• 22 Feb
    La morte e risurrezione di Gesù costituiscono il cuore della storia del mondo e il motivo della lode della Chiesa.

    Contesto

     La prima parte dell’Apocalisse (ce. 1-3) presenta, attraverso le lettere alle Chiese, un cammino di discernimento e di purificazione mediante il quale la comunità esce rinnovata.�
    Questa è ora invitata a fare un passo ulteriore, addirittura a salire in cielo per comprendere e valutare dal punto di vista di Dio gli avvenimenti della storia nei quali essa stessa è coinvolta (Ap 4,1). I capitoli quarto e quinto costituiscono l’apertura della seconda parte dell’Apocalisse, che è una lettura a più riprese della storia nell’ottica della Pasqua del Signore.
    Il centro di questi due capitoli è occupato dal segno di un libro sigillato (Ap 5,1) tenuto in mano da «Uno seduto sul trono» (4,2ss) e da questi consegnato all’«Agnello immolato» perché sia letto.�
    L’immagine si ispira alla mitologia orientale antica, secondo cui la divinità suprema possiede libri nei quali è scritto il destino del mondo; il rituale dell’intronizzazione prevede che questi libri vengano consegnati al re per indicare che egli ha ora il potere sul mondo.
    Questo libro, simbolo dei significati della storia, suscita al suo comparire una domanda angosciante: «Chi è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli?» (Ap 5,2).  L’importanza di questa domanda è sottolineata in tre modi espressi in scala ascendente.  C’è dapprima il silenzio impotente del cosmo, la constatazione amara: «nessuno, né in cielo, né in terra, né sotto terra era in grado di aprire il libro e leggerlo» (Ap 5,3).  Segue poi il pianto del veggente Giovanni: «Io piangevo molto perché non si trovava nessuno degno di aprire il libro e di leggerlo» (Ap 5,4).  Giunge infine l’annuncio liberatore, l’indicazione di colui che è qualificato per aprire il libro rompendone i sigilli.  Giovanni può volgere lo sguardo e vedere: «Vidi ritto in mezzo al trono circondato dai quattro esseri viventi e dai vegliardi un Agnello, come immolato [… giunse, prese il libro dalla destra di Colui che era seduto sul trono» (Ap 5,6-7).  La storia ha in Dio l’unico Signore e nell’Agnello l’unico capace di darne l’interpretazione retta, salvifica.  Proprio il simbolo dell’Agnello allude alla ragione profonda di questo.�
    Dal capitolo quinto fino al ventiduesimo l’Apocalisse ricorre ben ventotto volte a questo simbolo per designare Gesù Cristo.  Il suo significato va riconosciuto attraverso molteplici riferimenti: l’agnello pasquale, l’agnello del sacrificio di espiazione, il sacrificio di Isacco, il servo sofferente di Is 53, l’agnello come messia apocalittico.  Il contesto fa tuttavia capire che il riferimento primo e privilegiato è la Pasqua di Gesù.
    All’interno di questa visione l’inno che andiamo a leggere proclama l’identità di Dio e dell’Agnello, l’azione che le rende riconoscibili e la loro efficacia per noi.

     Struttura

     La scelta liturgica accosta direttamente la celebrazione di colui che, seduto sul trono, ha in mano il libro sigillato (Ap 4,1 1) e di colui che lo riceve perché è in grado di aprirlo e di leggerlo (5,9-12).
    L’inno risulta così composto di tre strofe, ciascuna delle quali è costituita dalla lode, introdotta da «Tu sei degno» e dalla sua motivazione: «poiché … ». La strofa centrale è più ampia perché, oltre a dire la lode e il suo motivo, esprime anche l’efficacia dell’azione che suscita la lode.  Secondo la composizione letteraria le tre strofe costituiscono tre riprese del coro celeste; secondo lo stile apocalittico è questo il modo per sottolineare che quanto la liturgia della Chiesa celebra corrisponde alla realtà ultima, quella che Dio ha davanti a sé.  La liturgia non celebra un sogno che evade dalla durezza della storia, ma ne dice la realtà profonda, offerta incessantemente da Dio al suo popolo.

    Commento 

    Passiamo ora brevemente in rassegna le tre strofe; possiamo immaginarle come tre onde che si rincorrono, salendo fino a un massimo e acquietandosi poi nella conclusione.
    Tu sei degno, o Signore e Dio nostro,
    di ricevere la gloria, l’onore e la potenza, perché tu hai creato tutte le cose,
    e per la tua volontà furono create e sussistono.
    L’apertura «Tu sei degno» sottolinea come ciò che la lode proclama corrisponde davvero all’identità di colui al quale è diretta.  Questa identità è riconoscibile nella relazione che egli ha instaurato con noi (Dio nostro, che ti sei rivolto a noi).  In essa è possibile riconoscere come la sua presenza è efficace e feconda per noi (gloria) ed è tale per cui appare del tutto adeguato riconoscerne la vitalità (onore) e l’energia operativa (potenza).
    L’espressione «Tu sei degno» era tipica dei rituali di corte: apparteneva all’enfasi dei cortigiani.  Collocata qui contiene una sottile contestazione: in un contesto in cui è facile cadere nell’adulazione falsa o interessata diretta ai potenti di turno, la liturgia della Chiesa dà voce all’unica lode pertinente.
    La ragione di tale pertinenza è l’azione creatrice di Dio, che il testo invita a riconoscere in tutta la sua pregnanza: il mondo non è lasciato a se stesso, né è in mano a potenze antagoniste; esso viene dalla volontà di Dio che fa esistere e custodisce.  Il Dio che ha creato rimane fedele alla sua creazione, ne è il garante e il custode permanente.  Nonostante tutti i turbamenti della storia e le pretese dei potenti, il mondo non è abbandonato al caos, ma è tenuto saldamente in mano dal suo Creatore.

    [o Signore], di prendere il libro e di aprirne i sigilli,
    perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo sangue
    uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione
    e li hai costituiti per il nostro Dio un regno di sacerdoti e regneranno sopra la terra.
     In questa seconda strofa l’espressione «Tu sei degno» viene indirizzata all’Agnello in quanto è in grado di prendere il libro e scioglierne i sigilli.  La storia, con tutti i suoi enigmi e le sue contraddizioni, la storia sigillata ha la sua chiave di lettura nella Pasqua di Gesù.  Il simbolo dell’Agnello rimanda a Gesù in quanto compie il significato della pasqua antica, la liberazione offerta da Dio.  La grande novità, che permette di leggere la storia, è che la liberazione offerta da Gesù avviene attraverso il suo dono, il «sangue».  Non libera imponendosi su altri, ma attraverso la sua incondizionata disponibilità.  Per salvare, il Signore Gesù non ha avuto bisogno di umiliare nessuno; anzi, attuando la salvezza, la offre anche a chi si era opposto ad essa, anche a coloro dai quali aveva subìto la violenza della condanna e della uccisione.
    Questo riscatto avviene senza discriminazioni; raggiunge uomini di «ogni tribù, lingua, popolo e nazione» e li riunisce in un’assemblea capace di vivere nel riconoscimento dei doni di Dio e nella sua lode.  Lasciarsi coinvolgere dalla regalità di Dio significa imparare a vivere dei suoi doni facendoli fruttificare, secondo la logica che è loro propria.
    In tal modo la liberazione diventa anche vita sacerdotale, vita contrassegnata dalla familiarità con Dio, dall’accesso alla sua disponibilità per noi che rende possibile la nostra disponibilità per lui.  L’espressione «un regno di sacerdoti» è citazione di Es 19,6.  Questo testo presenta Dio che, dopo aver fatto uscire il suo popolo dalla schiavitù, ne proclama il nuovo statuto, lo costituisce popolo di re e sacerdoti. I due termini sono strettamente connessi, benché non sinonimi.  La regalità si manifesta nel vivere del dono di Dio, della situazione che la sua azione di liberazione ha instaurato, ossia nel vivere una condivisione oblativa; questa costituisce la condizione di familiarità con Dio, la possibilità di accesso a lui che è proprio la condizione sacerdotale.
    Nella Pasqua di Gesù tutto questo ha il suo compimento e la liturgia cristiana lo celebra.  L’Agnello è in grado di decifrare la storia perché la sua azione non produce scarto, non ha bisogno di rifiutare nessuno.  Mentre la storia in mano agli uomini è incapace di valorizzare tutti e procede lasciando sempre dietro di sé degli esclusi, la Pasqua di Gesù mostra che Dio sa agire in modo innovativo, sa fare storia recuperando anche gli scartati, offre la salvezza anche a chi non ha saputo riconoscerla.
    L’impresa dell’Agnello è talmente inedita che il canto in suo onore è qualificato come «nuovo» (v. 9).  Tre volte nell’Apocalisse si fa cenno di un canto nuovo (Ap 5,9; 14,3; 15,3) e sempre in riferimento all’opera dell’Agnello. E’ lui la novità assoluta che compare nella storia. 

    L’Agnello che fu immolato
    è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza,
    onore, gloria e benedizione.
    La terza strofa ha la funzione riassuntiva e di conclusione.
    La frase “che fu immolato” si può leggere anche in funzione causale: “poiché fu immolato”: vine dunque ribadito il motivo della lode: l’opera compiuta da Gesù. Si applicano sette qualifica: segno di perfezione.
    La “potenza” rivela l’identità del Signore della pasqua: è energia efficace, sconfinata, capace di venire incontro alla condizione dell’uomo e della storia.
    La gioia della benedizione ci giunge tramite l’umanità di Gesù: essa ci rivela la verità di Dio sull’uomo e la sua storia. E’ storia di salvezza senza pentimento e senza misura.
    Nella sua liturgia la Chiesa proclama la novità dell’evento pasquale: Dio si offre a noi senza difesa, non schiaccia nessuno. E’ disponibilità verso tutti senza imporsi e senza nascondersi. La sua verità è la sua infinita fedeltà, la sua capacità di riscattare l’uomo e di farlo riuscire.
    Così il triplice “Tu sei degno” (Ap 4,11; 5,9.12). esprime la fondatezza della fede della comunità ecclesiale, messa alla prova dalle pressioni a cui si trova esposta e dalle tentazioni di chiusura che questa possono indurre.
    Incontrando il suo Signore nella liturgia che celebra, la Chiesa apprende che l’apparente debolezza del vangelo nel mondo è in realtà un risvolto della sua novità, della sua eccedenza. E’ segno dell’amore gratuito e fedele come qualifica fondamentale di Dio, che si è esposto alla prova della storia nell’umanità e nella Pasqua di gesù e ne ha mostrato la sorprendente efficacia.
    Nel “Tu sei degno” brilla la gioia della libertà cristiana di partecipare a edificare una nuova storia, storia di salvezza, perché non più intristita dallo scarto degli sconfitti di turno. E’ la lettura ultima dei segreti del libro della storia operata dal Signore della Pasqua.

    Significati per la nostra vita

     La lode che questo inno dischiude diventa stile di una comunità che è impegnata a vivere riconoscendo i doni di Dio nella sua vita e nella storia intera. Ciò che mantiene in vita la comunità è anzitutto la gratitudine: l’atteggiamento di chi riconosce di esistere in forza del dono continuo che viene da Dio. Questo non disimpegna dalla storia, al contrario permette di liberare le energie migliori perché non le consuma nell’affannosa ricerca di accaparrarsi il sostentamento in una vicenda umana che appare come insostenibile gara di sopravvivenza. Chi si sa garantito da Dio vive la gratitudine a lui mostrando come la propria esistenza è trasparenza della stessa logica.
    La comunità dei credenti non solo vive dei doni di Dio ma può riconoscerne anche la qualità; sa infatti che il senso della storia è aperto dalla Pasqua di gesù, la liberazione che avviene nel dono della sua vita, fonte di ogni benedizione.
    Questo a un tempo permette e domanda di guardare a ogni avvenimento con speranza. Se nella Pasqua del signore Gesù, il Padre libera senza fare scarti ciò significa che possiamo vivere senza escludere nessuno dalla nostra attenzione. Questa possibilità diventa immediatamente impegno per la comunità cristiana a stare nella storia come testimone di questo stile. Gesù ci garantisce e ci insegna che è possibile mantenerlo se non perseguiamo logiche di potere, se realmente incominciamo ad attuarlop partendo dai piccoli e poveri, coloro che per primi sono scartati dalla cattiva volontà o dalla cinica rassegnazione con cui è ricercata la salvezza nei percorsi della storia umana.
    L’assemblea può mantenere viva la speranza di fronte alla prova e alla tentazione di chiusura che sempre minacciano la vita della Chiesa. Pur nella prova contempla la salvezza già avvenutaPuò superare ogni scoraggiamento di fronte alla difficoltà, alle resistenze, agli insuccessi.�
    Neppure è costretta a irrigidirsi per difendere i valori che custodisce; sa che sono salvaguardati da Dio stesso e dalla sua disponibilità per cui ogni atteggiamento di rigida chiusura sarebbe contraddizione con ciò che si vuole testimoniare.
    Se alla comunità dei credenti è dato di superare l’atteggiamento di chi si chiude in difesa è perché attivamente possa testimoniare l’agire di Cristo nella storia mantenendo aperta la propria disponibilità anche di fronte al rifiuto.  Gesù è l’umanità compiuta perché non ha avuto bisogno di sconfiggere nemici per salvare gli uomini.  Proprio guardando alla Pasqua di Gesù la comunità cristiana può affrontare il rifiuto che la storia degli uomini sempre le farà incontrare senza dover vedere in ciò la necessaria conferma della propria autenticità; come chi ha sempre bisogno di confermarsi nella propria identità per contrappunto e scarto nei confronti di chi gli si oppone.  Neppure sentirà questo rifiuto come inesorabile realtà, di fronte alla quale non resta che rassegnarsi; sarà invece sempre impegnata a cercare vie che testimonino come la salvezza del Signore Gesù può realmente raggiungere tutti.
    Questo inno ci apre alle prospettive che abbiamo indicato proprio nel celebrare la lode di Dio per il dono della salvezza in Cristo Gesù. E’ così un invito a riscoprire il valore del celebrare e a maturare una partecipazione alla liturgia capace di rimotivare la fedeltà quotidiana.  La consapevolezza di trovarsi di fronte a «colui che è degno», la capacità di mostrare celebrando lo spiraglio della gloria futura che già accompagna il nostro presente può a un tempo rianimare le nostre assemblee liturgiche e fare di queste la sorgente che alimenta la quotidianità della testimonianza cristiana.

     Preghiera finale

    Tu sei risorto.
    Nella tua risurrezione la nostra vita risultò eterna.�
    Da quel momento, la speranza cristiana è la forza dell’uomo
    cui il credente deve portare testimonianza.�
    La gioia e l’amore sono lo spirito dominante del tuo Vangelo.
    Tu fosti la nostra Vita,
    «l’inizio di una nuova creazione».�
    Dopo la tua risurrezione la nostra vita di fede non può più naufragare.
    Davanti a te, non c’è smarrimento, peccato, o infermit�
    che il tuo amore non possa risolvere in una situazione di grazia.�
    E cosi si apre, mio Dio,
    nella realtà spesso così dura,
    una nuova possibilità di resistere,
    comprendere e sopportare cristianamente.
    (Ladislaus Boros)

    A partire dall’esperienza

    «Mi hai resa così ricca, mio Dio, lasciami anche dispensare agli altri a piene mani. La mia vita è diventata un colloquio ininterrotto con te, mio Dio, un unico grande colloquio.  A volte, quando me ne sto in un angolino del campo, i miei piedi piantati sulla tua terra, i miei occhi rivolti al cielo, le lacrime mi scorrono sulla faccia, lacrime che sgorgano da una profonda emozione e riconoscenza.  Anche di sera, quando sono coricata nel mio letto e riposo in te, mio Dio, lacrime di riconoscenza mi scorrono sulla faccia e questa è la mia preghiera.�
    Sono molto, molto stanca, già da diversi giorni, ma anche questo passerà, tutto avviene secondo un ritmo più profondo che si dovrebbe insegnare ad ascoltare, è la cosa più importante che si può imparare in questa vita….
    A volte mi ritrovo prontamente con una parola sola: Dio, e questa parola contiene tutto e allora non ho più bisogno di dire quelle altre cose.  E la mia forza creativa si traduce in colloqui interiori con te, e le ondate del mio cuore sono diventate qui più lunghe, mosse e insieme tranquille, e mi sembra che la mia ricchezza interiore cresca ancora».
    Da:   
    Hetty Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 1990, 253-254. 

    Hetty Hillesum, autrice del brano soprastante, nacque nel 1914 in una famiglia ebrea e mori ad Auschwitz nel novembre 1943.  Era una donna di ventisette anni che, nel periodo in cui l’Olanda fu segnata dalla guerra e dall’oppressione, visse un itinerario di crescita e di maturazione spirituale che la portò a scoprire la preghiera e a vivere grazie ad essa nel contesto della persecuzione.  Scrisse questa preghiera a Dio il 18 agosto 1943, in una lettera a un’amica, dal campo di concentramento di Westerbork.

     

    Magistero

    La lode nasce dalla contemplazione e dalla meraviglia avanti alle opere di Dio e a Dio stesso. Esprime amore dinsinteressato e gioia. E’ il culmine a cui tende la preghiera. Non per niente la liturgia conclude ogni salmo con la dossologia: “Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito santo, come era nel prencipio, e ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen” (Dal catechismo degli adulti, La verità vi farà liberi,  978)

     

     

     

  • 20 Feb

     

    Bisogna dunque che io
    lasci ogni immagine
    per pensare a te. Mio Dio.

    È una traccia nel deserto
    il cammino che mi porta a te,

    non ha sentieri segnati.

    E se mi perdo, ti trovo.

    Se mi perdo, tu vieni a me,

    mio unico e necessario Bene.

     

                         Anonimo del XIII sec.

  • 20 Feb

    Messaggio centrale

    Il Signore risorto sorregge saldamente la Chiesa e la chiama a discernere gli atteggiamenti che corrispondono alla sua vocazione.

    Contesto

    I capitoli 2 e 3 costituiscono la prima parte del libro dell’Apocalisse. 
    Essi contengono sette lettere scritte per altrettante Chiese dell’Asia Minore: Efeso, Smirne, Pèrgamo, Tiàtira, Sardi, Filadèlfla, Laodicèa. 
    Il numero simbolico delle lettere (sette), unicamente alla specificità e alla determinazione propria del loro messaggio per ciascun destinatario, richiamano sia la totalità che la concretezza: esse costituiscono nel loro insieme un messaggio che è per tutta la Chiesa, ma che ciascuna comunità deve calare nel concreto della sua storia.  Sono un invito ad operare un discernimento sul proprio vissuto, lasciandosi illuminare da Gesù Cristo, l’unico Signore della Chiesa.
    Le sette lettere sono precedute dalla visione che Giovanni ha del Signore Gesù, il Vivente glorificato (Ap 1,9-20). E’ il Signore che chiede a Giovanni di scrivere tutto ciò che vedrà e di inviarlo alle sette Chiese (Ap 1,11.19; cfr. anche 1,4-8). 
    L’intera Apocalisse si presenta così come una grande lettera
    Il dialogo che Giovanni instaura con le Chiese ha un valore ministeriale: è il servizio del testimone, tramite il quale il Signore stesso instaura il dialogo di salvezza con le comunità dei suoi servi.

    Struttura del testo

    Ognuna delle sette lettere presenta uno schema costante, composto di sei elementi:
    a. l’indirizzo alla Chiesa,
    b. l’autopresentazione del Signore,
    c. il discernimento sulla vita della Chiesa,
    d. l’esortazione conseguente,
    e. l’invito ad ascoltare lo Spirito,
    f. la promessa di un dono in prospettiva escatologica.

    Spiegazione

    All’angelo della Chiesa di Efeso scrivi:
    Efeso, una importante città dell’antichità, era situata sulla costa occidentale dell’Asia Minore ed era capitale della provincia proconsolare dell’Asia.  Per l’importanza del suo porto, fungeva da naturale punto di incontro tra occidente e oriente.  Per questo stesso motivo si era aperta anche al sincretismo religioso ed era divenuta un centro del culto imperiale.  La Chiesa di Efeso, sorta dalla predicazione di Paolo (cfr.  At 19,1-10), svolse nei primi secoli un compito di crescente importanza nell’irradiazione della fede cristiana in tutta la provincia.
    Come in tutte le altre lettere, nell’indirizzo iniziale si nomina il destinatario con la formula «all’angelo della Chiesa scrivi».  Con questa espressione si chiama in causa ciascuna Chiesa, riconoscendola però nella sua dimensione profonda: è la Chiesa in quanto è suscitata e sostenuta continuamente dall’azione di Dio e, per questo, porta in sé un’apertura a Dio.  La Chiesa è interpellata dunque secondo la sua vocazione, secondo le possibilità poste in essa da Dio.
    Così parla Colui che tiene le sette stelle nella sua destra e cammina in mezzo ai sette candelabri d’oro.
    La formula di autopresentazione, che in ciascuna lettera riprende          temi già espressi globalmente nella visione iniziale (Ap 1 1-20), invita a riscoprire l’identità del Signore.  Qui si mettono in risalto due aspetti: egli tiene nella destra le sette stelle e cammina in mezzo ai sette candelabri d’oro.  Le due immagini hanno un chiaro riferimento ecelesiologico, esplicitato dal Signore stesso: «Il senso nascosto delle sette stelle, che hai visto nella mia destra, e dei sette candelabri d’oro, è questo: le sette stelle sono gli angeli delle sette Chiese, e i sette candelabri sono le sette Chiese» (Ap 1,20).  Con queste due immagini, quindi, il Signore si presenta come Colui che è in grado di dare saldezza alla Chiesa, ne costituisce il punto di riferimento sicuro, e al tempo stesso come Colui che condivide il cammino della Chiesa, non la sottrae né la estranea alla storia.
    Conosco le tue opere, la tua fatica e la tua perseveranza, per cui non puoi sopportare i cattivi.  Hai messo alla prova quelli che si dicono apostoli e non lo sono, e li hai trovati bugiardi.  Sei perseverante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti. Ho però da rimproverarti di avere abbandonato il tuo amore di prima.
    In questi versetti si presenta il discernimento del Signore sulla vita della Chiesa.
    E’ introdotto dall’affermazione della presenza pienamente consapevole del Signore alla vita della sua Chiesa («conosco»).  Questo porta in luce aspetti positivi e negativi.  In positivo, si riconosce la vita della comunità nel trinomio «opere, fatica, perseveranza»: tre termini che si spiegano e si arricchiscono a vicenda.  Descrivono una fede operosa, che sopporta la fatica derivante dalla non facile accoglienza del messaggio cristiano e che matura nell’atteggiamento interiore della perseveranza, di un operare che scaturisce dalla fedeltà al Signore. 
    In negativo, viene denunciato un rischio mortale che sta per colpire la Chiesa: la carità, che ne è il cuore, rischia di perdere la sua ispirazione originaria, quella che scaturisce dal Signore.  L’«amore di prima» (v. 4) indica l’amore secondo la sua origine, secondo la fonte da cui scaturisce e che gli fa da norma.  E’ appunto l’amore che viene alla Chiesa dalla Pasqua del Signore: egli infatti è «Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue» (Ap 1,5).  L’amore rischia di raccorciarsi su criteri limitati e deboli, estranei al vangelo, perdendo totalità e freschezza.
    Ricorda dunque da dove sei caduto, convertiti e compi le opere di prima.  Se invece non ti convertirai, verrò da te e toglierò il tuo candelabro dal suo posto.  Tuttavia hai questo di buono: tu detesti le opere dei Nicolaìti, che anch’io detesto.
    L’esortazione, attraverso i tre verbi «ricorda, convertiti, compi le opere di prima», propone un percorso globale di conversione, di ricentratura attorno a ciò che è essenziale
    Questo percorso si nutre della memoria di ciò che sta all’origine della vita cristiana e sfocia nella rinnovata capacità di compiere opere secondo la qualità originaria dell’amore.  Si tratta di recuperare la buona memoria della propria vita, le ragioni profonde che hanno determinato l’adesione di fede al vangelo, di non vanificare l’orientamento, le opportunità di vita che il vangelo offre e di assumerlo come regola del proprio agire. 
    La Chiesa non deve omologarsi al mondo né appiattirsi sul proprio livello (e sui propri limiti).  Il suo riferimento costitutivo è il Signore, che è continuamente presente in mezzo ad essa e le rende sempre possibile camminare nella luce della Pasqua.  La rinuncia a questo slancio della fede non mette in gioco qualcosa di marginale, ma l’identità stessa della Chiesa, la sua posizione rispetto a Dio: «toglierò il tuo candelabro dal suo posto».
    Rimane tuttavia un elemento di pregio da sottolineare: questa Chiesa non si è piegata ai comportamenti scorretti dei nicolaìti.  Si tratta probabilmente di un gruppo di credenti che si erano avvicinati a un’eresia di tipo gnostico: non accordando alcun valore positivo alla realtà materiale e corporea della vita dell’uomo, potevano ritenersi esonerati da un effettivo impegno pratico nella carità e potevano sentirsi liberi di partecipare alle pratiche dei culti pagani (a loro viene rimproverato di mangiare le carni immolate agli idoli: cfr. Ap 2,14.20). Ciò fa riferimento a una scorretta comprensione dell’incarnazione di Gesù (il «docetismo», per il quale la carne assunta dal Verbo era solo apparenza).  Viene messa in risalto quindi la fedeltà della Chiesa di Efeso, che può far leva sulla sua retta fede, su una fede che non adatta Gesù Cristo alle tendenze correnti e neppure lo riduce a propria misura. 

    Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese
    Questo invito ad ascoltare ciò che lo Spirito suggerisce si ripete in tutte le lettere.  La possibilità di riscoprire il legame originario della Chiesa con Cristo e di sentirsi chiamati a rivitalizzarlo è frutto e dono dello Spirito.  Egli mostra alla comunità ecclesiale l’oggi della parola di Dio che è Cristo e ne fa affiorare la fecondità; fa in modo che il messaggio del Signore non ci rimanga esterno ed estraneo, ma pervada dall’interno lo spazio effettivo di esercizio della nostra libertà.  Occorre imparare ad ascoltare la sua voce, che fa risuonare e attualizza la parola evangelica attraverso testimoni e profeti, tramite l’appello interiore e la disponibilità all’ascolto

    Al vincitore darò da mangiare dall’albero della vita, che sta nel paradiso di Dio.
    L
    a promessa escatologica è per il «vincitore», per chi non si lascia vincere dalla fatica della prova, per chi non accetta di essere appiattito e omologato all’ambiente, per chi non allontana il suo amore dalla fonte originaria che lo sostiene. I vincitori sono tali perché sono associati alla vittoria di Cristo con la loro testimonianza (cfr.  Ap 2,26; 3,21; 12,1 1).  A loro è aperto l’accesso alla pienezza della vita, in Cristo.  L’«albero della vita, che sta nel paradiso di Dio» rinvia a Gen 2,9 e ritorna in Ap 22,2 ed esprime il pieno accesso ai beni della vita, desiderati e cercati sulla base delle promesse di Dio.  Nella comunione con il Signore, vincitore della morte, tale accesso sarà permanente e totale.  Ma si può pensare che già ora il fedele, nella misura in cui nella sua vita partecipa alla vittoria dell’Agnello immolato, sperimenti questa piena familiarità con Dio, che diventa visibile nella libertà e nella forza che sostiene la sua vita

     Significati per la nostra vita

    Il messaggio della lettera ridesta anzitutto nella comunità ecclesiale la coscienza di ciò che il Signore Gesù è per la Chiesa
    Il modo di presentarsi del Signore rimotiva la fiducia piena in lui: la Chiesa, pur nelle difficoltà e nella fatica di vivere la sua missione, è tenuta saldamente dalla destra del Signore.  Talora la luminosità del messaggio cristiano rischia di venire oscurata nella Chiesa anche dalla sfiducia di fronte alle difficoltà, dai limiti che si riscontrano in essa, dalla sensazione di essere poco significativi per il nostro mondo. 
    Il Signore si presenta alla nostra fede come il punto di riferimento incrollabile della Chiesa, Colui dalle cui mani non può essere sottratta la comunità dei suoi fedeli
    Egli non è distratto rispetto al nostro vivere: è in mezzo a noi (cammina in mezzo ai sette candelabri), conosce le nostre opere e ne garantisce la rilevanza decisiva in ordine alla salvezza (è il tema della promessa di vita per il vincitore). 
    Questo non giustifica il disimpegno o la facile illusione di un’assenza di fatica.  Piuttosto diventa motivo di fiducia e di impegno nell’offrire una gioiosa testimonianza di vita, propria di chi ripone la sua fiducia unicamente nel Signore e gode solamente di poter essere fedele a lui nella propria vita.
    Lo schema della lettera, con la concatenazione dei suoi elementi, esprime in maniera chiara anche un percorso di discernimento comunitario che viene sollecitato dalla parola del Signore.  Si tratta di un cammino che parte dalla presa di coscienza di sé, della propria situazione, sulla base della propria vocazione.  Se da una parte è il Signore che fa nascere la Chiesa ed è in lui che essa trova saldezza, dall’altra l’adesione di fede a Cristo apre alla comunità spazi sempre nuovi di testimonianza del suo Vangelo.  La memoria di ciò che sta a fondamento della Chiesa diventa suscitatrice di un concreto stile cristiano di vita e la spinge a recuperare le potenzialità che il Signore ha posto in lei. 
    Il riferimento continuo e normativo al Signore della Pasqua, quindi, non è solo criterio di verifica del proprio comportamento, ma anche garanzia di libertà rispetto a tutti quei modelli di vita che intendono addomesticare o appiattire la comunità ecclesiale su criteri di vita lontani dal Vangelo
    Attraverso il discernimento, la Chiesa è chiamata a ricentrarsi su Cristo, a custodire il legame originario e permanente con il SignoreAllentare questo legame significa indebolire la propria identità, perdere l’ispirazione autentica del proprio agire,  ricercare altre motivazioni che orientano e giustificano il proprio impegno
    Il rischio che questa lettera segnala e da cui deve guardarsi ogni comunità è quello di abbandonare «l’amore di prima».  Non è un’attenzione che proviene da un atteggiamento nostalgico, né deriva dalla semplice constatazione del venir meno dell’entusiasmo iniziale.  Il «primo amore», quello dell’inizio, è il cuore pulsante della vita ecclesiale: è l’amore di Cristo che trapassa nei cristiani e li rende capaci di dare la «testimonianza del loro martirio» (Ap 12,11).  La vita quotidiana dei cristiani è il luogo in cui questo amore si incarna, nell’infinita varietà delle situazioni, ma può essere anche il luogo in cui questo amore viene progressivamente rinchiuso in confini stretti, diventando meno libero e gratuito, non più aperto incondizionatamente agli altri, sempre più ripiegato su di sé e incapace di essere segno dell’amore di Cristo
    Si tratta allora di verificare la qualità «cristiana» dei nostri atteggiamenti e comportamenti, l’ispirazione «evangelica» del modo di investire le nostre energie personali e materiali
    Il dialogo che il Signore intrattiene con la sua Chiesa è anche fonte di incoraggiamento a una perseveranza quotidiana nella fedeltà al VangeloNon sono sterili la fatica e la perseveranza della comunità di Efeso e la sua ferma adesione al dato della fede in Cristo.  Ne consegue come frutto, non espropriabile da nessuno, l’autenticità di vita, la forza per non soccombere nelle difficoltà, la gioia di gustare il senso della propria vita quando prende la forma dell’amore come sgorga da Cristo.  In fondo, è l’esperienza della fedeltà di Dio che dà saldezza e consistenza di vita a chi gli si affida
    A confronto con questa esperienza si rende evidente la distanza di chi si pone dentro la comunità cristiana con uno stile e una proposta di vita che si discosta dal Vangelo (la lettera parla di «quelli che si dicono apostoli e non lo sono»).  La risorsa del Vangelo, cui attingere continuamente, e la disponibilità della propria vita, da alimentare ogni giorno, introducono nell’esperienza della pienezza della vita.  Se lo Spirito parla alle Chiese attraverso queste testimonianze, allora è possibile anche sostenersi e incoraggiarsi a vicenda proprio riconoscendo con gratitudine il cammino di conversione e i frutti di vita che lo Spirito stesso suscita nel cuore dei credenti.

     Preghiera finale
    Cristo, che costruisci la Chiesa, non per la divisione, ma per l’unità,
    non per l’orgoglio, ma per l’umiltà, sii benedetto,
    quando capovolgi i miei progetti per farmi scoprire la volontà del Padre. 
    Sii benedetto, quando scruti nel mio cuore,
    nei momenti in cui il tuo sguardo lo ferisce.
    Sii benedetto nell’immutabilità del tuo amore,
    nel quale trovo la forza per portare la mia croce,
    nel quale trovo il coraggio di seguirti. o Gesù,
    beatitudine e tenerezza di Dio, per me e per tutti,
    presente oggi, domani e nei secoli: sii benedetto. (Pierre Griolet)

    Una testimonianza…
     «Da quando ho posto davanti a me la parola di Dio come termine di confronto e come unica fonte di verità, i momenti di disorientamento della mia vita si sono diradati.  Rimane la consapevolezza delle difficoltà di seguire un cammino così radicalmente contrapposto con i modelli suggeriti dal mondo in cui mi muovo quotidianamente.
    Ho vissuto un forte disorientamento quando mi sono incamminato su questa via.  Non vedevo come avrei potuto rinunciare a tante mie consolidate convinzioni e a tante mie prerogative.  Ho dovuto faticare e battagliare bene prima di riuscire a vedere una meta che prima mi era occultata dall’orgoglio di essere il gestore della mia vita.
    Questa meta ora la scorgo.  La via per raggiungerla è cosparsa di ostacoli che vedo e di altri che vedrò nel prosieguo del cammino.  Ma questo non mi disorienta, anzi mi fa credere ancora di più che non devo togliere lo sguardo dal punto finale che a stento riesco a focalizzare.
    Mi rendo conto anche che questo andare non lo posso fare da solo.  Il procedere in quella direzione mi è consentito solo se lo compio in compagnia delle persone che con me stanno vivendo la medesima esperienza.
    La Chiesa è il luogo della crescita. E’ la vera e unica bussola, il cui ago è la parola di Dio, che ci può condurre in porto.  E’ il luogo di confronto con gli altri, è il punto di incontro.
    Ma la Chiesa che io sogno, credo sia quella che il Signore ci ha consegnato con la sua Pasqua, è una Chiesa in cui spariscono commissioni, consigli e chiacchiere.  Dove l’unica parola che si sente è la sua Parola, dove tutti cercano negli altri i motivi di unione piuttosto che quelli di divisione.
    Questa è forse una utopia.  Ma i motivi di disorientamento vengono più da un consiglio pastorale in cui si litiga per delle spese più o meno utili o da strane decisioni di “liturgia economica”.
    Di unione abbiamo bisogno tutti per crescere e per farci scrivere nel cuore l’amore che Dio desidera darci, per toglierci ogni dubbio sulle sue intenzioni su di noi». (Umberto)

     Lavoro personale 
    Ciascuno rifletta personalmente sulla seguente proposta:
    Alla luce del commento ciascuno individui le tappe da percorrere per operare un discernimento nella propria vita.
    – Immaginate che questa lettera sia scritta dal Signore alla tua comunità.  Prova a indicare «le opere, la fatica e la costanza» (Ap 2,2) che sono in atto in essa. 

    Criteri per il discernimento
    Il mondo, distinto e dipendente da Dio, è storia protesa al compimento in lui.  Quanto di buono cresce nella storia fiorisce nell’eternità.  Tutto è prezioso, anche «un bicchiere d’acqua fresca» (Mt 10,42) dato con amore.  In quanto preparazione e anticipo del Regno, la storia è il luogo dove agisce la Provvidenza divina e di questa azione è possibile discernere i segni indicatori: «Quando si fa sera, voi dite: Bel tempo, perché il cielo rosseggia; e al mattino: Oggi burrasca, perché il cielo è rosso cupo.  Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non sapete distinguere i segni dei tempi?» (Mt 16,2-3). I segni, ai quali Gesù fa riferimento, sono la sua stessa presenza, la sua predicazione e le sue opere. Ne preannuncia altri in un prossimo futuro: la rovina di Gerusalemme e la diffusione del vangelo attraverso la Chiesa.  I segni pubblici e non ambigui si riducono in definitiva a uno solo: Cristo annunciato e testimoniato dalla Chiesa.  In base a questo criterio occorre operare il discernimento riguardo a tutte le altre realtà storiche, per evitare di confondere i germi del Regno con le linee di tendenza prevalenti in una determinata epoca.  Altrimenti il discorso sui segni dei tempi si ridurrebbe a un’ideologia, per giustificare l’adeguamento al mondo e benedire ogni presunto progresso.  La Chiesa deve orientare la storia, non andarne a rimorchio. (Dal Catechismo degli adulti: La verità vi farà liberi, n. 1178)

  • 19 Feb

    Il Signore risorto si fa presente alla Chiesa perseguitata, diventandone il punto di appoggio che la libera dalla paura e la abilita alla testimonianza.

     Contesto

     Il contesto del brano è dato dai primi versetti dell’Apocalisse, che introducono l’intero libro con un prologo (Ap 1,1-3) e un saluto liturgico (1,4-8).�
    Nel prologo, Giovanni presenta il tema del libro.  Si tratta della «rivelazione di Gesù Cristo» e del risultato felice che essa produce in chi la accoglie e la mette in pratica: la proclamazione e l’ascolto portano alla beatitudine.�
    La destinazione dell’Apocalisse alla lettura in un’assemblea liturgica fa da sfondo a tutto il libro.  La forza del messaggio e la conseguente urgenza dell’ascolto danno preziosità al tempo: «il tempo è vicino», esso è ormai la grande opportunità da non perdere (v. 3).
    Con il saluto liturgico inizia propriamente la grande lettera alle Chiese che è il libro dell’Apocalisse: «Giovanni, alle sette Chiese che sono in Asia: grazia a voi e pace … » (v. 4).  Qui egli riassume il valore della Pasqua di Gesù con diversi titoli: «il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra» (v. 5). Gesù è il testimone che ha deposto a favore della bontà della causa di Dio tra noi; egli ha aperto per tutti la strada della vita; la sua guida della storia non può essere messa in scacco.  La comunità cristiana sa che tutta la storia è sotto la sua azione di liberazione dal male, si riconosce essa stessa edificata dal suo amore (v. 6). Per questo dal messaggio pasquale proclamato e accolto sale al Signore la professione di fede e la lode: «a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli».
    E’ per far riscoprire questo percorso di fede e di salvezza, in situazione di difficoltà, che Giovanni scrive alla Chiesa, accogliendo e adempiendo il suo ministero di servitore del Vangelo.
    A questo punto Giovanni inizia a raccontare la sua esperienza di rivelazione, ossia l’evento da cui è scaturito il motivo della sua opera. 

    Struttura del testo

     La narrazione si sviluppa in tre momenti:
    1. nel primo viene descritta la condizione personale ed ecclesiale di Giovanni come contesto della visione (vv. 9-1 I);
    2. nel secondo si descrive la visione del Signore in termini simbolici (vv. 12-16);
    3. nel terzo si riporta il dialogo del Signore con Giovanni (vv. 17-20).  

    SPIEGAZIONE

     a. La condizione personale ed ecclesiale di Giovanni

     La condizione in cui si trova Giovanni, quando è raggiunto dalla visione del Signore, fornisce un contesto significativo alla visione stessa.  Possiamo delinearla a partire da tre coordinate.
    In primo luogo è una condizione esposta alla prova.  Con tutti i credenti, di cui si sente fratello e compagno, Giovanni condivide la tribolazione a cui è esposto chi è coinvolto nel regno di Dio, nell’impegno che esso chiede.  Questa situazione diviene così appello alla perseveranza.  Nel suo caso, questa tribolazione ha la forma di una esclusione (esilio a Patmos, piccola isola rocciosa dell’Egeo, 70 chilometri al largo di Efeso), ed è dovuta al suo servizio della Parola e alla testimonianza resa a Gesù Cristo (v. 9).�
    Appartiene al Vangelo chiedere anche perseveranza faticose, perché non si raggiunge mai una piena coincidenza tra il Vangelo e la situazione storica.  Il messaggio di Gesù porta con sé una eccedenza e una novità che è fonte di gioia, perché rende liberi dai limiti della storia, e, simultaneamente, è fonte di fatica perché entra in tensione con tali limiti.
    In secondo luogo la condizione di Giovanni è caratterizzata dal «giorno del Signore». E’ l’unica indicazione di tempo che lo scrivente ritiene utile fornire per collocare il motivo del suo scritto.  Il «giorno del Signore» è il giorno della risurrezione di Cristo e del suo mostrarsi vivente; il giorno in cui alla comunità è dato di comprendere il senso della Pasqua, radunandosi a celebrare la «cena del Signore» (1Cor 11,20; solo in questi due casi compare nel Nuovo Testamento l’aggettivo kyriakos: «signorile»).  L’esperienza di Giovanni, in questo giorno, è frutto dello Spirito («rapito in Spirito») e diventa la sorgente del suo compito ministeriale.
    Infine è una condizione raggiunta dalla parola del Signore. Dalla Parola e in funzione della Parola che Giovanni ha una visione e riceve un incarico.  Egli «ode» e «vede» per scrivere alle «sette Chiese» (vv. 10-11).  Questa cifra, seguita dai nomi delle singole Chiese, diventa simbolica della Chiesa nella sua totalità e nella sua concretezza: è l’unica Chiesa del Signore, che però sussiste nella concretezza delle singole comunità. 

    B. La visione del Signore

     Giovanni «si voltò per vedere la voce» e «voltatosi, vide»: i due verbi connettono (con una certa forzatura) l’esperienza uditiva con quella visiva ed esprimono una percezione del tutto particolare, espressa in termini fortemente simbolici. Le diverse immagini cui Giovanni ricorre sono utilizzate non tanto per descrivere staticamente un oggetto, quanto per significare dinamicamente una realtà di ordine teologico.  Conviene quindi non fissarsi individualmente su ciascuna di esse, ma lasciarsi guidare dal movimento di senso che esse producono.  Qui sono utilizzate immagini desunte per lo più dall’Antico Testamento.  Esse tendono a raccogliersi attorno a due tematiche:
    a)   i segni della funzione sacerdotale-regale di Cristo (abito lungo, fascia d’oro…), i segni della sua realtà trascendente, appartenente alla sfera divina (capelli bianchi, il suo volto assomigliava al sole … ) esprimono la pienezza della presenza di Dio alla sua Chiesa (i sette candelabri e le sette stelle in mano al Signore);
    b)   i segni che rimandano alla figura del Messia che prende possesso del suo Regno (il figlio dell’uomo) dicono la funzione di giudice escatologico che Cristo risorto esercita, divenendo criterio ultimo di valutazione, con una parola capace di penetrare in profondità e di smascherare ogni altra pretesa di signoria sulla storia (la spada affilata a doppio taglio). 

    C.  La parola del Signore per la sua Chiesa

     Di fronte alla percezione del Signore nella sua gloria, la reazione di Giovanni (come quella dei profeti dell’Antico Testamento) esprime tutto il suo timore e il senso di inadeguatezza: «caddi ai suoi piedi come morto» (v. 17).  Il gesto delicato e forte del Signore, che posa la sua destra su di lui e lo incoraggia a non temere, mostra che il compito ministeriale affidato a Giovanni viene dal Signore stesso ed è possibile proprio perché egli abilita Giovanni a questo.
    Ciò che sostiene e motiva l’incarico di «scrivere alle Chiese» è dato dal Signore stesso nel suo modo di presentarsi.�
    Egli si qualifica come il Signore della Pasqua ero morto, ma ora vivo per sempre»), colui che possiede in pienezza la vita (è «il Vivente»), colui che è in grado di realizzare la salvezza in tutte le sue dimensioni (è «il Primo e l’Ultimo», ha «potere sopra la morte e gli inferi»). Ciò che sembra contrastare mortalmente la vita della Chiesa è già stato vinto dal Signore risorto.
    Il compito affidato a Giovanni trova così la sua conferma e il fondamento della sua forza: «scrivi dunque» (v. 19)!  Ciò che deve essere scritto, e di cui il libro dell’Apocalisse globalmente è testimonianza, riguarda le cose viste così come le cose presenti e quelle che devono accadere.  Le tre dimensioni del passato, del presente e del futuro diventano oggetto di testimonianza e di profezia nella misura in cui sono rilette nella luce della Pasqua di Cristo.�
    Egli introduce alla comprensione della visione, indicando i destinatari delle lettere: sono le sette Chiese.  Il duplice simbolo delle stelle identificate con gli angeli della Chiesa e dei candelabri le qualifica nella loro realtà terrestre e celeste.  Saldamente custodite dalla destra del Signore, le Chiese sono definite dalla relazione che il Signore ha stabilito con esse. 

    SIGNIFICATI PER LA NOSTRA VITA

     Presentandoci la visione di Giovanni, il testo ci fa attenti a come il Signore stesso si rivela ed entra in comunicazione con noi.�
    Giovanni è sollecitato a udire e vedereCiò che si fa udire e vedere è il Signore della Pasqua, il Risorto con la sua gloria, ma l’incontro avviene nella disponibilità all’azione dello Spirito che dinamizza le strutture normali, secondo le quali l’uomo si apre alla realtà: la percezione dei fatti nel loro significato. E’ questo il modo in cui le nostre esperienze diventano significative e «rivelative» e possiamo giovarci della condivisione dell’esperienza con gli altri.�
    Quanto più è grande la ricchezza di significato che gli eventi mettono a disposizione per la nostra vita, tanto più siamo sollecitati a vedere-udire in profondità, lasciandoci guidare dallo Spirito.�
    La trama delle nostre relazioni, dunque, può diventare il luogo in cui si percepisce la presenza e il significato della Pasqua, l’evento sempre disponibile alla vita dell’umanità.�
    Occorre chiedersi però come viene gestita la comunicazione dentro la comunità cristiana, che cosa viene messo a disposizione nella trama dei nostri rapporti, a che cosa si fa spazio nei momenti qualificanti della comunicazione ecclesiale.  La fiducia nell’azione dello Spirito, che valorizza la nostra umanità e la apre a Dio, può condurci a coltivare la nostra capacità di comprendere e di condividere le esperienze, piccole e grandi, nelle quali si rende presente la forza della risurrezione.
    E’ molto significativo per noi il fatto che Giovanni abbia avuto l’esperienza di questa visione nel giorno del SignoreLa condizione di tribolazione e di persecuzione, in cui egli si trovava, riceve la sua interpretazione adeguata e il suo sostegno incrollabile proprio nel giorno in cui la comunità si raduna a celebrare nel memoriale dell’eucaristia la risurrezione del suo Signore.  La domenica dunque si profila come il giorno dedicato dal Signore alla sua Chiesa, prima che giorno che la Chiesa dedica a lui; giorno in cui il Signore si dona alla Chiesa, prima che la Chiesa a lui.�
    Vissuta in questo modo, lasciando che il dono del Risorto rigeneri e ridefinisca le relazioni all’interno dei credenti e quelle tra la Chiesa e il mondo, la domenica diventa il giorno in cui la comunità cristiana è rivelata a se stessa nella sua identità, il giorno nel quale può riscoprire e riaffermare il senso del suo cammino nella storia e riscattare il valore della sua costanza nella fatica e nella prova.  Il radunarsi nella memoria del Signore e nell’accoglienza fraterna, l’ascolto della sua Parola, la comunione al pane spezzato e al calice del suo sangue versato, la festa della vita come affermazione della risurrezione, sono gesti che appartengono all’espressione fondamentale della fede e al cammino di crescita normale di una comunità.  Non si può ridurre la domenica alla questione del precetto e dell’astensione dal lavoro. E’ evidente oggi la necessità di riscoprire e di rimotivare il senso del giorno del Signore, radicandolo nella profondità della fede e nella concretezza del vissuto.
    L’esperienza vissuta da Giovanni esprime quasi un itinerario: dalla condizione di prova alla percezione della presenza del Signore, all’incontro con lui che si autopresenta.�
    La condizione in cui ci si trova può aprirsi al Signore e ricevere nuovo significato da lui.  Per Giovanni l’incontro con il Signore sfocia nell’incarico di scrivere alle Chiese.  Quando si raggiunge la consapevolezza che, anche nella nostra vita, ci è dato di essere partecipi dello stesso dinamismo pasquale di morte e risurrezione, allora diventiamo testimoni: abbiamo qualcosa di decisivo da comunicare, qualcosa che può diventare il punto di appoggio per sorreggere la quotidianità della vita cristiana e, talvolta, la fatica della fedeltà al Vangelo.�
    Uno dei primi doni per chi crede nel Signore risorto è il superamento della paura Non temere!»): la nostra vita, l’esito finale delle nostre fatiche, sono nelle mani di Colui che vive per sempre.  E questa la grande rivelazione che dallo scritto di Giovanni viene consegnata alle nostre comunità ecclesiali e che da noi non può che essere testimoniata nella gioia.
    Da ultimo, si può cogliere una suggestione nell’insistenza con cui Giovanni ripete il verbo «voltarsi»: «mi voltai per vedere», «appena voltato, vidi».  Non siamo mai del tutto orientati verso il Signore.  C’è una conversione continua che ci viene sollecitata dal dialogo che egli apre con noiMantenersi permanentemente rivolti al Signore è un atteggiamento di costante attenzione ai segni della sua presenza, a ciò che egli suscita nel cammino personale ed ecclesiale, a quel significato e a quel valore che la sua risurrezione può donare alla nostra esistenza.  Questa visione ci ricorda il momento iniziale di un cammino di vita cristiana e di servizio; ci invita anche a non smarrire l’orientamento a ciò che ne costituisce permanentemente il contenuto e la forza. 

    Preghiera finale

     Signore, nel momento della prova,
    ora che il dolore e la trepidazione gravano sul mio cuore,
    guidami con la chiarezza della fede
    a trovare in te l’aiuto e il conforto.
    Lo Spirito Santo mantenga in me la certezza di essere tuo figlio
    aiutandomi ad accettare tutto dalla tua mano.
    Persuadimi che tu, Padre,
    disponi gli avvenimenti al mio bene, rispettando la libertà umana.
    Fa’, o Cristo,
    che nella certezza del tuo amore
    io trovi la risposta a quelle domande che superano questo mistero umano.�
    Fa’ che senta sulla mia strada dolorosa
    il tuo passo sicuro che non mi abbandona.
    Credo in te, o Gesù,
    perché sei la Verità.
    Spero in te perché sei fedele.
    Amo te, perché sei l’Amore. 

    CARD.  GIOVANNI BATTISTA MONTINI

     PER APPROFONDIRE IL TEMA

     V. Frankl, medico e fondatore della logoterapia, che nei lunghi anni di permanenza nei Lager nazisti sperimentò come «la forza di reazione dello spirito» permetta all’uomo di affrontare con coraggio e dignità le situazioni traumatiche:
    Non vi è nulla al mondo che sia in grado di aiutare un uomo a superare disagi interiori o difficoltà esteriori quanto la consapevolezza di avere un compito specifico, il sapere che esiste un significato assolutamente concreto, non nel complesso della vita, bensì ora e qui, nella concreta situazione in cui egli si trova.  E questo si è visto ad esempio nei campi di prigionia.
    Tra gli studenti della mia università in California avevo anche alcuni ufficiali che avevano trascorso i più lunghi periodi di prigionia nei campi dei nordvietnamiti: celle di isolamento e altre cose del genere, semplicemente inimmaginabile.  E uno di loro addirittura per sette, dico per sette anni!  Ebbene, abbiamo organizzato una discussione pubblica, ed il risultato è stato che se c’è stato qualcosa che li ha tenuti in vita – e la stessa cosa la si può sentire dai reduci di Stalingrado e dai prigionieri dei campi di concentramento – era il sapere che nel futuro c era qualcosa che li attendeva.  Qualcosa o qualcuno.

    Da: V.E. FRANKL, F. KREUZER, In principio era il senso, Queriniana, Brescia 1995, p. 43)

    Invita, poi, a rispondere alle seguenti domande:
    – Quali aspetti di questo brano senti veri anche per la tua esperienza
    « … se c’è stato qualcosa che li ha tenuti in vita era il sapere che nel futuro c’era qualcosa che li attendeva.  Qualcosa o qualcuno».  Proviamo a dirci quali «presenze» nella nostra vita ci sostengono e danno senso al nostro cammino.
     In quali esperienze personali o comunitarie abbiamo intuito la presenza del Signore Vivente? – Come ci piacerebbe poter vivere le situazioni di difficoltà?
    –  Nella celebrazione eucaristica domenicale facciamo la stessa esperienza?
    Come possiamo aiutarci a vivere la domenica in questo modo?

     La domenica è il giorno del Signore risorto, la Pasqua settimanale.  Da sempre caratterizza la vita di ogni comunità e di ogni vero credente: «è il giorno del cristiano, il nostro giorno» (s.  Girolamo).  Ci riuniamo in assemblea per incontrare il Crocifisso risorto, per ascoltarne la Parola, per attuare la comunione con lui nell’eucaristia.  Facciamo festa; ci riposiamo dal lavoro; ci dedichiamo alla famiglia, agli amici, alla contemplazione, alle opere di carità, al gioco, al contatto con la natura.  Questi valori sono tutelati dal comandamento di Dio e dalle leggi della Chiesa.  Pregustiamo così l’ottavo giorno fuori del tempo, «la pace senza sera» (s.  Agostino), l’armonia perfetta del regno di Dio, e diamo significato anche ai giorni feriali della fatica. (Dal Catechismo degli adulti La verità vi farà liberi, n. 658)

  • 19 Feb

     

    Signore mio Gesù,

    quando le mie labbra si avvicineranno alle tue,

    fammi sentire il tuo fiele.

    Quando le mie spalle si appoggeranno alle tue,

    fammi sentire i tuoi flagelli.

    Quando la carne tua si comunicherà alla mia,

    fammi sentire la tua Passione.

    Quando la mia testa si avvicinerà alla tua,

    fammi sentire le tue spine.

    Quando il mio costato si accosterà al tuo,

    fammi sentire la lancia.

     

    Santa Gemma Galgani, Estasi

     

     

  • 18 Feb

    di p. Attilio F. Fabris 

     

     

    La predicazione del regno di Dio per cui Gesù spende tutta la sua vita appare fallimentare: farisei ed erodiani lo vogliono uccidere, i parenti lo ritengono pazzo, gli scribi indemoniato. Il suo ministero non è segnato dal successo, anzi! strada facendo raccoglie sempre più incomprensioni, fraintendimenti, rifiuto (cfr. 3,6).

    Gesù sperimenta che la proclamazione gioiosa del regno che si fa presente all’uomo non trova una risposta positiva ed entusiasta, ma ostilità e durezza, a volte reazione violenta.

    Lo sfondo della parabola evidenzia questa constatazione di una fatica che appare inutile. Attraverso essa Gesù dà una risposta.  In questa situazione difficile Gesù esprime la sua fede incrollabile nella missione affidatagli dal Padre. Egli afferma la sua fiducia, tra mille difficoltà, nella potenza di Dio. La sua Parola, è come il buon seme: seminato tra mille difficoltà, non potrà non dare quel frutto per cui è stata seminata.

     

    v. 1 : Cominciò ad insegnare

    Gesù è di fronte alla folla nell’atteggiamento del maestro che insegna stando seduto. L’insegnare (imperfetto: azione prolungata “insegnava”)  (didaskein) è una funzione riservata solo a lui. (I discepoli devono annunciare: kerussein Dopo il Regno annunciato mediante miracoli e parole che autenticavano la sua missione, ora Gesù inizia a spiegarne il mistero attraverso l’insegnamento delle parabole.

    Le parabole parlano attraverso immagini. Ora il parlare in immagini non è affatto meno impegnativo; anzi è più impegnativo di ogni parlare diretto, proprio perché esige una certa disponibilità a lasciarsi introdurre in un rapporto diretto con colui che parla. Cosicché la comprensione del messaggio contenuto nella parabola non è così immediato, non perché sia particolarmente difficile dal punto di vista concettuale, ma perché richiede una disponibilità d’animo a lasciarsi interrogare a livello profondo, nelle proprie scelte di vita.

     

    In riva al mare

    L’insegnamento si svolge sulla riva del mare: si tratta di un’indicazione teologico-geografica importante. Gesù come Mosè siede nel mare e si rivolge alla folla che sta a terra alla quale è rivolta una parola che invita ad una nuova esperienza di esodo.

    La parabola infatti si presenterà come una iniziazione al mistero pasquale.

     

    “Ascoltate”

    La parabola inizia e termina con l’invito all’ascolto. “Ascolta Israele” (cfr Dt 6,4-9) è la professione di fede e la preghiera quotidiana del popolo eletto

    Nel linguaggio biblico “ascoltare” è più del semplice sentire, e anche del comprendere. L’ascolto biblico indica il coinvolgimento di tutta la persona. La fede biblica si costruisce e si fonda sull’ascolto; essa crede in un Dio che parla e a cui l’uomo è invitato a rispondere. L’ascolto vero scaturisce nell’obbedienza nella fede. Gesù è modello di questa centralità dell’ascolto: venuto per “fare la volontà del Padre”, non può non essere costantemente in ascolto. Frutto del suo ascolto è la sua Parola (parole e segni).

    L’invito all’ascolto da parte di Dio è costante: la sua Parola è vita e luce per noi. “Ascoltate oggi la sua voce, non indurite il cuore” (Sal 94).

    In quale misura la mia fede si costruisce a partire dall’esperienza dell’ascolto?

      

    Uscì il seminatore:

    La figura del contadino svolge una funzione assolutamente necessaria. La parabola ci racconta il dramma del seminatore che esce a seminare con tutte le speranze e i timori che sono legati a questo atto. E’ il dramma di chi si appresta ad un gesto di cui non conosce ancora i risultati.

    Gesù è il seminatore. Egli è venuto per “seminare” il Regno di Dio nel mondo. Questa seminagione avviene mediante il ministero della Parola. Lui stesso si identificherà alla fine con il seme:In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24).

      

    v. 4-6 a seminare

    La parabola si comprende se si tiene presente che in Palestina al tempo di Gesù prima si seminava e poi si arava., ricoprendo il seme in attesa delle piogge. Questo sistema comportava che il seme potesse cadere ovunque: strada, sassi, rovi… e terra buona.

    Tutta l’attenzione della parabola si concentrerà sul seme e sulla sua sorte.

    Le quattro scene che raccontano la sorte del seme non raccontano quattro storie, ma una sola. Quella di un contadino che nello stesso giorno e nello stesso campo getta la sua semente.

    Prima di arare non si conosce se il terreno è profondo o no, se è adatto o no, se non nasconde radici di rovo o no. Occorre seminare ovunque e comunque.

    Il contadino che volesse essere sicuro in precedenza del risultato di ogni chicco non seminerebbe mai. Si mangerebbe in un mese quel sacco di grano che “gettato via”, diventa alimento per tutto l’anno dopo. La sua azione, apparentemente in perdita, conta sulla forza del seme. Sa, e per questo osa.  Occorre il coraggio della semina, sacrificare il grano all’oscurità della terra, così ostile e dura. A lui si adattano le parole del salmo 126: “Nell’andare se ne va e piange, portando la semente da gettare: ma nel tornare viene con giubilo, portando i suoi covoni”.

     

    v. 7 non diede frutto

    Il risultato di questa semina sembra disastroso.

    Il seme non attecchisce perché gli uccelli se lo mangiano, se attecchisce non riesce a crescere a causa del terreno sassoso, se cresce è soffocato dai rovi. Ci sarebbero buone ragioni per disperarsi!

    Eppure il contadino, come Gesù, va avanti nella semina, imperterrito.

    La domanda che sorge è una sola: Ma questa semina porterà frutto?

    L’ampiezza e l’abbondanza dei particolari nella descrizione della prima parte della seminagione rivela che ciò che fa problema è il riconoscere l’esistenza di un forte insuccesso.

    Nella semina l’occhio dell’inesperto non vede che spreco e fallimento, all’occhio esperto del contadino in quella stessa semina coglie una dimensione diversa: quella della certezza del raccolto finale abbondante.

    Lo stesso avviene per la potatura che riduce la vite a un aspetto desolante e spoglio, eppure il potatore in quei rami tranciati vede l’abbondanza dei grappoli e pregusta il vino migliore. Tema fondamentale della parabola risulta perciò essere la speranza, la fiducia. Il contadino, Gesù, vive l’esperienza di Abramo: si tratta di “una speranza contro ogni speranza” (Rm 4,18).

    Meraviglia lo spreco da parte del contadino, come meraviglia ancor più lo spreco da parte di Dio: non potrebbe o meglio non dovrebbe evitarlo? Per dare riposta occorre fissare lo sguardo su Gesù stesso.  Se la semina di Dio non è diversa da quella del contadino è perché all’origine dell’agire di Dio c’è una sovrabbondanza di amore che sembra spreco. In quest’ottica ci appare la passione e la croce di Gesù!

    I gesti del contadino rivelano in tal modo la “filantropia” divina, disinteressata e traboccante, senza calcolo e prudenza.

     

    v. 8 la terra buona

    Ma vi è anche la terra che accoglie il seme. Essa ripaga ogni fatica. Una terra che continua a dare frutto (dava: imperfetto un’azione continuata), in una percentuale strabiliante, assurda (cento per uno! Quando in Palestina si aggira intorno al 7,5 per uno).

    L’abbondanza della risposta della terra buona si contrappone al fallimento precedente. E’ un’abbondanza sorprendete: fuori misura! E’ una rottura dell’ordine naturale, il che sta ad indicare che il frutto del Regno sarà imprevedibile e straordinario. Dono libero e gratuito di Dio.

     

    v. 9 chi ha orecchi…

    E’ una frase di stile semitico. Si fa riferimento all’ascolto attento, all’orecchio proteso con attenzione alla parola. Suggerisce l’importanza ma nello stesso tempo il mistero di ciò che viene detto. Qui “orecchio” sta per intelligenza. Si richiede intelligenza e cuore. E’ una disponibilità che non tutti hanno, si dà infatti l’eventualità del non capire.

    Nella stessa semina e nello stesso tempo fallimenti e successi accompagnano l’opera del seminatore. Di fronte alla medesima Parola c’è contemporaneamente chi l’accoglie e chi la rifiuta.

    Da parte di chi semina non vi sarà la pretesa che il seme seminato debba sempre e comunque dare frutto. Piuttosto vi sarà la certezza che da qualche parte esso sta già dando frutto.

     

     

    Concludendo

     

    1. Il Regno è da Gesù spesso paragonato al seme, la cui forza e vitalità, viene proprio attivata da ciò che apparentemente appare come sua negazione: il suo essere gettato nella terra. Questo suo essere “gettato” è la condizione perché esso possa germinare.

    Nella parabola si cela il mistero della vita, si cela il grande mistero del Regno di Dio: il mistero della morte per la vita, il mistero di morte e risurrezione.

     

    2. La parabola racconta degli insuccessi e dei successi che il Regno di Dio può riscontrare quando entra nel mondo attraverso l’opera e l’annuncio di Gesù (e della comunità cristiana), e si comprende che ciò che costituisce il vero problema è l’insuccesso. Perché accade questo? Che cosa l’ha provocato?

    Di fronte all’insuccesso e all’ostilità Gesù non reagisce colpevolizzando la realtà o se stesso.

    Noi siamo facili alle colpevolizzazioni: colpevolizziamo il mondo che non accoglie e non capisce, oppure colpevolizziamo noi stessi dicendo: “sto sbagliando tutto!”. Di fronte ai nostri insuccessi accade che colpevolizziamo o ci scoraggiamo. Quando constatiamo che la nostra semina non porta tutto il frutto che vorremmo, cominciamo a fare letture aggressive o negative della realtà e delle persone che ci circondano, oppure entriamo in crisi di identità.

    Gesù non cade in questo tranello. Accetta che la storia abbia le sue sconfitte. Si inserisce nel tessuto della nostra storia e del nostro cuore così ambivalente e ambiguo. Accetta la fatica che essa sia dura, ma non per questo demorde dalla sua identità e dal suo messaggio. Non avviene una trasformazione per un atto magico, il regno di Dio si fa strada nel mondo facendo suoi tutti i limiti, le ombre, gli insuccessi. Noi vorremmo diversamente!

     

    3. Le parabole del seme gettato mentre fanno luce sul ministero di Gesù, offrono il criterio di discernimento per essere con lui. Non siamo chiamati a cercare il successo (vv. 3-9), la fama e la rilevanza (vv. 21-25), il protagonismo e la grandezza (vv 26-32).

    La Parola è un seme vivo che non può non produrre ciò per cui Dio l’ha mandata: “così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata” (Is 55,11).

     

  • 18 Feb

    di p. Attilio Fabris 

     TRACCE DI STORIA

    Con la scoperta a fine ‘800 del mondo sino allora sconosciuto e inesplorato dell’inconscio della psiche umana si aprirono orizzonti nuovi di lettura ed interpretazione dell’uomo. Sembrò, alla luce delle teorie psicanalitiche, di poter finalmente far luce e chiarezza in quelle dimensioni che sino allora erano state per lo più riservate alla competenza della sfera religiosa.
    Si andava incontro a due equivoci fondamentali.

    Il primo equivoco stava nella confusione e identificazione della dimensione psichica con quella spirituale: parlare di anima equivaleva a parlare di psiche.  La conseguenza fu che lo psicanalista veniva a soppiantare il confessore o  “direttore spirituale” in quanto la cura dell’anima coincideva con la cura della psiche. Così il fenomeno religioso insito nella natura umana veniva totalmente e sbrigativamente ricondotto e ridotto a semplici dinamismi, tensioni e pulsioni umane.
    Orgogliosa di questa autonomia la psicologia si staccò nettamente e si contrappose nettamente ad ogni interferenza con la religione arrivando a infelici e reciproci rifiuti e condanne. Dopo questa prima fase si passò nei primi decenni del secolo scorso ad una sorta di compromesso basato per lo più su un reciproco disinteresse, una sorta di separati in casa.
    La religione a sua volta accusava la psicologia di operare un indebito riduttivismo, di inalberare lo stendardo della “psicologia senz’anima”.

    Il secondo equivoco stava nel fatto che da entrambe le parti si cadeva nel trabocchetto che conduceva al vicolo cieco e insolubile di un’inevitabile dualismo di stampo cartesiano.
    Da un lato – quello della psicologia – si voleva prendere in considerazione e ipotizzare un uomo chiuso in se stesso e tutto determinato dai suoi bisogni (e in questo caso non aveva senso parlare di un’insita apertura dell’uomo al Trascendente).
    Dall’altro lato – quello della religione – si cadeva in una rivendicazione, dettata per lo più dalla paura della critica distruttiva, di una vita spirituale estrinseca da tutti i fattori e dinamismi umani e psichici.Ovvio che tale dualismo costringeva come inevitabile conseguenza ad impossibilità di incontro e di dialogo.
    Ultimamente il panorama della ricerca psicologica (pensiamo alla logoterapia di V. Frankl, alla nascita di psicologie umanistico-esistenziali) e nello stesso tempo un cambiamento dell’orizzonte culturale dettato dalla crisi delle scienze umane sta lentamente portando sia il mondo degli psicologi come quello dei teologi e degli operatori pastorali ad un incontro e dialogo del tutto nuovi, sino a giungere in taluni casi ad una vera e propria collaborazione.
    La vera psicologia sta prendendo sempre più coscienza della sua impossibilità di offrire quelle risposte ultime e di senso che solo un discorso spirituale può affrontare: essa molto spesso giunge (o aiuta a giungere) ad un confine che non le appartiene più.
    La religione prende sempre più atto che nel fatto religioso intervengono necessariamente dinamismi psichici che possono sostenere o talvolta ostacolare una matura esperienza religiosa.

    Oltrepassata la contrapposizione o sovrapposizione indebita si inizia ad accettare da ambo le parti che l’uomo non può essere “ridotto” a puri bisogni e dinamismi biologici e psichici, e dall’altro che la vita spirituale agisce necessariamente nell’umano (gratia supponit naturam) e in quanto tale si incarna nello psichismo dell’uomo, ovvero proprio nei suoi bisogni e nelle sue dinamiche interiori.
    Non ha più senso perciò voler separare questi vari elementi quasi che l’uomo fosse una sorta di giustapposizioni di vari strati. L’uomo è un tutt’uno! (sarebbe da rivalutare in tal senso tutta l’antropologia biblica) e in quanto tale il fattore psichico e quello spirituale vanno intesi come “bipolarità”, nella quale i due poli non sono contrapposti, ma interagiscono dando vita ad una tensione in cui entrambi i fattori costituiscono un unico vissuto. Ed è ovviamente auspicabile che entrambi funzionino al meglio possibile!
    Si comprende allora che non si tratta più con supponenza da ambo le parti di voler ricondurre tutto allo psicologico o allo spirituale come se l’uomo fosse tutto angelo o tutto bestia. Il dualismo cartesiano, almeno in teoria, sembrerebbe e dovrebbe essere ormai decisamente superato. Dunque se si agisce con verità, correttezza e autentica professionalità il dialogo e la collaborazione sono di fatto possibili, anzi auspicabili se da entrambi le parti si riconoscono e accettano le reciproche competenze senza indebite invasioni di campo. 

    INTERAZIONE NECESSARIA 

    Si tratta ora di abbozzare alcune idee circa le linee concrete di dialogo e collaborazione tra i due campi di competenza.
    uesto dialogo e collaborazione tra i diversi operatori divengono in qualche modo necessari quando una persona domanda di essere accompagnata psicologicamente o spiritualmente, ovvero fa ricorso all’operatore psicologico o pastorale.
    Mi soffermo ovviamente su quest’ultima relazione. Un tempo essa si identificava con l’incontro col confessore o col cosiddetto “direttore spirituale”.  Oggi in verità si preferiscono altre denominazioni per indicare quest’ultimo ruolo, volendo togliere l’impressione di una sorta di indebita – e  rischiosa – “direttività” a cui forse un tempo si faceva fin troppo ricorso. Oggi si preferisce parlare perciò di di “accompagnatore spirituale”, “consigliere spirituale” o “guida spirituale”.
    Quali i punti di incontro e di competenza tra lo psicologo e la “guida spirituale”?
    Si tenga anzitutto presente che sia lo psicologo che la guida spirituale usano il medesimo strumento della parola e della relazione. Da qui la possibilità della confusione o di indebite interferenze. Ma pur usando il medesimo strumento i due ruoli e servizi possiedono caratteristiche molto diverse.
    La diversificazioni stanno:
    – nell’obiettivo che ci si prefigge, (per la psicologia è aiutare la persona a funzionare correttamente a livello psichico nel rapporto con sé, con gli altri. Per la religione sta nel favorire la persona ad aprirsi all’esperienza del trascendente e alla ricerca di senso nella propria vita)
    – sul tipo di rapporto tra i due interlocutori,(per la psicologia esso si struttura su una dinamica tra medico e cliente che retribuisce il servizio richiesto, per la religione esso si costruisce su una dinamica di tipo fraterno e gratuito)
    – nelle disposizioni interiori che li animano, (per la psicologia la disposizione è professionale medica per la religione cristiana essa è pastorale spirituale)
    – nell’ambito in cui il discorso si muove, (per la psicologia l’ambito è quello dell’esplorazione e guarigione del mondo immanente psichico; per la psicologia cristiana l’ambito è spirituale ovvero il vissuto interiore spirituale. E in tal senso l’incontro si struttura in una relazione non a due come con lo psicologo ma a tre in quanto sia la persona che richiede aiuto, sia l’operatore hanno come riferimento il Trascendente)
    – nel luogo stesso in cui si svolge l’incontro (per la psicologia l’ambito è quello clinico-ospedaliero-ambulatoriale per la religione cristiana l’ambito è generalmente quello ecclesiale).
    Tener sempre presente da ambo le parti queste diversificazioni è importante per non ingenerare deleterie confusioni che alla fine vanno a discapito della persona e del servizio da lei richiesto.
    Certamente quando la guida spirituale intraprende il suo servizio pastorale di ascolto e accompagnamento spirituale necessariamente entra – come si è sopra ricordato – anche nell’ambito dello psichico, non ne può rimanere fuori. In tal senso la sua azione ha sempre indirettamente un risvolto curativo sulla psiche umana se ben condotto. La stessa cosa dotrebbe avvenire anche in sano accompagnamento psicologico.
    La guida spirituale che accompagna la persona all’incontro con il Trascendente e a strutturare la vita tenendone conto non può ignorare tutte quelle componenti umane che interferiscono, facilitano od ostacolano questo obiettivo. Emergono in tal modo aspetti conflittuali o addirittura nevrotici nel qual caso si necessita – se gravi – la collaborazione e il supporto in ambito competente psicoterapeutico o psichiatrico.
    Non mancano poi casi (e sono la maggior parte!)  in cui si domanda alla guida spirituale la soluzione di problematiche che non sono di sua competenza: sofferenze psichiche e talvolta psichiatriche sono spesso comunicate al confessore o al sacerdote. Tali persone caricano spesso di significato religioso problemi e sofferenze che sono di tutt’altra natura ovvero legate al loro vissuto psicologico malato. Ovvio allora che l’operatore pastorale attento, trovandosi di fronte a tali situazioni, aiuti queste persone a rivolgersi alla competenza dello psicologo o dello psichiatra. In questi casi da parte dell’operatore pastorale non solo è saggio ricorrere alla psichiatria e/o psicoterapia, ma addirittura doveroso (il che purtroppo – occorre riconoscerlo non accade – provocando talvolta danni notevoli!).
    D’altro lato però accade, e forse più di quanto si vorrebbe ammettere, che delle persone facciano ricorso allo psicologo o allo psichiatra per problematiche che se ascoltate attentamente oltrepassano la sofferenza psichica, andando molto più in profondità e domandando risposte che le scienze umane non sono in grado di offrire: ricerca di senso, esperienza di vuoto, insoddisfazione… forse rappresentano sofferenze più spirituali che psichiche (se è vero come affermava Jung che “dopo i quarantenni ogni disagio psichico è in realtà un disagio spirituale”!). E come possono la psicologia e la psichiatria  offrire autentiche soluzioni e risposte a tali disagi che in realtà sono domande di natura essenzialmente spirituale?
    Non sarebbe allora altrettanto doveroso da parte dello psicologo-psichiatra demandare alla competenza del religioso l’aiuto su questo versante?
    In molti casi un auspicabile lavoro di èquipe faciliterebbe in tal senso sia gli operatori psichiatrici come quelli pastorali andando a beneficio della totalità della persona stessa alla quale i loro servizi sono diretti. Si tratterebbe in tal senso di ricercare una interdisciplinarietà capace di co-agire in vista della crescita ed equilibrio della totalità della persona e non solamente di un polo!.
    Questa interazione a mio parere è purtroppo ancora carente e vista in modo sospettoso. Occorrerà camminare e sperimentare molto in tale direzione anche se non mancano giù ora tentativi coraggiosi.
    Ci auguriamo in un futuro non troppo lontano che, pur attraverso una chiara e indispensabile distinzione di piani, si possa cooperare in sinergia al fine di aiutare l’uomo di oggi a recuperare tutte quelle necessarie dimensioni che atrofizzate portano solo a squilibri e dunque a sofferenza

    LA  CONDIZIONE. UN‘ANTROPOLOGIA CONDIVISA 

    Vi è comunque una condizione previa e fondamentale sulla quale non si può assolutamente sorvolare perché si possa attuare questa sinergia in modo positivo: è necessaria la condivisione sempre da ambo le parti di una fondamentale visione antropologica.
    Questo concretamente comporta da un lato che il medico riconosca l’apertura alla trascendenza come costitutivo alla pienezza dell’essere umano e dall’altro che l’operatore pastorale riconosca la validità e talvolta la necessità di un intervento previo o concomitante specificatamente medico nel suo intervento spirituale riconoscendo che esso si incarna anche nella psiche del paziente.
    Dove mancasse questa reciproca stima e riconoscimento si darebbe adito da entrambi le parti solo a doppi messaggi talvolta contraddittori che andrebbero a discapito, a volte in forma grave, della persona sofferente.
    Concludendo occorre poi accennare come non è più possibile parlare, in una cultura ormai variegata, di apertura al religioso in senso generico.
    Oggi il rischio della psicologia è di guardare alla religione in senso per lo più “funzionale” (Allport-Vergote), ovvero in un suo utilizzo pseudo-religioso di stampo new o nest-age.  Occorrerà perciò tenere presente che la proposta religiosa cristiana si caratterizza per una sua antropologia ben specifica che la differenzia nettamente da altre proposte religiose. Lo psicologo che desidera operare in rapporto al fattore religioso non può tralasciare quest’aspetto nei confronti della persona che domanda il suo aiuto.
    Ma qui il discorso si amplia ulteriormente aprendosi su un orizzonte di riflessione molto vasto forse ancora tutto da esplorare.

     Bibliografia

     S. Fromm-Reichmann F.: Principi di Psicoterapia, Feltrinelli, Milano  1976
    Catalan J.F., Esperienza Spirituale e Psicologia, Ed  Paoline, Cinisello B. 1993
    Cruchon G., Il sacerdote consigliere e psicologo, ed Marietti, Torino 1972
    Zavalloni R., Psicologia e Spiritualità, in “Dizionario di Spiritualità”, Ed Paoline, Cinisello B. 1970
    Avoy J.M., Direction Spirituelle et Psycologie, in “Dictionnaire de Spiritualité, ed Du Cerf III, 1143-1173, 1956
    Fassino S. et Alii, Manuale di Psichiatria BioPsicoSociale, CSE, Torino 2007
    Nathan T-Stengers, Magia, ed Boringhieri, Torino
    Massone A-Lanzini I, Valori e limiti della psicoterapia,  ed Salcom, BdB/VA, 1992
    Nathan T.-Stengers, Medici e stregoni, ed Boringhieri, Torino 1996
    Brenner, Beve corso di psicoanalisi, ed Martinelli, Firenze
    Freud S, Opere, ed. Boringhieri, Torino

  • 17 Feb

    Gesù comincia il suo ministero all’ombra di Giovanni Battista, battezzando. In realtà Gesù ha la delicatezza di non battezzare ma lo fa fare ai suoi discepoli.
    Malgrado ciò, nasce una polemica su chi battezza di più: lui o Giovanni. Quando Gesù si accorge di ciò decide di andarsene e di tornare in Galilea con i suoi discepoli. Pensiamo che non debba essere stata una decisione facile, perché mettere su un movimento non è una cosa che si fa in due giorni. Prima di creare questo flusso di persone che venivano a farsi battezzare, Gesù e i suoi hanno lavorato tanto. Constatare che è difficile aiutare l’uomo, fare del bene, vedere come ciò che fa è strumentalizzato per rivalità, il pettegolezzo, etc., deve essere stato una prima esperienza di Passione per Gesù. Gesù non esita: se quello che fa in qualche modo può essere strumentalizzato per fare del male al suo amico Giovanni, Gesù lo abbandona. Sceglie di affrontare un lungo cammino fisico di ricerca: almeno 150 chilometri, in direzione di casa sua e dei discepoli.

    Gen. 29, 1: nessuno riusciva a spostare la pietra dal pozzo … ovvero. Giacobbe ha convinto gli altri pastori a rimuovere la pietra mentre si avvicinava Rachele. E’ il pozzo dove Giacobbe ha incontrato Rachele. Anche in Gen. 24,10 Eliezer trova una moglie per Isacco ad un pozzo. Il pozzo è il luogo dove le persone possono incontrarsi. Un punto d’incontro, perché tutti hanno bisogno dell’acqua. Il bisogno spinge le persone ad incontrarsi. I luoghi d’incontro sono frequentati per la loro capacità di soddisfare a questo bisogno.
    Essendo il pozzo un buco che penetra la terra, esso è simbolico di quanto l’uomo deve fare per andare oltre ciò che è superficiale. Ci afferma che oltre la banalità dell’esistenza esiste la possibilità di soddisfare il bisogno dell’uomo. E’ simbolico di una relazione che va in profondità, che non rimane allo stato epidermico.

    Quando arrivano al pozzo, verso mezzogiorno, sono almeno al secondo giorno di cammino. Gesù è sì stanco per aver camminato, ma forse anche per ciò che ha vissuto esi è lasciato alle spalle.
    Gesù si accorge che da lontano una donna sta arrivando per attingere acqua dal pozzo. Solitamente le donne ci si recavano la mattina e forse dopo pranzo per rigovernare e preparare la cena, ma non certo per l’ora di pranzo; e tanto meno da sole. Il pozzo solitamente rimaneva in un luogo isolato per non inquinarlo i rifiuti del centro abitato. L’acqua era preziosa e andava tutelata. 

    Perché tu Samaritana vai al pozzo a quest’ora da sola?
    – Non voglio incontrare le altre donne del paese perché sono cattive con me, mi considerano una poco di buono, mentre in realtà loro sono peggio di me ma vogliono salvare la faccia. Le odio. E poi perché mi fanno soffrire con i loro sguardi e le battute. Sono tutte invidiose. E poi a me piace stare da sola.
    – Ma non è che hai qualche altro fine, magari quello di incontrare una carovana di stranieri?
    – In effetti, preferisco gli stranieri alla gente di questo stupido paesino dove mi tocca vivere.
    Dietro il primo fine di andare a prendere l’acqua ecco che il cuore persegue un altro fine: sedurre. Cosa fa Gesù? Fugge perché una donna vuole abbordarlo? Le regole non permettono di parlare con una donna, e neanche a lei è permesso parlare; ma Gesù è assetato e non ha una brocca, e questo lo spinge a chiedere: una situazione d’emergenza che è prevista dalla legge. Però se era normale chiedere da bere, non lo era chiederlo ad una samaritana. Gesù si espone ad un rifiuto vivendo il rapporto con l’altra con naturalezza e verità. Al di là di quelle che potrebbero essere le intenzioni dell’altra, Gesù vive quelle che sono le sue, d’intenzioni. Gesù esprime il suo bisogno: “Dammi da bere”.In che tono Gesù avrà pronunciato quella frase? Un tono supplichevole di chi ha i complessi d’inferiorità nei confronti dell’altro sesso? O di chi è talmente assetato che sbava per un sorso d’acqua? Un tono autoritario, tipico del maschio che si sente superiore a una donna, per giunta samaritana? Un tono mellifluo, mieloso di chi già pregusta quello che avverrà dopo? Un tono seduttore che cerca di far presa sulle corde emotive dell’altra? Un tono losco di chi fa finta di essere innocuo per poi saltare addosso alla preda improvvisamente? Il tono di Gesù esprime semplicemente il suo bisogno di bere e la capacità di entrare in relazione con l’altra in maniera totale e profonda come il pozzo, senza doppi fini. Gesù non ha paura: non si lascia prendere da timori.
    Continua a essere se stesso, e essere se stesso significa vivere il suo bisogno. Quanti giri di parole faremmo noi, per riuscire a stabilire un rapporto prima di manifestare il vero bisogno? Gesù non dice nemmeno per favore: ma dall’ascolto che abbiamo fatto, dal tono di voce e dallo sguardo sappiamo che il suo non è un imperativo violento. L’atteggiamento di Gesù è di trasparenza. La persona che ha a che fare con lui può costatare quali sono le intenzioni del suo cuore, essere trasparenti vuol dire consegnarsi nelle mani dell’altra, giocare a carte scoperte, vuol dire la morte dell’orgoglio, della superbia. Come si può entrare in relazione con l’altra senza il rapporto sessuale? Si può entrare in comunione senza vedere sullo sfondo dell’incontro un letto? Non siamo capaci di scavare il pozzo dell’amore autentico. Questa donna ha la brocca per attingere al pozzo dell’amore carnale, affettivo, ma non ha la brocca per attingere al pozzo dell’amore autentico; anzi: nemmeno sa che esiste il pozzo dell’amore vero.

    Avvicinandosi a Gesù si accorge che è un Giudeo. Anche se ci va per rimediare rimane spiazzata dal tono di Gesù, dal suo sguardo, si sente confusa, ed è costretta a ripararsi dietro un comportamento formale, che le consenta di studiare l’avversario e vedere il gioco che fa: “Come mai tu…”. A quanto pare lei non rifiuta di dargli da bere ma si mette giocare con il bisogno di Gesù.
    Avrebbe potuto rifiutargliela o dargliela e ritirarsi in buon ordine. Lei preferisce attaccare bottone. Lo fa tirando fuori una vecchia polemica e sarebbe interessante cogliere il tono della sua voce. E’ una provocazione. Un modo per rompere il ghiaccio, una frase mediante la quale la samaritana costringe Gesù a scoprirsi: “Se tu, giudeo, hai tutto questo poco rispetto delle vostre consuetudini, significa che non hai solo l’intenzione di bere”. La samaritana usa il bisogno di Gesù. Vede che è assetato e che lei ha la risposta al suo bisogno. Gioca con questo bisogno esercitando potere su di lui. E’ questa la tecnica di potere che usiamo solitamente nelle nostre relazioni: una volta individuato il bisogno dell’altro ed entrando in possesso di quanto possa soddisfarlo esercitiamo potere ora soddisfacendolo, ora lasciandolo a secco. Le relazioni del nostro “amore” sono delle compravendite in cui ognuno vende qualcosa in cambio di altro. Gesù invece gioca in perdita: non ha paura di entrare in relazione con qualcuno giudicato impuro e che, secondo la religione giudaica, è causa di interdizione alle pratiche di culto, e quindi alla stessa relazione con Dio. Gesù, pur di entrare in relazione con questa donna, compie qualcosa che contraddice principi e convinzioni alle quali lui tiene moltissimo e che ha sempre praticato fedelmente per tutta la vita. E questo Gesù lo fa anche per un incontro occasionale, che durerà poco tempo, che forse non avrà un seguito, perché per lui ogni persona è importantissima, come se fosse l’ultima con cui entrare in relazione prima di morire. Davanti alla reazione della donna come avremmo reagito noi a nostra volta? Saremmo entrati in polemica? Ci saremmo ritirati con la coda fra le gambe?

    Però ecco che Gesù, introducendo degli elementi nuovi nel dialogo, comincia a giocare su doppi sensi: parla di acqua ma intende un’altra acqua, che è il suo amore. Un’acqua sconosciuta, ma viva. Gesù capisce che questa donna sta manifestando il suo bisogno di relazioni nuove. Non si scandalizza, non gli fa la morale, preferisce accogliere il suo bisogno ma senza giocarci e andando alla radice di esso.
    Per farlo mette subito Dio al centro del discorso: “Se tu conoscessi il dono di Dio”… Gesù vuole portarla a vedere il suo vero bisogno, quello di cui ha paura e che non vuole affrontare se non superficialmente. Gesù ha chiaro che Dio può, tramite lui, rispondere al suo bisogno. Gli propone acqua viva, acqua che scorre come quella del Giordano, che non imputridisce, che lava, che disseta e da sollievo.
    Anche questa è una tecnica di approccio: le frasi a doppio senso portano i due a muoversi in una determinata direzione, a vedere se l’altra ci sta. Solo che i doppi sensi di Gesù si muovono in una direzione a noi sconosciuta. “Se tu conoscessi il dono di Dio”. Gesù ha la sfacciataggine di proporsi come qualcosa di speciale, come uno che, dal canto suo, può soddisfare la sete di lei, con un acqua particolare, come se lui fosse stato mandato sulla sua strada da Dio stesso, come un dono. Sembra quasi che dica “Tu non sai chi sono io”. E’ la consapevolezza di Gesù di essere quello che è, senza falsa modestia, ma dalla finalità non di ottenere un riconoscimento di questo mondo, ma in funzione della Gloria a Dio. Questo si può evincere dal comportamento complessivo di Gesù, senza isolare la frase dal resto del racconto. Gesù ha chiaro quello che ha ricevuto, e quello che può dare. Gesù vuole aiutare questa donna a scoprire qual è il suo vero bisogno, cos’è che in fondo cerca veramente, ma non sa di averne bisogno. E Gesù, per far questo, sposta il discorso su Dio, mette Dio al centro. Quello che Gesù dice è misterioso: cosa sarà questa acqua viva, e che personalità sarà quella di uno che addirittura si presenta come un dono di Dio, un inviato di Dio?
    Siamo di fronte a un pazzo, un millantatore, uno sbruffone che ostenta grossolanamente le sue capacità per sedurre? O veramente questo uomo ha qualcosa di diverso dagli altri? La donna si domanderà in se stessa chi sarà mai questo uomo: l’unico a cui si può paragonare, stando alle sue parole, è il patriarca Giacobbe. Lei lo aggredisce il giusto, per farsi accogliere. E una tecnica di potere con la quale cerca di manifestare il suo desiderio ma in modo velato.
    Tutti abbiamo bisogno di entrare in relazione con tutti, ma nessuno lo fa correttamente: o fuggiamo per paura, o cerchiamo di conquistare con gli strumenti di potere. Non siamo capaci che di scavare pozzi di acqua che ci disseteranno per sempre: una volta che abbiamo spremuto una persona cominciamo ad innamorarci di un altra. L’unico che può salvare l’umanità da questa incapacità, è colui che sa veramente amare di un amore qualitativamente diverso, un amore che cerca il bene dell’altra, dell’altro.
    L’unico è Gesù.

    Non ti scoraggiare, quindi, davanti alla falsità delle tue relazioni: è possibile ancora oggi costruire relazioni autentiche attingendo a questa sorgente di amore che è Gesù. Anzi, questa messa che stiamo vivendo è già questa relazione autentica di Gesù con noi e di noi fra noi stessi. Non troverai fuori di qui la possibilità di essere pienamente te stesso, solo che tu lo voglia. L’amore di Dio è qui e ti sta amando. Io faccio finta di dare per prendere, Dio invece chiede per dare.
    Come ci dirà Gesù, questa donna ha avuto cinque mariti: la sua è una coscienza inquieta, in continua ricerca di appagamento, ma niente la appaga fino in fondo. Dove sono quegli uomini? Le relazioni che si impostano sull’esercizio di potere, sono destinate a finire molto presto. Questa ricerca della donna, la porta ad avere un atteggiamento aggressivo, la manifestazione del suo bisogno, pur non essendo trasparente, è densa di volontà di esercizio di potere: una coscienza abituata alla schermaglia. “Se tu conoscessi…” Gesù invece la accoglie con dolcezza; e questo è un atteggiamento che comporta una fatica interiore, per non scendere sullo stesso piano dell’altra, è trovare in se la sorgente di un amore diverso, che ama per primo, che è gratuito. Gesù, inoltre, non n’approfitta, non fa finta di restare calmo, per poi, al momento opportuno, sedurla. Non ha doppi fini. E ancora non ha un atteggiamento moraleggiante: non gli fa nessuna predica, non le impone dei pesi che non è capace di capire la ragione per cui li dovrebbe portare; né, ammesso che lo capisse, potrebbe portare. Eppure per una coscienza morale come quella di Gesù, sensibile a tutto ciò che può essere contro la verità nei rapporti deve essere doloroso astenersi dal farlo. Questa donna, come vivrà accoglienza di Gesù? Non la fraintenderà? Non è abituata ad essere trattata così: non ha mai conosciuto uno che si comporta correttamente con lei, penserà che è un poco di buono.
    Da una parte provoca Gesù, ma quando l’altro esce dai miei schemi, faccio fatica a capire dove vuole andare a parare, c’è poco da fidarsi. Forse è un poco di buono. Gesù accetta il rischio del coinvolgimento, pur di andare incontro a questa donna. Come sempre, ogni persona che incontra è importante per lui. Si consegna alla violenza del cuore di questa donna, vuole fargli fare l’esperienza che c’è uno in questo mondo, che non approfitta di lei, e che gioca a carte scoperte. La donna per tutta la vita non ha fatto altro che provarle tutte, per togliersi questa sete che la divora. Ma sono state sempre delle sorgenti che non gli hanno tolto la sete: è sempre questa cammella vagabonda che vaga, sempre in cerca. Ma ora sente che la relazione con Gesù, questa conoscenza, il coinvolgimento di lui con lei, è un’acqua diversa: si sente rinfrancata, si sente capita, non si sente giudicata. Man mano che parla con Gesù sente accoglienza, tranquillità, sente che quest’acqua che le propone Gesù, la sta già bevendo, anche se ancora non capisce di cosa si tratta. Gesù non pretende di più e va avanti con una domanda: “Vai a chiamare tuo marito…”.

    Gesù usa una parola molto delicata che bisognerebbe reinventare oggi: una parola che indica sia il marito, sia un uomo qualsiasi, di modo che la donna può rispondere o eludere la domanda chiaramente a doppio senso. Gesù non le fa violenza ma se vuole, capisce che Gesù a messo il dito sulla sua piaga. Non è una domanda polemica o impertinente. Se lo fosse lei scatterebbe o si chiuderebbe. Gesù deve averla amata molto perché lei possa avere accolto questa domanda rimanendo calma e riflessiva. Finalmente ha trovato qualcuno con cui giocare a carte scoperte, con cui può parlare liberamente, sente liberazione, guarigione. Gesù non dice alla donna di lasciare quest’uomo, Gesù è fraterno nel suo atteggiamento. Anche se è un amore vissuto in un modo disordinato, basato su giochi di potere e di sfruttamento, Gesù non viene ad affossarlo… anzi: con la sua acqua Gesù viene a salvarlo, a far sì che non rimanga allo stadio di quell’amore che poi finisce, come sono finiti gli altri matrimoni nella vita di questa donna. Condizione essenziale per dissetare qualcuno è l’avere chiaro qual è la sua sete, sia per lei sia per lui. Per ciò Gesù la porta ad un atteggiamento di confessione. Non è facile, perché scattano le paure e la gelosia di sé. Questa donna rispondendo alla domanda di Gesù si apre ad una condivisione della sua vita.
    Potrebbe anche essere un altra provocazione, come se dicesse: “Non ho marito quindi sappi che sono disponibile per te”. Ma Gesù preferisce farle sentire che lei è importante per lui ma che non vuole sfruttarla. Continua a farle vedere che ha chiaro che tipo di donna è lei, ma accogliendola.
    Dire: “non ho marito” è anche dire: “sono povera, ho bisogno di te”, è una confessione. Alla sua violenza Gesù risponde fraternamente ed è probabile che gli costi. Non le fa la paternale, non affossa il suo amore umano, anche se è disordinato. Gesù viene per ordinare l’amore umano offrendo la sua acqua.

    Lei non capisce ma sperimenta che l’accoglienza di quest’uomo la fa stare bene; si sta già dissetando. Si sente accolta, illuminata e tranquillizzata. E’ la condivisione della sua vita che le fa sperimentare l’acqua viva. Scopre che è importante per lui, che è disposto a sacrificarsi per lei, ad esporsi a critiche. La donna riconosce che Gesù è un profeta, cioè che è stato inviato da Dio per lei. Tuttavia comincia a tirare fuori delle questioni teologiche… l’adorazione, Samaria, Gerusalemme…Certamente sono problematiche autentiche, e che risolte possono dare un’intesa migliore, però che bisogno c’era di tirarle fuori proprio mentre la relazione è diventata così intima?
    La Samaritana fa una domanda: chi ha ragione? Noi o voi? E’ meglio la nostra religione o la vostra?… Perché una donna che è abituata a dissetarsi al “pozzo” anziché in Chiesa fa domande di carattere religioso? Forse cerca un argomento religioso per far vedere che è in grado di reggere il confronto con il personaggio che ha davanti e che mette sempre Dio al primo posto. Manifesta un desiderio di continuare a parlare con quest’uomo, ma per favore cambiamo argomento. E’ come dire: mi piace chiacchierare con te ma non parliamo dei miei mariti, dei miei problemi affettivi. Mi fa soffrire troppo. La donna in realtà, non riesce a sostenere il rapporto con Gesù, pur sentendo il bisogno di continuarlo, cambia discorso. Cosa è successo? Non riesce a vivere la sua verità, è caduto quello schermo, quella maschera con la quale si poneva in relazione con gli altri, e non è capace di vivere senza, non abituata a vedersi e a farsi vedere così alla luce del sole. Nelle nostre relazioni ci presentiamo agli altri con un’immagine, e questa ci fa da schermo fra quello che presentiamo e quello che siamo in realtà, Gesù si mette in relazione senza schermi. Quello che è, mostra, anzi, è capace di accogliere l’altro per quello che è, e non per quello che mostra. Ma questa donna non è abituata a stare in questa verità: ha paura di sé, di Gesù… E Gesù sembra che si sottometta a questa richiesta. Comincia a parlare della controversia Giudeo-Samaritana, ma con grand’abilità torna a bomba sul problema centrale di questa signora: il problema del Padre, e gli presenta un Dio Padre che si fa mendicante d’adoratori in spirito e verità.
    La invita ad avere con Dio lo stesso rapporto che sta instaurando con lui, un rapporto fatto d’autenticità, di verità. Lei scappa di nuovo: “So che deve venire il messia”… E’ quasi offensiva, come se dicesse: “Ma tu che ne sai? Chi sei per venirmi a smuovere questi problemi?”

    Ma Gesù insiste: “Il Messia sono io, non scappare, fidati. Vedo che sei spaventata. Non vedi che sto servendo la tua vita? “Lei vorrebbe stare con Gesù, ma non con se stessa. Parlare sempre d’altro, degli altri, ma non di se stessa. Gesù è molto delicato, sta al gioco, come sempre, capisce la difficoltà della coscienza della donna, rispetta i suoi tempi, però, nello stesso tempo, cerca di riportare il discorso al punto principale: Dio! Il Padre … Gesù parla del Padre, fa capire che lei ha bisogno del padre, della paternità, lei ha bisogno di entrare in questa relazione autentica con Dio, e conoscere che egli è padre. Nonostante tutta quest’accoglienza di Gesù, la donna tira fuori la storia del messia. Possiamo immaginare che sia lecito indagare sull’identità di una persona prima di dargli fiducia, eppure dà proprio l’impressione che tenti ancora una volta di svicolare, In fondo chiede a Gesù di dire esplicitamente che è il messia, oppure che Gesù, riconoscendo di non esserlo, si metta in relazione con lei non avanzando pretese di coinvolgimento, perché la persona che veramente potrà dare una risposta al cuore dell’uomo deve ancora arrivare. Ancora una volta, proprio dietro una giustificata domanda, si cela un atteggiamento, di resistere fino alla fine prima di dare veramente fiducia ad una persona, il cuore non si arrende, dentro si è ingaggiata una battaglia terribile: quest’uomo si è messo completamente a servizio della mia persona, quest’uomo mi sta aprendo delle prospettive infinite per la mia vita di donna, per la mia relazione con Dio, sto facendo un’esperienza come mai prima nella vita, e proprio per questo ti metto i bastoni fra le ruote, ti metto alla prova, ti torchio fino alla fine, fino a farti uscire l’anima, perché non mi fido, e mi fiderò solamente quando vedrò scorrere il tuo sangue, quando vedrò che sei schiattato sotto i miei colpi, la mia insistenza , la mia riprovazione. A questo punto, Gesù, in un ultimo svuotamento di sé, deve dire ciò che è il segreto intimo, più intimo della sua vita, deve manifestare se stesso fino in fondo, e correre il rischio di essere rifiutato, lì dove poi non è possibile fare più niente. Infatti dopo queste ultime parole di Gesù non c’è più niente da dire: se la Samaritana lo rifiuta, Gesù non ha più carte da giocare, e questo sarebbe disastroso per la samaritana stessa. Anche quest’ affermazione di Gesù, la massima che si possa pensare, potrebbe essere intesa come un’affermazione potente e sovrastante, come si conviene ad un figlio di Dio, invece va proprio letta in questa chiave passiologica, in quest’atteggiamento autosvuotante. Lei vorrebbe stare con Gesù, ma non con se stessa. Parlare sempre d’altro, degli altri, ma non di se stessa. A questo punto succede un fatto decisivo: tornano i dodici.

    Per la donna è un momento decisivo. Adesso saprà se Gesù fa sul serio con lei. Potrebbe aspettarsi un voltafaccia di Gesù, come forse farebbe lei se arrivasse gente del paese.
    Adesso vede che Gesù è disposto a compromettersi con lei anche pubblicamente: quest’uomo è disposto a pagare per lei. Temeva che finisse l’incantesimo del rapporto con lui, ma Gesù non l’abbandona, non si preoccupa di salvare la faccia. In quel mentre tornano i discepoli, e questo è un avvenimento che pone Gesù nella condizione di perdere ancora la sua vita. Essi si avvedono che Gesù sta parlando da solo con una donna, sta facendo qualcosa che va contro la legge, questo è causa di scandalo in loro.
    Inoltre sanno che Gesù è affamato, invece non manifestano niente a Gesù: non sono premurosi, non gli domandano nemmeno se ha bisogno di qualcosa. I dodici, nel tentativo di riallacciare un dialogo con Gesù, tirano fuori il discorso del mangiare, un po’ come noi quando vogliamo stare con qualcuno e lo invitiamo a cena. Al di là delle situazioni di difficoltà, ci deve essere in ogni caso un rispetto per le necessità fondamentali delle persone, i conflitti avvengono per essere risolti, per essere momenti di crescita. Le chiarificazioni avverranno, ma non è giusto trattare l’altro in questo modo, ignorando i suoi bisogni fondamentali, eppure questo fanno gli apostoli; e inoltre, non gli manifestano le loro perplessità riguardo al suo comportamento, ma stanno zitti. Come fa male questo silenzio ostile, meglio quando le cose te le dicono in faccia: questa è guerra fredda.

    Gesù non ha cambiato atteggiamento con lei, malgrado questa presenza dei dodici che lo stanno a guardare in cagnesco. A questo punto la Samaritana è talmente contenta che sente il bisogno di andare a comunicare la sua gioia a tutto il paese; proprio a quei paesani che prima evitava, e va a raccontare quello che non permetteva a nessuno di raccontare: “tutto quello che ho fatto”. Prima di partire lancia a Gesù un altro messaggio trasversale: “lascio qui la mia brocca per che torno subito e so che tu mi aspetterai e che mi posso fidare”.
    E’ probabile che domani questa donna tornerà al pozzo con le altre donne e non più da sola perché si sente riconciliata con se con Dio e con il paese. Lei che è un’avventuriera solitaria, ora si accorge che Gesù la far stare bene anche pubblicamente. Il suo star bene diventa riconciliazione con il suo paese, va alle persone con le quali sta in lotta da una vita, e non ha più paura di essere se stessa, di riconoscere il male che ha fatto, di annunciare quello che gli è successo, e ha lasciato la brocca lì, per dire che sarebbe tornata, perché uno così non lo ha mai incontrato e con lui vuole continuare a camminare.

    “Rabbì, mangia”. Qual è il sentimento interiore degli apostoli? Sono ancora meravigliati per l’atteggiamento, il comportamento di Gesù, perplessi. Bisogna ristabilire la relazione, ma da dove si parte? La situazione contingente di essere tornati con il cibo per Gesù, diventa l’occasione per ricominciare il discorso: si offre da mangiare, si racconta la visita in città e poi si affronta la questione della samaritana.
    “Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete”. Gesù si sta nutrendo interiormente di quello che è avvenuto fra lui e la samaritana. E’ assorto. E’ contento di quello che è avvenuto, contento che questa donna abbia accolto la sua parola, abbia accolto la sua persona, abbia accolto la verità di Dio. Questo dà una gran gioia a Gesù: e’ il senso del suo essere nel mondo, del suo esistere, è la ragione per cui si è sentito inviato dal Padre. Questo è un alimento per Gesù, é nutrimento. Gesù, per i discepoli, sta da un’altra parte. Sta dalla parte più autentica, che nemmeno le necessità materiali riescono a mettere in secondo piano. Tuttavia ciò che dice Gesù è enigmatico: per chi non si mette in atteggiamento di ascolto la sua affermazione rimane su un piano strettamente materiale. Ma Gesù risponde che ha già mangiato.
    I discepoli non capiscono che Gesù è assorto, che sta vivendo un momento di intensa preghiera di ringraziamento al Padre, perché la conversione di questa donna da significato a tutta la sua incarnazione, alle sue fatiche e sofferenze.
    Gesù sa che se ha potuto operare questo miracolo è grazie alla sua comunione con il Padre e alla loro interazione. Gesù gode di questa collaborazione con il Padre e raccoglie il frutto del suo essersi esposto, del aver amato per primo.
    Gesù vuole preservare questo momento che lo sta nutrendo profondamente, ma i dodici non capiscono il suo bisogno. Gesù dice “Io ho un cibo che voi non conoscete, che è fare la volontà del Padre mio. Cioè quello che ho appena fatto con questa donna e che mi appresto a fare con tutti i samaritani che verranno qua, accogliere, parlare dell’amore di Dio per l’uomo, del fatto che non fa differenze di persona, che il Regno viene”.
    “Qualcuno forse gli ha portato da mangiare?” La considerazione sembra essere pertinente, circostanziale. Eppure dovrebbero essere abituati a vedere Gesù assorto, il maestro rivolto verso qualche finalità a loro ancora oscura. Invece, come quasi sempre, le loro coscienze sono sorde, indurite. I malintesi hanno sempre origine da una mancanza di ascolto della propria e dell’altrui coscienza.
    “Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera”. Ora Gesù chiarifica il suo atteggiamento: qualunque cosa abbia fatto è opera di Dio; è sempre stato così, e lo è stato anche in questo frangente. Questo è cibo, perché viene incontro al bisogno più profondo dell’uomo: la comunicazione alla e della vita. Comunicazione alla vita: Gesù è profondamente attento a ciò che il Padre dice, a ciò che il Padre vuole, è in atteggiamento di ascolto: questo è basilare per l’ebreo, e nella tradizione biblica ascoltare la parola è la stessa cosa di nutrirsi della parola. Comunicazione della vita: perché, proprio ascoltando, Gesù arriva a sentire che la stessa parola vuole comunicarsi a quella persona che è capitata davanti a lui.

    “Non dite voi: ci sono ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco io vi dico: levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura”. C’è qualcosa di illogico: se mancano ancora quattro mesi come è possibile che i campi siano pronti già per la mietitura? Capiamo che Gesù ha una visione profetica da comunicare ai suoi discepoli. Il piccolo episodio della samaritana e dei suoi compaesani, che a loro volta stanno arrivando, è diventato una piccola porta da dove guardare verso il futuro, e Gesù vede il frutto della sua missione, alla quale vuole associare i suoi discepoli.
    “In ciò si avvera la parola che uno è colui che semina e uno è colui che miete. Io vi ho mandato a mietere ciò che voi non avete lavorato, e voi siete entrati nel frutto del loro lavoro”. Gesù è profondamente cosciente che l’immensa opera del Padre, può essere portata avanti solo attraverso una stretta collaborazione con lo stesso. Questo è vero per lui, che è stato docile a quanto lo Spirito del Padre ha fatto nel cuore della samaritana, ed è vero ancor di più per i discepoli che potranno fare questo solo in collaborazione con gli altri. L’opera grandiosa del Padre ci trova inseriti già in un flusso di vita che non possiamo mai dominare totalmente.
    “Vi ho mandati a mietere ciò che non avete seminato”. Noi sappiamo che molti hanno seminato prima di noi, i discepoli sanno che Gesù ha seminato prima di loro, ma chi ha seminato per Gesù nel cuore della Samaritana tanto da permettere questa conversione apparentemente cosi improvvisa?

    Da quanto tempo lo Spirito di Dio lavora nel cuore di questa donna? Forse da anni sente questo ritornello dentro di se: “Dov’è tuo marito? Di chi mi posso fidare? Chi sarà fedele alla mia vita?”. Gesù ha colto l’opera di Dio in lei e glie l’ha rivelata. Per ciò Gesù si sente collaboratore del Padre e gioisce di ciò. Questa è una grossa botta per l’orgoglio umano che vuole essere il solo ed assoluto protagonista. Ma è una buona notizia per chi si sente sovraffaticato da una responsabilità al di sopra delle sue forze. Inoltre è una visione, questa della direzione generale del Padre, che suscita sentimenti di gratitudine e di glorificazione. Lui è il vero artefice di quest’opera, lui è immensamente proteso verso le sue creature.
    I samaritani credettero in Gesù, perché avevano potuto costatare che quello che aveva fatto nella samaritana era un’opera di Dio. Era riuscito a portarla ad un ravvedimento, a un’ascolto di se stessa e di quello che aveva fatto. E Gesù è invitato a rimanere. In loro c’è voglia di condividere, di conoscere meglio questo maestro. Anche i samaritani, conoscendo Gesù, hanno una visione profetica: il loro incontro con lui è una piccola porta dalla quale danno uno sguardo sul futuro e sull’eternità, e si accorgono che quest’opera di Gesù è qualcosa destinata a crescere a dismisura fino ad abbracciare il mondo intero. Lui che è stato capace di superare le barriere fra giudei e samaritani, è uno che ha dentro di sé il germe di un’universalità senza confini: è veramente il salvatore del mondo.

    Quale immagine di Gesù ricaviamo alla fine di questo lavoro su Gv 4 ? Un Gesù che ha una gran capacità di relazione, perché non ha paura di essere rifiutato: sia quando la samaritana potrebbe farsi forte del fatto che non si poteva rivolgere la parola ad una donna sola, e che non correvano buoni rapporti fra giudei e samaritani, sia quando i discepoli tornando non comprendono il perché stesse a parlare con lei. Un Gesù che è paziente, e sa educare il bisogno della samaritana ad indirizzarsi verso Dio. Un Gesù che può dare qualcosa che nessuno al mondo può dare: qualcosa come un’acqua viva che sazia il bisogno del cuore dell’uomo, qualcosa che dà la possibilità di dare un culto autentico a Dio: in Spirito e verità; un vero cibo, che è la volontà di Dio che è il compito che Dio dà ad ognuno di svolgere su questo mondo. Un Gesù che non conosce barriere culturali o religiose, ma sente di entrare in relazione con tutti e che per questo è definito dagli stessi samaritani come “Salvatore del mondo”. Cosa ci dice il Signore attraverso questo quadro sulla persona di Gesù? Che esiste un uomo che è capace di entrare così tanto in relazione con gli altri da saziare quella sete di amore che c’è nel cuore di ognuno. Una parola questa che c’esorta a non disperare: è possibile per te, per noi sperare, credere che è possibile ancora avere questa risposta al nostro  bisogno di avere relazioni autentiche nella nostra vita. Questa parola ci dice ancora che ora, in questo momento il Signore ti dà la possibilità di avere questa nuova relazione, questa relazione autentica con gli altri. Questa relazione autentica comincia qui, attraverso la chiesa. La chiesa è questa che ora comunica con te e ti dice una parola vera, una parola autentica, e che può salvare la tua vita, così che anche tu, come questi samaritani, possa dire che questo Gesù è veramente il salvatore del mondo.
    Anche oggi Dio continua a creare qualche cosa nella vita di ognuno di noi. Non è un creatore andato in pensione.
    Signore rendimi attento alla tua opera dentro di me affinché la tua parola possa illuminarmi come quel giorno ha illuminato la Samaritana.

  • 16 Feb

     

    Voglio ricordare le mie passate sozzure,

    le oscurità della mia anima,

    non perché le ami,

    ma per amare te, Dio mio.

    Lo faccio per amore del tuo amore,

    rievocando le mie vecchie strade perverse.

    Il ricordo è amaro,

    ma spero che mi riesca dolce tu,

    dolcezza che non inganna,

    dolcezza felice e sicura.

    E per amore del tuo amore,

    tendo a raccogliere me stesso

    dalla dispersione in cui mi trovai,

    frantumato in mille pezzi,

    quando, allontanandomi da te,

    che sei l’Uno,

    mi ridussi a un nulla,

    sperdendomi nei molti.

     

    Agostino di Ippona, Confessioni II, 1,1

  • 15 Feb

    di p. Attilio F. Fabris 

     Lettura del testo

    v.11: “Un uomo”. E’ Dio. Egli è insieme padre e madre, legge e amore. Il nemico ce lo fa vedere solo come legge e identificare con la nostra coscienza che ci rimprovera. Per questo Gesù sottolinea le qualità materne “del Padre”.
    “Aveva due figli”. I “due” figli indicano la totalità degli uomini. Peccatori o giusti, per lui siamo sempre e solo figli. Per questo ha compassione di tutti e non guarda i peccati. Noi non sappiamo che lui ci è Padre e ignoriamo di essere fratelli se non per litigare sull’eredità. Lui invece sa che siamo suoi figli nel Figlio.

    v.12: “Padre”. Così lo chiama il minore. Non tanto per dei sentimenti positivi, quanto per far valere i propri diritti. Lo conosce come uno che gli deve dare delle cose: sente verso di lui un rapporto soffocante di dipendenza. Difatti, pur vivendo della sua eredità, si allontana da lui, perché lo sente come antagonista della sua libertà. E’ come Adamo.
    “La parte di sostanze che mi tocca”. Al minore, vivente il padre, spettava il possesso ma non l’uso e l’usufrutto, di un terzo del patrimonio liquido. Oltre ai soldi, che sono strumento, il figlio rivendica l’autonomia, una vita piena, che lasci ovunque i segni della propria gioia. Questo ci spetta, questa è la nostra parte (Sap 2,9)! I desideri profondi del cuore nostro vertono su ciò che Dio ha in proprio e di cui noi abbiamo bisogno. Da qui può nascere l’invidia e l’avversione a Dio come nostro antagonista.
    “Divise per loro la vita (i beni)”. Ma Dio non è antagonista. Concede ai suoi figli tutto quanto ha. Aveva anzi già dato ad Adamo quell’uguaglianza che lui poi volle rapirgli (Gn 1,27-3,5). Il peccato sta nel rubare ciò che è donato, nel possedere in proprio ciò che non può che essere dell’altro.
    Dio in realtà darà all’uomo non solo ciò che crede che gli spetti. Gli darà ben di più: la sua stessa vita, facendosi suo servo e schiavo. Per sé ogni dono, per quanto piccolo, è un segno di un’altra: il donarsi del donatore. Le richieste che i due figli fanno al Padre (sostanze e capretti) sono sempre piccole e meschine rispetto al dono che egli vuole fare:se stesso. 

    v.13: “Non molti giorni dopo”. E’ l’ansia di vivere, la fretta di godere! La nuova vita è breve; non c’è rimedio quando uno muore, e non si conosce nessuno che liberi dagli inferi (Sap 2,1).
    “Raccolto tutto”. Non lascia nulla di ciò che è suo. Si porta via tutto. Manca l’essenziale: l’amore del Padre del quale tutto è dono. Chi si allontana da Dio può ancora vivere dei suoi frutti: l’amore, la gioia, la giustizia, la pace, ma non per tanto! Estinto il capitale cessano anch’essi. Tramontato il sole, non tarda a venire la notte. L’abbandono del Padre porta presto alla carestia generale. Il nichilismo è l’erede naturale dell’ateismo!
    “Emigrò in un paese lontano” Le prime parole che Adamo rivolse a Dio sono: “Mi sono nascosto” (Gen. 3,9ss.). L’uomo, nella sua fuga, è andato in un paese lontano: lontano dal volto di Dio e dal proprio. Ma lontano da chi, lontano da dove, se Dio è ovunque e nel cuore di ognuno? Appunto, lontano da tutto e da sé. L’uomo è ovunque straniero, perché estraneo al suo volto.
    Là sperperò la sua sostanza”. Il figlio, lontano dal padre, perde la sua sostanza. Perde se stesso, il suo essere figlio. E’ un ruscello che si taglia fuori dalla sorgente da cui scaturisce.
    “Vivendo insalvabilmente”. L’uomo, unico animale cosciente di morire, perso il rapporto con la propria fonte, cerca tutte le briciole di vita per soddisfare la propria sete; si vende e si prostituisce ad esse. Ma sono idoli che danno morte. La strategia del piacere tradisce un’angoscia mortale: “Su godiamo dei beni presenti, facciamo uso delle creature con ardore giovanile! Inebriamoci di vino squisito e di profumi, non lasciamoci sfuggire il fiore della giovinezza, coroniamoci di boccioli di rose prima che avvizziscono, nessuno di noi manchi nella sua intemperanza. Lasciamo ovunque i segni della nostra gioia, perché questo ci spetta, questa è la nostra parte” (Sap. 2,6-9). Tutto questo perché sappiamo che la “nostra vita è breve e triste” (Sap. 2,1). Nell’angoscia che tutto è nulla, si riempie inutilmente il vuoto con tutto, che viene mangiato dal nulla. Credere di godere la vita senza Dio è come voler respirare senza l’aria. 

    v.14: “Dilapidato tutto”. L’uomo spende con ansia tutta la sua vita nella paura della morte. Mediante questa il diavolo, autore della morte (Sap 2,24) lo tiene in schiavitù per tutta la vita (Eb 2,15), fino a quando la sacrifica tutta.
    “Carestia forte per quel paese”. In “quel paese”, lontano da Dio, c’è sempre carestia forte. Il piacere soddisfatto alimenta il bisogno, l’ansia di vita si nutre di paura della morte. L’appetito vien mangiando. Quando c’è fame grande, allora inizia la carestia, forte e generalizzata. Si estende su tutto “quel paese” che, lontano da Dio, resta solo e sempre bisognoso di vita.
    “Cominciò a essere nel bisogno”. Al di là di ogni falso pudore ciò che ci avvicina a Dio è il bisogno. Egli non è il tappa-buchi dei nostri bisogni. Però l’uomo stesso è bisogno di Dio. Solo lui è in grado di colmare quell’abisso che egli è. Fatto da lui, solo in lui è se stesso. “Essere nel bisogno” in greco (hystereìsthai) per sè significa: “essere dopo, essere secondo”. Alla pretesa iniziale di autosufficienza, si contrappone la situazione di fatto. In realtà Dio è primo, e l’uomo secondo: viene da lui e realizza se stesso ritornando a lui. 

    v.15: “Andò ad incollarsi”. Chi emigra da Dio, sua vera casa, va a “incollarsi” a un estraneo al quale cede la propria libertà. Chi aveva sofferto della vicinanza del Padre, va a servire padroni stranieri. Respinti Dio, che lascia liberi anche quando si sbaglia, si serve necessariamente l’idolo. L’uomo non è ateo: è idolatra. Anche quando non lo sa. E’ infatti sempre in potere di ciò che si pro-pone: diventa l’oggetto del suo desiderio, davanti a cui sta. L’idolo lo assimila a sé, sostituendosi a colui che già prima l’aveva fatto simile a sé.
    “Lo mandò”. Chi s’allontana dal Padre diventa triste emissario dell’idolo che lo incarica di nutrire i suoi abomini. Diventa schiavo e venduto al peccato, che aderisce a lui come lui ha aderito ad esso.
    “Pascere i porci”. Per il giudeo è l’abominio: nutrire e fra crescere ciò che è immondo. Chi si allontana da Dio, fa crescere in sé la sua dissomiglianza da lui e nutre la propria in identità con se stesso. 

    v. 16:”Desiderava saziarsi”. Gesù aveva detto: “Beati gli affamati ora: sarete saziati”. Per essere saziati bisogna prima riconoscere di che cosa si ha fame. Il vero cibo che sazia lo si distingue dagli altri perché non saziano.
    “Nessuno gliene dava”. L’uomo vorrebbe nutrirsi di ciò che soddisfa i porci. Ma una mano invisibile glielo impedisce, perché la sua sazietà è solo presso il Padre. L’impossibilità di vivere di questo cibo indica la nobiltà dell’uomo: resta sempre almeno “nostalgia” di Dio: 

    v.17: “Venuto in se stesso”. Prima era fuori di sé, alienato nei suoi desideri che, invece di salvarlo, l’avevano ridotto a fame. Ora non si pente. Semplicemente rinsavisce. Constata che la realtà non era come pensava. E’ una conversione a sé, più che al Padre: intuisce il vero proprio interesse. La fame gli fa capire che s’è sbagliato nel valutare le cose. E’ l’inizio di un cammino. “Quando gli israeliti hanno bisogno di mangiare carrube, è la volta che si convertono”, dice un antico proverbio ebraico.
    “Salariati di mio padre”. Lo considera e lo chiama padre, anche se non considera sé come figlio. Instaura il paragone con i salariati. Istintivamente pensa che l’alternativa sia diventare come il fratello maggiore! In lui gioca sempre la falsa immagine del Padre.
    “Sovrabbondano di pane/carestia perisco”. Vede la differenza tra quanto c’è “qui” e quanto c’è “nella casa del Padre”. E’ lo scarto tra realtà e desiderio, tra fame e sazietà.
    Dopo una prima fase di rigetto del Padre, in cui l’uomo sperimenta la propria emancipazione (l’umanesimo ateo) ci si accorge poi che in realtà l’ateismo è schiavitù dell’idolatria. Ma gli idoli non appagano: sono troppi piccoli e stupidi per bastare all’uomo. L’uomo che ha abbandonato Dio, ne sente il vuoto assoluto: il suo posto lasciato vacante. L’alternativa a Dio non è l’ateismo, ma l’angoscia del nichilismo. Forse oggi il nulla -la vuotezza del peccato assaporato fino alla vertigine- è il normale pedagogo a Cristo (Gal 3,24). La fame grande è la disumanità dell’uomo, la carestia di essere che induce a cercare la fonte della vita. Dietro tanta angoscia moderna c’è il crollare dei falsi valori. 

    v.18: “Sorgerò e andrò verso mio padre”. Il desiderio del Padre, termine del cammino, è principio del mettersi in moto. E’ tenera la pervicacia con cui questo disgraziato continua a considerarlo “Padre” (cinque volte). Al di là di tutto resta sempre tale. Possiamo rinnegare il nostro essere figli, ma non il suo esserci Padre, al quale lui non può mai rinunciare. Per questo possiamo comunque tornare a casa sua, per quanto lontani ne siamo andati. Il desiderio di questo ritorno rimane sempre, come il bisogno dell’acqua per il pesce. Ciò che ci ha allontanato da lui, è in realtà la voglia di essere come lui.
    La nostalgia del Padre è essenziale all’uomo, che è sempre figlio. Nostalgia significa: dolore del ritorno. E’ un dolore che conosce e indica la strada per trovare la pace e cresce in proporzione alla lontananza.
    “Peccai verso il cielo e al tuo cospetto”. Peccare in ebraico significa fallire il bersaglio. Il cielo è Dio. Il cospetto del Padre è il suo volto, che il figlio ancora ignora. Se smette di fuggire e si gira verso di lui, si accorge del sorriso col quale da sempre lui lo ha guardato. 

    v. 19: “Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Essere figlio non è questione di dignità o di merito. E’ un dato di fatto. Scaturisce dalla paternità, per cui siamo ciò che siamo. Il padre può essere libero nel mettere al mondo il figlio. Ma nell’essere figlio non c’è libertà; non si sceglie né di nascere, né da chi. Però anche il Padre, una volta che il figlio c’è, ha un legame necessario con lui.
    Il figlio non ha ancora capito che il Padre è amore necessario e gratuito. Pensa, non avendola meritata, di rinunciare alla sua paternità. Ma la vita non è oggetto di merito: potrebbe essere pagata solo con la vita! Sarebbe allora la morte. Il minore, nel suo senso di indegnità, ha una crisi che lo può portare ancora più lontano dal Padre: finirebbe per diventare come il maggiore. Il male maggiore del peccatore non è il suo peccato, ma il suo guardare se stesso. Questo lo fa cadere nella tentazione di voler essere degno dell’amore di Dio. Così, pur essendo peccatore, consuma il sottile peccato del giusto e giunge all’essenza del peccato: il rifiuto di Dio come amore gratuito. Chi guarda a sé vede il proprio fallimento. Ma chi guarda a lui scopre la propria essenza sempre intatta di figlio, che è il suo essergli Padre. Il figlio “venuto in se stesso”, costata che è servo del peccato; quando “andrà dal padre” vedrà di essergli figlio. La conversione non è diventare “degni” o almeno “migliori” o “passabili”, per meritare la grazia di Dio: l’amore meritato è meretricio. La conversione è accettare Dio come un padre che ama gratuitamente.
    “Fa’ di me come uno dei tuoi salariati”. E’ il peccato del fratello maggiore, presente anche nel minore. Tutt’al più si rammarica di non riuscire a farlo! Chi conosce il proprio peccato, non deve fermarsi ad esso, ma alzarsi ed andare dal Padre.
    A lui non piace più di tanto che ci dispiacciamo troppo di noi. Il disgusto di noi serve come molla per uscire da noi stessi. Il nemico invece ne vuol fare una tagliola che ci trattiene preda di noi stessi. 

    v.20: “E, sorto, venne da sua padre”. E’ importante sorgere dalla propria coscienza infelice e dai propri sensi di colpa per camminare verso il Padre. Anche se il cammino, dal principio alla fine, è ancora tutto occupato dal proprio io. Fino a quando il figlio pensa alla “sua” fame e alla “sua” infamia, al “suo” peccato e alla “sua” indegnità, la sua aspirazione è quella di diventare un salariato. Il figlio che pensava che il padre fosse padrone, volle essere come lui: padrone di se stesso. Poi si mise a padrone, incollandosi a chi gli fece pascolare i suoi porci. Padrone fallito di sé, cerca ancora un padre che gli faccia da padrone.
    L’immagine di un Dio cattivo è una menzogna esiziale. Non lascia altra alternativa che la ribellione che fa morire o il servilismo che uccide. Scompare solo nell’incontro con la tenerezza materna del Padre…
    “Mentre ancora distava lontano, lo vide il padre”. Per quanto lontano il Padre lo vede sempre. Anzi, la vicinanza al cuore è proporzionale alla distanza. Nessuna oscurità e tenebra può sottrarlo alla sua vista (Sal. 139,11ss). A causa del suo affetto, antico come lui, Dio è presbite: vede meglio il figlio più lontano. Il privilegio dei lontani e la missione di Gesù a loro si radica nel cuore stesso del Padre. L’occhio è l’organo del cuore: gli porta l’oggetto del suo desiderio e lo porta verso di esso.
    “Vedere e commuoversi” sono anche le due azioni attribuite al samaritano. (Lc10,33).
    “Si commosse”. La vista è sempre connessa a un sentimento: ira (Mc 3,5) o commozione (7,13; 10,33) o addirittura pianto (19,41) Vedendo il male del figlio, al Padre si conturbano le viscere. In lui non c’è spazio per l’odio o per l’ira, perché è Dio e non uomo (Os11,8s). Giona dice che Dio “si converte” al vedere il pentimento di Ninive, l’inconvertibile. In realtà egli è sempre convertito verso l’uomo. Aspetta solo che noi ci volgiamo a lui, per farci vedere che il suo volto è da sempre verso di noi.
    La commozione indica l’aspetto materno della paternità di Dio: il suo è un amore uterino e necessario, che lo rende vulnerabile e sempre disponibile. La commozione è l’esatto contrario dell’impassibilità o durezza di cuore: è la qualità fondamentale di quel Dio che è misericordia. Tutte le Scritture, la legge di Mosè, i profeti e i salmi, narrano la sua passione per l’uomo.
    La paternità di Dio di per sé viene dopo la sua maternità. Per questa siamo generati e amati senza condizioni, da sempre e per sempre accolti. E’ la condizione per cui noi possiamo rispondere con amore libero e filiale. Se la paternità sottolinea l’aspetto libero dell’amore di Dio, la maternità ne sottolinea quello necessario, che fonda la nostra libertà. Lo sguardo di Dio verso il peccatore è tenero e benevolo come quello di una madre verso il figlio malato.
    “Corse” Quando l’uomo smette di fuggire, s’accorge che colui dal quale scappa per paura, gli corre dietro perché gli vuole bene. E’ stata lunga la corsa di Dio verso l’uomo. E non finirà fino a quando non avrà raggiunto l’ultimo.
    “Cadde sul collo e lo baciò”. Il bacio del Padre della vita è il suo amore di Padre per il Figlio. Tutti gli altri doni sono contenuti in questo bacio, che è lo Spirito Santo, la vita comune del Padre e del Figlio donata al peccatore. 

    v. 21: “Ora disse il figlio a lui: Padre…”. Il figlio non osa chiamarlo “mio” ( vv.18b.20) Rimane comunque la certezza della sua paternità, e il desiderio di appartenenza. Ma è ancora concentrato sul proprio peccato. Non si accorge del suo sguardo, del suo commuoversi, del suo muoversi precipitoso, del suo cadergli sul collo, del suo bacio!? Tale cecità, che sembra impossibile, è il suo inferno, che lo chiude in sé. Non basta che il Padre gli manifesti il suo amore: occorre che questo rifaccia nuovo il figlio. 

    v. 22: “Ora il padre disse ai suoi servi: Presto“. Il Padre ha fretta. Sa quanto nuoce al figlio la sua idea di tornare servo. Vuol distruggere in lui la menzogna che lo uccide. Per questo lo interrompe e non gli permette di esprimere il suo proposito servile. E’ stanco di avere dei servi invece che dei figli. Almeno il lontano che torna gli sia figlio. Ne ha davanzo di un figlio maggiore in casa! Il senso d’indegnità serve per capire che l’invito al banchetto è un dono. Guai a sprofondarci dentro. Il peccato deve essere il luogo da cui si glorifica la sua misericordia, come la profondità della valle indica l’altezza della cima. Diversamente è l’inferno!
    “Portate fuori una veste, la prima”. E’ l’immagine e la somiglianza di Dio, gloria e bellezza originaria che rivestiva l’uomo (Gn 1,27). Persa questa per il peccato, egli rimase nudo. La nostra “prima” veste di gloria è il suo stesso esserci Padre, che ci costituisce suoi figli. Essa non può mai essere distrutta: è la nostra essenza di figli, che resta sempre con lui nel Figlio. La sua paternità rimane anche nel naufragare della nostra filialità. E’ sempre pronta per noi quando torniamo a lui.
    “Vestitelo” Questa veste è Cristo stesso, l’uomo nuovo di cui siamo rivestiti (Gal 3,27; Ef 4,24; Col 3,9s). Quelli che sono ritornati al Padre, sentendosi amati da lui, santi e diletti nel Figlio, come lui sono rivestiti di misericordia, bontà, umiltà, mansuetudine, sapienza e amore reciproco (Col 3,12s). E’ la nuova veste di chi è rigenerato dal battesimo: ci fa e ci rivela figli.
    Un anello e sandali ai piedi” L’anello con il sigillo gli conferisce il dominio su tutto molto di più di quanto credeva… Lo schiavo non porta sandali, ma i suoi piedi hanno ormai già troppo camminato in terra straniera, conoscendo la nudità della schiavitù. Ora, libero come il Padre, intraprende quel cammino durante il quale non si gonfia il suo piede e non si logora il suo sandalo (Dt 8,4; 29,4). 

    v.23: “Il vitello, quello di grano, immolatelo, mangiamo e facciamo festa”. Il sacrificio grasso (alla lettera “di grano) immolato, che “si mangia”, “facendo festa” è un’allusione all’Eucaristia. E’ il pane del Regno, che Gesù “con-mangia” con i peccatori, la sua vita che si fa nostra vita. E’ quanto fa con i peccatori. Gesù che disse ai suoi discepoli: “con desiderio ho desiderato mangiare con voi questa pasqua” brama che noi possiamo mangiare di lui, per vivere di lui, nello stesso amore del Padre. E’ il desiderio stesso del Padre. L’invito iniziale a “con-gioire” non resta un semplice sentimento: è la festa dell’Eucaristia, la gioia del Padre nel trovare Gesù, il Figlio perduto per noi. Con lui, anche il più lontano, che è il più caro, è nella casa del Padre. 

     v.24: “Perché costui, il figlio mio, era morto e rivive, era perduto e fu ritrovato. E cominciarono a far festa”. Il peccatore è chiamato: “il figlio mio” Parola creatrice che ci fa figli e non solo lo siamo chiamati, ma siamo in realtà suoi figli. E non si dice “fecero festa”, ma “cominciarono” a far festa… E’ finita questa festa o continua ancora e sarà senza fine??? 

    v.25: “Il maggiore”. è Israele, il primogenito di Dio, figura di ogni giusto. Qui comincia l’apice della parabola: l’incontro con chi deve ancora essere ritrovato: Per lui tornare al padre significa partecipare alla sua festa per il fratello.
    “In campagna… s’avvicinò alla casa… sinfonie e danze”. Non è ancora nella casa del Padre. Sta lavorando sodo, per vivere secondo il comando di Dio (Gn 3,19).  Le danze insieme al banchetto e al far festa costituiscono l’immaginario per descrivere il paradiso. Questa vita gioiosa indica la differenza tra la vita del servo in campagna e quella del figlio in casa. 

    v. 26: “S’informava”. Il giusto non sa nulla della gioia di Dio. Neppure la sospetta. Anzi, gli è sospetta. Al sentire la musica e le danze, come Giona “provò grande dispiacere e ne fu indispettito” (Gio 4,1). 

    v. 27: “Tuo fratello”. Come i profeti di Israele, così ” uno dei figli-servi”, illustra il nocciolo della questione a chi vuol servire Dio: bisogna accogliere il “fratello tuo”. Solo così riconosci la sua paternità e partecipi alla sua festa. 

    v. 28: “Si adirò”. L’ira è la reazione impotente davanti a una minaccia.  L’atteggiamento del Padre è vissuto come morte di tutta la sua vita servile. Crolla il fondamento della sua esistenza, la sua persuasione profonda. Ma che Dio è questo? Neanche lui è giusto! Giona si contristò mortalmente alla prospettiva di un Dio simile, concludendo che è meglio morire che vivere se è così (Gio 4,3.8.9) Quest’ira è il contrario della compassione che ha il Padre.
    “Non voleva entrare”. L’imperfetto indica un’azione persistente. L’ostinazione del giusto è dura, come quella di Giona. Se la pietà di Dio raggiunge anche gli animali, la sua non raggiunge neanche i fratelli. Non entra nella gioia di Dio. La porta del banchetto è stretta, ma solo per lui. Attraverso la porta della misericordia i peccatori passano tutti, ma dei giusti nessuno, perché non lo vogliono.
    “Suo Padre uscito, lo consolava”. Dio consolò Israele mediante i profeti: La consolazione del giusto consiste nel convertirsi alla gioia di Dio che ritrova i peccatori. Egli è Padre ed ama tutti: ora con il Figlio è uscito lui stesso per invitare tutti. 

    v. 29: “Disse al padre”. Il cronista lo chiama così. Il figlio maggiore mai! Questo è il dolore del Padre e il peccato del figlio: Ma egli non cessa mai di essere padre, neanche per il giusto: Infatti, come prima non rimproverò il minore, ma gli corse incontro per abbracciarlo, così ora esce senz’altro a consolare anche il maggiore.
    “Da così tanti anni ti sono schiavo”. Essere schiavi invece che figli è il male di tutti gli uomini, peccatori e giusti. La sola differenza è che il peccatore si ribella e se ne va; il giusto rimane a servizio in casa e dà fastidio al Padre.
    “Non trasgredii mai un tuo ordine” E’ puntuale a osservare tutti i 613 precetti. Come Paolo è “irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge” (Fil 3,6). E’ come la pecora smarrita che va errando, che non ha mai dimenticato nessuno dei suoi precetti. (Sal 119,176).
    “Un capretto”. Ha sostituito il dovere alla gioia, il lavoro alla festa. Però ogni dovere ha un diritto, ogni lavoro merita un compenso! Dio non cadetto di dare la giusta mercede al mercenario: “il salario del bracciante al tuo servizio non resti la notte presso di te fino al mattino dopo” (Lv 19,13)? Ma lui ha lo svantaggio di essere figlio. Non ha capito che il Padre non ricompensa secondo i meriti. Non c’è capretto, perché c’è di più: il vitello di grano! 

    v. 30 “Il figlio tuo”. Il maggiore riconosce il titolo di figlio al peccatore. Ma il peccato del giusto è quello di non accettarlo come fratello suo pur riconoscendolo figlio del Padre. Quindi rifiuta il Padre proprio perché gli è Padre!
    “Divorò la tua vita”. Il peccatore sperpera la vita che il Padre gli ha donata. Anche il Figlio, cha ha ricevuto tutto dal Padre, spende tutto per i fratelli perduti. Egli è morto soprattutto a causa del “meretricio del giusto”
    “Con le meretrici”. Ogni uomo dissipò la propria vita di figlio prostituendosi al suo idolo. Il Figlio morì per la falsa immagine di Dio, comune tanto agli atei quanto ai religiosi.
    “Immolasti per lui il vitello di grano”. E’ nominato per la terza volta il sacrificio del Padre. E’ l’offerta di suo Figlio, per tutti i fratelli: il dono del Calvario, il banchetto eucaristico al quale anche i giusti sono invitati in quanto si riconoscono peccatori. 

    v. 31: “Figlio tu sei sempre con me e tutte le cose mie sono tue”. Il Padre gli ricorda che lui lo ha generato. La sua figliolanza, anche se rinnegata, rimane sempre presso di lui che lo genera…
    Il tempo è al presente: il figlio è sempre presso il Padre. Anche il giusto. Nessun figlio ha mai cessato di essergli vicino. 

    v.32: “Bisognava far festa e rallegrarsi”. Questo verbo è sempre in connessione con la morte del Signore: indica il disegno di Dio rivelato nelle Scritture. “Bisognava” proprio che il Figlio morisse per noi, per capire che Dio è sempre con noi e ci dona tutto, anche la vita.
    “Perché il fratello tuo ecc…”. Il compimento delle Scritture si celebra nell’Eucaristia, la festa del Padre per colui che non si vergognò di chiamarsi nostro fratello. Egli si è perduto fino alla morte per trovare noi e ricondurci alla vita. Ed allora la FESTA…
    Chi legge questa parabola corre il pericolo di chiudersi nella tristezza: si riconosce col peccato del minore e in più con quello del maggiore. Dobbiamo invece guardare al cuore del Padre che sempre fa festa per il Primogenito, perduto per noi e ritrovato. Questa è la salvezza nostra: la gioia di Dio!

    Messaggio nel contesto

    Preparata dalle prime due, è la terza scena del c. 15, concepito come un’unica parabola. È giustamente chiamata il Vangelo nel Vangelo: rappresenta il culmine del messaggio di Luca. Parla del banchetto festoso che fa il Padre per rallegrarsi del Figlio morto e risorto, perduto e ritrovato. Si tratta di una parabola. Essa ha un solo significato generale, a differenza dell’allegoria, dove ogni parola ha un riferimento storico preciso. Ciò non significa che i singoli dettagli siano inutili. Sono piuttosto come frecce scoccate da un buon arciere: da diversi punti, fanno sempre centro nell’unico bersaglio. La parabola riesce a cogliere lo spessore della realtà meglio del concetto, uniforme e piatto. Ogni suo elemento ne illumina un aspetto. Se fosse trascurabile, non verrebbe narrato. Quindi, se il senso è uno, ogni singola parola, frutto maturo di memoria antica, serve a evidenziarlo, specificarlo e arricchirlo. Qui leggeremo tutto alla luce di quanto dice il Padre: “Bisognava far festa”. L’hanno capito i peccatori, che fanno festa a Gesù. I giusti sono chiamati a fare altrettanto. Più che del figliol prodigo o del fratello maggiore, è la parabola del Padre. Ci rivela il suo amore senza condizioni per il figlio peccatore, la sua gioia di essere da lui capito come padre e infine l’invito al giusto di riconoscerlo fratello.
    La parabola invita “Teofilo” a essere misericordioso come il Padre (6,36; cf. 11,4!). Diversamente resta fuori a brontolare del banchetto che Gesù celebra coi peccatori. È un invito ai giusti (vv. 1-3) a mangiare il pane del Regno (14,15ss). La conversione non è tanto un processo psicologico del peccatore che ritorna a Dio, quanto il cambiamento dell’immagine di Dio che giusto e peccatore devono fare. Convertirsi significa scoprire il suo volto di tenerezza che Gesù ci rivela, volgersi dall’io a Dio, passare dalla delusione del proprio peccato – o dalla presunzione della propria giustizia – alla gioia di essere figli del Padre. Radice del peccato è la cattiva opinione sul Padre, comune sia al maggiore che al minore. L’uno, per liberarsene, instaura la strategia del piacere, che lo porta ad allontanarsi da lui – con le gradazioni del ribellismo, della dimenticanza, dell’alienazione atea e del nihilismo. L’altro, per imbonirselo, instaura la strategia del dovere, con una religiosità servile, che sacrifica la gioia di vivere. Ateismo e religione, dissolutezza e legalismo, nihilismo e vittimismo sono tutti aspetti che scaturiscono da un’unica fonte: la non conoscenza di Dio. Hanno un’idea di lui come di un padre-padrone. Se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo, per tenere schiavi gli uomini (Voltaire); se ci fosse, bisognerebbe distruggerlo, per liberarli (Bakunin).
    Questa parabola ha come intento primo di portare il fratello maggiore ad accettare che Dio è misericordia. Scoperta gioiosa per il peccatore, è sconfitta mortale per il giusto. Ma solo così può uscire dalla dannazione di una religione servile, e passare, come Paolo, dalla irreprensibilità nell’osservanza della Legge, alla “sublimità della conoscenza di Gesù Cristo” suo Signore (FiI3,6.8). È la conversione dalla propria giustizia alla misericordia di Dio.

    Il racconto si divide in tre parti:

    • – vv. 11-20a: il figlio minore si allontana dal Padre e torna a lui;
    • – vv. 20b-24: il Padre va incontro al figlio minore;
    • – vv. 25-32: il Padre esce per far entrare il fratello maggiore.

    La parabola, che inizia col figlio minore e termina col fratello maggiore, ha come centro la rivelazione del Padre, che ama perdutamente ogni figlio perduto. È un’esortazione al maggiore, perché riconosca come fratello il minore. Solo così può conoscere il Padre, e divenire, come lui, misericordioso (6,36).
    Le azioni del racconto consistono nella partenza e nel ritorno del minore; nell’accoglienza e nella festa del Padre; nel rifiuto del maggiore a entrare e nell’uscita del Padre stesso a consolarlo. Il ritornello: “con-gioite con me” (vv. 6.9), diventa “far banchetto festoso per il figlio morto e risorto” ( vv . 23s). È una necessità per il Padre: “bisognava far festa e rallegrarsi” (v. 32).
    I sentimenti cardine sono: la compassione del Padre per il minore e la collera del maggiore; la festa e la gioia del Padre, che sarà piena quando tutti i figli avranno accolto l’invito. Per ora è realizzata in terra dalla convivialità di Gesù con tutti i pubblicani e peccatori.
    Il figlio minore non ha sentimenti: ha solo bisogni. Ma alla fine è travolto dalla gioia del Padre. Ne resta fuori solo il maggiore: non riconoscendo il fratello, rifiuta il Padre che lo riconosce figlio. Infatti, mentre il minore lo chiama sempre: Padre, egli non lo chiama mai così. Colui che nel racconto è chiamato dodici volte “Padre”, sarà chiamato così anche dal maggiore quando dirà all’altro: “fratello mio”.
    In sintesi: Dio riconosce necessariamente come figli tutti quanti, sia giusti sia peccatori. Semplicemente perché è Padre! Il giusto riconosce a denti stretti il peccatore come figlio, ma non come fratello suo! È quindi il vero peccatore. Bisogna che riconosca l’altro come fratello, identificandosi con lui. Solo così gioisce dell’amore e della festa del Padre per il Figlio suo perduto e ritrovato.
    Questa pagina esige il passaggio da una religione servile alla libertà dei figli. Siamo amati da Dio non perché noi siamo buoni, ma perché lui è nostro Padre. Accogliendo come fratelli tutti i suoi figli, diventiamo come lui che è misericordia in sé e per tutti. Per questo l’ebreo accetterà il pagano (cf. At 10); Stefano, martire di Gesù, perdonerà ai suoi persecutori (At 7,60); Paolo, da fratello maggiore (FiI3,6), si riconoscerà primo dei peccatori (lTm 1,15). Sgonfiato dal suo protagonismo di irreprensibile, si farà l’ultimo di tutti, il minimo tra i santi (Ef 3,8), per accogliere tutti (At 28,30).
    Il capitolo 15 di Luca è un commento a 6,36 (e, implicitamente, a 11,4): descrive il nuovo volto del Padre, come lo vive Gesù, suo vero figlio e nostro sincero fratello. La conversione sarà volgersi a colui che è tutto rivolto a noi, conoscere il suo amore “gentile, cortese e grazioso” (Giuliana di Norwich) per tutti i suoi figli. Per questo il giusto deve accettare un Dio che ama i peccatori. Convertirsi al fratello è accettare il Padre. 

     DOMANDE PER LA RIFLESSIONE PERSONALE

     1) Io sono il figlio minore: che cosa rifiuto o non accetto di Dio? Da cosa vorrei scappare?
    2) Io sono il figlio maggiore: nonostante le difficoltà di vivere la mia fede, che cosa mi fa “restare a casa”?
    3) Sono chiamato ad accogliere l’amore del Padre, sia come figlio minore, sia come fratello maggiore. Vedo in Gesù quesro amore del Padre per me? Come?
    4) Sono chiamato a diventare come il Padre, ma è impossibile, se non rimango attaccato a Gesù. Sento già viva in me la forza del perdono che mi rende capace di amare gli altri?

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