal trasformare l’orazione in studio, inoltre si denunciano coloro che “non pretendono nient’altro che di ricavare piacere e gioia spirituale“. Per quanto riguarda l’immaginazione, per Luigi da Granada è bene usarla “al fine di giungere ad un più forte concetto e sentimento“, ma senza eccessi per “non cadere nel gioco di qualche illusione e scambiare delle semplici immagini per la realtà“. Equilibrio pure tra l’attenzione a sé e a Dio: la preparazione implica infatti ad es. la contrizione dei peccati, ma senza appessantirvisi perché è meglio “piangerli nell’abisso della misericordia domandando a Dio rimedio e perdono“. Più importante ancora è porsi “alla presenza di Dio” presentandosi a lui come il lebbroso del vangelo che domanda guarigione.
    L’attività umana è necessaria nell’orazione, ma ricordando che “la devozione non si acquista a forza di braccia“, occorre attendere con pazienza la visita del Signore.
    La preghiera di domanda può e deve portarci a chiedere “le cose di cui sentiamo un bisogno particolare“, allargando tuttavia il cuore ai bisogni della chiesa e del mondo intero.
    Infine, nella logica del suo cristocentrismo, Luigi da Granada, invita a dare priorità alla meditazione della Passione del Salvatore e al mistero della redenzione. 

     

    9. IL CARMELO RIFORMATO

     La spiritualità del Carmelo riformato ha per fine specifico la contemplazione,  dunque l’orazione vi appare come lo strumento privilegiato per attendervi. I grandi maestri sono s. Teresa d’Avila (+1582) e s. Giovanni della Croce (+1591).
    Sostanzialmente i metodi di meditazione riprendono quelli di Luigi  da Granada. Tuttavia vi si  introduce un punto nuovo, una  contemplazione  o  colloquio affettivo tra la meditazione e il ringraziamento. Questa aggiunta susciterà  alcune discussioni circa il rapporto tra meditazione, contemplazione acquisita e infusa.
    Essi danno tre avvertimenti importanti circa la meditazione:
    – mai tralasciare nell’orazione di aderire alla umanità del Salvatore
    – non confondere nel proprio colloquio affettivo la propria immaginazione con la risposta di Dio.
    – l’amore sensibile è secondario nei confronti di un amore puro frutto di una         volontà di fede.

    IL PASSAGGIO ALLA CONTEMPLAZIONE

     Sottolineiamo il fatto che ritroviamo nella scuola carmelitana una duplice tendenza: essa possiede un forte carattere affettivo, e un orientamento verso forme superiori di orazione.
    Ne consegue che i due riformatori non misconoscono l’importanza che ha la meditazione nella fase iniziale del cammino spirituale, ma insegnano che si tratta sempre e solo di un esercizio per principianti, perché la meta a cui tendere è una forma di preghiera che consiste nella contemplazione acquisita.
    Infatti la letteratura spirituale afferma che la fase successiva alla meditazione è la contemplazione. Anche se ciò non accade né in modo automatico né necessario. Rimane però il problema di quali possono essere i segni indicatori di questo possibile passaggio. Giovanni della Croce (SMC e NO) da i suoi avvisi che rimangono classici:
    – vi è quasi sempre un miscuglio di elementi naturali e soprannaturali
    – mancanza di gusto per le cose di Dio e le cose create
    – l’impossibilità di meditare producendo atti distinti di conoscenza e volont�
    – l’anima si compiace di essere sola con Dio senza considerazioni interiori e in  pace con se stessa.

    10. LA SCUOLA FRANCESE: S. FRANCESCO DI SALES

     

    Mentre Ignazio di Loyola e Luigi da Granada riservavano il loro metodo di meditazione soprattutto all’ambito della vita religiosa, la preoccupazione di s. Francesco di Sales (+1622) è di offrire anche ai laici un metodo semplice a loro adatto. L’opera più significativa è l’Introduzione alla vita devota (1608) dove l’autore presenta a Filotea “un metodo semplice e breve” che comporta tre parti e una conclusione.�
    Quanto alla materia della meditazione Francesco di Sales presenta diverse tematiche a scelta, tuttavia raccomanda di fare orazione soprattutto sulla vita e passione di Cristo: “Noi  non sapremmo come andare a Dio se non attraverso questa porta”.
    Sottolineiamo due sue istanze :
    1. anzitutto l’importanza data all’esercizio preparatorio della presenza di Dio, di cui egli esplicita quattro modalità (onnipresenza, inabitazione della grazia, l’umanità di Cristo in cielo, e in noi). Alle visitandine consegnerà addirittura un metodo di preghiera fondato semplicemente sulla consapevolezza della presenza di Dio.
    2. Successivamente il carattere affettivo e soprattutto pratico che egli attribuisce all’orazione, al punto di giungere a stimare che, senza il frutto concreto di risoluzioni precise, la meditazione “è spesso non solamente inutile, ma riprovevole, poiché le virtù meditate e non praticate gonfiano ingannevolmente lo spirito e il coraggio”.

     

    11. IL METODO SULPIZIANO

     Fu formulato da J.J Olier (+1657) nell’ “Introduzione alla vita e alle virtù cristiane” (1661). Per quest’autore la meditazione rappresenta uno strumento privilegiato per conservarsi in un atteggiamento di umiltà interiore necessario affinché l’anima sia inabitata dallo Spirito di Gesù.
    Scrive: “Abbiamo creduto di dover offrire a questo punto un metodo che faciliterà parecchio questo esercizio… Esso consiste nell’aver Gesù davanti agli occhi, nel cuore e nelle mani”. Questo metodo non fa che dare espressione all’essenziale della vita cristiana: “Il cristianesimo consiste in questi tre punti, e questo metodo di orazione li comprende tutti: imparare a guardare Gesù, a unirsi a Gesù, ad operare in Gesù. Il primo punto conduce al timore e alla religione, il secondo all’unione e all’unità con lui, il terzo all’agire non individualistico ma congiunto alla forza di Cristo Gesù” (cap. 4).
    Avere Gesù davanti agli occhi, osservandolo adorare, santificare il nome Dio. Ciò corrisponde alla prima parte del Pater. Si tratta di rivestirsi di un atteggiamento adorante. Si tratta già di una impregnazione silenziosa di tutta la persona che si espone in qualche modo all’azione interiore dello Spirito di Gesù.
    Avere Gesù nel cuore, e attraverso questo entrare in comunione con lui. Gesù continua infatti a rivivere nelle sue membra i suoi misteri e le sue virtù; lo Spirito che le operò in lui le riproduce ancora oggi nel cristiano. “In questa parte dell’orazione, ci si dona a Dio per entrare in comunione con ciò che lui è… La partecipazione che si fa nell’orazione si chiama comunione spirituale, a motivo dei doni che Dio vi comunica attraverso l’operazione intima del suo Spirito”.
    La meditazione perciò diviene momento privilegiato di adesione a Cristo che si riversa in noi amandoci col e nel suo Spirito: essa implica un’offerta di se e un’attenzione silenziosa all’azione trasformante dello Spirito. Olier insiste molto su una docilità attenta e un’accoglienza silenziosa dello Spirito, verso il quale non bisogna opporre ostacolo. Questo secondo momento dell’orazione è la concretizzazione della seconda parte del Pater: “Il Regno di Dio viene in noi allorquando, nella preghiera, noi attiriamo il suo Spirito su di noi, il quale con la sua forza ci assoggetta interamente a lui”.
    Il terzo tempo è Gesù nelle mani.. Si tratta della nostra cooperazione che tende alla realizzazione della terza domanda del Pater: “Portare Nostro Signore nelle mani significa volere che la sua divina volontà si compia in noi… Gesù Cristo… deve essere operante in noi e attraverso noi”.
    A questo punto si farà il “buon proposito. Coerente con l’accento posto sul dono di Dio e l’azione dello Spirito piuttosto che sullo sforzo dell’uomo, Olier preferisce alla parola risoluzione quella di cooperazione, la quale sottolinea più nettamente la dipendenza dalla grazia: la domanda essenziale sarà di offrirsi a l’azione dello Spirito perché sia lui a operare in noi i “buoni propositi”.Citiamo infine san G.B. de la Salle. Nella sua “Spiegazione del metodo di orazione“, mette in evidenza soprattutto l’importanza del porsi alla presenza di Dio. Egli addirittura consacra tutta la prima parte dell’orazione a questo esercizio: “Non bisogna fermarvisi poco tempo, perché esso contribuisce anzitutto a far scaturire lo spirito di orazione.

     

    12. LA MEDITAZIONE DELLA PASSIONE

    IN S. PAOLO DELLA CROCE

     

    I. IMPORTANZA

     Per S. Paolo della Croce (1694-1775) la meditazione della Passione è via eccellente per giungere alla perfezione della vita cristiana. Essa è “ss.ma scuola dove si impara la vera sapienza”.Per questo egli si augura che le anime da lui dirette siano fedeli alla pratica meditativa quotidiana sui misteri della Passione: “Sopra tutto prego il dolce Gesù che imprima nel di lei cuore la continua, tenera e divota memoria della sua SS.ma Passione, che è il mezzo più efficace per essere santo nel suo stato. A tale effetto supplico SDM che le conceda la grazia di non lasciare passare giorno senza meditare qualche mistero della SS.ma Passione per mezz’ora, lo accerto che conserverà l’anima sua monda di ogni peccato e ricca di virtù, tanto più se accompagnerà tale meditazione colla divota frequenza dei SS.mi Sacramenti e la lezione dei libri sacri” (LETT. IV,140)Per il santo tale meditazione rappresenta anzitutto una immersione nell’amore infinito di Dio per l’uomo, ed è perciò che non può assolutamente ritenersi superflua: “non si deve lasciare, abbenché vi fosse il più profondo raccoglimento e altro dono di orazione, anzi questa è la porta che conduce l’anima all’intima unione con Dio” (lett. I,582).
    Si tratta di una meditazione adatta a tutti: clero, religiosi e laici. Ai genitori raccomanda ad esempio che insegnino già ai piccoli a meditare “con parole semplici e infantili” in modo da introdurre i figli in questo metodo di orazione.

     II. METODO

     Non si può dire che san Paolo abbia sviluppato un suo vero e proprio metodo. E’ molto interessante e significativo invece il fatto che egli facesse anzitutto attenzione alla singola persona, alle sue condizioni e possibilità. Partendo da questo presupposto si comprendono le differenti indicazioni che Paolo della Croce offre per l’esercizio della meditazione alle varie persone da lui dirette.
    L’aspetto comunque fondamentale resta il fatto che egli proponesse a tutti un cammino ascendente: partendo da una riflessione discorsiva si giunge ad un riposo contemplativo passivo, ovvero, dall’impiego attivo dell’immaginazione si arriva ad un silenzio adorante privo di immagini e di parole. Egli vuole introdurre le anime ad una esperienza prettamente mistica.

    I COLLOQUI CON GESU’ APPASSIONATO

    Una sua caratteristica sono i colloqui con Gesù sofferente.
    Di tale meditazione ne troviamo traccia già nel Diario Spirituale: “So che feci anche dei colloqui sopra la dolorosa Passione del mio caro Gesù, quando li parlo de’ suoi tormenti li dico: Ah! Mio caro Bene, quando foste flagellato come stava il vostro SS. Cuore, caro mio Sposo, quanto v’affliggeva la vista dei miei gran peccati e delle mie ingratitudini: Ah! Mio Amore perché non muoio per voi? Perché non vengo tutto spasimi? E poi sento che alle volte lo spirito non può più parlare, e se ne sta così in Dio con i suoi tormenti infusi nell’anima” (I,401).
    Questi colloqui si riferiscono a scene concrete della passione storica di Cristo. Essi fanno parte sostanziale della meditazione, anche di quella a livello comunitario che egli prescrive da svolgersi durante le Missioni. Vediamo in questo metodo un ricorso soprattutto alle facoltà dell’immaginazione e dell’affettività.
    Incentrandosi soprattutto sul mistero dell’amore, perno dell’evento salvifico della passione, si ottiene che la meditazione venga sempre più essenzializzata e spiritualizzata. In effetti la mira è che il pensiero lasci posto all’intuizione mistica.
    I  colloqui sono perciò definiti “intrattenimenti di amore”. Paolo Danei continua nel suo Diario: “Sappia che nel raccontare le pene al mio Gesù, alle volte come ne ho raccontata una o due, bisogna che mi fermi così perché l’anima non può più parlare e sente liquefarsi, sta così languendo  con altissima soavità mista con lagrime, con la pena infusa nel suo Sposo infusa in sé, o pure, per più spiegarmi, immersa nel cuore e dolore santissimo del suo Sposo dolcissimo Gesù” (diario 8.12.1720). Non troviamo in san Paolo nessun ricorso a quel razionalismo tipico dell’età dei lumi, anzi riscontriamo un movimento quasi opposto.

     MEDITAZIONE DELLA PASSIONE STORICA DI GESU’

     Nelle lettere troviamo esempi concreti di meditazione sui fatti storici della Passione.
    Paolo della C. Avverte, facendosi eco di tutta una tradizione precedente, di “non aver fretta di passare da un punto all’altro” ma di avere l’accortezza di fermarsi “dove si prova più devozione e raccoglimento”.  Ciò che interessa infatti non è la completezza del metodo o del procedimento, ma che avvenga un dialogo sincero, cuore a cuore, con Dio. Sentiamo le parole del santo: “Io ve ne porgo un esempio. Figuratevi sopra la flagellazione. Ah, dolce Gesù mio, fosti condannato ad essere flagellato, onde qui perfidi ti condussero al luogo della flagellazione, ove avanti tutto il popolo ti spogliarono delle tue povere vesti… Oh Gesù mio, oh amor mio, oh vita mia, come ti vedo avanti tutto il popolo sì vilmente spogliato! Dunque colui che veste i nudi è spogliato sì vilmente delle vesti? Dunque colui che fa ardere i suoi amanti col suo dolce fuoco, or gela e trema di freddo? Dunque la gloria del cielo è così vilipesa? Ah amor mio! Vorrebbe pur il dovere che se tu, che sei il Re dei Regi, la gloria del cielo, per me sei spogliato, ancor io mi spogliassi affatto dell’amor del mondo e di tutte le creature. Ah! Quando, vita della mia vita, amerò te solo? Ah!, quando ti darò tutto il cuore? Ah! Quando sarò teco unita senza mezzo alcuno? Così potrete regolarvi nel meditare la flagellazione, le piaghe, i tormenti, ecc. E lo stesso negli altri misteri. Ma bisogna fermarsi alquanto negli affetti, fermarsi con vista di viva fede nel mistero, acciò l’anima più si infiammi d’amore” (lett. III,359).
    Il filo conduttore resta dunque questo dialogo a tu per tu con Gesù appassionato. San Paolo non è affatto preoccupato di dipingere con particolarità le scene dell’azione; egli insiste piuttosto sull’infiammare il cuore con gli affetti. Le scene rimangono così solo sullo sfondo.
    Il fine infatti, occorre far molta attenzione, non è di suscitare una mera compassione sentimentale, non sarebbe sufficiente per una vera meditazione, ma una compassione che spinga la volontà a muoversi, a conformarsi a ciò che medita. L’obiettivo cioè rimane l’imitazione delle virtù di Cristo. 

    DALLA MEDITAZIONE ALLA MISTICA DELLA PASSIONE

     Si potrebbe  enucleare tutto il discorso sulla meditazione di san Paolo della Croce dicendo che il suo interesse è quello di creare in colui che medita una visione interiorizzata e trasformante della Passione.
    Scrive il fondatore dei passionisti: “Un semplice sguardo di fede a qualche mistero particolare della Passione o a tutta in genere, può tenere l’anima in alto raccoglimento”. Notiamo qui alcuni dati importanti:
    si suggerisce un “semplice sguardo di fede” e un’attenzione amorosa (=raccoglimento) a Dio.
    Gli affetti non fanno divagare in inutili distrazioni, ma fissano immediatamente sul mistero di Cristo sofferente, introducendo l’anima ad un’esperienza tipicamente contemplativa o quasi mistica: “In quanto all’oscurità e tenebre che prova nell’orazione, non sono segni questi che sia abbandonata, come V.R. crede, ma è segno che Dio benedetto vuole che la sua orazione sia tutta in fede purissima. La fede oscura guida sicura del santo amor. Oh! Qual dolcezza la sua certezza mi reca al cuor! Così cantava un’anima divota. V.R. si porti all’orazione un mistero della passione di Gesù Cristo, e spogliata di ogni immagine, con l’intelletto netto da ogni altro pensiero, se n’entri dentro il tempio interiore del suo spirito e con un dolce soliloquio sopra quel mistero, ma sempre in pura fede, si lasci tutta perdere nel mare immenso della divina carità ed ivi in sacro silenzio di fede e di s. Amore si riposi in Dio puramente, stando con la mente ossia con la parte superiore dello spirito con attenzione amorosa al Sommo Bene, ma non faccia ritornelli sopra se stessa, ma riposi in pace nel seno di Dio. E quando le mosche delle distrazioni svolazzano attorno al suo spirito non faccia altro che un pacifico ravvicinamento di fede della divina Presenza in se stessa ed  accompagni quel ravvicinamento di fede con uno slancio amoroso, ma fatto con l’apice dello spirito, senza il minimo sforzo sensibile, per esempio: Ah! Padre! Ah Bontà! E basta o è ancor troppo, ed in tal forma prosegua a starsene tutta in Dio con attenzione amorosa nel sacro deserto interiore dello spirito suo. In tal forma l’anima sua rinascerà a vita deifica nel Divin Verbo, il dolce Gesù” (lett. IV,48).
    I
    n questa mistica del raccoglimento non si esige nessun sforzo di fantasia o di intelletto: “spogliata di ogni immagine, con l’intelletto netto da ogni altro pensiero”, questo facilita il rimanere completamente in Dio in un “sacro deserto interiore“. Siamo nella linea di quel “fondo dell’anima” di cui parla la mistica renana (Eckart, Taulero, ecc…).
    Meditazione della Passione (e sua esperienza mistica) ed esercizio delle virtù in essa contenute sono il cammino che l’uomo deve intraprendere con l’aiuto della grazia per conformarsi alla volontà di Dio. E questa via non può mai essere abbandonata “abbenché vi fosse il più profondo raccoglimento ed alto dono di orazione”.
    Per Paolo Danei dunque questa meditazione rappresenta la porta privilegiata per la contemplazione, ovvero per un’esperienza di Dio: “Ego sum ostium, et nemo venit ad Patrem nisi per me; ma quando poi l’anima si perde nell’immenso della Divinità, standosene in quella vista di fede e di amore dell’infinito Bene tutta cibata d’amore e di carità, deve star così; e sarebbe errore ben grande il divertirsi ad altro. E che si crede lei, che sebbene le pare di perder di vista la SS.ma Passione, che non resti ad essa unita? “Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo” (Gal 3,27). “La vostra vita è nascosta con Cristo in Dio” (Col 3,3)”” (lett. II,810).

     EFFETTI DELLA MEDITAZIONE DELLA PASSIONE

     Da perseveranza in questa meditazione si trarranno due principali effetti:
    – il timore e l’abbandono del peccato avvertito come il più grande male
    –  l’accesso alla contemplazione.
    L’anima si sentirà soprattutto “penetrata di amore e di dolore, cosicché i dolori di Gesù diventano i propri dolori“. Ciò non dipende da una particolare tecnica ma è puro dono di grazia. Sono “pene infuse” che rendono atti a partecipare alla stessa passione del Figlio di Dio. L’uomo diventa capace di amare nello stesso amore di Dio, aprendosi ad un mistero di compassione e di intercessione: “Questo è un lavoro tutto divino… Amore doloroso, dolore amoroso”. Ci troviamo nel linguaggio poetico dell’esperienza contemplativa.
    Forte è pure l’accento che Paolo della Croce pone per invitare ad uno stile di vita meditativo: egli continuamente suggerisce la pratica del ritiro, del silenzio, del raccoglimento, dell’esercizio delle virtù. Questo rimane infatti sempre il substrato fondamentale per attuare un’autentica meditazione. A sua volta questo substrato favorisce la progressiva partecipazione alle virtù di Gesù sofferente.
    Da quanto detto possiamo comprendere l’impegno che Paolo della Croce domanda ai suoi religiosi di promuovere la meditazione della passione: “risveglino le anime addormentate nel peccato colla continua, divota meditazione, delle medesime ss.me pene affinché s’accendano più di santo amor di Dio” (lett. IV,229).
    Questo è per il fondatore dei passionisti il mezzo più efficace nell’apostolato. 

    13. CONCLUSIONE

     Sembra utile evidenziare alcune costanti che si possono ricavare da questa sommaria panoramica, cercando di scoprire anche il loro significato.
    Si possono evidenziare tre principali aspetti.
    1.        Vi è un’insistenza generale sull’esercizio primario del porsi alla presenza di Dio. In questa sottolineatura possiamo scoprire la consapevolezza che per la preghiera cristiana l’esercizio della meditazione, non è tanto uno sforzo di volontà, quanto piuttosto l’accoglienza e il riconoscimento di una relazione, non è tanto una conquista del dominio di sé quanto il consegnarsi all’Altro il quale è sorgente del nostro essere, agire, amare. La meditazione non è dunque un concentrarsi su di un’idea ma è frutto e radice di una apertura all’azione della grazia in noi.
    Da ciò comprendiamo ad esempio l’invito di più autori a porre all’interno dell’attività meditativa i colloqui affettivi.
    2.        Tutti i metodi sottolineano il ruolo primario della s. Scrittura, in particolar modo la necessità di ritornare senza sosta sulla vita e gli insegnamenti di Cristo, sui suoi “misteri”, non in vista di studi esegetici, ma  al fine di una trasformazione cristiana dell’esistenza, di una evangelizzazione della vita quotidiana. In questo senso tutti i metodi ripetono che la meditazione è indissociabile dal suo aggancio profondo della rivelazione con l’esistenza quotidiana, la sua verità e la sua utilità dipendono dallo stile cristiano di tutta l’esistenza.
    3.        I maestri di meditazioni raccomandano la povertà e l’umiltà interiore, l’accettazione dei ritmi lenti e imprevedibili dell’orazione, lo scopo è uno solo: l’unione profonda con il Dio vivente,  la docilità alle mozioni dello Spirito. Per questo il metodo appare sempre un semplice strumento e mai un fine: è buono quando aiuta, cattivo quando asservisce. E’ lo Spirito il solo maestro di orazione.
    Rimangono sempre aperti alcuni problemi che di volta in volta si ripropongono, i quali se teoricamente è facile risolvere, praticamente necessitano sempre di saggio discernimento: come conciliare il dono di Dio e lo sforzo ascetico dell’uomo? L’attività con la passività? La parola col silenzio? Il rendimento di grazie con la supplica?… Si tratterà di volta in volta di ricercare un saggio equilibrio in base alle situazioni concrete in cui la persona si trova.

      

    14. LA MEDITAZIONE CORPOREA

     La storia della spiritualità ha visto nel nostro occidente lo  sviluppo di una certa metodologia della preghiera meditativa che fa ricorso al silenzio, alla dinamica intellettuale, immaginativa, affettiva e volontarista. In questo contesto il corpo appare più un impedimento che un aiuto alla pratica meditativa.
    Fino all’epoca moderna in effetti la dimensione corporea non è stata presa in considerazione. Tuttavia sia nella tradizione monastica, negli Esercizi di sant’Ignazio come nella spiritualità domenicana ritroviamo una certo ricorso ad essa. San Tommaso (ST II,II,84,a2) insegna ad es. che la preghiera corporale è buona e valida, egli infatti si colloca sulla scia degli insegnamenti di san Domenico. (Cfr. il testo dal titolo “Le nove maniere di pregare di san Domenico“: la preghiera è fatta di inchini profondi e lenti, di prostrazioni, genuflessioni frequenti, di lacrime, nel tenersi tesi al cielo “sulla punta dei piedi, le mani levate al cielo”).

    Trasformare il corpo in linguaggio

    Il corpo è chiamato a innescare il processo interiore della preghiera. Un autore moderno fr. R. Schutz afferma: “Non saprei come pregare senza il corpo. In certi periodi ho coscienza di pregare più con il corpo che con la mente. Il corpo è là, ben presente, per ascoltare, capire, amare. Sarebbe una beffa fare i conti senza di lui”.
    I
    n rapporto alla pratica meditativa si tratterà ad esempio di far sì che il corpo raggiunga una certa sufficiente integrazione fisica, psichica e spirituale, perché è solo da una base di unità e di quiete che può scaturire una buona meditazione.
    Un ulteriore aspetto è lo sforzo di far sì che lo stesso corpo si trasformi in linguaggio di preghiera: “i movimenti del corpo aiutano la liberazione della mente e le trasformazioni del mentale permettono al corpo di esplicare tutte le proprie potenzialità”.
    Accanto a questo discorso quindi si affiancherà la ricerca di posizioni che facilitino la meditazione 

    15. LA MEDITAZIONE CRISTIANA OGGI

      IL CONFRONTO CON ALTRE TRADIZIONI

     

    Il concetto di meditazione ed elementi comuni

     Oggi la tradizione meditativa cristiana viene a trovarsi a confronto con altre concezioni di meditazione di importazione soprattutto asiatica. Il successo di metodi importati dall’Est asiatico potrebbero essere considerati quasi un prolungamento della rivoluzione copernicana, di cui Kant e Jung potrebbero essere i nostri più immediati antecessori.
    Certamente esistono dei punti in comune:
    1.        Si tratta di una esperienza di senso. Esperienza e quindi non semplicemente riflessione. Senso della vita, ovvero di una totalità e non di qualcosa di immediato e contingente.
    2.        Si tratta di un esercizio e di metodo.
    3.        Si tratta di un superamento del superficiale per tendere ad una realtà più profonda e vera. Superamento del proprio Io al fine di raggiungere un livello più profondo di consapevolezza di SE.

     L’aspetto specificatamente cristiano

     Possiamo ritrovare tre orientamenti di fondo:
    1.        In relazione allo Yoga: lo Hata-Yoga con la sua attenzione consapevole all’elemento corporeo.
    2.        In relazione con lo Zen: forma estrema del buddismo, esperienza del vuoto e dell’unità primordiale. La parola “zen” indica la concentrazione. Lo Zen non è né religione né filosofia, si tratta di un’esperienza personale che si colloca al di là dei concetti discorsivi. L’Illuminazione (“satori”) fa intuire o meglio toccare (sentire) il mistero dell’esistenza: è la riscoperta del significato primo ed elementare delle cose mediante un’adesione immediata che scavalca l’attività discorsiva. Comporta l’abbandono della guardia intellettuale. Fondamentale per lo zen è l’eperienza del vuoto di sé, l’abolizione di ogni differenziazione.
    3.        In relazione alla Meditazione Trascendentale: che si avvicina in qualche modo alla recita del rosario in occidente, o alla preghiera di Gesù.
    Ciò che appare urgente sottolineare o meglio denunciare è una certa qual semplificazione e cattiva divulgazione nella nostra cultura dei dati offerti da queste tradizioni. Si assumono aspetti esteriori o metodi estetici prescindendo dalla loro antropologia; o viceversa vengono riletti autori cristiani (cf Eckart e i mistici) alla luce di quelle tradizioni. Così constatiamo ad esempio un ventaglio che si estende da esercizi utili e inoffensivi sino ad altri che mettono a rischio lo psichismo, da esercizi che possono essere ben integrati nella dottrina cristiana sino ad altri che coltivano un atteggiamento anti-cristiano.
    Ritengo che tutte queste eccessive semplificazioni siano deleterie per entrambe le tradizioni, impedendo un loro effettivo e fruttuoso dialogo.
    Sembra dunque necessario, più che fermarsi ad inutili discussioni e confronti circa metodi ed esercizi vari, andare direttamente alla radice del problema ovvero impiegare la propria riflessione e attenzione allo schema di base.
    Il discorso circa la meditazione deve essere inserito in un discorso globale, ovvero all’interno del quadro della visione del mondo, del concetto di Dio, dell’esperienza spirituale, della mistica, della preghiera…
    Qui si evidenzia subito in questo senso una fondamentale divergenza. Nella tradizione orientale la meditazione non ha direttamente significato religioso in quanto essa riveste importanza solo per una retta impostazione della propria coscienza, al fine di disporsi ad un’esperienza di sé.
    Le teorie e le pratiche orientali fanno riferimento ad una “metafisica dell’unità”: ogni molteplicità e differenza deve essere superata e cancellata nella ricerca di un Principio Unitario Transpersonale, l’individuo deve creare dentro di sé il vuoto.
    Nel cristianesimo al contrario la meditazione è un esercizio preparatorio ad un incontro, un volgersi verso l’Altro che non è considerato come oggetto ma come un “Tu” che mi interpella: si tratta di una relazione con la vita trinitaria, e non l’oceano indifferenziato dell’unità.
    La meditazione cristiana è attività essenzialmente religiosa e che domanda una presenza attiva e consapevole del soggetto. Quindi la persona nella sua unicità è un dato fondamentale nella teologia. Da qui l’importanza della storia e la sua direzionalità, la ragione dell’azione morale e della scelta tra bene e male, (e non la loro indifferenziazione)  affermando così di conseguenza il dato fondamentale della libertà dell’uomo
    Per la meditazione cristiana la figura di Cristo non è un ostacolo per l’esperienza dell’infinità e misteriosità di Dio. Egli è piena e perfetta rivelazione del Padre. L’incarnazione vi è accolta in tutta la sua verità sconcertante: Dio presente totalmente nell’ umanità perfetta di Gesù di Nazareth. Così ancora una volta appare evidente come la Croce e la Risurrezione servono da criterio di discernimento per ogni forma di meditazione che si voglia dire cristiana. Croce intesa non solamente come simbolo di unificazione universale ma come continuazione “dell’agonia di Gesù fino alla fine dei tempi” (Pascal); Resurrezione dell’uomo nella sua totalità e non solamente come trasmigrazione dell’anima o suo scioglimento nell’assoluto.
    Per il cristiano di conseguenza rimane fondante la virtù della speranza, che ad esempio per lo zen costituisce un ostacolo alla meditazione. La salvezza è ricercata nella rivelazione del Cristo. 

    Valore antropologico

     Certamente la meditazione orientale possiede caratteristiche altamente positive che devono essere prese in considerazione e saggiamente utilizzate; ad esempio essa costituisce un valido aiuto per ritrovare l’equilibrio ed unità interiore, rendendosi meno dipendente dai fattori esterni. Dal punto di vista psichico i risultati della meditazione orientale sono addirittura avvicinabili a quelli di una psicoterapia reintegrativa.
    E’ possibile considerare come risultato secondario di questi esercizi – così come ad esempio capita negli esercizi di Training autogeno – tutti quei fenomeni che talvolta accompagnano certe esperienze mistiche: esperienza del vuoto, di immersione nell’infinito, felicità, calma e riposo, di leggerezza (levitazione), calore, cessazione del dolore, scoperta del senso… Il risultato più importante è tuttavia il senso della pienezza del sé, che corre il rischio di essere frainteso con l’esperienza di Dio.
    Altro effetto è la sensibilizzazione. Sovente lo sforzo per la concentrazione, le posizioni fondamentali fisiche, controllo dei ritmi vitali (es. Respirazione) possono aprire gli occhi del corpo e quelli dell’anima ai valori profondi della vita. Ma possono altresì sboccare in una apatia imperturbabile e stoica, concentrati sull’unico valore del sé.
    Questa meditazione può contribuire a far sì che l’uomo moderno ritrovi se stesso e il suo equilibrio interno, oggi purtroppo messo continuamente in discussione da stili di vita errati.
    In questo senso è importante che l’uomo occidentale faccia esperienza del corpo al fine di riappropriarsi del suo vero centro (l’hara-ventre contrapposto alla testa dello yoga), raggiungendo una nuova consapevolezza di sé che è porta di accesso alla meditazione.

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