• 15 Feb

    di p. Attilio F. Fabris 

    Il racconto è molto lungo eppure la parte dedicata al miracolo è brevissima.Il testo si dilunghi nei dialoghi tra Gesù e i discepoli e poi con Marta e Maria. Questi hanno lo scopo di introdurci al significato profondo del “Segno” compiuto da Gesù.
    Il testo ha intenti teologici: non è una cronaca giornalistica del fatto.
    Lo intuiamo da certe peculiarità difficilmente spiegabili:
    – compare una famiglia strana fatta solo di fratelli e sorelle. Non ci sono genitori
    – Lazzaro sta male eppure Gesù sta fermo due giorni: perché non interviene?
    – Gesù dice che è “contento” che Lazzaro sia marto: come è possibile?
    – All’arrivo a Betania Gesù non entra in casa ma se ne sta fermo fuori. Perché?
    – Gesù dice: “Chi crede in me, anche se muore, vivrà e chiunque crede in me me non morrà in eterno”. Come può promettere questo dato che è un fatto che Lazzarone poi i discepoli muoiono?
    – Il pianto di Gesù: se sa che sta per far risorgere Lazzaro perché piange? Sta fingendo?
    – La famiglia di Betania scompare e non se ne parla più. Mai menzionata in altri testi
    – Un miracolo così clamoroso perché non è narrato dagli altri evangelisti.
    Giovanni ha un intento teologico chiaro: annunciare che Gesù è il Risorto, è il Signore della vita.

    1-7

    a.
    La famiglia di Betania rappresenta la comunità cristiana in cui tutti sono fratelli e sorelle. Tra Gesù e loro esiste amicizia, un legame di amore che è quello tra il Maestro e il discepolo: “Non vi chiamo più servi ma amici” (15,15).

    b.
    La comunità vive tuttavia una difficoltà grande: la morte del fratello. Perché Gesù non la impedisce? Anche noi non capiamo perché se lui ci vuol bene lasci passare “Due giorni”. Noi ci aspetteremmo dall’amico un intervento immediato.
    La morte pone il dubbio che egli “non sia qui”.
    Tanti da Dio attendono solo interventi prodigiosi e immediati per fuggire la paura e l’orrore della morte in tutte le sue forme.

    c.
    Gesù attende due giorni. Non vuole impedire la morte biologica. Non è venuto per rendere eterna questa forma di vita, ma per introdurci in un’altra: eterna. La vita di questo mondo finisce ed è giusto che termini. 

    7-16

    d.
    Il dialogo con i discepoli serve per mettere sulle loro labbra le nostre incertezze e le nostre paure di fronte alla morte.
    E’ la paura il nemico più subdolo del discepolo. Chi teme la morte non può vivere da cristiano perché il discepolo è chiamato a perdere la vita donandola. (12,24-28). 

    e.
    Gesù è contento che Lazzaro sia morto perché Gesù guarda alla morte con gli occhi di Dio: per lui la morte non è un evento finale e distruttivo, ma segna l’inizio di una condizione infinitamente migliore della precedente.

    17-27 Parte centrale

    f.
    il dialogo con Marta.
    Lazzaro è da “4 giorni” nel sepolcro: è morto e basta non c’è più nulla da fare. Ormai che cosa si può fare? 

    g.
    Gesù conduce Marta a capire il senso della morte del discepolo (e sua).
    Sì Marta crede nella resurrezione finale. Ma questa speranza non consola: è troppo lontana. Perché Dio dovrebbe far morire per poi riportare alla vita? perché far aspettare tanto? Come puuò l’anima restare senza corpo?.
    Il cristiano non crede in una morte e poi in una resurrezione alla fine. Crede che l’uomo redento da Cristo non muore mai.
    Gesù dice: “Chi crede in me non muore”.
    Esempio: la nostra vita è tutta un entrae ed un uscire. Questa vita è segnata da esperienze di morte e attese di vita. Questo non può essere in mondo definitivo, il destino ultimo: per vivere come è nella nostra speranza dobbiamo uscire da questo mondo.
    Il discepolo spiega Gesù a Marta non sperimenta la morte, ma nasce ad una vita nuova, entra nella vita-comunione con Dio, prende parte ad una vita che non è più soggetta alla morte. Essa sarà una sorpresa straordinaria che non possiamo neppure immaginare: “Occhio non vide, né orecchio udì, né mai è entrato in cuore di uomo, ciò che Dio ha preparato per coloro che lo amano” (1Cor 2,9).
    La vita in questo mondo è una gestazione e la morte è verificata da chi rimane, non da chi muore. È il “dies natalis”! 

    h.
    dopo aver ascoltato la Parola, Marta si apre alla fede nel Cristo risorto: “Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo, il figlio di Dio, l’atteso salvatore che doveva venire nel mondo” 

    vv. 34-42

    i.
    è la scena conclusiva in cui vediamo Gesù che piange (edàkrusen). E’ il pianto sereno e dignitoso di chi soffre per la partenza dell’amico. Per il temporaneo distacco. 

    l.
    L’ordine “togliete la pietra”. E’ il comando dato alla comunità cristiana e a tutti coloro che pensano che il mondo dei defunti sia separato e non abbia comunicazione con quello dei vivi. Per il credente in Gesù Signore non esistono più pietre di separazione, sono state rimosse il giorno di Pasqua. 

    m.
    la preghiera di Gesù è richiesta al Padre perché dia luce necessaria a chi vedrà il miracolo perché ne comprenda il significato. 

    n.
    Il comando: “Lazzaro vieni fuori” è il compimento della sua promessa: “è giunta l’ora in cui i morti udranno la voce del figlio di Dio e vivranno. Tutti coloro che sono nei sepolcri ascolteranno la sua voce e ne usciranno” (5,25-29).
    Il “morto” esce. È con il morto da quattro giorni che Gesù mostra il suo potere vivificante non riportandolo di qui ma conducendolo al di là. 

    o.
    “Lasciatelo andare”. L’invito è rivolto alla comunità che piange la di-partita dei fratello. Lasciate che il morto viva felice nella sua nuova condizione.
    Spesso vediamo svariati tentativi di trattenere il morto. È egoistico volerlo trattenere, sarebbe come impedire al bambino di nascere.

  • 15 Feb

            

                    Per il peccato che abbiamo commesso:

    per infedeltà alla nostra vocazione cristiana

    rimanendo sordi alla tua volontà

    per la durezza e la chiusura del nostro cuore,

    per presunzione o disprezzo,

    per il nostro orgoglio ed egoismo,

    per spirito di superiorità e di elitarismo,

    per la nostra ostinazione e la disobbedienza,

    per il nostro spirito di indipendenza.

                    Per il peccato che abbiamo commesso:

    rifiutando la compassione,

    per cattiveria o per vendicarci,

    per troppo legalismo,

    per il lassismo abbandonandoci alle nostre passioni,

    per leggerezza o per vigliaccheria,

    sottraendoci al nostro dovere ripiegandoci su noi stessi.

                    Per il peccato che abbiamo commesso:

    per violenza verbale,

    per abuso di potere seminando la discordia,

    diffondendo discorsi malevoli,

    con le bugie o con un silenzio complice,

    deridendo altri, avendo poca stima dei nostri fratelli.

                    Per il peccato che abbiamo commesso:

    con la nostra indifferenza o pigrizia,

    per il nostro cinismo,

    rifiutando di metterci in discussione,

    non pronunciandoci per la verità,

    rimanendo in silenzio di fronte all’ingiustizia,

    non rispettando la libertà dei nostri fratelli.

                    Per il peccato che abbiamo commesso:

    con le relazioni disoneste,

    per gelosia e invidia del nostro prossimo,

    conservando rancore,

    per frode di denaro,

    rifiutando di condividere per paura di mancare,

    trascurando la preghiera. 

    Noi ti chiediamo perdono, Signore!

  • 14 Feb

    Lasciami piangere, Signore,

    lo spettacolo della mia follia,

    e ridire della mia irragionevolezza.

    Io ho vergogna di me,

    ranocchio malsano,

    e della mia bussola rotta.

    Aiutami, mio Dio;

    tu, la cui mano accarezza

    i monti e l’oceano,

    demolirai in me il muro del peccato.

    Passato, presente, futuro,

    tutti gli istanti della mia vita
    raccoglierai in uno solo
    e mi restituirai la limpidezza
    del mio sentire.

    Tu, Dio della mia felicità,

    assai più che perdono,

    dono.

     Max Jacob

  • 05 Feb

    di p. Attilio F. Fabris

     * * * 

    v. 1. Gesù è a Gerusalemme per una delle tre feste alle quali i pii israeliti vi si recavano in pellegrinaggio: Pasqua, Pentecoste, Capanne. Non si dice di quale festa si tratti.
    Vi è una forte sottolineatura della salita a Gerusalemme da parte di Gesù: è nella città santa che si svilupperà per il nostro evangelista il conflitto tra Gesù e le autorità giudaiche. 

    v. 2. La piscina miracolosa era a nord est del Tempio, presso la “porta delle pecore”. Si tratta di un grande spazio: cinque portici! Un luogo di guarigione come erano ritenute nell’antichità alcune sorgenti. In questa infatti piscina avvengono guarigioni; e il particolare che esse avvengono da parte dell'”angelo del Signore” che muove l’acqua è forse uno sforzo di integrare nell’ortodossia una pratica pagana estranea alla religione ufficiale. Una sorta di santuario dei miracoli. E’ il luogo di ritrovo per chi spera di ottenere o riottenere la salute. L’uomo infatti è disposto a tutto per avere vita: pellegrinaggi, santuari, medici… una corsa senza fine ed estenuante, che si rivela il più delle volte deludente: la vita ci sfugge di mano anche se non la vorremmo perdere. Siamo disposti a tutti i riti e a tutte le pratiche, anche le più esoteriche, per possedere la vita. Attendiamo un “angelo” che venga a sanarci. Tutti attendiamo l’intervento miracoloso che venga a sanarci dalla nostra angoscia di vivere. 

    v. 3. ciechi, infermi, zoppi, paralitici ecco la carrellata di situazioni umane che si ritrova lungo i portici della piscina. Sono tutti poveracci in canna. I ricchi hanno le loro case di cura, i loro medici, le loro medicine con cui guarire. Lungo quei portici invece ritroviamo un’umanità sofferente senza speranza, allo sbando, in  preda al suo dolore e alla sua disperazione.
    Ritroviamo una categoria di esseri umani che al Tempio non ci può stare: la malattia lo impedisce per il suo carico simbolico di peccato e di morte (cfr. Lv 21,18; 2Sam 5,8)
    Proviamo ad immaginare questa lunga fila di derelitti, stesi gli uni accanto agli altri, non c’è posto talmente c’è ressa.
    (Proviamo ad ascoltare le loro risonanze interiori ed esteriori che percorrono il loro animo). 
    La maggior parte vive di elemosina, della pietà del passante. Una vita che dipende dall’altro. Queste persone di fronte alla vita si sentono defraudati, vivere per loro non è una gioia, ma un dramma: è necessario addirittura trovare strategie per riuscire solo a sopravvivere. Le loro malattie e le loro paralisi sono le loro uniche fonti di reddito. 

    v. 4. ma l’atmosfera che circola in quella piscina  è tesa. Solo qualcuno di loro può essere guarito. La tradizione dice il primo che arriva all’acqua quando essa comincia a fluire. E arriva per primo chi è meno malato degli altri, chi ha appoggi, chi riesce a farsi strada con la forza. Il più debole difficilmente arriverà all’acqua per ottenere la guarigione. E’ una corsa, una lotta per la vita… a spese degli altri. Qualcuno avrà rinunciato alla sua guarigione, al suo primo posto, per lasciar spazio a chi questa possibilità non ce l’avrebbe mai avuta?
    E’ un’attesa estenuante… uno sguardo all’acqua e uno al vicino colto come un possibile antagonista, nemico nei miei confronti e nei riguardi delle mie attese e speranze.

     v. 5. Tra gli ammalati ve ne è uno, senza nome, che lo è da trentotto anni. Tutta una vita (cfr Dt 2,14). Una situazione cronica ormai, che dice l’impossibilità del cambiamento. Dice invece rassegnazione. Quest’uomo senza nome si identifica con la sua malattia. Un cambiamento a 40 anni è ormai impensabile: quanti problemi creerebbe (lavoro, amici, relazioni, famiglia…). Dopo 40 anni forse non lo si desidera neppure più talmente quel cambiamento provocherebbe incertezza, imbarazzo, con tutta le conseguenze di presa di posizione nuova di fronte alla vita.
    Egli nel mondo è la sua malattia, e lui stesso si riconosce solo in questa sua triste e drammatica realtà. Non si specifica di che malattia si tratti: si dice solo che è disteso, incapace di reggersi in piedi, il che vuol suggerire la condizione umana, dell’uomo incapace di camminare, in senso biblico di vivere in comunione con Dio e con gli altri ed è incapace di rimettersi in piedi da solo. 

                v. 6. Gesù si trova lì, alla piscina. Perché è lì? Cosa vi fa? E’ di passaggio? Vi si reca intenzionalmente?
    Una cosa è certa: egli non disdegna, non teme, di entrare in contatto con questo mondo fatto di sofferenza, disperazione, povertà, speranza, superstizione. Gesù scende (anche materialmente) in mezzo a quella folla accalcata in attesa del miracolo che non giunge.
    Si sarà guardato attorno, avrà percorso quei portici scavalcando malati e lettucci. Qualche parola, un sorriso, una carezza.
    (Noi facciamo spesso fatica a “scendere” in questi mondi: ci troviamo a disagio? Da dove nasce questa risonanza? Forse dal dover fare i conti con la morte, dal volerla fuggire non guardandola in faccia, ovvero nasce dalla nostra paura di perderci).
    Ad un certo punto l’uomo malato disteso sul lettuccio colpisce l’attenzione di Gesù.
    Perché proprio lui? Cosa lo contraddistingue dagli altri?
    Probabilmente proprio la sua solitudine, il suo essere appartato lontano dal bordo della piscina dove tutti si accalcano.
    E’ disteso: è la posizione della morte, una postura fossilizzata, inamovibile. Questa sua presentazione dice la sua posizione rinunciataria nei confronti della vita.
    Sono questi gli indizi che dicono a Gesù della sua lunga malattia? Una malattia che non è solo fisica, ma spirituale che ha intaccato la sua coscienza di uomo di fronte alla vita.
    Gesù rivolge una domanda a quest’uomo? “Vuoi guarire?”. Una domanda che apparentemente appare insensata ed illogica. Risponderemmo a Gesù: ma perché allora sono qui? Sono domande da farsi?
    Ma questa domanda, così solo apparentemente scontata, intende invece andare molto più in profondità, vuole raggiungere il cuore e la coscienza di quell’uomo. Gesù desidera, vuole riuscire a strappare quell’uomo da quella situazione di “stagnazione”, ma lo può fare solo a condizione che riemerga il desiderio ormai sepolto nel cuore nei riguardi della vita, di fronte alla quale quell’uomo invece è in una situazione di rinuncia, di morte, di rassegnazione. Se  non scatta il desiderio di rinascere, di rivivere il che comporta la presa di coscienza della propria situazione di morte come può operarsi un cambiamento nella nostra vita?
    Questa domanda, in verità, è un invito alla riscoperta della propria identità non di malato, ma di uomo chiamato a emergere, a “alzarsi”  nella ricerca della propria identità non schiacciata né sepolta sotto cumuli di compromessi, atteggiamenti errati, convenienze, disperazioni, ripiegamenti.
    (La stessa domanda è rivolta a ciascuno di noi: “Vuoi veramente guarire?”. Se ci ascoltiamo onestamente  ci accorgeremo che dentro la nostra coscienza si muovono due risonanze: da un lato il desiderio vivo e vero della guarigione, dall’altro la paura, l’incertezza, la diffidenza. A quale risonanze generalmente diamo ascolto?).
    Ma Gesù è sconosciuto all’uomo malato. Per lui è solo una persona fra le tante che si aggirano per i portici. Il malato perciò non ripone alcuna aspettativa nei suoi confronti. Anzi la sua domanda gli può apparire impertinente: “Ma cosa vuole questo qui da me? Cosa cerca?”.
    Da parte dello sconosciuto vi è solo quella parola che può apparirgli ironica, banale, oppure… che sia una parola di speranza (ovvero profetica!) che domanda fiducia e accoglienza.
    Gesù è veramente l’angelo che tutti lì attendono per essere sanati. Ma quest’uomo si rivela incapace di riconoscerlo… questo angelo infatti si manifesta in modo diverso dalle sue/nostre attese “religiose”.  

    v. 7. La risposta dell’uomo malato rivela molto della sua indole. Attraverso quelle poche parole possiamo entrare un po’ nelle risonanze della sua coscienza.
    Questa risposta è quanto mai ambigua. Infatti egli non dice né sì né no. Egli dribbla la domanda. Perché? Non sarebbe molto più semplice dire direttamente sì o no? Perché questo contorcimento?
    E di che tipo è questa risposta ambigua? E’ una lamentela e condanna nei confronti del disinteresse e della prepotenza degli altri. Sono loro la colpa della sua situazione!
    Si lamenta di non avere nessuno, nessun “salvatore” che si occupi di lui (e in effetti è questa la sua esperienza). Gesù dinanzi a lui non esiste, esiste solo la sua disperazione. Certo vi è un’effettiva solitudine ed incapacità da parte di quest’uomo di risolvere il problema, ne prendiamo atto. Ma perché questa risposta, quando dinanzi a lui sta una persona concreta che si vuole occupare di lui?
    Le parole di quest’uomo dicono come ormai egli abbia scavato per sé una nicchia sicura in questo mondo dal quale osservare criticando e condannando gli altri.  Si è relegato in quest’angolo, e ormai gli va bene, e della possibilità di cambiare non se ne parla. In quest’uomo anche il desiderio della guarigione ormai è oscurato; è passivo dinanzi alla vita (oggi diremmo in preda alla “depressione”). E’ un escluso dalla vita.
    (Quante volte l’uomo sta male, vive male, ma di fronte alla prospettiva del cambiamento può talmente essere attanagliato dalla paura, da rinunciarvi. “Ma ormai non posso più cambiare!”: è una frase che spesso ne sottintende un’altra: “Ho paura di cambiare… non ne ho voglia”. Sono risonanze che anche noi conosciamo (o che il più delle volte subiamo inconsciamente): stiamo male, potremmo assumerci la responsabilità di un cambiamento, ma esso ci fa paura. Dobbiamo allora trovare qualcuno su cui scaricare la colpa del nostro malessere.
    Spesso ci vengono offerte possibilità di cambiamento, di miglioramento, ma noi svicoliamo. Preferiamo continuare a star male piuttosto che affrontare il rischio di stravolgere la nostra vita. E per giustificarci in questo troviamo mille pretesti e giustificazioni per sollevarci da questa responsabilità nei confronti di noi stessi). 

                    v.8. Gesù avrà intavolato un dialogo con quest’uomo? Il vangelo sembra suggerire che egli sia immediatamente passato all’iniziativa di offrigli la guarigione, scavalcando in un certo senso l’elaborazione della coscienza. Quell’uomo infatti da solo, ripiegato nelle sue risonanze di rinuncia e di paura, non si sarebbe mai spontaneamente aperto al dono. Gesù offre immediatamente una parola profetica di salvezza.
    Ma questo “scavalcare la coscienza” del malato da parte di Gesù, se da un lato dice la gratuità del dono dall’altro dice il rischio che esso sia o rifiutato o usato male. Gesù questo rischio lo corre: gli preme ridonare la vita a quest’uomo, sa che probabilmente tutto ciò che sta per donare potrà essere usato male (e infatti ne farà le spese sulla sua pelle).
    Gesù  pronuncia una parola che è un comando. Una parola che non è accompagnato da alcun gesto: quindi efficace per se stessa. E’ la potenza della parola che opera la guarigione.
    Alzati! E’ il verbo della resurrezione, della rinascita, della vita nuova.
    Prendi il tuo lettuccio! Offri la tua testimonianza nei confronti del Dio della vita (un po’ come lo sarà la tomba vuota). Porta con  te il segno della sua morte per manifestare che proprio in questo giorno si è compiuta per te la salvezza di Dio.
    Cammina! Apriti alla vita, all’incontro, non ripiegarti più. Assumi il tuo posto e il tuo ruolo nel mondo, con responsabilità. Cammina incontro alla promessa di Dio che hai sperimentato aprendoti alla comunione con Lui, con gli altri, con te stesso. 

                v. 9. Proviamo ad ascoltare le risonanze della coscienza di quest’uomo di fronte alle parole dette da questo sconosciuto: incredulità? Speranza? Paura? Gioia? Rabbia? Incertezza sul da farsi (se fosse una presa in giro?)?…
    Immaginiamo Gesù che lo prende per mano incoraggiandolo. Incitandolo ad alzarsi vincendo tutte le sue controrisonanze.
    Vacillando ed appoggiandosi a Gesù quell’uomo, paralizzato “da trentotto anni”, si alza. Qualche piccolo passo indeciso e incredulo. La gambe reggono! E’ incredulo. In fretta prende il suo piccolo materasso: l’unica cosa che possiede. E guardandosi le gambe e guardandosi in giro incredulo si avvia lungo i portici e poi sulle scale per uscire al più presto da quel luogo di morte, contento che stavolta la buona sorte sia toccata a lui e non agli altri. Finalmente ce l’ho fatta, sono come gli altri!
    Ma sono risonanze che durano poco; il cuore da un lato avverte la gioia dall’altro la preoccupazione e l’ansia per il futuro. “Ora che farò? Come mi guadagnerò da vivere? Non ho lavoro, non ho mai potuto imparare un lavoro. Dove e da chi andare? Non ho famiglia e le poche persone che conoscevo le ho lasciate laggiù alla piscina sotto i portici e di certo non ho intenzione di tornarci. Chi mi accoglierà?….”. Un terribile sospetto: “La guarigione forse mi creerà più problemi della malattia”.
    La paura e l’incertezza bussano sempre più forte alla porta della coscienza dell’uomo. Un lampo, un pensiero velocissimo: “Quando mai ho accettato di ascoltare quell’uomo. E chi era? Nella fretta di uscire non gli ho neppure chiesto il nome, non gli ho detto neppure grazie, ma se lo merita poi? Lo ho ascoltato ma ora mi ritroverò con più problemi di prima”.
    Nella coscienza di quest’uomo si alternano dunque gioia e paura, entusiasmo e incertezza. E’ l’andamento pendolare delle risonanze nella nostra coscienza. 

                Era sabato!: Ma il giorno in cui avviene tutto questo è di Sabato.
    Nei vangeli sembra che Gesù faccia apposta a cogliere proprio di sabato le occasioni di operare segni di salvezza (cfr. Gv 9,14-16). Non è il sabato il giorno del riposo, della gioia, della festa della vita. E quale giorno è il più indicato per ridonare la vita se non proprio il Sabato (cfr. Es 20,8)? La guarigione dei malati non deve forse contrassegnare il giorno della salvezza definitiva che è il significato del sabato  (cfr. Is 35,4-6; cfr. v. 17)?
    Gesù sa bene di chiedere all’uomo di infrangere i precetti della Legge (cfr. Gr 17,21-27). Ma è altrettanto consapevole che la Legge debba essere a servizio della vita e non viceversa: il sabato per l’uomo e non l’uomo per il sabato.
    Il suo comando all’uomo di prendere la sua barella è dato perché sia manifesta agli occhi di tutti la presenza della salvezza escatologica di cui la sua guarigione è segno. 

                v. 10. I “Giudei”, che non hanno visto la guarigione alla piscina, vedono però l’uomo guarito compiere il gesto contrario alla legge: portare un peso. 
    L’uomo viene fermato in mezzo all strada in mezzo a tutti, si forma un cappannello di curiosi. Immaginiamo le risonanze di quest’uomo che già in preda ai suoi pensieri e preoccupazioni si vede subito chiamato a confrontarsi con l’ostilità del mondo, con la grettezza dei detentori della legge. Come inizio della vita nuova non c’è male! Avrebbe preferito sentirsi sprofondare, essere rimasto là presso la piscina, piuttosto che dover fare i conti con questo mondo in cui è così faticoso vivere.
    L’atteggiamento dei “giudei” ci invita all’esame di come l’uomo sia molto propenso alla condanna dei gesti altrui. Condannare l’atto è molto più semplice e non coinvolgente che mettersi in ascolto della coscienza di colui che lo compie. Mettersi insieme in ascolto della coscienza è faticoso, a volte destabilizzante. Certamente ci renderebbe meno presuntosi e precipitosi nel voler atteggiarci a giudici spietati dell’altro: “Uno solo è il legislatore e il giudice e tu chi sei che giudichi il tuo prossimo?”. 

                v. 11. La risposta dell’uomo guarito è ancora emblematica e rivelatrice delle risonanze della sua coscienza. Egli scarica la responsabilità del suo gesto su colui che lo ha guarito ridonandolo alla vita: “E’ colpa sua, non mia… è stato lui! Io non c’entro… lui mi ha detto”.
    E’ questa una dinamica che conosciamo bene: scaricare sull’altro, esimerci dalla responsabilità, trovare un colpevole.
    (E’ sempre la paura la risonanza profonda che provoca questo: paura della disapprovazione degli altri, paura di andare incontro al rifiuto degli altri. Questo anche al prezzo di rinunciare ad essere noi stessi, o, come in questo caso, facendo addirittura del male a coloro che ci fanno del bene. Ci vogliamo difendere al costo di tirare in campo altri: quello che ci preme è salvare noi stessi).
    Quale l’origine di questa paura in quest’uomo? Forse il ritrovarsi in un mondo nuovo e complesso col quale sinora non aveva fatto i conti e che gli incute timore e disagio, il suo sentirsi inadeguato e incapace di affrontarlo, il suo bisogno di sicurezza, le delusioni che sinora ha accumulato nella vita che gli insinuano incertezza e incapacità di aprirsi al nuovo.
    Di tutto questo il “capro espiatorio” diviene l’uomo che lo ha guarito: Gesù.

                v. 12. Ci si aspetterebbe un atteggiamento da parte degli accusatori di stupore e di meraviglia dinanzi a una dichiarazione di guarigione miracolosa. Ma la grettezza umana è sconfinata. Agli accusatori che vi sia stata una guarigione non interessa. Quante volte non prendiamo atto dei fatti e continuiamo ad affrontare la realtà attraverso i nostri schemi mentali, le nostre ideologie politiche o religiose. I fatti così non contano.
    La domanda dei giudei è così di accusa: chi è quest’uomo? Chi è stato?
    Quante volte nella storia l’uomo atteggiandosi a giudice a rivolto imperioso la domanda: chi è stato?
    Siamo ancora nella logica della ricerca di un colpevole! Questa ricerca di un colpevole dice la profonda angoscia che l’uomo avverte dentro di sé, intollerabile, insostenibile: una morte che si cerca di scaricare sull’altro. 

                v. 13. A questo punto l’uomo sanato si rende conto di non sapere neppure chi è il suo benefattore. E’ stato riportato alla vita e neppure sa da chi.
    Il Signore gli ha reso il servizio della vita, lui ne ha ricevuto i benefici.  Se Gesù si è allontanato lui non l’ha cercato, ma ha lasciato che andasse per la sua strada. Prendo e sono incapace di dire grazie.
    Gesù si era allontanato subito dopo il miracolo: un servizio il suo alla vita fatto nel nascondimento, nell’umiltà e non certamente nella ricerca del plauso della folla. E’ lo stile di Gesù: il suo far del bene per il gusto di far del bene senza attendersi nulla. Un servizio che raggiungerà il suo culmine nel giorno della passione.
    Cosa avrà fatto l’uomo guarito a questo punto? Per non aver ulteriori grane pauroso com’è probabilmente avrà accontentato i suoi accusatori. Avrà appoggiato il suo lettuccio da qualche parte: ma ora che fare?…
    Il tempio è vicino… mischiarsi con la folla, scomparire anonimo in mezzo agli altri, fuggire dagli occhi inquisitori dei suoi accusatori. Questo forse gli darà un po’ di sicurezza e pace. 

                v. 14. E’ Gesù che lo ritrova nel Tempio. Non sarà stato certamente l’uomo guarito a corrergli incontro, forse avrà fatto finta di non riconoscerlo, oppure avrà cercato di nascondersi…. La paura di ulteriori coinvolgimenti con quest’uomo gli fa adottare la tattica di dileguarsi senza farsi accorgere.
    Ma Gesù lo vede, gli va incontro una seconda volta. L’iniziativa è sempre sua. Che cosa spinge Gesù a questo ulteriore incontro? Sicuramente la consapevolezza che il precedente incontro è stato insufficiente, incompleto, manca di un tassello importante. Non basta una guarigione fisica per ridonare la vita all’uomo: occorre una guarigione interiore, dalle ferite  della vita, dalla propria angoscia. Sa che quest’uomo ha bisogno di incontrare un volto amico nel quale finalmente ritrovare fiducia nei confronti di se stesso, della vita, degli altri, di Dio. Perciò Gesù non si arrende dinanzi alle sue chiusure e paure: gli stende nuovamente la mano, non se lo vuol far sfuggire.
    Le parole di Gesù sono di incoraggiamento nel proseguire il cammino di progressiva apertura alla vita (la conversione come cambiamento radicale dell’impostazione della propria vita). Il dono di una vita sana richiede una condotta retta. La santità che gli è stata donata testimonia al guarito che gli viene proposta un’esistenza nuova. Forse nel riferimento al non peccare più Gesù intende riferirsi alla disperazione che c’era in lui prima di scoprire che Dio vuole la vita.
    Avverte quest’uomo che la grazia della guarigione  lo impegna alla conversione: dimenticandolo rischierebbe peggio dell’infermità passata. Dunque la guarigione miracolosa vuole essere solo un “segno” di una guarigione più profonda, di risurrezione.
    Vuoi veramente guarire? non accontentarti solo di qualche rimedio di facciata, cambia te stesso e imposta la vita diversamente. 

                v. 15. Ma l’invito di Gesù è disatteso da quest’uomo, non riesce ad accogliere una nuova prospettiva nella vita. L’uomo sanato invece di aprirsi alla fiducia nei confronti del Rabbì che lo ha guarito, obbedisce ancora una volta alla sua paura di perdersi.
    Non vede meglio da farsi che denunciare ai giudei Gesù come istigatore alla disobbedienza del precetto del sabato. Gesù diviene il capro espiatorio.  Così io mi metto in salvo, apparentemente sicuro: “mors tua vita mea”. E’ paura, più che ingratitudine. Una paura che giunge a rispondere al bene col male.  

                v. 16. La persecuzione di Gesù è la conseguenza di tutta questa vicenda. Su Gesù si scarica tutto il male: da parte di chi è stato sanato e da parte di chi è detentore della Legge. Dunque quest’iniziativa di Gesù si rivela un insuccesso a livello umano.
    Il bene appare sconfitto, la prepotenza e la paura hanno la meglio. La gratuità del dono è rifiutata e ricambiata dalla comune ostilità.
    Ma Gesù non si lascia bloccare da queste nostre controrisonanze, andrà sino in fondo senza paura di perdersi solo per farci del bene.

  • 05 Feb

    di p. Attilio F. Fabris 

      

    Alcune note introduttive

     E’l’ultimo miracolo di guarigione narrato nel vangelo ed è l’unico in tutta la seconda parte del vangelo stesso.
    Da questi dettagli ricaviamo che per Marco la guarigione del cieco viene a rappresentare una sintesi di tutto l’insegnamento della sequela.
    Le parole e i gesti di Bartimeo descrivono il dinamismo della fede: esso parte dall’annuncio e giunge alla decisione di seguire il Maestro a Gerusalemme.
    Per compiere questo itinerario è necessario che gli occhi si aprano al mistero di Cristo e siano aperti soprattutto nel momento in cui Egli sarà innalzato sulla croce. 

    Gesù con i discepoli e la folla

     Stanno uscendo da Gerico: la strada che si apre dinanzi è la lunga salita a Gerusalemme dove Gesù sarà messo a morte.
    Gesù è circondato dai discepoli e da tutta una folla.
    L’esercizio di meditazione sarà quello di immergerci in mezzo a queste persone: quali i sentimenti, le attese, le paure…. 

    Bartimeo

     Il “figlio di Timeo” una sottolineatura che dice probabilmente un personaggio noto nella comunità.
    Di lui si dice che è:
    – cieco: cosa significa? Cosa comporta?
    – ridotto in miseria
    – emarginato a motivo sociale e religioso
    Cosa gli ha dato la vita? Dio “datore di ogni bene”?
    Non ha nulla se non quell’handicap che gli procura la commiserazione dei passanti.
    Si trova a dipendere dalla pietà altrui.
    Come è stata la sua vita: la sua infanzia, la sua adolescenza, la sua maturità…?
    E’ utile cercare di analizzare il rapporto (le risonanze) che si è instaurato:
    – con se stesso
    – con gli altri
    – con Dio 

    Lungo la strada

     È ai bordi della vita, che sente passare accanto a sé, ma da cui sente di essere tagliato fuori. Chi potrà sobbarcarsi della sua vita per aiutarlo a farsi strada nella vita?
    Chi avrà cura di lui? 

    A mendicare

     Quanto è umiliante domandare, stendere la mano per chiedere di poter sopravvivere, quasi che la vita non fosse un diritto.
    Stendere la mano è ammettere la propria  impotenza e insufficienza: accettare che la vita dipenda dal capriccio degli altri.
    E’ una fortissima esperienza di morte che si aggiunge alla cecità che lo priva della gioia della luce.
    Bartimeo è immerso in una grande esperienza di morte e come vi si rapporta?
    L’esercizio sarà immergerci nell’esperienza quotidiana di Bartimeo. 

    Al sentire che passava Gesù

     La folla fa scorre la voce. Gesù sta arrivando, sta uscendo per andare a Gerusalemme. E’ tutto un fermento, un via vai di curiosi, di fedeli, di malati…
    Bartimeo sente la notizia. Indirettamente gli è annunciata la buona notizia (questa è sempre mediata nell’economia salvifica di tipo biblico: è il servizio profetico).
    Nella nostra esperienza abbiamo incontrato queste mediazioni?
    Poteva sfruttare l’occasione di questo passaggio eccezionale di folla per i suoi pur miseri guadagni.
    Questo annuncio suscita nel cuore di Bartimeo una speranza di salvezza, di guarigione: è il moto spontaneo del cuore. Ma immediatamente possono essere scattate anche delle controrisonanze: servirà? Gesù così impegnato si interesserà di me? Non sarà tutto inutile per cui è meglio rinunciare? La delusione non aggiungerebbe solo sofferenza? 

    Cominciò a gridare

     Con la forza della speranza e della disperazione. Bartimeo vince la controrisonanze della sfiducia e del ripiegamento, della rassegnazione e grida al mondo e a Gesù la sua infermità.
    E’ il grido del povero, dell’afflitto, dell’ammalato che tante volte ritroviamo nella preghiera dei salmi.
    Il povero che spera che finalmente qualcuno gli presti attenzione, si metta dalla sua parte, abbia compassione e faccia solidarietà con lui.
    In alcune situazioni questo grido è talmente forte che non riesce ad uscire (vedi la madre del figlio morto di Naim): il cuore è talmente oppresso, schiacciato dal dolore che l’angoscia blocca ogni sfogo. E’ difficile in questi momenti che il cuore si apra al bisogno di incontro con l’altro, non si riesce a condividere il peso del dolore. E come si avverte una liberazione quando finalmente il grido di dolore riesce ad abbattere il blocco: quando qualcuno raccoglie  questo grido e lo condivide. Già questa condivisione rappresenta una grande esperienza di liberazione e quindi di guarigione. 

    Figlio di Davide, Gesù abbi pietà di me

     Se di Bartimeo insieme al nome si indica il casato, sembra non casuale che il grido del cieco sia composto dal nome dell’invocato e dal suo casato.
    Il pieno riconoscimento di sé e dell’altro sembra permettere un reale incontro che vince la paura e infonde coraggio.
    Il grido di Bartimeo è un’invocazione a Gesù. Egli è professato come Messia promesso e atteso: la sua venuta annunziata dai profeti avrebbe riportato la guarigione da ogni male all’interno del popolo santo: sarebbe stata una nuova creazione. (“Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi” Is 35,5)
    Gesù accetta questa invocazione prima rifiutata: ora che sta andando a Gerusalemme non vi è più il rischio che sia equivocata.
    Un grido che chiede misericordia: è preghiera! (cfr. la preghiera del nome) 

    Molti lo sgridavano

     Chi sono questi molti? Discepoli, presenti….
    Perché?
    – da fastidio, disturba i loro progetti, Bartimeo si inserisce come elemento detabilizzante
    – distoglie Gesù dai “suoi” compiti (loro sanno quali sono!)
    – ma soprattutto egli è colto come “diverso”: e costui non ha i diritti degli altri, e provoca disagio e imbarazzo. Meglio farlo tacere e lasciare che le cose procedano tranquille senza troppi problemi: il “diverso” è un problema!
    – Volevano svolegere funzioni “educative”?
    Una lettura psicologica potrebbe indirizzare verso una riflessione di questo tipo: esistono dentro ciascuno di noi delle situazioni, dei “problemi”, dei “Bartimei” che gridano per attirare l’attenzione al loro diritto di esistere e di essere presi in considerazione. Ma il nostro “Io” il più delle volte mette tutto a tacere consciamente o inconsciamente: accettare questo significa entrare in una situazione destabilizzante con cui fare i conti con la sofferenza. Bisogna impedirlo. Ma la conseguenza è sempre disastrosa. 

    Ma egli…

     Non si scoraggia, non si mette a discutere, ma continua imperterrito gridare per farsi sentire da Gesù è questo il suo unico obiettivo. Accadrà quello che spera? Non lo sa, non può vedere quello che sta accadendo attorno a lui.
    Non ha paura di scontrarsi con gli altri, non si lascia vincere dal rispetto umano, dai rimproveri, dai giudizi malevoli e ironici.
    Il suo grido possiede una caratteristica: è insistente. La preghiera insistente e importuna è insegnata da Gesù (l’amico importuno, la vedova assillante…)Quanto avrà dovuto gridare? 

    Gesù si fermò

     Se ci si ferma mentre si sta facendo altro significa che vi è qualcosa che è prioritario, che non si può rimandare.
    Gesù ode il grido non può, non “deve” passare oltre facendo finta di niente o rimandando. Si ferma come il samaritano presso l’uomo ferito lungo la strada.
    A volte sarà lui stesso a voler fermare (come il seguito funebre a Naim).
    Bartimeo ha la priorità su tutto, viene prima di tutto. Gesù si interessa di lui, lo prende a cuore. 

    Chiamatelo

     Si rivolge proprio a quelli che lo stavano seguendo e che volevano mettere a tacere il cieco Bartimeo. Proprio a loro domanda ora di farsi mediatori per l’incontro.
    Cosa avranno provato? Loro che credevano di far bene e sentirsi nel giusto?  Senso di colpa, stizza, disagio e imbarazzo… gioia?
    Gesù domanda alla sua comunità di  chiamare proprio quelli che vorrebbe, desidererebbe, lasciar fuori, deve superare la tentazione di ritenersi comunità di perfetti ed autosufficienti.
    Nella famiglia di Gesù tutti sono chiamati a sedersi al banchetto del regno: ciechi, zoppi, malati, pubblicani, prostitute  e peccatori ( Matteo 22:8 Poi disse ai suoi servi: Il banchetto nuziale è pronto, ma gli invitati non ne erano degni;  Luca 5:29 Poi Levi gli preparò un grande banchetto nella sua casa. C’era una folla di pubblicani e d’altra gente seduta con loro a tavola. Luca 14:13 Al contrario, quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi ).
    E il gruppo dei mediatori si reca su comando di Gesù da Bartimeo
    (sarebbe utile una drammatizzazione)

    Coraggio…. 

    La prima parola detta è l’invito alla speranza, a non temere (Matteo 9:2 Ed ecco, gli portarono un paralitico steso su un letto. Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: «Coraggio, figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati». Matteo 9:22 Gesù, voltatosi, la vide e disse: «Coraggio, figliola, la tua fede ti ha guarita». E in quell’istante la donna guarì. Matteo 14:27 Ma subito Gesù parlò loro: «Coraggio, sono io, non abbiate paura». Marco 6:50 perché tutti lo avevano visto ed erano rimasti turbati. Ma egli subito rivolse loro la parola e disse: «Coraggio, sono io, non temete!».) 

    Alzati

     E’ un verbo caro alla tradizione neotestamentaria. E’ il verbo della rinascita, della vita nuova, della risurrezione. E’ uscire da una situazione di morte ( Matteo 9:5 Che cosa dunque è più facile, dire: Ti sono rimessi i peccati, o dire: Alzati e cammina? Matteo 9:6 Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere in terra di rimettere i peccati: alzati, disse allora il paralitico, prendi il tuo letto e va’ a casa tua».  Marco 2:9 Che cosa è più facile: dire al paralitico: Ti sono rimessi i peccati, o dire: Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina? Marco 2:11 ti ordino – disse al paralitico – alzati, prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua». Marco 5:41 Presa la mano della bambina, le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico, alzati!». Luca 6:8 Ma Gesù era a conoscenza dei loro pensieri e disse all’uomo che aveva la mano inaridita: «Alzati e mettiti nel mezzo!». L’uomo, alzatosi, si mise nel punto indicato. Luca 7:14 E accostatosi toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Giovinetto, dico a te, alzati!». Luca 8:54 ma egli, prendendole la mano, disse ad alta voce: «Fanciulla, alzati!». Luca 17:19 «Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!». 

    Ti chiama

     Ora è Gesù che chiama (cfr Zaccheo). Non è più Bartimeo che grida. Ora Gesù prende l’iniziativa di rispondere.
    Il chiamare poi nell’ottica del dinamismo della fede implica che la fede pur partendo da una situazione di bisogno dell’uomo sia essenzialmente un dono che scaturisce da una chiamata. (“Chiamò a sé quelli che egli volle”) 

    Gettato via il mantello

     Equivale a lasciar ogni cosa da parte dei primi discepoli.
    Il mantello è l’unica ricchezza e sicurezza di Bartimeo.
    Il lasciarlo comporta l’abbandono di tutte le sicurezze e protezione di cui sinora ha avuto bisogno nella sua cecità.
    Il dinamismo della fede (che è cammino battesimale) implica una progressiva spoliazione.
    Questo gesto indica perciò la certezza che la sua vita non sarà più quella di prima: non si svolgerà più ai bordi della strada. 

    Balzò in piedi

     Sta a dire la pronta risposta e la disponibilità all’incontro. Balzare in piedi è già mettere atto al cambiamento, è sollevarsi dal proprio ripiegamento. E’ già esperienza di risurrezione.
    E’ mettere in atto le condizioni perché si attui l’incontro: è disponibilità ad iniziare il cammino. 

    Venne da Gesù 

    Accompagnato dai mediatori Bartimeo va incontro a Gesù.
    Immaginiamo questo tragitto e le risonanze di Bartimeo, dei mediatori, della folla, di Gesù.
    Il suo coraggio e la sua fiducia sono grandi ma saranno sufficienti per il cambiamento, il loro “effetto” sarà automatico?

    Che vuoi che io ti faccia? 

    Perché questa domanda?
    Forse Gesù sta aiutando Bartimeo a fare chiarezza nella sua coscienza, ad operare un discernimento su ciò che è fondamentale per lui. E’ un aiuto a fare verità dentro di sé prendendo atto del suo limite dinanzi a Gesù.
    Probabilmente Gesù vuole qualcosa di più di un generico invito ad avere pietà: vuole incontrare l’uomo, non solo compiere un gesto di “carità” nei suoi confronti, come questa da sempre è stata abituata a ricevere. Vuole che questa persona, consapevole del proprio bisogno, non si affidi solo all’iniziativa dell’altro, ma che si assuma la responsabilità di chiedere in modo adulto e chiaro ciò di cui ha bisogno.
    Gesù assume e fa assumere con questa domanda l’atteggiamento di un vero incontro. Non intende ricambiare il grido di pietà con un gesto di compassione. Il fare al cieco questa ulteriore “elemosina” non avrebbe cambiato la vita di quell’uomo, come non la cambiavano le monete che riceveva di tanto in tanto da qualche passante frettoloso, impietosito, desideroso di toglierselo di torno al più presto: se avesse fatto questo quell’uomo con ogni probabilità lo stesso giorno avrebbe chiesto qualcos’altro per avere ancora  di più, non essendo uscito da quella perenne condizione di eterno mendicante.
    Il coraggio di gridare il proprio bisogno è un requisito essenziale, ma non ancora sufficiente. Una fede così si presterebbe a trasformarsi in pretesa di rapidi ritorni  passività per ottenere ulteriori forme di benessere, mai pienamente soddisfatte e soddisfacenti.
    Una fede fragile poi avrebbe potuto entrare in crisi: “Come può guarirmi uno che non capisce nemmeno di che cosa ha bisogno un cieco?”. 

    Che io veda

     Ecco quello che chiede e di cui sente di aver bisogno.
    Perché? Cosa comporta? 

    La tua fede ti ha salvato 

    E’ la fede in Gesù che può operare la guarigione, l’apertura degli occhi. La parola diventa efficace perché trova la disponibilità a metterla in pratica.
    E subito riacquistò la vista
    Bartimeo ora vede, gli occhi gli si sono spalancati. Per prima cosa vede il volto di Gesù.
    Uno sguardo che coglie un mistero di amore che va infinitamente più in profondità.
    Sente di essere accolto, amato gratuitamente. La sua vita è amata nella sua povertà e nel suo limite.
    Bartimeo acquista una vista nuova: di che tipo? Solo fisica? Anche ma non solo! Egli acquista uno sguardo diverso sul mondo, sulla vita, su Dio, sugli altri. Uno sguardo segnato dalla gratuità dell’amore-dono. Questa esperienza diviene ragione di vita e di luce in mezzo alle tenebre del mondo. 

    Prese a seguirlo

     Ottenuta la guarigione Bartimeo avrebbe potuto prendere tante decisioni, ma tra tutte scegli di seguire Gesù.
    Cristo luce diventa cammino da seguire, non ci possono essere, per chi l’ha incontrato e visto, altre strade. Seguirlo è dare senso e speranza al mio vivere. “Io sono la luce del mondo: chi crede in me avrà la luce della vita e non cammina nelle tenebre”.
     La sua vita vissuta in solitudine ai margini della strada, ora cambia radicalmente la direzione: esce dall’immobilità e affronta con Gesù la strada.

  • 04 Feb

     

    Origini del monachesimo in Irlanda 

     

    L’ l’Irlanda fu la prima area esterna all’Impero romano nella quale venne adottato il monachesimo, in una forma strettamente collegata alle tradizionali relazioni di clan.

    La diffusione del cristianesimo nell’isola era avvenuta nel corso del V secolo, principalmente ad opera di san Patrizio (431-432), su incarico di papa Celestino I. Secondo alcune tradizioni, tuttavia, san Patrizio sarebbe stato preceduto da un san Palladio, primo vescovo degli Irlandesi[1]. Lo stesso san Patrizio avrebbe fondato nel 444 un monastero ad Armagh (Ard Macha), nell’omonima contea in Irlanda del Nord. Altri vescovi, contemporanei di san Patrizio, o secondo alcune tradizioni a lui precedenti, avrebbero contribuito all’evangelizzazione dell’isola e all’inizio della sua tradizione monastica. San Declan, di origini irlandesi e formatosi a Roma, sarebbe stato rimandato nel suo paese di origine su incarico di papa Ilario (461-468). Qui avrebbe convertito la tribù celtica dei Decies o An Déise, stanziati nell’attuale contea di Waterford e vi avrebbe fondato il monastero di Ardmore. Sant’Ailbe (che tuttavia secondo alcune fonti sarebbe morto nel 528), anch’egli ordinato vescovo a Roma, avrebbe fondato in quest’epoca il monastero di Emly, nella contea di Tipperary e un altro monastero sarebbe sorto presso la cella in cui sant’Ibar si era ritirato in eremitaggio, a Begerin, nel porto di Wexford.

    Ancora nella seconda metà del V secolo santa Brigida, co-patrona d’Irlanda, fondò ad Ardagh il primo convento femminile e si dedicò in seguito alla fondazione di altri monasteri, tra i quali nel 470 quello doppio, maschile e femminile, di Kildare, nei quali l’attività era organizzata al servizio dei poveri.

    Un’altra fondazione del V secolo è ritenuta quella dell’abbazia di Killeaney (Kill-Enda), nell’isola di Inishmore (isole Aran nella baia di Galway), ad opera di sant’Enda di Aran.

    In segutio San Finnian di Clonard, che si era formato presso i centri monastici già presenti nel Galles, si ritirò in una piccola cella nella contea di Meath, raccogliendo progressivamente intorno a sè numerosi seguaci e fondando intorno al 520 il monastero di Clonard. L’abbazia fu il primo grande centro monastico dell’Irlanda, dove si formarono i suoi “dodici apostoli”, che a loro volta fondarono altri monasteri:

    san Brendano di Birri fu il fondatore nel 540 del monastero di Birr, nella contea di Offaly;

    san Ciarán di Clonmacnoise fu il fondatore nel 545 del monastero di Clonmacnoise, ancora nella stessa contea;

    san Columba di Terryglass fu il fondatore nel 548 del monastero di Terryglass, nella contea di Tipperary;

    san Columba di Iona, evangelizzatore della Scozia, in precedenza fondò l’abbazia di Durrow nel 553, sempre nella contea di Offaly, quella di Kells, nella contea di Meath, probabilmente nel 554 e infine un altro monastero a Derry;

    san Brendano di Clonfert, protagonista della leggenda della Navigatio sancti Brendani, fu il fondatore nel 559 del monastero di Clonfert, nella contea di Galway;

    san Cainnech compagno di San Colomba in Scozia, fondò in Irlanda l’abbazia di Aghaboe nella contea di Laois;

    san Ciarán di Saighir fu il fondatore del monastero di Seir Kieran (o Saighir), nella contea di Offaly;

    san Mobhi fondò il monastero di Glasnevin;

    san Senan fondò un monastero nell’isola di Scatttery (Inis Cathaigh), alla foce del fiume Shannon e l’abbazia dell’isola Inishmore;

    Anche altri monasteri vennero fondati in Irlanda nel corso del VI secolo:

    san Finnian di Moville fu il fondatore, intorno al 540 del monastero di Druim Fionn e di una famosa scuola monastica a Moville.

    san Comgall fondò nel 559 l’abbazia di Bangor, nella contea di Down in Irlanda del Nord, che divenne anch’essa una famosa scuola monastica e dove si formò san Colombano.

     

     

     Caratteristiche del monachesimo irlandese 

     

    Inizialmente i monasteri irlandesi dovettero essere costituiti semplicemente da capanne in legno, costruite dagli stessi monaci, raccolte intorno ad una chiesa, circondati da una palizzata. Solo in seguito furono costruiti in muratura, in particolare nell’Irlanda occidentale, dove il legno era più scarso. I monaci provvedevano essi stessi al proprio sostentamento e conducevano una vita dura, fatta di lavoro manuale, studio, preghiera e pratiche di mortificazione. Ogni monastero aveva la sua regola e i monaci erano tenuti all’obbedienza nei confronti dell’abate.

    I monasteri vennero fondati a partire da una donazione di terre ad un religioso proveniente da una nobile famiglia locale, il quale ne diveniva abate. Il monastero diveniva quindi il centro spirituale della comunità e del clan. Gli abati che gli succedevano erano generalmente membri della medesima famiglia del fondatore, mantenendo dunque le terre monastiche nell’ambito della sua giurisdizione, secondo la tradizione irlandese, che prevedeva il trasferimento del possesso fondiario solo all’interno della medesima famiglia.

    Furono anche centri culturali e di insegnamento anche per i laici. Furono centri di diffusione per la lingua latina e tramandarono le locali tradizioni celtiche, elaborando la scrittura per la lingua irlandese e introducendo melodie e strumenti celtici nel canto gregoriano, secondo la tradizione dei bardi . Uno dei principali lavori dei monaci consisteva nella copiatura dei manoscritti e vi si sviluppò lo stile insulare nella decorazione miniata.

    Nella società irlandese, priva di una vera organizzazione urbana, anche la figura del vescovo, legato alla città ebbe un’importanza minore. Secondo la tradizione cristiana egli svolgeva infatti un importante ruolo religioso, ma in Irlanda era spesso residente nel monastero e subordinato o pari grado all’abate. La diocesi monastica corrispondeva al territorio del clan.

    La vita monastica si svolgeva in comunità, sebbene l’eremitaggio fosse considerato la forma più alta di monachesimo. Nelle vite dei santi irlandesi si fa spesso menzione di monaci e persino di abati che si recavano a qualche distanza dal monastero a cui appartenevano per vivervi in isolamento.

    Le regole monastiche si basavano sulla preghiera, la povertà e l’obbedienza. I monaci apprendevano la lingua latina, che era la lingua ufficiale della Chiesa e leggevano testi di autori sia pagani che cristiani, facendo dei monasteri degli importanti centri culturali. Entro la fine del VII secolo le scuole monastiche irlandesi accolsero studenti provenienti dall’Inghilterra e dal resto dell’Europa.

     

     Diffusione in Europa 

     

    Il monachesimo irlandese fu un fenomeno di grande importanza per la diffusione del cristianesimo nell’Inghilterra anglosassone e nei regni merovingi nel VI e VII secolo.

    Il monastero di Iona dal mareLe missioni irlandesi iniziarono con quella di san Columba di Iona, o Colum Cille, co-patrono d’Irlanda e uno dei dodici apostoli d’Irlanda. In seguito alla battaglia di Cooldrumman (Cúl Dreimhne, 561), che egli stesso aveva causato, per penitenza si recò missionario in Scozia, con dodici compagni, con il proposito di convertire altrettanti pagani di quella regione quanti erano stati i caduti durante il combattimento. Ottenne delle terre nell’isola di Iona, sulla costa occidentale della Scozia, dove fondò un monastero. Da qui condusse un’energica opera di evangelizzazione dei Pitti, allora ancora pagani, e un’intensa attività diplomatica di mediazione tra i diversi clan scozzesi, facendo inoltre dell’abbazia un importante centro culturale.

    Già nei due secoli precedenti le coste occidentali della Scozia erano state colonizzate da genti provenienti dall’Irlanda. Il termine latino di Scotti si riferiva alle popolazioni di lingua celtica stanziate sia in Irlanda che in Scozia. I monasteri irlandesi che si diffusero nell’Europa continentale, ad opera di monaci provenienti da entrambe le regioni, sono pertanto in alcuni casi indicati con il termine di “monasteri scoti” (Schottenklöster in Germania).

    Sant’Aidano fondò nel 635 il monastero di Lindisfarne in Northumbria e negli anni seguenti i missionari irlandesi convertirono la maggior parte dell’Inghilterra anglosassone: l’ultimo re anglosassone pagano, Penda di Mercia, morì nel 655.

     

     San Colombano

     

    Dal 590 san Colombano fu attivo nei territori merovingi, fondando numerosi monasteri.

    Per primi fondò nella Franca Contea, nel 591-592 il monastero di San Martino ad Annegray, sul sito di un’antica fortezza romana, poi quello di San Pietro a Luxeuil, a circa 8 miglia a sud-est, nell’odierna Luxeuil-les-Bains, dove si stabilì nel 593 e infine quello di San Pancrazio a Fontaines, vicino ai primi due. Dopo essere entrato in contrasto con l’episcopato locale e con i re burgundi fu costretto a ripartire e riprese a viaggiare. Nel 611 fondò a Bregenz sul lago di Costanza il monastero di Sant’Aurelia.

    Abbazia di San Gallo nel 1769Decise in seguito di recarsi a Roma per ottenere l’approvazione della propria regola da papa Bonifacio IV, ma lungo la strada il suo compagno san Gallo fu costretto a fermarsi per una malattia e fondò nel 613 l’abbazia di San Gallo. Colombano arrivò quindi fino a Bobbio dove fondò l’abbazia di San Colombano e dove morì nel 615.

    La regola monastica stabilita da san Colombano fu approvata da un concilio a Mâcon nel 627, ma venne in seguito affiancata da quella benedettina, più moderata a partire dal 643, difatti a Bobbio furono ospitati i monaci benedettini e poi negli altri monasteri colombaniani italiani ed europei, successivamenti per miticare l’austera regola venne scelta quella benedettina per la vita cenobitica pur rimanendo inalterato l’ordine e la parte di regola dedita allo studio alla scienza e all’insegnamento. Molti monasteri colombaniani esteri furono tra il IX secolo ed il X secolo tolti ed assegnati ai benedettini sotto l’autorità dei vescovi locali perdendo quindi la loro autonomia. Successivamente ciò avverrà anche in Italia tranne a Bobbio dove opererà l’ordine di San Colombano fino al 1448, dopo tale data subentreranno anche li i monaci benedettini, anche se dopo il processo di Cremona l’autorità abbaziale dovrà dipendere dal vescovo di Bobbio e non rimanere autonoma.

    Nel corso del VII secolo i discepoli di san Colombano continuarono a fondare monasteri. Uno dei suoi compagni, san Deicolo (o san Deisle), fondò nel 610 a Lure, ancora nella Franca Contea]], l’abbazia di Lure. Un monaco di Luxeuil, sant’Amé fondò, insieme a san Romarico un duplice monastero, maschile e femminile a Remiremont nel 620. Nel 654 san Filiberto fondò secondo la regola di san Colombano l’abbazia di Jumièges in Normandia, e nel 675 un’altra a Noirmoutier su un’isola presso la costa della Vandea.

     

     Dopo san Colombano 

     

    L’attività dei monaci irlandesi in Europa, declinò poco dopo la morte di san Colombano. Nel 664 il sinodo di Whitby aveva riunito il cristianesimo celtico con la Chiesa cattolica romana. Dal 698 fino a Carlo Magno lo sforzo missionario venne compiuto da missioni prevalentemente anglosassoni.

    Altri monaci tuttavia partirono dall’Irlanda e fondarono monasteri nell’Europa continentale: san Disibod, arrivato sul continente nel 640, fondò il monastero di Disibodenberg, alla confluenza del fiume Glan nel fiume Nahe, presso Bad Sobernheim. E intorno alla metà del VII secolo san Feuillen fondò il monastero di Fosses-la-Ville, presso Namur, nel Belgio. Ancora nell’VIII secolo san Pirmino nel 724 fondò l’abbazia di Reichenau sull’omonima isola del lago di Costanza.

    In Germania le fondazioni monastiche di origine irlandese, in particolare quelli benedettini, agli inizi del XIII secolo si riunirono in una vasta congregazione, approvata nel 1215 da papa Innocenzo III, ill cui abate generale era quello a capo del monastero di San Giacomo (detto anche “Monastero scoto”) di Ratisbona, fondato da monaci irlandesi nel 1090 circa. Il più antico di essi era stato comunque il monastero di Säckingen, su un’isola sul Reno presso Basilea in Svizzera, fondato da san Fridolino in data incerta, ma attestato dall878. Tra i monaci irlandesi insediati nell’Europa centrale furono importanti teologi prima Giovanni Scoto Eriugena (815-877) e poi Mariano Scoto (1028 –1082 or 1083)

    Nel XIV e XV secolo molti antichi monasteri irlandesi erano in declino, sia per carenza di disciplina religiosa o per difficoltà economiche, sia per mancanza di monaci scoti: per questo motivo a volte i conventi vennero ripopolati con monaci di altra origine, mentre altri furono soppressi. In conseguenza della Riforma protestante in Scozia, molti benedettini scozzesi si rifugiarono presso i monasteri irlandesi in Germania. Questi però non riuscirono a sopravvivere a lungo e nel 1862 papa Pio IX soppresse l’ultimo monastero irlandese in Germania.

     

    Bibliografia 

     

    L. Dattrino, Il primo monachesimo, Roma 1984 (capitolo su “Il monachesimo celtico”, p.64 e ss.).

    M. Pacaut, Monaci e religiosi nel medioevo, Edizioni del Mulino, 2007 (capitolo su “Il monachesimo celtico”).

     

  • 04 Feb

    di p. Attilio F. Fabris 

     Il brano segue immediatamente quello del fallito tentativo di arresto di Gesù da parte dei farisei e dei capi dei sacerdoti. Il clima attorno a Gesù è dunque molto teso. La nostra pericope è poi seguita dall’insegnamento di Gesù che si proclama luce del mondo, e il retto giudizio e retta testimonianza che necessitano per incontrarsi con lui (cfr. 8, 15.17).

     v. 1: verso il Monte degli Ulivi
     Siamo a Gerusalemme, nel Tempio. Gesù è ormai conosciuto. Sono molti quelli che lo incontrano e lo ascoltano.
    Questo andare e venire dal Monte degli Ulivi al Tempio è un particolare che fa riferimento soprattutto all’ultima settimana della vita di Gesù (cfr Lc 21,37-38; 22,39; At 1,12). Indirettamente è un rimando al dramma della passione, dell’arresto, della condanna a morte di Gesù stesso.

     v. 2 All’alba:
    annotazione temporale. La scena si svolge sul far del giorno. L’adultera viene dunque sorpresa e arrestata dopo la notte.

     v. 2: sedutosi li ammaestrava.
    Sul far del mattino Gesù sale al Tempio. E qui svolge il suo insegnamento: è un insegnamento quotidiano che Gesù tiene a tutto il popolo (Lc 19,47; 20,1; 21,37).
    Questo riferimento a “tutto” il popolo è espressione che rimanda a tutto il popolo di Israele quando si pone in ascolto della Parola di Dio: Neemia 8:9 «Neemia, che era il governatore, Esdra sacerdote e scriba e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: «Questo giorno è consacrato al Signore vostro Dio; non fate lutto e non piangete!». Perché tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge».
    E’ immagine del nuovo popolo di Israele, la Chiesa, che si pone in ascolto della Parola. Ma ci interroghiamo: che spazio ha l’ascolto nel nostro vissuto comunitario?
    Il suo insegnamento sembra qui prendere il posto del culto liturgico al santuario.
    Gesù è nella posizione del maestro. “sedutosi”. La sua parola è una parola che intende “ammaestrare”, “istruire” (edidasken): riguardo chi? Che cosa? Sicuramente Gesù parlava del Regno di Dio che lui desiderava veder instaurarsi in Israele.

    v. 3: scribi e farisei
    Chi sono?
    Gli “scribi” all’interno della struttura del popolo ebraico postesilico, e dopo la scomparsa dell’istituzione profetica, avevano assunto il ruolo di guida spirituale del popolo. Erano molto stimati e apprezzati dal popolo. Essi svolgevano un ruolo preminente nell’ambito sinagogale dove l’istituzione sacerdotale non era indispensabile. La loro preoccupazione era di difendere la purezza della legge “ergendole intorno una siepe” fatta di minuziosa casistica di comandi e proibizioni.
    I “farisei” (“separati”) al tempo di Gesù si erano radunati in un partito politico-religioso. Essi si appoggiavano alla classe degli scribi e sull’istituzione sinagogale. Erano uomini “votati alla legge”. Erano forti del loro zelo e dell’ideaale religioso. Questa ricerca li opponeva al resto del popolo.
    Sono costoro dunque che portano a Gesù la donna adultera che ha tradito la Legge di Dio.
    Scribi e farisei rappresentano l’uomo nella sua ricerca di giustificazione di se stesso dinanzi a Dio e agli altri. Ma questa ricerca rischia di operare divisione, spaccatura, durezza, intransigenza perché è rifiuto costante di quel limite morale che comporta un’esperienza di morte nel cuore dell’uomo.

     Una donna sorpresa in adulterio
    Cerchiamo di identificare questa donna nella sue esperienza.
    E’ una donna probabilmente sposata. Una donna del popolo che non è difesa da nessuno. Forse una poveraccia. Com’è la sua vita matrimoniale? Perché e da che cosa è dettato questo tradimento?Una donna, che probabilmente non ha mai visto Gesù. O se l’ha visto certamente non è stato per lei sinora un incontro determinante. Una donna che continua a “cercare” il senso della sua vita, ma su strade diverse, lontano dallo sguardo di Gesù. Questa donna vive una sua storia fatta di bisogni e di attese. Non gli basta quello che ha. Una storia forse che non ha neppure scelto né voluto. Una cosa comunque è certa: non ha trovato quello che cercava all’interno del suo legame familiare e nell’intimità della sua relazione matrimoniale. Non è riuscita a saziare la sua sete di amore ricevuto e dato. Come mai? Perché?
    Ha sì cercato un incontro. Solo umano. Fatto di sotterfugi. Si accontenta. Si lascia cadere di una ricerca di soddisfazione che forse sa’ già che si rivelerà un’altra volta deludente.
    E’ accaduto l’imprevisto. Un fatto drammatico. Ancora una volta essa prende coscienza di essere fatta solo strumento, e forse per l’ultima volta! Strumento di un uomo che ha approfittato di lei per poi abbandonarla senza cercare di difenderla…   Dopo averla usata l’abbandona al suo destino in modo irresponsabile. E quante volte il più debole è abbandonato alla sua sorte nello stesso modo! L’amante si salva la vita a scapito di quella donna. Ma l’amore dov’era?
    E’ vittima di una violenza, che le toglie l’intimità, l’identità, la dignità… Scopre l’amarezza e il disgusto per essersi accontentata degli uomini…
    Come hanno fatto a scoprirla? Chi l’ha scoperta? Il marito? Un complotto ordito da lui?
    Cosa passa nel suo cuore nel momento in cui viene scoperta?
    Cosa prova mentre viene trascinata da Gesù?
    Cosa fa? Cosa dice?
    La gente la vede? Cosa fa? Cosa dice?
    Lei vedendo la folla che la osserva come reagisce?
    La donna tra le mani di quegli scribi e farisei è nuovamente uno “strumento”: essi infatti vogliono “usarla” per scopi che neppure lei lontanamente immagina….
    Proviamo ad analizzare le risonanze che si stanno muovendo nel cuore degli accusatori che stanno trascinando la donna da Gesù. Come decidono di portarla da Gesù?
    Perché stanno facendo questo? Il testo parla di un “tranello” che vogliono tendere al giovane rabbi. Ma quale il motivo di fondo che detta l’orchestare di questo “tranello”?
    Cosa vogliono dimostrare? Che cosa vogliono difendere? Quale l’obiettivo che vogliono raggiungere? Raggirare Gesù: perché?
    Una cosa è certa: essi stanno comportandosi con cuore doppio, con un secondo obiettivo (quello vero che non è esplicitato).

     Postala nel mezzo:
    E’ l’atteggiamento dell’interrogatorio giudiziale (cfr At 4,7).
    Quella donna è lì al centro: in piedi dinanzi a tutti. Nella sua veste strappata e nel ruolo di condannata, vede dinanzi a sé immediatamente la fine tragica della sua vita così sbandata. Nei suoi occhi vediamo il terrore e la solitudine.
    E’ sola, pur in mezzo alla folla, posta al centro degli sguardi perfidi e perversi dei suoi accusatori e di tutti i presenti. Sotto gli occhi della Legge di quel Dio nel Tempio che è la sua dimora e nel quale ora si trova. (cf Dt 22,22ss; Lv 18,20; 20,10; Es 20,14)).
    Per l’accusa erano indispensabili due testimoni escluso il marito (Dt 19,15).
    Proviamo ad ascoltare le sue risonanze

    v. 5: Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa.
    Vi è qui un raccordo tra Gesù che “insegna” al popolo e l’appellativo e la  richiesta da parte di costoro di un verdetto dinanzi ad un fatto incontestabile: “Maestro – Didàskale…”. Ossequiosi quanto al titolo da dare, certamente! L’etichetta è rispettata, ma nella coscienza ben altro si muove. 

    ci ha comandato di lapidare” (cfr Lv 20,10; Dt 22,21; Ez 16, 38-40).
    E’ la condanna a morte decretata per adulterio.
    L’accusa è chiara. Senza appello di giustificazioni o di ricerca dei motivi. Quel che conta è l’accaduto criminoso e basta. Il vissuto della donna a loro non interessa minimamente. Gli interessi sono rivolti ad altro: la Legge deve essere difesa a scapito della persona! Per cui se la situazione per loro è quanto mai chiara allora la condanna è già decisa. Probabilmente non è stato ancora pronunciato il giudizio ufficiale del tribunale religioso. (nel 30 dC viene tolto la sinedrio lo “jus gladii”).
    Ma allora che cosa vogliono da Gesù? Qual è il loro vero obiettivo?“Tu che ne dici?. Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo”.
    Quindi l’obiettivo che vogliono raggiungere in realtà è un altro. E’ quel che si suol dire: “Prendere due piccioni con una fava”!.
    Essi sperano all’interno di un confronto religioso-giuridico con Gesù di aver di che per condannarlo. La situazione vuole essere un tranello teso a Gesù: egli avrebbe dovuto pronunciarsi pro o contro il diritto giudaico, oppure contro il diritto romano che non permetteva ai giudei la pena di morte e quindi passare per un rivoluzionario (vedi il racconto del tributo a Cesare: Mt 22,15-22).
    In questo subdolo atteggiamento vediamo svelata tanta malignità nel cuore dell’uomo. Egli spesso non si confronta con la realtà nella ricerca spassionata della verità ma vuole sottomettere la realtà e la verità ai suoi meschini obiettivi che sono in questo caso di potere. La realtà non conta ma contano i miei progetti e le mete che mi prefiggo. 

    v. 6b: tracciava segni per terra:
    Gesù non intende intervenire. Vuole spostare la questione su un altro livello. Gesù non si fa’ immediatamente incontrare da dalla donna né dai suoi accusatori. E’ chino a terra a testa bassa.
    Che risonanze prova dentro di sé mentre è chino a terra? Annoiato. Amareggiato. Silenzioso. Sofferente?
     Comprende l’animo doppio degli accusatori a cui non interessa la ricerca della verità ma solo trovare un espediente per la condanna della donna e sua. I  fin dei conti lì gli accusati sono due: Gesù e l’adultera! 

    vv.7-8 E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei».  E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. 
    Alla fine dietro le loro insistenze impazienti e malignamente ansiose, Gesù volge uno sguardo alla donna, un sussulto di infinita tenerezza. Deve liberarla dalla mano degli assassini: amante e scribi. Sente di doverla riconsegnare a se stessa nella libertà.
    scagli la prima pietra“: occorre confrontare l’importanza data al primo che scagliava la pietra: “La mano dei testimoni sarà la prima contro di lui per farlo morire; poi la mano di tutto il popolo; così estirperai il male in mezzo a te” (Dt 17,7). I testimoni lancino la prima pietra.
    In fin dei conti Gesù, con queste parole “lapidarie”,  ribalta il dettame della legge: se lì è il testimone del male che condanna qui dev’essere la cosceinza di chi è senza peccato. Gesù mette così a confronto gli accusatori non con la legge, ma con la loro coscienza.
    Gesù non si lascia intrappolare da scribi e farisei in una discussione di tipo giuridico-religiosa. Pronuncia sì una sentenza di giustizia penale ma in termini religiosi e non semplicemente giuridici. Gesù non si ferma alla lettera della legge ma discende in profondità per cogliervi lo spirito che la anima e senza il quale essa è solo portatrice di morte.
    Gesù invita a passare dalla legge da eseguire e obbedire ad una legge da assimilare interiormente e che interpella la coscienza e la responsabilità personale.

    v. 9 se ne andarono
    Tutti se ne vanno. (anche la folla?).
    Proprio tutti: dal più anziano al più giovane. Dai più “autorevoli” agli ultimi. Perché in quest’ordine?

    v. 10 Rimasero solo loro due
    Sono ormai soli, finalmente, lui e la donna. La donna lo guarda in modo interrogativo. “Relicti sunt duo, misera et misericordia” (Agostino).
    Gesù trae fuori dalla sua solitudine e dalla sua angoscia quella donna e le apre un nuovo orizzonte. Gesù non vuole giudicare né condannare in base alla legge. Non vuole un giudizio che prenda in considerazione la persona nel suo passato.
    La donna si rende conto di essere stata salvata da lui: ma perché? Si rasserena. Finalmente incontra il suo sguardo.
    Una domanda Gesù le rivolge: “Nessuno ti ha condannata?”. Una domanda evasiva, scontata ma è un ponte gettato tra Lui e lei.
    Non potrà avvenire infatti un incontro con lui se non nella dignità, nella libertà, nel desiderio di incontrarlo. Quella donna se avesse potuto sarebbe scappata ovunque. Certamente non avrebbe mai voluto trovarsi lì. E finalmente vi può essere l’incontro che riconsegna la donna a se stessa rimettendola in cammino nella sua dignità.
    Nei cortili del Tempio, luogo della salvaguardia della Legge divina, Gesù libera una donna peccatrice dalla morte. E’ un annuncio solenne che Dio è il Dio della vita e non della morte.

    v. 11 Va’ in pace e non peccare più
    Una sola parola esce dalla bocca di Gesù. L’invito a vivere il suo futuro in una nuova condizione quella inaugurata dal dono. Gesù le restituisce la sua libertà e dignità, le dice di cercare ancora ma oltre ciò che aveva cercato fino a quel momento. Un invito a non continuare a sbagliare il bersaglio nella sua ricerca di vita e di amore.
    Il peccato non è più stabilito in rapporto alla legge, ma alla libertà. La condizione per vivere nella libertà da quella condanna che fa leva sulla legge, coincide con la libertà di non peccare più. Ma questo è un dono non un imperativo di tipo morale. La legge condanna al passato la parola di Gesù, la sua buona notizia, libera puntando al futuro.
    Certo che questo schierarsi di Gesù dalla parte della libertà e della vita diverrà per lui ulteriore capo di accusa e motivo di odio.
    Se egli libera la donna assume però su di sé il peso del suo peccato. Ancora una volta contempliamo l’amore-dono che preferisce perdere la sua vita per donarla all’uomo nella gratuità più grande, “fino alla fine”, “fino alla morte”.

     

     

  • 02 Feb

     

    Ti offro, Signore, i pensieri,

    perché siano rivolti a Te;

    le parole,

    perché siano ispirate da Te;

    le azioni,

    perché siano secondo la tua volontà;

    le sofferenze,

    perché siano per Te.

    Voglio tutto ciò che tu vuoi,

    lo voglio perché tu lo vuoi,

    lo voglio fino a quando tu lo vuoi.

    Ti prego, Signore,

    illumina l’intelligenza,

    infiamma la volontà,

    purifica il cuore,

    santifica l’anima.

    Che io pianga le colpe passate,

    respinga le tentazioni future,

    corregga le cattive tendenze,

    coltivi le necessarie virtù.

                                           Clemente XI, papa

     

  • 02 Feb

    Inno di lode
    da un campo di prigionia

     

    Lodato sia il Signore per tutte le cose,

    la sua umiltà e la sua provvidenza.

    Lodato il suo amore per tutte le cose,

    lodata la sua lunga pazienza.

    Lodato sia il Signore che perdona le colpe,

    largisce successi e afflizioni;

    lodato il Signore il quale ha disposto
    che vivessimo tempi fatali.

    Lodate il Signore pene e rovesci,

    voi gioie serene e dolori,

    voi mali affliggenti la vita
    che fate più umile il cuore.

    Lodate sia il signore che aiuta noi stanchi
    in cammino alla meta agognata,

    lodato lui che accende nel cuore
    l’anelito al vero e alla pace.

    Lodato sia il Signore per le croci che pesano,

    l’aiuto che accorda nella lotta interiore,

    la quiete e il fuoco che provano.

    Per tutte le cose sia lodato il Signore!

     

    Anonimo, da “Samizdat” negli Anni Sessanta

     

  • 02 Feb

    di p. Attilio F. Fabris

    Mc 10,17-22
     

    Si resta sorpresi al termine di questo brano evangelico.

    L’inizio infatti sembra molto promettente… c’è una corsa, un desiderio, un atteggiamento di umiltà, parole piene di stima, ed è il caso di dirlo, così… stranamente “azzeccate” e deferenti.

    Tuttavia, nonostante le ottime premesse, è l’unica storia di una chiamata che finisce con un netto insuccesso.

    Come mai una conclusione così sconcertante?

     

    v. 17: “in cammino”

    Gesù si sta dirigendo verso Gerusalemme. Sa che sarà consegnato nelle mani degli uomini per essere ucciso. Egli vive questo come dono di sé sino alla fine, fedeltà all’amore al Padre e agli uomini a cui è stato mandato.

    Sarà questa la sua esperienza di massima povertà come espropriazione totale di sé, per amore.

     

             Uno

    Matteo dice che era giovane (19,22), Luca che era un notabile (18,18).

    E’ quindi giovane, ricco e nobile: un uomo realizzato pienamente sotto tutti gli aspetti. Cosa chiedere di più alla vita?

    “Se si chiede… oggi alle persone che cosa è che… le rende veramente felici, la risposta che riceviamo è che si possono permettere tutto quel che desiderano. Il concetto popolare di felicità, diffuso oggi probabilmente tra la maggior parte della gente è che nel consumismo non solo è fondata la libertà, ma anche la felicità e che l’unica cosa che impedisce la libertà e la felicità consiste nel non aver aver abbastanza soldi per consumare tutto quel che si desidera consumare” (E. Fromm).

    Tuttavia la coscienza di quest’uomo permane ancora viva: si sta ponendo delle domande, intuisce che quella perseguita non è forse l’unica via per raggiungere la felicità e la vita.

    Non avvertiamo talvolta anche a noi un certo disagio che ci dice che stiamo percorrendo una strada non buona?

     

    Gli corse incontro, si inginocchiò

    Queste azioni raccontano le buone disposizione che abitano la coscienza di quest’uomo. Ma buone e ottime disposizioni possono ben convivere con disposizioni esattamente contrarie, opposte. Ne facciamo esperienza ogni giorno.

    E quando si deve giungere ad una decisione allora si scatena nella coscienza la battaglia, la lotta.

    Quali disposizioni vinceranno? La nostra esperienza che cosa dice a proposito?

     

             Che devo fare?

    Il giovane ricco chiede “la vita eterna”: l’uomo cerca la vita vera, quella che dura. Alla fine ogni ansia si riferisce ad essa. E l’angoscia scaturisce dalla paura di perderla.

    Ecco allora innanzitutto la domanda in questa direzione: “Che cosa devo fare per avere (lett. ereditare) la vita eterna”: siamo dell’ottica dell’avere, del possedere, del fare; è la linea finora percorsa da quest’uomo.

    Perché non porre la domanda in altro modo es.: “Come devo essere per…”.

    Il ricco vuole essere il protagonista dell’incontro, di ciò che sta avvenendo. E’ lui che cerca di collocare Gesù all’interno della sua esperienza, dei suoi desideri e delle sue aspettative…

     

    v. 18 Perché mi chiami buono?

    Gesù afferma l’unicità della bontà divina, e facendo questo suggerisce la sua identità. E’ come se dicesse: “Se non sai chi sono, non chiamami buono, perché lo è solo Dio. Se sai chi sono, chiamami pure buono e traine le conseguenze”.

    Solo se in Gesù si scopre il tesoro prezioso dalla Buona Notizia, il “Sommo Bene” (san Paolo della Croce) allora per comprarlo si può vendere tutto, sbarazzarsi di tutto. La povertà è espressione concreta della fede in Gesù “per il quale mi sono spogliato di tutto e ho stimato tutto come spazzatura allo scopo di conquistare Cristo” (Fil. 3,8).

     

    v. 19: Conosci i comandamenti

    Gesù rispetta la libertà di quest’uomo, accetta inizialmente la sua logica cercando di mettersi in sintonia con lui.

    Gesù dunque rimanda il giovane a ciò che ha già sperimentato e che gli appartiene: l’osservanza dei comandamenti.

    Rimanda ai comandamenti di cui cita quelli riguardanti i rapporti interpersonali: la fedeltà a questa indicazione sta a dire quale sia la condizione preliminare al fine di ricevere la vita eterna.

    Viene tralasciato il comandamento fondamentale quello dell’amore di Dio, perché questo comandamento riceverà da Gesù una nuova formulazione come sua sequela.

     

    v.20 Tutto questo ho custodito fin dalla mia giovinezza

    La risposta del giovane è istantanea: “E’ ciò che ho sempre fatto!”. Con un senso di sufficienza l’uomo si meraviglia della risposta così “semplicistica” di Gesù…

    Egli come Paolo si gloria dell’irreprensibilità nei confronti della legge (cfr Fil 3,6). Ma la Legge è incapace di produrre vita preoccupata com’è di barricare la morte.

     

    v. 21 Guardandolo dentro

    Ora tocca a Gesù rispondere.

    La sua risposta è avvolta dall’amore: lo fissa, lo fa’ sentire al centro della sua attenzione (emblépsas: guardare dentro). Vuole porre la premessa per andare oltre: questa premessa è l’amore (egàpesen). Il suo sguardo rivolto al cuore è invito al giovane ricco di far altrettanto: si metta in ascolto delle profondità del suo cuore (1Cor 13,12).

    “Lo amò”: E’ il centro del racconto. Si tratta di lasciarsi prendere o meno da questo amore.

     

             “Una cosa sola ti manca”

    Ora è Gesù a prendere l’iniziativa e a fare la sua proposta: egli invita il giovane chiaramente alla sua sequela, a possedere unicamente il regno che è venuto ad annunciare e a portare, lasciando dietro di sé ciò che era solo premessa ad una pienezza di vita: l’osservanza dei comandamenti.

    “Una cosa sola ti manca”: paradossalmente quel che manca è proprio quel che si possiede.

     

     

    va vendi…”

    A differenza del testo di Matteo che usa il verbo al condizionale, Marco riporta la parola di Gesù sotto forma di comando.

    Il possesso dei beni materiali impedisce sul serio di prendere sul serio la parola di Dio, così da farla divenire criterio di scelte di vita. I beni di questo mondo non sono per nulla neutri per il discepolo che vuole impegnarsi nella sequela: egli deve prendere dinanzi ad essi una posizione ben precisa e non ambivalente. “Non si può servire Dio e a Mammona” dirà categoricamente Gesù: è un aut-aut!

    Chi ascolta questo comando diviene come Gesù: piccolo, povere, erede del regno

     

             E avrai un tesoro

    L’arricchirsi presso Dio significa saper dare. Uno avrà quanto avrà donato, non posseduto: e dare ai poveri! A coloro che non possono ricambiarti, nella gratuità più assoluta.

     

             Vieni, seguimi

    Essere povero come e con Gesù significa seguirlo. È modo concreto di attuare il primo comandamento dell’amore. Povertà non fine a se stessa ma come premessa di libertà di scegliere Cristo, la perla preziosa per la quale si è disposti a rinunciare a tutto.

    Possiamo dire di vivere questa libertà nella nostra sequela?

     

     

             Inorridito per la parola

    La Parola getta l’uomo nello sconcerto. Essa è scintilla capace di far scoppiare una battaglia feroce nel cuore dell’uomo.

    Il ricco rimane sorpreso, sconcertato. Non è troppo? Volendo incontrare Gesù non aveva nessuna intenzione di fare un salto del genere. Credeva che il discorso si fermasse soltanto alla sua esperienza, a qualche piccolo aggiustamento; ma Gesù vuole provocare un sovvertimento: quando mai…!?

    E poi perché rinunciare a tutto? La ricchezza non è poi dono di Dio, segno della sua benedizione? Non è possibile trovare un accordo, un compromesso che permetta di avere tutto senza lasciare niente?

     

             Se ne andò intristito

    L’abbraccio di Gesù è troppo stretto. E’ troppo esigente. E l’uomo si divincola: è arrivato alla soglia di una nuova tappa della sua vita ma non ha il coraggio di varcarla. Non si fida.

    Se ne va afflitto, rattristato (lett. “corrugando la fronte”).

    In fondo non può bastare la religiosità che già si possiede?

    Questa tristezza perdurerà sino a quando perdurerà l’attaccamento ai suoi beni. Finché non scoprirà dove sta il vero tesoro.

     

             Aveva infatti molti beni

    La ricchezza è impedimento alla sequela e ad ereditare il regno. La ricchezza da segno della benedizione dall’alto, diviene impedimento, ostacolo all’accoglienza del regno

    Le ricchezze sono le spine che soffocano la Parola (4,19). Gesù non aveva parlato dell’ “inganno della ricchezza” (4,19)?

    “L’uomo, anche se non vuole ammetterlo in alcun modo, serve sempre e adora sempre qualcuno o qualcosa: è essenzialmente feticista! Detto in altre parole, ha sempre qualcosa che assorbe tutta la sua esistenza, come “cura”, ossia preoccupazione ultima del suo agire. Questo è il suo peccato contro Dio – la sua idolatria – che gli fa porre come valore supremo un idolo che non è il Dio dei vivi, e che quindi lo tiene nella sua morte” (Fausti).

     

    Alcune considerazioni

     

    Ma perché la ricchezza rappresenta un serio impedimento alla sequela e quindi al regno?

    Proviamo una volta a dimenticare le continue giustificazioni e le scuse motivate dalle apparenti necessità, dalle costrizioni e dagli obblighi oggettivi che ci spingono a possedere denaro, e vedremo che il vero nocciolo della nostra dipendenza da Mammona sta nel fatto che il denaro possiede il potere di placare in apparenza le nostre angosce esistenziali più importanti, angosce che abbiamo solo noi esseri umani e che perciò ci costringono di continuo a cercare risposte smodate e illusorie… rispetto alla nostra angoscia, non riusciamo mai a mettere da parte riserve sufficienti “per l’inverno” (come gli animali ndr), e non ci sarà mai un limite alla nostra angoscia, mai un termine al nostro terrore, neppure se siamo molto ricchi.

    In realtà esiste un’unica strada che ci consente di trattare in modo sensato la continua minaccia che incombe sulla nostra esistenza, ed essa consiste nell’accettare la nostra intrinseca povertà a partire da Dio e nel rendere in questo modo più vasto il nostro cuore per la povertà relativa degli altri…

     

    La verità è che il ricorso continuo a ciò che abbiamo, ci impedisce alla fine di essere e di vivere. Come morti viventi ci seppelliamo letteralmente con il “possesso”, sia esso morale, finanziario o spirituale, come se, secondo l’esempio degli egizi, dovessimo innalzare attorno a noi, mentre siamo ancora in vita, una camera sepolcrale tutta d’oro, e il denaro che diciamo nostro ci rende necessariamente ciechi alla miseria che sta al nostro fianco, rende i nostri orecchi sordi al grido di dolore degli impoveriti e rende il nostro cuore verso i sentimenti più semplici della compassione e della misericordia.

    Alla fine non ci accorgiamo neanche più di essere diventati degli autentici mostri, ma consideriamo il nostro stato assolutamente normale e giusto…

    Finiamo col cadere nella più grossa delle bugie, quella cioè, che il denaro è lo strumento che ci rende liberi e indipendenti. E’ vero il contrario: siamo diventati servi prezzolati del denaro, dipendenti nel tritatutto del capitale, e più ci inseriamo nella logica del denaro più diventiamo dipendenti e dominati dall’angoscia. Alla fine, niente ci pesa di più che “rinunciare” ad una cosa qualunque…

    Ma cosa abbiamo da perdere veramente?…

    Per vivere abbiamo bisogno di una sensazione di sicurezza. Ma più ci organizziamo nella sicurezza di questo mondo, più ci risulterà evidente che nei confronti della morte non esiste sicurezza. L’unica cosa che ci resta è quello che noi siamo… (Mt 6,19-21)…

    Finché le persone hanno paura, penseranno di doversi proteggere con ogni sorta di possessi.

    Ma c’è la felicità di uno starsene protetti e al sicuro, che sa di non aver bisogno di simili corazze. Questa è la povertà che soltanto Dio ci può dare; essa è un dono, non una prestazione morale…

    Delle persone che ricevono la certezza che la bontà di Dio sostiene e mantiene la loro vita, non hanno più bisogno di preoccuparsi ogni giorno del proprio sostentamento, ma possono chiedere come bambini: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano.

     La scelta della povertà non è frutto di ascesi, o espedienti umani, ma puro dono di Dio: è anzi frutto dell’essere “presso” Dio. L’uomo non è mai tanto lontano dal regno di quando pretende di possedere dei titoli per entrarci, o semplicemente possiede qualcosa. Il semplice possedere, invece di dare, è un titolo di esclusione: non si è “presso Dio” che è dono di vita.

     

     

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