di p. Attilio F. Fabris
* * *
v. 1. Gesù è a Gerusalemme per una delle tre feste alle quali i pii israeliti vi si recavano in pellegrinaggio: Pasqua, Pentecoste, Capanne. Non si dice di quale festa si tratti.
Vi è una forte sottolineatura della salita a Gerusalemme da parte di Gesù: è nella città santa che si svilupperà per il nostro evangelista il conflitto tra Gesù e le autorità giudaiche.
v. 2. La piscina miracolosa era a nord est del Tempio, presso la “porta delle pecore”. Si tratta di un grande spazio: cinque portici! Un luogo di guarigione come erano ritenute nell’antichità alcune sorgenti. In questa infatti piscina avvengono guarigioni; e il particolare che esse avvengono da parte dell'”angelo del Signore” che muove l’acqua è forse uno sforzo di integrare nell’ortodossia una pratica pagana estranea alla religione ufficiale. Una sorta di santuario dei miracoli. E’ il luogo di ritrovo per chi spera di ottenere o riottenere la salute. L’uomo infatti è disposto a tutto per avere vita: pellegrinaggi, santuari, medici… una corsa senza fine ed estenuante, che si rivela il più delle volte deludente: la vita ci sfugge di mano anche se non la vorremmo perdere. Siamo disposti a tutti i riti e a tutte le pratiche, anche le più esoteriche, per possedere la vita. Attendiamo un “angelo” che venga a sanarci. Tutti attendiamo l’intervento miracoloso che venga a sanarci dalla nostra angoscia di vivere.
v. 3. ciechi, infermi, zoppi, paralitici ecco la carrellata di situazioni umane che si ritrova lungo i portici della piscina. Sono tutti poveracci in canna. I ricchi hanno le loro case di cura, i loro medici, le loro medicine con cui guarire. Lungo quei portici invece ritroviamo un’umanità sofferente senza speranza, allo sbando, in preda al suo dolore e alla sua disperazione.
Ritroviamo una categoria di esseri umani che al Tempio non ci può stare: la malattia lo impedisce per il suo carico simbolico di peccato e di morte (cfr. Lv 21,18; 2Sam 5,8)
Proviamo ad immaginare questa lunga fila di derelitti, stesi gli uni accanto agli altri, non c’è posto talmente c’è ressa.
(Proviamo ad ascoltare le loro risonanze interiori ed esteriori che percorrono il loro animo).
La maggior parte vive di elemosina, della pietà del passante. Una vita che dipende dall’altro. Queste persone di fronte alla vita si sentono defraudati, vivere per loro non è una gioia, ma un dramma: è necessario addirittura trovare strategie per riuscire solo a sopravvivere. Le loro malattie e le loro paralisi sono le loro uniche fonti di reddito.
v. 4. ma l’atmosfera che circola in quella piscina è tesa. Solo qualcuno di loro può essere guarito. La tradizione dice il primo che arriva all’acqua quando essa comincia a fluire. E arriva per primo chi è meno malato degli altri, chi ha appoggi, chi riesce a farsi strada con la forza. Il più debole difficilmente arriverà all’acqua per ottenere la guarigione. E’ una corsa, una lotta per la vita… a spese degli altri. Qualcuno avrà rinunciato alla sua guarigione, al suo primo posto, per lasciar spazio a chi questa possibilità non ce l’avrebbe mai avuta?
E’ un’attesa estenuante… uno sguardo all’acqua e uno al vicino colto come un possibile antagonista, nemico nei miei confronti e nei riguardi delle mie attese e speranze.
v. 5. Tra gli ammalati ve ne è uno, senza nome, che lo è da trentotto anni. Tutta una vita (cfr Dt 2,14). Una situazione cronica ormai, che dice l’impossibilità del cambiamento. Dice invece rassegnazione. Quest’uomo senza nome si identifica con la sua malattia. Un cambiamento a 40 anni è ormai impensabile: quanti problemi creerebbe (lavoro, amici, relazioni, famiglia…). Dopo 40 anni forse non lo si desidera neppure più talmente quel cambiamento provocherebbe incertezza, imbarazzo, con tutta le conseguenze di presa di posizione nuova di fronte alla vita.
Egli nel mondo è la sua malattia, e lui stesso si riconosce solo in questa sua triste e drammatica realtà. Non si specifica di che malattia si tratti: si dice solo che è disteso, incapace di reggersi in piedi, il che vuol suggerire la condizione umana, dell’uomo incapace di camminare, in senso biblico di vivere in comunione con Dio e con gli altri ed è incapace di rimettersi in piedi da solo.
v. 6. Gesù si trova lì, alla piscina. Perché è lì? Cosa vi fa? E’ di passaggio? Vi si reca intenzionalmente?
Una cosa è certa: egli non disdegna, non teme, di entrare in contatto con questo mondo fatto di sofferenza, disperazione, povertà, speranza, superstizione. Gesù scende (anche materialmente) in mezzo a quella folla accalcata in attesa del miracolo che non giunge.
Si sarà guardato attorno, avrà percorso quei portici scavalcando malati e lettucci. Qualche parola, un sorriso, una carezza.
(Noi facciamo spesso fatica a “scendere” in questi mondi: ci troviamo a disagio? Da dove nasce questa risonanza? Forse dal dover fare i conti con la morte, dal volerla fuggire non guardandola in faccia, ovvero nasce dalla nostra paura di perderci).
Ad un certo punto l’uomo malato disteso sul lettuccio colpisce l’attenzione di Gesù.
Perché proprio lui? Cosa lo contraddistingue dagli altri?
Probabilmente proprio la sua solitudine, il suo essere appartato lontano dal bordo della piscina dove tutti si accalcano.
E’ disteso: è la posizione della morte, una postura fossilizzata, inamovibile. Questa sua presentazione dice la sua posizione rinunciataria nei confronti della vita.
Sono questi gli indizi che dicono a Gesù della sua lunga malattia? Una malattia che non è solo fisica, ma spirituale che ha intaccato la sua coscienza di uomo di fronte alla vita.
Gesù rivolge una domanda a quest’uomo? “Vuoi guarire?”. Una domanda che apparentemente appare insensata ed illogica. Risponderemmo a Gesù: ma perché allora sono qui? Sono domande da farsi?
Ma questa domanda, così solo apparentemente scontata, intende invece andare molto più in profondità, vuole raggiungere il cuore e la coscienza di quell’uomo. Gesù desidera, vuole riuscire a strappare quell’uomo da quella situazione di “stagnazione”, ma lo può fare solo a condizione che riemerga il desiderio ormai sepolto nel cuore nei riguardi della vita, di fronte alla quale quell’uomo invece è in una situazione di rinuncia, di morte, di rassegnazione. Se non scatta il desiderio di rinascere, di rivivere il che comporta la presa di coscienza della propria situazione di morte come può operarsi un cambiamento nella nostra vita?
Questa domanda, in verità, è un invito alla riscoperta della propria identità non di malato, ma di uomo chiamato a emergere, a “alzarsi” nella ricerca della propria identità non schiacciata né sepolta sotto cumuli di compromessi, atteggiamenti errati, convenienze, disperazioni, ripiegamenti.
(La stessa domanda è rivolta a ciascuno di noi: “Vuoi veramente guarire?”. Se ci ascoltiamo onestamente ci accorgeremo che dentro la nostra coscienza si muovono due risonanze: da un lato il desiderio vivo e vero della guarigione, dall’altro la paura, l’incertezza, la diffidenza. A quale risonanze generalmente diamo ascolto?).
Ma Gesù è sconosciuto all’uomo malato. Per lui è solo una persona fra le tante che si aggirano per i portici. Il malato perciò non ripone alcuna aspettativa nei suoi confronti. Anzi la sua domanda gli può apparire impertinente: “Ma cosa vuole questo qui da me? Cosa cerca?”.
Da parte dello sconosciuto vi è solo quella parola che può apparirgli ironica, banale, oppure… che sia una parola di speranza (ovvero profetica!) che domanda fiducia e accoglienza.
Gesù è veramente l’angelo che tutti lì attendono per essere sanati. Ma quest’uomo si rivela incapace di riconoscerlo… questo angelo infatti si manifesta in modo diverso dalle sue/nostre attese “religiose”.
v. 7. La risposta dell’uomo malato rivela molto della sua indole. Attraverso quelle poche parole possiamo entrare un po’ nelle risonanze della sua coscienza.
Questa risposta è quanto mai ambigua. Infatti egli non dice né sì né no. Egli dribbla la domanda. Perché? Non sarebbe molto più semplice dire direttamente sì o no? Perché questo contorcimento?
E di che tipo è questa risposta ambigua? E’ una lamentela e condanna nei confronti del disinteresse e della prepotenza degli altri. Sono loro la colpa della sua situazione!
Si lamenta di non avere nessuno, nessun “salvatore” che si occupi di lui (e in effetti è questa la sua esperienza). Gesù dinanzi a lui non esiste, esiste solo la sua disperazione. Certo vi è un’effettiva solitudine ed incapacità da parte di quest’uomo di risolvere il problema, ne prendiamo atto. Ma perché questa risposta, quando dinanzi a lui sta una persona concreta che si vuole occupare di lui?
Le parole di quest’uomo dicono come ormai egli abbia scavato per sé una nicchia sicura in questo mondo dal quale osservare criticando e condannando gli altri. Si è relegato in quest’angolo, e ormai gli va bene, e della possibilità di cambiare non se ne parla. In quest’uomo anche il desiderio della guarigione ormai è oscurato; è passivo dinanzi alla vita (oggi diremmo in preda alla “depressione”). E’ un escluso dalla vita.
(Quante volte l’uomo sta male, vive male, ma di fronte alla prospettiva del cambiamento può talmente essere attanagliato dalla paura, da rinunciarvi. “Ma ormai non posso più cambiare!”: è una frase che spesso ne sottintende un’altra: “Ho paura di cambiare… non ne ho voglia”. Sono risonanze che anche noi conosciamo (o che il più delle volte subiamo inconsciamente): stiamo male, potremmo assumerci la responsabilità di un cambiamento, ma esso ci fa paura. Dobbiamo allora trovare qualcuno su cui scaricare la colpa del nostro malessere.
Spesso ci vengono offerte possibilità di cambiamento, di miglioramento, ma noi svicoliamo. Preferiamo continuare a star male piuttosto che affrontare il rischio di stravolgere la nostra vita. E per giustificarci in questo troviamo mille pretesti e giustificazioni per sollevarci da questa responsabilità nei confronti di noi stessi).
v.8. Gesù avrà intavolato un dialogo con quest’uomo? Il vangelo sembra suggerire che egli sia immediatamente passato all’iniziativa di offrigli la guarigione, scavalcando in un certo senso l’elaborazione della coscienza. Quell’uomo infatti da solo, ripiegato nelle sue risonanze di rinuncia e di paura, non si sarebbe mai spontaneamente aperto al dono. Gesù offre immediatamente una parola profetica di salvezza.
Ma questo “scavalcare la coscienza” del malato da parte di Gesù, se da un lato dice la gratuità del dono dall’altro dice il rischio che esso sia o rifiutato o usato male. Gesù questo rischio lo corre: gli preme ridonare la vita a quest’uomo, sa che probabilmente tutto ciò che sta per donare potrà essere usato male (e infatti ne farà le spese sulla sua pelle).
Gesù pronuncia una parola che è un comando. Una parola che non è accompagnato da alcun gesto: quindi efficace per se stessa. E’ la potenza della parola che opera la guarigione.
Alzati! E’ il verbo della resurrezione, della rinascita, della vita nuova.
Prendi il tuo lettuccio! Offri la tua testimonianza nei confronti del Dio della vita (un po’ come lo sarà la tomba vuota). Porta con te il segno della sua morte per manifestare che proprio in questo giorno si è compiuta per te la salvezza di Dio.
Cammina! Apriti alla vita, all’incontro, non ripiegarti più. Assumi il tuo posto e il tuo ruolo nel mondo, con responsabilità. Cammina incontro alla promessa di Dio che hai sperimentato aprendoti alla comunione con Lui, con gli altri, con te stesso.
v. 9. Proviamo ad ascoltare le risonanze della coscienza di quest’uomo di fronte alle parole dette da questo sconosciuto: incredulità? Speranza? Paura? Gioia? Rabbia? Incertezza sul da farsi (se fosse una presa in giro?)?…
Immaginiamo Gesù che lo prende per mano incoraggiandolo. Incitandolo ad alzarsi vincendo tutte le sue controrisonanze.
Vacillando ed appoggiandosi a Gesù quell’uomo, paralizzato “da trentotto anni”, si alza. Qualche piccolo passo indeciso e incredulo. La gambe reggono! E’ incredulo. In fretta prende il suo piccolo materasso: l’unica cosa che possiede. E guardandosi le gambe e guardandosi in giro incredulo si avvia lungo i portici e poi sulle scale per uscire al più presto da quel luogo di morte, contento che stavolta la buona sorte sia toccata a lui e non agli altri. Finalmente ce l’ho fatta, sono come gli altri!
Ma sono risonanze che durano poco; il cuore da un lato avverte la gioia dall’altro la preoccupazione e l’ansia per il futuro. “Ora che farò? Come mi guadagnerò da vivere? Non ho lavoro, non ho mai potuto imparare un lavoro. Dove e da chi andare? Non ho famiglia e le poche persone che conoscevo le ho lasciate laggiù alla piscina sotto i portici e di certo non ho intenzione di tornarci. Chi mi accoglierà?….”. Un terribile sospetto: “La guarigione forse mi creerà più problemi della malattia”.
La paura e l’incertezza bussano sempre più forte alla porta della coscienza dell’uomo. Un lampo, un pensiero velocissimo: “Quando mai ho accettato di ascoltare quell’uomo. E chi era? Nella fretta di uscire non gli ho neppure chiesto il nome, non gli ho detto neppure grazie, ma se lo merita poi? Lo ho ascoltato ma ora mi ritroverò con più problemi di prima”.
Nella coscienza di quest’uomo si alternano dunque gioia e paura, entusiasmo e incertezza. E’ l’andamento pendolare delle risonanze nella nostra coscienza.
Era sabato!: Ma il giorno in cui avviene tutto questo è di Sabato.
Nei vangeli sembra che Gesù faccia apposta a cogliere proprio di sabato le occasioni di operare segni di salvezza (cfr. Gv 9,14-16). Non è il sabato il giorno del riposo, della gioia, della festa della vita. E quale giorno è il più indicato per ridonare la vita se non proprio il Sabato (cfr. Es 20,8)? La guarigione dei malati non deve forse contrassegnare il giorno della salvezza definitiva che è il significato del sabato (cfr. Is 35,4-6; cfr. v. 17)?
Gesù sa bene di chiedere all’uomo di infrangere i precetti della Legge (cfr. Gr 17,21-27). Ma è altrettanto consapevole che la Legge debba essere a servizio della vita e non viceversa: il sabato per l’uomo e non l’uomo per il sabato.
Il suo comando all’uomo di prendere la sua barella è dato perché sia manifesta agli occhi di tutti la presenza della salvezza escatologica di cui la sua guarigione è segno.
v. 10. I “Giudei”, che non hanno visto la guarigione alla piscina, vedono però l’uomo guarito compiere il gesto contrario alla legge: portare un peso.
L’uomo viene fermato in mezzo all strada in mezzo a tutti, si forma un cappannello di curiosi. Immaginiamo le risonanze di quest’uomo che già in preda ai suoi pensieri e preoccupazioni si vede subito chiamato a confrontarsi con l’ostilità del mondo, con la grettezza dei detentori della legge. Come inizio della vita nuova non c’è male! Avrebbe preferito sentirsi sprofondare, essere rimasto là presso la piscina, piuttosto che dover fare i conti con questo mondo in cui è così faticoso vivere.
L’atteggiamento dei “giudei” ci invita all’esame di come l’uomo sia molto propenso alla condanna dei gesti altrui. Condannare l’atto è molto più semplice e non coinvolgente che mettersi in ascolto della coscienza di colui che lo compie. Mettersi insieme in ascolto della coscienza è faticoso, a volte destabilizzante. Certamente ci renderebbe meno presuntosi e precipitosi nel voler atteggiarci a giudici spietati dell’altro: “Uno solo è il legislatore e il giudice e tu chi sei che giudichi il tuo prossimo?”.
v. 11. La risposta dell’uomo guarito è ancora emblematica e rivelatrice delle risonanze della sua coscienza. Egli scarica la responsabilità del suo gesto su colui che lo ha guarito ridonandolo alla vita: “E’ colpa sua, non mia… è stato lui! Io non c’entro… lui mi ha detto”.
E’ questa una dinamica che conosciamo bene: scaricare sull’altro, esimerci dalla responsabilità, trovare un colpevole.
(E’ sempre la paura la risonanza profonda che provoca questo: paura della disapprovazione degli altri, paura di andare incontro al rifiuto degli altri. Questo anche al prezzo di rinunciare ad essere noi stessi, o, come in questo caso, facendo addirittura del male a coloro che ci fanno del bene. Ci vogliamo difendere al costo di tirare in campo altri: quello che ci preme è salvare noi stessi).
Quale l’origine di questa paura in quest’uomo? Forse il ritrovarsi in un mondo nuovo e complesso col quale sinora non aveva fatto i conti e che gli incute timore e disagio, il suo sentirsi inadeguato e incapace di affrontarlo, il suo bisogno di sicurezza, le delusioni che sinora ha accumulato nella vita che gli insinuano incertezza e incapacità di aprirsi al nuovo.
Di tutto questo il “capro espiatorio” diviene l’uomo che lo ha guarito: Gesù.
v. 12. Ci si aspetterebbe un atteggiamento da parte degli accusatori di stupore e di meraviglia dinanzi a una dichiarazione di guarigione miracolosa. Ma la grettezza umana è sconfinata. Agli accusatori che vi sia stata una guarigione non interessa. Quante volte non prendiamo atto dei fatti e continuiamo ad affrontare la realtà attraverso i nostri schemi mentali, le nostre ideologie politiche o religiose. I fatti così non contano.
La domanda dei giudei è così di accusa: chi è quest’uomo? Chi è stato?
Quante volte nella storia l’uomo atteggiandosi a giudice a rivolto imperioso la domanda: chi è stato?
Siamo ancora nella logica della ricerca di un colpevole! Questa ricerca di un colpevole dice la profonda angoscia che l’uomo avverte dentro di sé, intollerabile, insostenibile: una morte che si cerca di scaricare sull’altro.
v. 13. A questo punto l’uomo sanato si rende conto di non sapere neppure chi è il suo benefattore. E’ stato riportato alla vita e neppure sa da chi.
Il Signore gli ha reso il servizio della vita, lui ne ha ricevuto i benefici. Se Gesù si è allontanato lui non l’ha cercato, ma ha lasciato che andasse per la sua strada. Prendo e sono incapace di dire grazie.
Gesù si era allontanato subito dopo il miracolo: un servizio il suo alla vita fatto nel nascondimento, nell’umiltà e non certamente nella ricerca del plauso della folla. E’ lo stile di Gesù: il suo far del bene per il gusto di far del bene senza attendersi nulla. Un servizio che raggiungerà il suo culmine nel giorno della passione.
Cosa avrà fatto l’uomo guarito a questo punto? Per non aver ulteriori grane pauroso com’è probabilmente avrà accontentato i suoi accusatori. Avrà appoggiato il suo lettuccio da qualche parte: ma ora che fare?…
Il tempio è vicino… mischiarsi con la folla, scomparire anonimo in mezzo agli altri, fuggire dagli occhi inquisitori dei suoi accusatori. Questo forse gli darà un po’ di sicurezza e pace.
v. 14. E’ Gesù che lo ritrova nel Tempio. Non sarà stato certamente l’uomo guarito a corrergli incontro, forse avrà fatto finta di non riconoscerlo, oppure avrà cercato di nascondersi…. La paura di ulteriori coinvolgimenti con quest’uomo gli fa adottare la tattica di dileguarsi senza farsi accorgere.
Ma Gesù lo vede, gli va incontro una seconda volta. L’iniziativa è sempre sua. Che cosa spinge Gesù a questo ulteriore incontro? Sicuramente la consapevolezza che il precedente incontro è stato insufficiente, incompleto, manca di un tassello importante. Non basta una guarigione fisica per ridonare la vita all’uomo: occorre una guarigione interiore, dalle ferite della vita, dalla propria angoscia. Sa che quest’uomo ha bisogno di incontrare un volto amico nel quale finalmente ritrovare fiducia nei confronti di se stesso, della vita, degli altri, di Dio. Perciò Gesù non si arrende dinanzi alle sue chiusure e paure: gli stende nuovamente la mano, non se lo vuol far sfuggire.
Le parole di Gesù sono di incoraggiamento nel proseguire il cammino di progressiva apertura alla vita (la conversione come cambiamento radicale dell’impostazione della propria vita). Il dono di una vita sana richiede una condotta retta. La santità che gli è stata donata testimonia al guarito che gli viene proposta un’esistenza nuova. Forse nel riferimento al non peccare più Gesù intende riferirsi alla disperazione che c’era in lui prima di scoprire che Dio vuole la vita.
Avverte quest’uomo che la grazia della guarigione lo impegna alla conversione: dimenticandolo rischierebbe peggio dell’infermità passata. Dunque la guarigione miracolosa vuole essere solo un “segno” di una guarigione più profonda, di risurrezione.
Vuoi veramente guarire? non accontentarti solo di qualche rimedio di facciata, cambia te stesso e imposta la vita diversamente.
v. 15. Ma l’invito di Gesù è disatteso da quest’uomo, non riesce ad accogliere una nuova prospettiva nella vita. L’uomo sanato invece di aprirsi alla fiducia nei confronti del Rabbì che lo ha guarito, obbedisce ancora una volta alla sua paura di perdersi.
Non vede meglio da farsi che denunciare ai giudei Gesù come istigatore alla disobbedienza del precetto del sabato. Gesù diviene il capro espiatorio. Così io mi metto in salvo, apparentemente sicuro: “mors tua vita mea”. E’ paura, più che ingratitudine. Una paura che giunge a rispondere al bene col male.
v. 16. La persecuzione di Gesù è la conseguenza di tutta questa vicenda. Su Gesù si scarica tutto il male: da parte di chi è stato sanato e da parte di chi è detentore della Legge. Dunque quest’iniziativa di Gesù si rivela un insuccesso a livello umano.
Il bene appare sconfitto, la prepotenza e la paura hanno la meglio. La gratuità del dono è rifiutata e ricambiata dalla comune ostilità.
Ma Gesù non si lascia bloccare da queste nostre controrisonanze, andrà sino in fondo senza paura di perdersi solo per farci del bene.