di p. Attilio F. Fabris
Mc 10,17-22
Si resta sorpresi al termine di questo brano evangelico.
L’inizio infatti sembra molto promettente… c’è una corsa, un desiderio, un atteggiamento di umiltà, parole piene di stima, ed è il caso di dirlo, così… stranamente “azzeccate” e deferenti.
Tuttavia, nonostante le ottime premesse, è l’unica storia di una chiamata che finisce con un netto insuccesso.
Come mai una conclusione così sconcertante?
v. 17: “in cammino”
Gesù si sta dirigendo verso Gerusalemme. Sa che sarà consegnato nelle mani degli uomini per essere ucciso. Egli vive questo come dono di sé sino alla fine, fedeltà all’amore al Padre e agli uomini a cui è stato mandato.
Sarà questa la sua esperienza di massima povertà come espropriazione totale di sé, per amore.
Uno
Matteo dice che era giovane (19,22), Luca che era un notabile (18,18).
E’ quindi giovane, ricco e nobile: un uomo realizzato pienamente sotto tutti gli aspetti. Cosa chiedere di più alla vita?
“Se si chiede… oggi alle persone che cosa è che… le rende veramente felici, la risposta che riceviamo è che si possono permettere tutto quel che desiderano. Il concetto popolare di felicità, diffuso oggi probabilmente tra la maggior parte della gente è che nel consumismo non solo è fondata la libertà, ma anche la felicità e che l’unica cosa che impedisce la libertà e la felicità consiste nel non aver aver abbastanza soldi per consumare tutto quel che si desidera consumare” (E. Fromm).
Tuttavia la coscienza di quest’uomo permane ancora viva: si sta ponendo delle domande, intuisce che quella perseguita non è forse l’unica via per raggiungere la felicità e la vita.
Non avvertiamo talvolta anche a noi un certo disagio che ci dice che stiamo percorrendo una strada non buona?
Gli corse incontro, si inginocchiò
Queste azioni raccontano le buone disposizione che abitano la coscienza di quest’uomo. Ma buone e ottime disposizioni possono ben convivere con disposizioni esattamente contrarie, opposte. Ne facciamo esperienza ogni giorno.
E quando si deve giungere ad una decisione allora si scatena nella coscienza la battaglia, la lotta.
Quali disposizioni vinceranno? La nostra esperienza che cosa dice a proposito?
Che devo fare?
Il giovane ricco chiede “la vita eterna”: l’uomo cerca la vita vera, quella che dura. Alla fine ogni ansia si riferisce ad essa. E l’angoscia scaturisce dalla paura di perderla.
Ecco allora innanzitutto la domanda in questa direzione: “Che cosa devo fare per avere (lett. ereditare) la vita eterna”: siamo dell’ottica dell’avere, del possedere, del fare; è la linea finora percorsa da quest’uomo.
Perché non porre la domanda in altro modo es.: “Come devo essere per…”.
Il ricco vuole essere il protagonista dell’incontro, di ciò che sta avvenendo. E’ lui che cerca di collocare Gesù all’interno della sua esperienza, dei suoi desideri e delle sue aspettative…
v. 18 Perché mi chiami buono?
Gesù afferma l’unicità della bontà divina, e facendo questo suggerisce la sua identità. E’ come se dicesse: “Se non sai chi sono, non chiamami buono, perché lo è solo Dio. Se sai chi sono, chiamami pure buono e traine le conseguenze”.
Solo se in Gesù si scopre il tesoro prezioso dalla Buona Notizia, il “Sommo Bene” (san Paolo della Croce) allora per comprarlo si può vendere tutto, sbarazzarsi di tutto. La povertà è espressione concreta della fede in Gesù “per il quale mi sono spogliato di tutto e ho stimato tutto come spazzatura allo scopo di conquistare Cristo” (Fil. 3,8).
v. 19: Conosci i comandamenti
Gesù rispetta la libertà di quest’uomo, accetta inizialmente la sua logica cercando di mettersi in sintonia con lui.
Gesù dunque rimanda il giovane a ciò che ha già sperimentato e che gli appartiene: l’osservanza dei comandamenti.
Rimanda ai comandamenti di cui cita quelli riguardanti i rapporti interpersonali: la fedeltà a questa indicazione sta a dire quale sia la condizione preliminare al fine di ricevere la vita eterna.
Viene tralasciato il comandamento fondamentale quello dell’amore di Dio, perché questo comandamento riceverà da Gesù una nuova formulazione come sua sequela.
v.20 Tutto questo ho custodito fin dalla mia giovinezza
La risposta del giovane è istantanea: “E’ ciò che ho sempre fatto!”. Con un senso di sufficienza l’uomo si meraviglia della risposta così “semplicistica” di Gesù…
Egli come Paolo si gloria dell’irreprensibilità nei confronti della legge (cfr Fil 3,6). Ma la Legge è incapace di produrre vita preoccupata com’è di barricare la morte.
v. 21 Guardandolo dentro
Ora tocca a Gesù rispondere.
La sua risposta è avvolta dall’amore: lo fissa, lo fa’ sentire al centro della sua attenzione (emblépsas: guardare dentro). Vuole porre la premessa per andare oltre: questa premessa è l’amore (egàpesen). Il suo sguardo rivolto al cuore è invito al giovane ricco di far altrettanto: si metta in ascolto delle profondità del suo cuore (1Cor 13,12).
“Lo amò”: E’ il centro del racconto. Si tratta di lasciarsi prendere o meno da questo amore.
“Una cosa sola ti manca”
Ora è Gesù a prendere l’iniziativa e a fare la sua proposta: egli invita il giovane chiaramente alla sua sequela, a possedere unicamente il regno che è venuto ad annunciare e a portare, lasciando dietro di sé ciò che era solo premessa ad una pienezza di vita: l’osservanza dei comandamenti.
“Una cosa sola ti manca”: paradossalmente quel che manca è proprio quel che si possiede.
“va vendi…”
A differenza del testo di Matteo che usa il verbo al condizionale, Marco riporta la parola di Gesù sotto forma di comando.
Il possesso dei beni materiali impedisce sul serio di prendere sul serio la parola di Dio, così da farla divenire criterio di scelte di vita. I beni di questo mondo non sono per nulla neutri per il discepolo che vuole impegnarsi nella sequela: egli deve prendere dinanzi ad essi una posizione ben precisa e non ambivalente. “Non si può servire Dio e a Mammona” dirà categoricamente Gesù: è un aut-aut!
Chi ascolta questo comando diviene come Gesù: piccolo, povere, erede del regno
E avrai un tesoro
L’arricchirsi presso Dio significa saper dare. Uno avrà quanto avrà donato, non posseduto: e dare ai poveri! A coloro che non possono ricambiarti, nella gratuità più assoluta.
Vieni, seguimi
Essere povero come e con Gesù significa seguirlo. È modo concreto di attuare il primo comandamento dell’amore. Povertà non fine a se stessa ma come premessa di libertà di scegliere Cristo, la perla preziosa per la quale si è disposti a rinunciare a tutto.
Possiamo dire di vivere questa libertà nella nostra sequela?
Inorridito per la parola
La Parola getta l’uomo nello sconcerto. Essa è scintilla capace di far scoppiare una battaglia feroce nel cuore dell’uomo.
Il ricco rimane sorpreso, sconcertato. Non è troppo? Volendo incontrare Gesù non aveva nessuna intenzione di fare un salto del genere. Credeva che il discorso si fermasse soltanto alla sua esperienza, a qualche piccolo aggiustamento; ma Gesù vuole provocare un sovvertimento: quando mai…!?
E poi perché rinunciare a tutto? La ricchezza non è poi dono di Dio, segno della sua benedizione? Non è possibile trovare un accordo, un compromesso che permetta di avere tutto senza lasciare niente?
Se ne andò intristito
L’abbraccio di Gesù è troppo stretto. E’ troppo esigente. E l’uomo si divincola: è arrivato alla soglia di una nuova tappa della sua vita ma non ha il coraggio di varcarla. Non si fida.
Se ne va afflitto, rattristato (lett. “corrugando la fronte”).
In fondo non può bastare la religiosità che già si possiede?
Questa tristezza perdurerà sino a quando perdurerà l’attaccamento ai suoi beni. Finché non scoprirà dove sta il vero tesoro.
Aveva infatti molti beni
La ricchezza è impedimento alla sequela e ad ereditare il regno. La ricchezza da segno della benedizione dall’alto, diviene impedimento, ostacolo all’accoglienza del regno
Le ricchezze sono le spine che soffocano la Parola (4,19). Gesù non aveva parlato dell’ “inganno della ricchezza” (4,19)?
“L’uomo, anche se non vuole ammetterlo in alcun modo, serve sempre e adora sempre qualcuno o qualcosa: è essenzialmente feticista! Detto in altre parole, ha sempre qualcosa che assorbe tutta la sua esistenza, come “cura”, ossia preoccupazione ultima del suo agire. Questo è il suo peccato contro Dio – la sua idolatria – che gli fa porre come valore supremo un idolo che non è il Dio dei vivi, e che quindi lo tiene nella sua morte” (Fausti).
Alcune considerazioni
Ma perché la ricchezza rappresenta un serio impedimento alla sequela e quindi al regno?
Proviamo una volta a dimenticare le continue giustificazioni e le scuse motivate dalle apparenti necessità, dalle costrizioni e dagli obblighi oggettivi che ci spingono a possedere denaro, e vedremo che il vero nocciolo della nostra dipendenza da Mammona sta nel fatto che il denaro possiede il potere di placare in apparenza le nostre angosce esistenziali più importanti, angosce che abbiamo solo noi esseri umani e che perciò ci costringono di continuo a cercare risposte smodate e illusorie… rispetto alla nostra angoscia, non riusciamo mai a mettere da parte riserve sufficienti “per l’inverno” (come gli animali ndr), e non ci sarà mai un limite alla nostra angoscia, mai un termine al nostro terrore, neppure se siamo molto ricchi.
In realtà esiste un’unica strada che ci consente di trattare in modo sensato la continua minaccia che incombe sulla nostra esistenza, ed essa consiste nell’accettare la nostra intrinseca povertà a partire da Dio e nel rendere in questo modo più vasto il nostro cuore per la povertà relativa degli altri…
La verità è che il ricorso continuo a ciò che abbiamo, ci impedisce alla fine di essere e di vivere. Come morti viventi ci seppelliamo letteralmente con il “possesso”, sia esso morale, finanziario o spirituale, come se, secondo l’esempio degli egizi, dovessimo innalzare attorno a noi, mentre siamo ancora in vita, una camera sepolcrale tutta d’oro, e il denaro che diciamo nostro ci rende necessariamente ciechi alla miseria che sta al nostro fianco, rende i nostri orecchi sordi al grido di dolore degli impoveriti e rende il nostro cuore verso i sentimenti più semplici della compassione e della misericordia.
Alla fine non ci accorgiamo neanche più di essere diventati degli autentici mostri, ma consideriamo il nostro stato assolutamente normale e giusto…
Finiamo col cadere nella più grossa delle bugie, quella cioè, che il denaro è lo strumento che ci rende liberi e indipendenti. E’ vero il contrario: siamo diventati servi prezzolati del denaro, dipendenti nel tritatutto del capitale, e più ci inseriamo nella logica del denaro più diventiamo dipendenti e dominati dall’angoscia. Alla fine, niente ci pesa di più che “rinunciare” ad una cosa qualunque…
Ma cosa abbiamo da perdere veramente?…
Per vivere abbiamo bisogno di una sensazione di sicurezza. Ma più ci organizziamo nella sicurezza di questo mondo, più ci risulterà evidente che nei confronti della morte non esiste sicurezza. L’unica cosa che ci resta è quello che noi siamo… (Mt 6,19-21)…
Finché le persone hanno paura, penseranno di doversi proteggere con ogni sorta di possessi.
Ma c’è la felicità di uno starsene protetti e al sicuro, che sa di non aver bisogno di simili corazze. Questa è la povertà che soltanto Dio ci può dare; essa è un dono, non una prestazione morale…
Delle persone che ricevono la certezza che la bontà di Dio sostiene e mantiene la loro vita, non hanno più bisogno di preoccuparsi ogni giorno del proprio sostentamento, ma possono chiedere come bambini: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano.
La scelta della povertà non è frutto di ascesi, o espedienti umani, ma puro dono di Dio: è anzi frutto dell’essere “presso” Dio. L’uomo non è mai tanto lontano dal regno di quando pretende di possedere dei titoli per entrarci, o semplicemente possiede qualcosa. Il semplice possedere, invece di dare, è un titolo di esclusione: non si è “presso Dio” che è dono di vita.
Recent Comments