• 28 Gen

     

    di p. Attilio F. Fabris 

     

     

    “Il Nome che comprende tutto è quello che il Figlio di Dio riceve nell’Incarnazione: Gesù. Il Nome divino è indicibile dalle labbra umane, ma il Verbo di Dio, assumendo la nostra umanità, ce lo consegna e noi possiamo invocarlo: Gesù, YHWH salva. Il Nome di Gesù contiene tutto: Dio e l’uomo e l’intera economia della creazione e della salvezza. Pregare Gesù è invocarlo, chiamarlo in noi. Il suo Nome è il solo che contiene la presenza che esso significa. Gesù è risorto, e chiunque invoca il suo Nome accoglie il Figlio di Dio che lo amato e ha dato se stesso per lui” (CCC 2666).

    Gesù ha promesso indistintamente l’efficacia della preghiera a condizione che essa sia fatta nel suo Nome:

    “Qualunque cosa chiederete nel mio nome la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio” (Gv 14,13).

    “In verità in verità vi dico: se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà. Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete ed otterrete, perché la vostra gioia sia piena” (1Gv 16,23-24).

    Anche l’autore della Lettera agli Ebrei ci presenta Gesù come “nostro sommo sacerdote” (Ebr 7,24-25): colui che intercede per noi presso il Padre.

    Egli ripete davanti al Padre le nostre parole, trasformandole e facendole sue. Perciò la nostra preghiera nel suo Nome è efficace: perché è divenuta quella di Cristo:

    “Chi prega partecipa alla preghiera del Verbo di Dio, che sta in mezzo anche a quelli che lo ignorano, e non è assente dalla preghiera di nessuno. Egli prega il Padre in unione col fedele di cui è mediatore. Infatti il Figlio di Dio è il gran sacerdote delle nostre offerte, e nostro avvocato presso il Padre. Prega per quelli che pregano e implora per quelli che implorano” (Origene).

     

    La nostra preghiera non è più quella dell’A.T. Essa è ormai la preghiera di Cristo:

    “Finora non avete chiesto nulla nel mio nome: chiedete ed otterrete” (Gv 16,24).

    Una preghiera perciò che si estende universalmente a tutte le necessità del regno.

     

    Sant’Agostino scrive:

    “Nostro Signore è colui per il quale, nel quale, rendiamo gloria a Dio, ed è anche colui che preghiamo”.

    E ancora:

    “Prega per noi come nostro sacerdote, prega in noi come nostro capo, è pregato da noi come nostro Dio. Riconosciamo dunque in lui la nostra voce e in noi la sua voce” (Agostino, En. in Ps. 85).

     

    Il Cristo è colui per il quale noi preghiamo il Padre. In effetti da noi stessi non possiamo celebrare il Padre in verità: non lo conosciamo.

    “nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11,27).

    L’adorazione più vera al Padre è quella del Figlio. E’ il prototipo del modo in cui una creatura deve rapportarsi nei riguardi di Dio:

    “attraverso Cristo sale il nostro Amen per la gloria di Dio” (2Cor 1,20).

     

    Il Cristo è colui nel quale noi rendiamo gloria e onore al Padre. Compito della Chiesa è di riprendere continuamente la preghiera del Cristo davanti al Padre, facendo sua l’obbedienza di lui al Padre, la sua passione per il Regno. Noi compiamo l’opera di Cristo. Riviviamo i suoi misteri (cfr la liturgia):

    “abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo” (Fil 2,5).

     

    Riconosciamo in noi il dono pasquale di Cristo: lo Spirito che abita i nostri cuori. Per questo siamo creature abitate da Cristo e non siamo mai soli davanti a Dio: si è sempre in due:

    “Gesù prega anche per noi, al nostro posto e in nostro favore. Tutte le nostre domande sono state raccolte una volta per sempre nel suo grido sulla croce ed esaudite dal Padre nella sua Resurrezione, ed è per questo che egli non cessa di intercedere per noi presso il Padre. Se la nostra preghiera è risolutamente unita a quella di Gesù, nella confidenza e nell’audacia filiale, noi otteniamo tutto ciò che chiediamo nel suo nome; ben più di questa o quella cosa: lo stesso spirito santo che comprende tutti i doni” (CCC 2741).

     

    Non siamo soli a pregare i Salmi o la Scrittura o ad adorare il Padre: è Cristo sommo sacerdote che in noi prega i salmi, legge la scrittura, adora il Padre:

    “Che il Cristo parli allora, nel Cristo la Chiesa parla, e nella Chiesa il Cristo parla. Il capo parla nel corpo e il corpo nel capo” (sant’Agostino).

     

    Il Cristo è colui che noi preghiamo e celebriamo. La preghiera cristiana soprattutto quella liturgica non è che una lunga meditazione del mistero di Cristo nei suoi vari aspetti, che ci ha rivelato la grazia e la misericordia di Dio. La chiesa “fa’ memoria”. La liturgia celebra Cristo come sposo della Chiesa.

    L’apocalisse pone la contemplazione e l’adorazione dell’Agnello ritto ed immolato, centro dell’universo: é lui solo che possiede le chiavi della storia:

    “Quando ebbe preso il libro i quattro esseri viventi e i ventiquattro vegliardo si prostrarono davanti all’agnello, avendo ciascuno un’arpa e coppe colme del profumo che sono le preghiere dei santi” (Ap 5,8).

     

    Sovente la scrittura muove l’invito a “fare memoria” (es. Es 32,11-14; Sal 105,106; Dt 9,18-26; Is 63,7-9). Il ricordo, il memoriale, di tutto ciò che Dio ha compiuto, diviene forse il motivo principale della preghiera e la ragione della nostra speranza. E’ questa la struttura della fede biblica.

    E’ questo il dinamismo centrale della grande preghiera eucaristica che fa memoria del mistero pasquale, perno della nostra fede:  “Celebrando il memoriale…”.

     Attraverso la preghiera fatta nel nome di Gesù si attua una trasformazione dei nostri sentimenti, dei desideri, delle sofferenze, nei sentimenti, nei desideri, nelle sofferenze di Cristo. Una trasformazione simile a quella che avviene nell’eucaristia per il pane e il vino che si transustanziano nel corpo e sangue di Cristo:

    “E’ entrando nel santo Nome del signore Gesù che noi possiamo accogliere, dall’interno la preghiera che egli ci insegna” (CCC 2750)

     

    Se abbiamo compreso che come cristiani la nostra preghiera non può che essere fatta nel nome di Gesù, allora comprendiamo come non abbia senso contrapporre preghiera pubblica e privata.

    Fuggiamo i rischi sia dell’individualismo come del collettivismo. Preghiera pubblica e privata non possono essere contrapposte: è sempre e comunque preghiera di Cristo.

    Comprendiamo pure come la preghiera liturgica esiga una relazione personale di ciascun membro con Cristo. E’ questo è sempre dono dello Spirito in noi: egli solo può formare in noi tale relazione. Saremo pienamente cristiani quando ci accorgeremo che non potremo parlare a Dio se non con e per Cristo, sapendo che il solo sguardo a cui Dio non resiste è quello del Figlio:

    “Per Cristo, con Cristo e in Cristo:

    a te Dio Padre onnipotente

    nell’unità dello Spirito santo

    ogni onore e gloria

    per tutti i secoli dei secoli. Amen”

     

    Tutto quanto è stato detto ci impone un punto di riflessione importante: la nostra preghiera in che misura si spinge a conformarsi ai desideri di Cristo? In che misura ci preoccupiamo a comprendere il pensiero di Cristo su ciascuno di noi, su ciò che facciamo, diciamo, pensiamo?

    Forse potremmo accorgerci che finora la nostra preghiera non è stata che una carellata di pensieri che nulla avevano a che fare con l’autentica preghiera. Forse ci si rivela come una sorta di sterile monologo. Una ricerca di idee “su…”.

    Per la meditazione : cfr Ebr. 5.

     

  • 28 Gen

    di p. Attilio F. Fabris

     

     

    Confrontiamoci con la parabola degli invitati a nozze in Lc 14,16-24.

    Ci viene mostrato un Dio che vuole farci suoi commensali. Ma sono tanti i motivi di rifiuto apposti al suo invito.

    Tutti questi rifiuti si possono riassumere in due:- la preoccupazione per la famiglia e il lavoro.

    Se questi motivi fossero veri allora chi potrebbe pregare? Sarebbe vera l’obiezione che il più delle volte si porta: “Non ho tempo”.

    Il messaggio della parabola al contrario ci dimostra che tutti sono chiamati, nessuno escluso.

     In effetti rimane pur sempre vero che la preghiera esige uno sforzo che spesso ci risulta difficile: ma questa difficoltà è normale perché non possiamo pretendere di “sentire” umanamente il mistero di Dio: si tratta di uno sforzo di fede:

    “La preghiera… presuppone sempre uno sforzo: … la preghiera è una lotta. Contro noi stessi e contro le astuzie del tentatore” (CCC 2725).

    La grande tentazione della nostra preghiera è la stanchezza, lo scoraggiamento. Una tentazione dalla quale Gesù stesso ci mette in guardia nelle sue due parabole: l’amico importuno in Lc 11,5-13 e la vedova e il giudice iniquo in Lc 18,1-8.

    Queste due parabole sono molto chiare: “giorno e notte” “insistentemente”, a costo di importunare occorre chiedere al Padre ciò di cui abbiamo bisogno.

    “L’amico importuno esorta ad una preghiera fatta con insistenza: “Bussate e vi sarà aperto”. A colui che prega così il Padre del cielo “darà tutto ciò di cui ha bisogno” e principalmente lo Spirito santo che contiene tutti i doni”.

    La seconda, la vedova importuna, è centrata su una delle qualità della preghiera: si deve pregare sempre, senza stancarsi, con la pazienza della fede. “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”” (CCC 2613).

    Il termine greco utilizzato dall’evangelista suggerisce di non prendere in maniera puramente materiale la parola “continuamente”; forse sarebbe meglio tradurla con  “in ogni occasione”. Questo ridimensionerebbe il problema circa il tempo da dedicare alla preghiera.

    Se la prima legge della preghiera ci dice del necessario atteggiamento di povertà e umiltà, la seconda ci insegna la continuità.

    Esse sono strettamente collegate: solo il povero, che si sente realmente tale, non si dà pace sino a che non abbia ottenuto ciò di cui ha bisogno.

    Quantità e/o qualità? Quali di queste due caratteristiche dobbiamo privilegiare?

    La Scrittura ci insegna che non dobbiamo misurare il tempo. Dio ci aspetta sempre e in ogni luogo senza alcun istante di interruzione.

    Ciò che è essenziale è mantenere viva in noi quella tensione alla pienezza alla quale il Vangelo ci invita.

    “Pregate incessantemente (1Tess 5,17), rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre nel Nome del Signore nostro Gesù Cristo (Ef 5,20) Pregate incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi (Ef 6,18). <Non ci è stato comandato di lavorare, di vegliare, e di digiunare continuamente, mentre la preghiera incessante è una legge  per noi> (Evagrio P.). Questo ardore instancabile non può venire che dall’amore. Contro la nostra pesantezza e la nostra pigrizia il combattimento della preghiera è quello dell’amore umile, confidente, perseverante… Pregare è sempre possibile: il tempo del cristiano è quello di Cristo Risorto, che è con noi  <tutti i giorni>(Mt 28,20), quali che siano le tempeste. Il nostro tempo è nelle mani di Dio: <E’ possibile, anche al mercato o durante una passeggiata solitaria, fare una frequente e fervorosa preghiera. E’ possibile pure nel vostro negozio, sia mentre comprate, sia mentre vendete, o anche cucinate> (Giovanni Cr.)” (CCC 2742s).

     

     

    DIO ATTENDE IL CUORE

     

    Pregare “continuamente” sarà impossibile se facciamo della preghiera un puro sforzo intellettuale:

    “Se la preghiera dimorasse nel corpo, noi non potremmo contemporaneamente pregare e lavorare; se stesse nella sensibilità, ogni preoccupazione sensibile, la malattia, le emozioni la renderebbero impossibile, essa sarebbe succube di ogni minima variazione di umore; se essa stesse unicamente nel cervello, non potremmo pregare se non facendo della teologia. Ma la preghiera dimora anzitutto nel profondo del nostro cuore, nel profondo di noi stessi; il nostro <cuore> può sempre parlare con Dio, anche quando siamo occupati, quando la sensibilità è oppressa e la nostra testa piena di preoccupazioni. Il cuore può sempre parlare di ciò che è la sua vita e il suo amore.

    Di conseguenza: se il nostro cuore sarà occupato da altre cose più che da Dio, la preghiera tacerà in noi” (P. Chevignard).

    Sul piano concreto è evidentemente impossibile essere in “costante” esercizio di preghiera, ma la tensione che sta nell’amore è una realtà viva che perdura anche quando non ne siamo coscienti.

    L’educazione della preghiera sarà allora una tensione a far s^ che si tenda a dialogare con Dio in ogni occasione, trasformando ogni avvenimento, ogni circostanza in una possibile apertura a Dio, in ricordo costante della sua presenza.

    Distinguiamo perciò l’”esercizio” dallo “stato” di preghiera: si diceva di s. Francesco “Franciscus non orabat, factus enim oratio”.

    Non facciamo perciò dipendere la nostra preghiera da stati, luoghi od orari: essa è sempre possibile in quanto essa dimora nel profondo di noi stessi, nel nostro cuore, come realtà interiore indipendente:

    “Lo Spirito, quando abita in un uomo, non lo lascia dal momento in cui quest’uomo è divenuto preghiera, perché lo Spirito stesso non smette di pregare in lui. Che quest’uomo dorma o vegli, che mangi o beva o faccia qualsiasi altra cosa, e fin nel profondo sonno, il profumo della preghiera si innalza senza fatica nel suo cuore. La preghiera non lo abbandona più. In tutti i momenti della sua vita, anche quando sembra cessare, essa è segretamente attiva in lui di continuo” (Isacco di N.)

     Questa fedeltà ed apprendistato interiore non si può raggiungere se non consacrando ogni giorno un tempo alla preghiera:: per poter offrire tutto il proprio tempo, bisogna imparare a donare un tempo preciso:

    “La preghiera è la vita del cuore nuovo. Deve animarci in ogni momento. Noi invece dimentichiamo colui che è la nostra vita e il nostro tutto. Per questo i Padri della vita spirituale, nella tradizione del Deuteronomio, insistono sulla preghiera come “ricordo di Dio”, risveglio frequente della “memoria del cuore”: <E’ necessario ricordarsi di Dio più spesso di quanto respiriamo> (Gregorio Niss.). Ma non si può pregare in ogni tempo se non si prega in determinati momenti, volendolo: sono i tempi forti della preghiera cristiana, per intensità e durata” (CCC 2697).

    Troppo spesso invece, delusi, lasciamo andare la barca alla deriva scoraggiati, e la dimenticanza di Dio rischia di permeare il nostro cuore:

    “La nostra lotta deve affrontare ciò che sentiamo come nostri insuccessi nella preghiera: scoraggiamento dinanzi alle nostre aridità, tristezza di non dare tutto al signore, poiché abbiamo <molti beni>, delusione per non essere esauditi secondo la nostra volontà, ferimento del nostro orgoglio che si ostina sulla nostra indegnità di peccatori, allergia alla gratuità della preghiera ecc…: la conclusione è sempre la stessa: perché pregare? Per vincere tali ostacoli, si deve combattere in vista di ottenere l’umiltà, la fiducia e la perseveranza” (CCC 2728).

    Abbiamo dunque bisogno, come necessità, di tempi precisi perché si faccia calma in noi stessi e si possa ricomporre un certo ordine interiore:

    “La scelta del tempo e della durata dell’orazione dipendono da una volontà determinata, rivelatrice dei segreti del cuore. Non si fa orazione quando si ha tempo: si prende il tempo di essere per il Signore, con la ferma decisione di non riprenderglielo lungo il cammino, qualunque siano le prove e l’aridità dell’incontro… sempre si può entrare in orazione, indipendentemente dalle condizioni di salute, di lavoro o di sentimento” (CCC 2710)

    Da questa  fedeltà nasce la capacità e l’esercizio ad un’apertura più vasta di fede.

    Allora non è tanto il tempo che manca, ma la fede. Quando saremo convinti dell’importanza della preghiera troveremo di certo anche il modo per farle sempre più posto nella vita. Dovrà avere la stessa importanza del mangiare e del dormire, del respirare: non potremo vivere più senza di essa:

    “La tentazione più frequente, la più nascosta, è la nostra mancanza di fede. Si manifesta non tanto in una incredulità dichiarata, quanto piuttosto in una preferenza di fatto. Quando ci mettiamo a pregare, mille lavori o preoccupazioni, ritenuti urgenti, si presentano come prioritari; ancora una volta è il momento della verità  del cuore e del suo amore preferenziale…. In tutti i casi la nostra mancanza di fede palesa che non siamo ancora nella disposizione del cuore umile: <Senza di me non potete far nulla>(Gv 15,5)” (CCC 2732).

    Prendiamo sempre atto che il fatto stesso di pregare è sempre una grazia unita ai nostri sforzi (Dio lavora l’uomo suda), ed è grazia da domandarsi continuamente.

  • 28 Gen

    di Attilio Fabris

     

     

    Aprirei questa nostra conversazione con un testo di K. Gibran, poeta libanese, che contiene preziosi luci (è la potenza del linguaggio poetico) per dare avvio al nostro discorso:

    Cantate e danzate insieme e siate felici,

     ma lasciate che ciascuno sia solo.

    Anche le corde del liuto sono sole 

    pur se vibrano con la stessa musica.

    State insieme ma non troppo vicini

    perché i pilastri del tempio sono separati

    e la quercia e il cipresso

     non crescono l’uno all’ombra dell’altro.

     

    La solitudine è qui descritta come condizione perché si possa crescere vicendevolmente divenendo pienamente se stessi, senza tentare di vivere “l’uno all’ombra dell’altro”.

    Difficile scelta perché non ci rassicura, anzi innesca la paura di rimanere senza alcun tipo di appoggio: è per questo che solitudine è una parola che può risvegliare dentro di noi risonanze contraddittorie.

    Della solitudine possiamo avere paura perché essa ci può sprofondare nell’angoscia dell’abbandono, ma possiamo anche ricercarla – è il caso dell’esperienza delle grandi religioni e filosofie – con appassionato desiderio, come condizione per riprendere contatto con le profondità del mistero che ci abita, come luogo privilegiato in cui far esperienza dell’Assoluto.

    Essa si presenta perciò come un’esperienza ambivalente-critica che può divenire occasione di di-sperazione come, al contrario, luogo di crescita e di riappropriazione di sé e di autentica apertura all’Altro.

     

     

    1. L’inevitabile solitudine dell’Io

     

    L’etimologia della parola può essere illuminante: la parola “solitudine” trova il suo etimo latino corrispondente nel verbo “se-parare”, parola che rimanda a quella iniziale separazione necessaria anche se dolorosa del nascituro dalla madre. In quel momento la persona inizia la sua avventura da “sola” nel mondo, non più collegata alla madre. Da quel momento la persona intraprende il suo cammino “solitario” nel mondo. E come la nascita segna l’inizio della nostra solitudine così pure l’ultimo respiro segna e conferma drammaticamente che ciascuno è solo al mondo. Consapevolezza faticosa e dolorosa da accogliere perché accettazione del fatto che ciascuno si ritrova “gettato” (per usare il termine haidegheriano) da “solo nel mondo” come essere unico e irripetibile.

    Perciò alla solitudine – per il semplice fatto di nascere e di dover morire – non si sfugge! Sarebbe assurdo perciò rifiutarla e negarla. Con essa occorre “fare i conti” dal primo all’ultimo momento della vita.

    Si prende consapevolezza della propria solitudine quando ci si incontra/scontra, in modo più o meno improvviso, con la propria unicità/diversità/responsabilità dinanzi alla vita. Si tratta di un’esperienza che emerge sempre più imperiosa e talvolta drammatica man mano che la persona avanza nel cammino della vita (la nascita, lo svezzamento, l’asilo, la scuola, l’adolescenza, la giovinezza con i suoi progetti, l’età adulta con le sue responsabilità e sconfitte, la vecchiaia, la malattia, la morte): “si diventa solitari quando si ha l’improvvisa percezione della propria inalienabile solitudine” scriveva il monaco trappista Thomas Merton nel libro intitolato “Pensieri dalla solitudine”.

    Proprio perché inevitabile e situazione nella quale l’uomo si ritrova “solo” al mondo ecco che proprio nella solitudine egli è chiamato a dare una risposta alla domanda essenziale della vita: “Cosa ci sto a fare al mondo? Che senso ha la mia vita?”

     

     

    2. Una solitudine ambivalente

     

    Il discorso si fa più complicato quando si affrontano le modalità con cui ci si rapporta con questa fondamentale situazione di solitudine “esistenziale”.

    Ciascuno cerca modalità a volte estremamente diversificate per tentare di “colmare” a suo modo il “vuoto” derivante dalla propria unicità. Quali le strategie adottate per tentare di uscire dalla solitudine che ci accompagna inesorabilmente? Fatto per la relazione con l’altro ciascuno cerca sin dal principio di uscire (pensiamo solo al neonato) dall’orbita centripeta della sua solitudine (da questa “monade” direbbe Leibniz) entrando in una relazione, in un dialogo con gli altri, col mondo, con Dio. È una ricerca estremamente difficile e ambivalente perché o si riconosce vicendevolmente l’inalienabile solitudine-alterità dell’altro o si ricorrerà a stratagemmi più o meno patologici per inglobare l’altro a sé, fagocitarlo, alla fin fine distruggerlo con la pretesa che egli sia quel tutto che possa riempire la mia vita al prezzo di negargli la sua diversità da me: l’incontro con l’altro è sempre l’incontro con un’altra solitudine. È solo il silenzio che “garantisce la percezione dell’alterità, del mistero dell’altro” (Enzo Bianchi).

    Io in quanto sono “io” devo accettarmi come solitudine chiamata alla comunione con la diversità dell’altro: “il nostro desiderio di amore, anche quando lo viviamo con una persona matura, è sempre in perdita, perché dentro di noi permane un anelito che non deriva da una carenza affettiva, ma da una dimensione incolmabile, da un bisogno che va oltre ogni dose di affetto terreno che riceviamo” (G. Daquino, Bisogno d’amore).

    Comuni a tutti sono i sentimenti e gli stati d’animo (legati in modo particolari a certi passaggi della vita) legati al rimpianto di istanti di pienezza e comunione, allo struggimento per relazioni ormai scomparse, all’ansia d’una ricerca di appartenenza che sembra sempre fatalmente negata (ci si sente sempre fuori posto!), al desiderio inappagato – che a volte diviene aggressivo e violento – di intimità capace di colmare il vuoto della propria vita, all’angoscia che scaturisce dal fatto di ritrovarsi frustrati ed incapaci di vere relazioni: così “sembra che la solitudine del cuore sia così abissale da non essere raggiunta da nessuna voce umana” (Galimberti, Le cose dell’amore).

    Ma vi possono essere sentimenti positivi legati ad esperienze di solitudine: essi generalmente sono vissuti come “peak esperiences” (Maslow), ovvero istanti di pienezza in cui la solitudine non spaventa ma rappresenta al contrario l’instante di un’intuizione felice e piena di un “ritrovarsi immersi” in una totalità nella quale alla persona è dato di toccare, fosse solo per un momento, la gioia di essere se stessi nel mondo. È nel silenzio misterioso di chi è immerso nella natura, o sotto la cupola infinita delle stelle, o all’ombra delle volte di una grande cattedrale, o il silenzio dolcissimo colmo di parole non dette che intercorre tra innamorati, o il silenzio dolce della madre che tiene tra le braccia il suo bambino, o del monaco in preghiera nella notte nel silenzio della sua cella.
    Dunque la risposta alla solitudine non è per nulla scontata. Essa per essere costruttiva esige un ascolto della propria coscienza e una conseguente maturità che porti in un primo tempo a riconoscere e in secondo tempo a dare significato e spessore a questa solitudine “esistenziale”. Un percorso non facile e di maturazione della propria libertà e responsabilità.

    Non meraviglia perciò il fatto di constatare tante risposte se non abnormi e patologiche il più delle volte insoddisfacenti e talvolta addirittura distruttive.

     

     

    3. La solitudine “ vuota”

     

    Uno sguardo attorno a noi ed in noi ci porta a riconoscere che questo percorso è reso oltremodo difficile, a volte culturalmente e socialmente insormontabile: alla solitudine “esistenziale” l’uomo della nostra cultura occidentale non sa più dare, e non è più aiutato a dare!, una ragione e una risposta (dia 7).

     Li abbiamo tutti sotto gli occhi: bambini lasciati soli davanti alla TV e sballottati da un genitore all’altro, famiglie in cui ristagna solo una pesante cappa di silenzio,  vecchi abbandonati negli ospizi, malati relegati in anonime corsie di ospedale, ragazzi sprofondati nella solitaria prigione del loro walkmann o del loro videogioco, il disoccupato disperato,  il divorziato che si ritrova a far i conti col fallimento di una vita, il gruppo anonimo degli ultrà o il gruppetto muto e spaesato dei ragazzi del muretto, il senza-casa o l’extracomunitario in fila per il pasto…è un panorama desolante che si incontra ogni giorno!

    La solitudine-isolamento è il male della nostra “città”. Il rumore e una musica banale è il continuo sottofondo per riempire il silenzio.

    La soluzione è più che altro cercata all’interno di orizzonte inconcludenti e vuoti, realtà apparentemente piene di immagini e di suoni e di parole ma in realtà estremamente vuote: il denominatore comune è dato dal costante sforzo di fuggire-evitare- sopprimere la solitudine, il silenzio, in un’angoscia del non “dover-mai-restare-soli”.

    A questo fine tutto può essere usato: dipendenze da alcol e droga o altro, comportamenti compulsavi (internet, cell., shopping, gioco d’azzardo, a surrogati di vario tipo: il lavoro…).  Queste piste di soluzione rischiano di sprofondare la persona nell’inferno di un grave disagio che può evolversi in malattia psichiatrica vera e propria.

    Culturalmente e socialmente si è esasperato il soggettivismo (e dunque l’individualismo) con la conseguenza  che si è ancor più esasperato l’orizzonte della solitudine. Le relazioni sentite come necessarie sono vissute più che altro in funzione dell’io, in un contesto spesso di rivalità e competizione, di predominio. Galimberti commenta questa situazione: “Nella nostra epoca l’amore diventa indispensabile per la propria realizzazione e al tempo stesso impossibile perché, nella realizzazione d’amore, ciò che si cerca non è l’altro, ma attraverso l’altro, la realizzazione do sé” (Le cose dell’amore). L’uomo alla fin fine cerca “solo se stesso”: e la conclusione inevitabile di questa tensione esasperata è lo sprofondare in una solitudine sempre più vuota, nella quale è precluso ogni autentico incontro di sguardi e si riscontra un’assenza di parola vera capace di intessere dialogo: “Non ci si angoscia per “questo” o per “quello”, ma per il nulla che ci precede e che ci attende. Ed essendoci il nulla all’ingresso e all’uscita della nostra vita, insopprimibile sorge la domanda che chiede il senso del nostro esistere” (Galimberti, Le cose dell’amore).

    Spietata nella sua crudezza, l’analisi che di questa situazione faceva già a suo tempo  F. Nietzsche ne “La gaia scienza”: “Che mai facemmo a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non abita su di noi uno spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte?”. Non è forse proprio nella notte che soprattutto i giovani, in masse anonime, cercano di fuggire alla loro solitudine ricorrendo allo “sballo” delle droghe, dell’alcol, del sesso, della violenza, della sfida al pericolo? Non è forse nella notte che le angosce più profonde assalgono all’improvviso il cuore togliendo la voglia di vivere?

    Un complesso musicale degli anni ’70 cantava un motivo di successo: “Tutta mia la città: un deserto…”. (Equipe 84). La “città” paradossalmente assurge sempre più a un deserto senza vita, senza colore, dove gli sguardi non si incrociano, una folla anonima senza direzione, dove non esistono parole ma solo comunicazioni di servizio, silenzio pesante e vuoto che impermea il caos rumoroso del traffico. La città è il deserto “vuoto” e sterile, senza punti di riferimento e in cui si corre a vuoto, intorno a se stessi e senza destinazione(il quadro di Munch, “L’urlo” ne potrebbe essere emblematica icona).  

     

     

    4. La sfida del deserto

     

    Tuttavia la coscienza attenta percepisce che il dramma della solitudine può trasmutarsi in  portatrice di certo temibili ma quanto salutari! rivelazioni. Essa potrebbe far emergere, più o meno violentemente, le proprie paure, i propri vuoti e conflitti, che nella vita quotidiana si cerca continuamente di mettere a tacere e di non affrontare perché scomodi, dolorosi, bisognosi di risposta e cambiamento.

    Accettare di entrare nella solitudine equivale ad accettare d’entrare in battaglia con i “nostri demoni”, obbligando la nostra coscienza ad assumere la propria libertà e responsabilità nei confronti della direzione da imprimere alla nostra vita. Si tratta di una vera e propria discesa nel “profondo” del cuore per scoprirvi la radice del senso della vita. Ci si dirige verso il luogo in cui si è collocati dinanzi all’essenziale! “Solo la solitudine permette all’uomo di scoprire, e dunque di affrontare, tutte le forze oscure ch’egli porta in sé. L’uomo che non sa restare solo, non sa neppure (e oscuramente non vuole) riconoscere, in fondo al suo cuore, i conflitto ch’egli si sente incapace di mettere a nudo, o anche solo di sfiorare. La solitudine è una prova terribile, perché fa scricchiolare ed andare a pezzi la vernice delle nostre sicurezze superficiali: essa ci scopre gli abissi sconosciuti che tutti portiamo in noi stessi. E, afferma la tradizione degli antichi monaci, essa ci scopre che questi abissi sono infestati: non sono soltanto le profondità della nostra anima, ignorate da noi stessi, che noi scopriamo, ma anche le potenze oscure che vi sono come rimpiattate, e di cui noi resteremo fatalmente schiavi fino a quando non ne avremo preso coscienza. E, a dire il vero, questa coscienza ci schiaccerebbe se non fosse illuminata dalla luce della fede. Solo il Cristo può impunemente scoprirsi “il mistero di iniquità”, perché egli solo, oggi in noi come una volta già per noi, può affrontarlo con successo” (L. Bouyer, Spiritualità dei Padri).

    Nella tradizione biblica e spirituale cristiana il deserto, la solitudine, assurge a luogo di una duplice rivelazione: quella di Dio e quella del male. Nella storia della spiritualità il deserto è il luogo della lotta con il demonio (cfr Vita di Sant’Antonio) perché nella sua essenzialità smaschera inevitabilmente tutti quei “demoni-mostri” che, in altri contesti, subdolamente abitano il fondo della nostra coscienza e la governano.

    Intravediamo in questa disponibilità ad entrare in contatto, attraverso la solitudine, con le profondità del nostro essere. Questa è la condizione perché si recuperino quelle dimensioni che sono tipicamente “umane”: la riscoperta della libertà, della responsabilità dinanzi alla vita, del suo senso ultimo.

     

     

    5. Opportunità di crescita

     

    (dia 11). Se l’uomo si ritrova oggi sprofondato in queste solitudini per la maggior parte subite, sofferte, rifiutate è saggio e doveroso chiedersi: che fare per aiutare la persona ad affrontare la propria solitudine, a leggerla in modo costruttivo, a saperla utilizzare per il proprio sviluppo umano e spirituale?  Non potrebbe l’esperienza del vuoto e dell’angoscia trasformarsi in occasione (“crisi”) per intraprendere nella propria vita percorsi diversi che vadano in profondità, che rieduchino e risveglino le domande vere e i bisogni più profondi che nascono solo dall’ascolto della coscienza? L’uomo contemporaneo proprio perché frastornato, “sfilacciato”, “di-sperso”, nel rumore e nell’anonimato, nei suoi frustranti tentativi di colmare inutilmente il proprio disagio ha bisogno di riscoprire urgentemente proprio dentro la sua solitudine il luogo e l’occasione per ritrovare se stesso, cessando di vivere da “alienato” ovvero fuori di sé. Bernardo di Chiaravalle monaco cistercense affermava con lucidità che: “Dio non discorre con quelli che stanno al di fuori di se stessi” (Lettere, 107).

    Così la solitudine può trasmutarsi in trampolino per un balzo verso la ricerca della verità, e quindi verso il bene, il buono e il bello. Essa diviene possibilità in cui all’uomo è offerto di aprirsi alla consapevolezza di essere fatto per “un oltre” che “va al di là” di quel “soggettivismo-individualismo-relativismo” che ci impregna e costringe all’isolamento.

    Perché questo accada non rare volte si necessita di un evento che sia traumatico, un elettroshok spirituale..  Nella vita di ciascuno giunge quasi sempre – c’è da augurarselo! – il tempo di smettere di fuggire da se stessi – fosse pure negli ultimi istanti della vita – e di entrare nella tragedia-dramma della “propria” solitudine ovvero in quella grazia del ritrovarsi – finalmente – di fronte al mistero di  se stessi e dell’Altro. Qui si attua – se si fa in verità – un giudizio spietato, e talvolta dall’esito drammatico, sulla propria vita!: “A dire il vero – scrive il teologo psicoterapeuta Eugen Drewermann – dal punto di vista psicologico non esiste forse niente di più augurabile che venire messi, ad un certo momento, di fronte a se stessi senza orpelli, ma non è una cosa che si può forzare. Si presenta quando è matura, e non siamo noi a recarci in questo genere di deserto, ma come dice Marco, in questi spazi decisivi dell’esistenza ci veniamo sospinti”.

    Nel “deserto” luogo dove si “spengono le luci e i colori del mondo esterno, per rivolgere lo sguardo verso l’interno” (P. Evdokimov) ci troviamo faccia a faccia con noi stessi, senza falsi specchi che ci rinviano alle nostre precostituite, illusorie, compromettenti immagini di noi stessi. (dia 13).Qui si offre un’opportunità preziosa per imparare l’essenziale, ovvero a discernere ciò che conta da ciò che non conta: “La vita solitaria, essendo silenziosa, dissipa la cortina di fumo delle parole, posta dall’uomo tra la sua anima e le cose. Nella solitudine rimaniamo faccia a faccia con la nuda essenza delle cose. Eppure scopriamo che la crudezza della realtà, da noi temuta, non è motivo né di paura, né di vergogna. Viene ricoperta nell’amichevole comunione del silenzio, e questo silenzio è legato all’amore” (T. Merton)

    Nel silenzio e nella solitudine del deserto si è obbligati a scegliere continuamente tra la morte e la vita, tra il ripiegamento nelle nostre paure e angosce, o l’aprirci fiduciosi alla promessa e alla speranza che ci pone in cammino. Il deserto pone in uno stato di perenne tensione, di pellegrinaggio, obbligando a fissare lo sguardo fuori di noi all’orizzonte cercando sempre al di là. Non ci si può fermare nel deserto, pena la morte: si è obbligati o ad avanzare o a tornare indietro!

    In questo avanzare pellegrini nella solitudine è racchiusa una promessa di un tesoro che non è immediato e alla portata di mano, esso esige il lento, faticoso e paziente scavo nelle “profondità del proprio cuore”, perché liberato da tutte le macerie e i rottami di una vita inconcludente si apra alla rivelazione di un nuovo modo di guardare alla vita che passa attraverso la griglia dell’essenzialità e la categoria dell’eterno: il frutto è la pace interiore di un orizzonte sconfinato che si apre dinanzi alla propria libertà.

     

     

    6. Una proposta

     

    Da quanto detto appare chiaro come la fede biblica non debba e di fatto non annulla la solitudine “esistenziale” in cui l’uomo è collocato sin dall’inizio. Essa tuttavia all’interno della rivelazione si pone come una premessa in vista di un progetto di comunione per cui l’uomo è stato creato: “Non è bene che l’uomo sia solo” (Gn 2,21). La spiritualità biblica assume e riconosce la solitudine come situazione nella quale all’uomo è riofferta l’occasione di ritornare (“convertirsi”) a ciò per cui è stato creato.

    Tutta la spiritualità cristiana (pensiamo all’esperienza del monachesimo o all’esperienza degli Esercizi Spirituali) ben utilizza la solitudine some strumento, mai fine a se stesso!, per imparare a leggere nelle proprie nostalgie, ansie, paure, desideri più profondi un invito alla trascendenza per cui siamo stati fatti. Nel silenzio il cuore può parlare e dire ciò che più desidera senza la tentazione di fuggire a se stessi. Un motto monastico intuiva questo risvolto quando ripeteva: “O solitudo vera beatitudo”.

    Così la solitudine da nemica diviene amica irrinunciabile al fine di aiutarci a dare spessore e scopo alla vita quotidiana fatta di tante cose da fare, da mille contraddizioni da affrontare, di mille problemi da risolvere. Non diviene fuga ma luogo in cui ritrovare il bandolo della matassa e non sperdersi nei meandri della cose. Diviene maestra di “umanizzazione” in quanto insegna a riaccostarsi alla verità di se stessi senza fuggirla, un tesoro a disposizione di ogni essere umano che sia disposto a scavare nella propria interiorità per poterlo dissotterrare, come sapientemente invitava a fare il poeta Kavafis: “E se non puoi la vita che desideri / cerca almeno questo / per quanto sta in te: / non sciuparla / nel futile commercio con la gente, / vane parole in un viavai / frenetico. / Non sciuparla portandola in giro / in balìa del quotidiano / gioco balordo degli incontri e degli inviti, / fino a farne una stucchevole estranea“.

    E un grande testimone contemporaneo della fecondità del deserto quale è stato Charles de Foucauld scriveva dalle infuocate distese di sabbia del Sahara: “Bisogna passare attraverso il deserto e dimorarvici per ricevere la grazia di Dio: è là che ci si svuota, che si scaccia da noi tutto ciò che non è Dio e che si vuota completamente questa piccola casa della nostra anima per lasciare il posto a Dio solo”.

    Sono convinto della necessità di dare vita a “laboratori di umanizzazione” in cui alle persone che lo richiedono possano trovare un contesto fatto di luoghi e persone che siano di aiuto nell’insegnare a riprendere contatto con se stesse e con il Mistero.

    Rientra tutto questa proposta quell’emergenza educativa di cui oggi molto si parla, e a ragione! Alle coscienze troppo ottenebrate, distolte dall’essenziale, fagocitate da una società del consumo e del potere che trova enormi interessi a far sì che l’uomo disimpari a pensare e riscoprire la propria libertà e responsabilità, è urgente offrire loro la possibilità di rieducarsi anche attraverso il silenzio e  la solitudine al fine di saper riascoltare se stesse, al riprendere contatto con il proprio “io”.

    Urgenza da offrire soprattutto alle nuove generazioni che stanno vivendo e incontreranno disagi non indifferenti nel prossimo futuro, ma da offrire anche a non pochi adulti che ad un certo punto della loro cammino spesso domandano di essere aiutati a riprendere il “filo della matassa” della loro esistenza sfilacciate da sofferenze, abbandoni, sconfitte, malattie…

    Le comunità cristiane e in particolar modo quelle religiose e soprattutto quelle contemplative dovrebbero essere impegnate in questo in prima fila nella consapevolezza che quest’opera di rieducazione dell’ascolto della coscienza è la premessa indispensabile se si desidera poi procedere ad una significativa proposta di apertura alla fede.

     

     

    Bibliografia

     

    Sant’Atanasio, Vita di sant’Antonio-Lettere, ed Paoline, Milano 1995

    L. Bouyer, La spiritualità dei Padri, EDB , Bologna 1968

    San Bruno; Lettera a Rodolfo il Verde, PL 154,421

    E. Borgna, L’arcipelago delle emozioni, Feltrinelli, Milano 2001

    E. Borgna, Noi siamo un colloquio, feltrinelli, Milano 1999C.

    C. Carretto, Lettere dal deserto, La Scuola, Brescia, 1975

    S. De Fiores, Deserto, in “Nuovo dizionario di Spiritualità”, ed Paoline, 1975

    U. Galimberti, Le cose dell’amore, Feltrinelli, Milano, 2005

    U. Galimberti, Psiche e tecne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999

    A. Grun, Lacerazioni. Il cammino verso l’unità personale, ed. Messaggero, Padova 2003

    M. Melenso, Passione per la vita, ed. CVX, Roma 1997

    Un Monaco, L’eremo-spiritualità del deserto, Queriniana, Brescia, 1976

  • 28 Gen

     

    Una prima constatazione che possiamo fare è che non sappiamo pregare; è un’esperienza fatta dagli stessi apostoli:

    “Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei suoi discepoli gli disse: Signore, insegnaci a pregare” (Lc 11,1)

    E’ importante per la verità di noi stessi e di conseguenza per la preghiera, accorgerci di questa difficoltà: “io non so pregare”. Affermare questo implica già una spinta a cercare, a non fermarci.

    Se la preghiera è dialogo, incontro, essa è difficile perché il più delle volte non percepiamo il nostro interlocutore. Egli rimane nascosto, apparentemente assente. Se è incontro essa deve perciò essere caratterizzata dalla spontaneità.

    Ma allora è giusto parlare delle leggi della preghiera senza rischiare l’artificiosità, l’inautenticità, la non spontaneità?

    Se la preghiera è incontro, dialogo con Dio, dobbiamo imparare il linguaggio nascosto di Dio:

    “Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo Spirito dell’uomo che è in lui?

    Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio” (1Cor 2,11)

    “Nessuno può dire: “Gesù è Signore” se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1Cor 12,3)

    “Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili” (Rm 8,26)

    E’ vero: non sappiamo pregare. Da noi stessi non potremmo parlare il linguaggio di Dio; ma il dono dello Spirito fattoci da Gesù nella Pasqua, ci rende capaci ormai anche di questo.

    All’inizio della nostra preghiera non deve mai mancare l’invocazione allo Spirito che abita in noi, perché ci suggerisca pensieri secondo il cuore di Dio:

    “Nessuno può dire: “Gesù è Signore” se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Cor 12,3).

     

    Ogni volta che incominciamo a pregare Gesù è lo Spirito Santo che, con la sua grazia preveniente, ci attira sul cammino della preghiera… Ecco perché la Chiesa ci invita ad implorare ogni giorno lo Spirito Santo, soprattutto all’inizio e al termine di qualsiasi azione importante: Vieni Spirito, riempi il cuore dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore”” (CFC 2670s)

     

    Una delle prime difficoltà che incontriamo nel cammino della preghiera è: “Devo preoccuparmi delle formule?”.

    Anzitutto consideriamo come Gesù nella parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14) ci mostra che l’essenziale della nostra preghiera è presentarci come poveri, “mendicanti di Dio”.

    S. Giovanni della Croce ci offre le ragioni per cui alle formule dobbiamo preferire l’atteggiamento interiore:

    “La ragione per cui è meglio per colui che ama presentare le sue necessità piuttosto che domandare di soddisfarle è per tre motivi: il primo perché il Signore sa meglio di noi stessi ciò di cui abbiamo bisogno; il secondo perché l’amico è preso da compassione più vedendo la necessità di colui che l’ama; il terzo perché l’anima è più protetta dal rischio dell’amor proprio e dalle pretese presentando ciò che le manca, più che domandando ciò di cui le sembra di aver bisogno” (lettera alle carmelitane di Becs).

    Tutto quanto detto è confermato dagli esempi tratti dalla Scrittura.

    Maria a Cana non dice: Protesti dare loro del vino?; ma “Non hanno più vino” (Gv 2,3).

    Marta e Maria implorano: “Il tuo amico Lazzaro, colui che ami, è malato” (Gv 11,3).

    Così il centurione a Cafarnao (Mt 8,6) e la donna cananea (Mt 15,22ss).

    Anche nell’antico testamento troviamo un esempio significativo: è la storia di Mosè. Ciò che ottiene la liberazione del popolo non sono né i miracoli, né le assicurazioni, né l’eloquenza. Questi strumenti non hanno che un risultato: l’indurimento del cuore del faraone. Ma è quando Mosè sperimenta tutta la sua debolezza ed è scoraggiato che egli innalza la sua vera preghiera: “Ma chi sono io?” (Es 3,11; 4,10; 5,21-23).

    Mosè stesso sperimenta la paura; ma è attraverso la sua paura e la sua debolezza che impara a parlare con Dio.

    Così anche Elia, quando scoraggiato nella fuga implora di morire (1Re 4,5); così Geremia, al momento della sua chiamata e nelle difficoltà e sofferenze della sua missione (Gr 20,7).

    Soprattutto abbiamo ancora l’esempio di Gesù nell’orto del Getsemani, e il suo grido sulla croce.

    Nel momento dell’estrema debolezza e povertà Dio interviene, quando è impossibile ingannarsi su colui che veramente può portarci in salvo.

    JHWH risponde a Mosé: “Io sarò con te”; l’angelo dirà a Maria: “Non temere”. Gesù nella sua agonia sperimenta la vicinanza del Padre: “Venne allora una voce da cielo: L’ho glorificato e lo glorificherò ancora” (Gv 12,28).

     

    Le formule della nostra preghiera non si esprimono necessariamente a parole o rappresentazioni intellettuali. La preghiera, talvolta, potrà solo consistere in un grido del cuore, uno sguardo supplice rivolto a Dio:

    “Che la vostra preghiera ignori ogni molteplicità: una parola bastò al pubblicano e al figliol prodigo per ottenere il perdono… Nessuna ricercatezza nelle parole della vostra preghiera: quante volte i semplici e monotoni balbettamenti dei bambini inteneriscono il loro padre! Non abbandonatevi a lunghi discorsi per non dissipare il vostro spirito nella ricerca delle parole. Una sola parola del pubblicano ha commosso la misericordia di Dio, una sola parola piena di fede ha salvato il ladrone” (G. Climaco, Sc. Par.).

    Sarà tuttavia utile esprimere la preghiera attraverso la nostra parola. E’ la cosiddetta preghiera vocale:

    “Con la sua Parola Dio parla all’uomo. E la nostra preghiera prende corpo mediante parole, mentali o vocali. Ma la cosa più importante è la presenza del cuore a colui al quale parliamo nella nostra preghiera: Che la nostra preghiera sia ascoltata non dipende dalla quantità delle parole ma dal fervore delle nostre anime” (Giov. Crisost.)”

    “Il bisogno di associare i sensi alla preghiera interiore risponde ad un’esigenza della natura umana. Siamo corpo e spirito, e quindi avvertiamo il bisogno di tradurre esteriormente i nostri sentimenti. Dobbiamo pregare con tutto il nostro essere per dare alla nostra supplica la maggior forza possibile” (CFC 2701s)

    Riassumendo: la preghiera è una realtà molto semplice.  Il dialogo con Dio non è complicato. Prima preoccupazione non è cercare delle formule, né sapere che cosa dobbiamo ottenere: la cosa indispensabile è imparare a parlare a Dio con la nostra

    debolezza:

    “Che la mente non si sparpagli in cerca di parole…Le molte parole nell’orazione sovente riempiono la testa solo di idee e distrazioni, mentre la brevità e talora una parola sola può conciliare il raccoglimento. Quando in una parola dell’orazione ti senti pervadere di dolcezza o di compunzione, fermati in essa” (G.Climaco, Sc Par).

    Non bisogna spaventarsi se Dio nella sua pedagogia inizia col smascherare tutte le nostre illusioni, al fine di collocarci nella verità. Infatti, se egli veramente ci ama, non può sopportare che noi ci sbagliamo sulla nostra vera felicità.

    Accettare l’amore di qualcun altro è permettergli di esercitare su di noi una certa gelosia: Dio ha per noi la gelosia della verità.

    Dio purifica così il nostro desiderio, trasformandoci in uomini dell’attesa: “Siate vigilanti” (Mt 24,42). Dio ha sempre agito così, in modo da condurre l’uomo a preferirlo a tutto il resto.

    La preghiera è vera nella misura in cui ci spinge a ri-cercare Dio, se diviene testimonianza che preferiamo Dio a tutto il resto.

    La scoperta della nostra povertà è la modalità attraverso cui l’immensa ricchezza di Dio ci è data da condividere, a cui siamo invitati ad aderire:

    “Tutto posso in colui che mi dà la forza”

    “Nulla è impossibile a Dio”

    “Mi glorierò della mia debolezza perché possa risplendere in me la potenza di Dio”

    Nella vita di Mosè, come in quella dei santi, le prove e le sconfitte superano il loro senso immediato: esse testimoniano che l’opera di Dio si è manifestata e rivelata come unicamente sua, un’opera dettata dall’amore per la sua creatura:

    “Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi con compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli di amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare” (Os 11,3-4).

    Nella nostra vita Dio non può rivelarci il suo amore se non passiamo l’esperienza che Lui solo può liberarci, e in lui solo possiamo riporre ogni nostra speranza.

    Ripeteva Gandhi: “Pregare è un’ammissione quotidiana della nostra debolezza”.

    Sa Paolo scriveva: “Quando sono debole è allora che sono forte” (2Cor 12,9-10).

    Accettare la povertà non comporta allora la gioia per una mancanza, ma una gioia in quanto essa può essere occasione di rivelazione del nostro dipendere da un altro. E’ il senso del verbo”credere” nella Scrittura: lasciarsi portare da un altro.

     

     

     

  • 27 Gen

    di p. Attilio Franco Fabris 

     

    La Parola del Vangelo, se ascoltata, scuote come un vento burrascoso, una tempesta capace di buttare all’aria tutto ciò che con pazienza e fatica abbiamo costruito con l’intento “santo” di difendere e custodire la fede. La Parola infatti non tollera palizzate fatte di leggi consuetudini, riti: tutto questo rischia da parte nostra di paralizzarla, di affossarla, nasconderla, rendendola alla fin fine inoffensiva.

    Lo Spirito, dal giorno della Pentecoste, non sopporta più porte e finestre chiuse; per agire spalanca e abbatte tutto. Chiediamo nella preghiera di renderci disponibili a lasciarci travolgere dal vento impetuoso dello Spirito di Gesù, e che il rombo del suo tuono metta a tacere le nostre tante vuote parole.

    Vieni Spirito di libertà, dono del Crocifisso Risorto. Vieni come vento burrascoso e terremoto che scuote la casa (At 2,2; 4,31),  abbatti nel nostro cuore ogni paura, butta all’aria tutti quei muri di separazione che per troppa prudenza e paura abbiamo costruito con la scusante della fede, ma in verità per impedirti di agire con forza e novità nella nostra vita.

    Tu conosci la durezza del nostro cuore, la sua incapacità di ascoltare la Parola che libera e salva. Facci prendere coscienza di questa durezza di cuore onde indurci a quel pentimento e a quelle lacrime che, sole, sono capaci di ammorbidirlo rendendolo disponibile alla tua azione.

    Vieni come Spirito di forza, di coraggio, tu che sei Spirito che spalanca alla sua Chiesa e a ciascuno di noi orizzonti sempre più vasti e ampi. Facci oltrepassare, anche se neghittosi, tutti quei confini irti di fili spinati fatti di leggi, consuetudini, modi di pensare e di agire standardizzati, che vorremmo continuamente impiantare e conservare ad ogni costo per non scomodarci, per non metterci ogni giorno in discussione. Tu vuoi aprirci, Spirito di vita, al cammino di libertà dei figli, impedendoci di ricadere nella condizione di schiavi.

     

    Lectio

     

    Il brano che mediteremo è Marco 7,1-13. Siamo nella cosiddetta “sezione dei pani” (6,30-8,21) nella quale Gesù, dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani per i cinquemila nel deserto, presenta se stesso come quel vero nutrimento spirituale dono di Dio  di cui l’uomo ha bisogno per la sua vita. Ma a Gesù che si presenta come pane risponde la cecità e la durezza di cuore non solo degli avversari ma anche degli stessi discepoli incapaci di riconoscere e accogliere il suo dono (cfr 7,18).

    Il testo, dallo stile profetico, presenta alla comunità cristiana una diatriba tra Gesù e gli scribi e farisei “venuti da Gerusalemme” (v.1).  Gerusalemme è il centro della fede e dell’ortodossia religiosa ebraica. A Gerusalemme, luogo dell’istituzione legata al tempio e al sacerdozio, la tradizione presume di aver conservato la purezza dell’interpretazione del dono della Legge. Presunzione che Gesù, sulla scia dei grandi profeti, più volte prende di mira denunciandone la falsa pretesa (cfr Ger 7,4; Mc 11,27ss). I farisei sono coloro che pongono tutte le loro energie a servizio dell’osservanza scrupolosa e  inoppugnabile della legge. Gli scribi sono invece coloro che studiano la legge e la conoscono in ogni sua sfumatura. Chi più di loro può sentirsi autorizzato nel denunciare ciò che allontana dalla retta pratica della fede? L’antitesi legge/vangelo, che accompagnerà anche la storia della comunità cristiana (cfr At 15,5ss), emerge nel nostro testo violentemente.

    Il motivo del conflitto è causato dal comportamento dei discepoli che “prendevano cibo (lett: pane) con mani immonde” (v.2) cioè  “non lavate”. La discussione ha perciò come perno le questioni legate al cibo e alla purità. Il significato di questa norma (di per sé riservata ai soli sacerdoti e successivamente ampliata) non è solo e anzitutto questione igienica: per il pio israelita è soprattutto invito a riconoscere che quel cibo è dono di Dio, e quindi va consumato con il rispetto e la venerazione nei confronti del donatore. Il significato della norma era perciò aiutare a “fare memoria”, nel dono del “pane”, dell’alleanza con Dio. Ma ora il pane è Cristo stesso, ed è lui che discepoli, farisei e scribi sono chiamati a riconoscere come dono di Dio. Tutto il resto dovrebbe passare in secondo piano: anche la legge santa! Ma questo non accade, e il motivo è semplice: la cecità e la durezza del cuore di tutti.

    La loro recriminazione inizia con le parole: “Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi?” (v.5). Farisei e scribi, che hanno ben coscienza del peso della loro autorità in mezzo al popolo, si scandalizzano di Gesù. Non è egli chiamato rabbi? Perché non interviene, come suo dovere, a favore della legge? Se Gesù fosse realmente un rabbi  rispettoso della legge non dovrebbe permettere questo.

    Farisei e scribi si rifanno alle tradizioni “degli antichi”, ovvero agli illustri interpreti ufficiali della legge di Mosè. Il fardello della legge diventa pesante, insopportabile (cfr Mt 23,4): cumuli di pratiche, riti, precetti, tradizioni che in teoria dovrebbero facilitare il vivere l’alleanza in realtà finiscono per ostacolarla, impedirla, nasconderla perché le norme diventano fini a se stesse, dimentiche della loro funzione di semplici strumenti e in quanto tali sempre soggette a discernimento e verifica alla luce della Parola.

    A questa rigida presa di posizione degli avversari Gesù risponde (v. 6) con la citazione di Isaia 29,13 (cfr Am 5,21-27; Is 1,11-20…). Citando i profeti Gesù si colloca nella loro linea di severa accusa nei confronti di un culto ormai decaduto perché solo esteriore. L’antitesi posta dal testo di Isaia è tra culto delle labbra e del cuore, ovvero tra culto esteriore e interiore.

    Giungiamo al v. 8 al nucleo centrale della denuncia fatta da Gesù: “Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini”. L’uomo “religioso” (da intendersi come l’uomo non ancora evangelizzato) corre sempre il tremendo rischio di porre al primo posto la legge con la quale ricercare la propria giustificazione.

    Gesù porta quindi un esempio limite con il quale dimostra concretamente come la legge, e l’interpretazione che ne fa la tradizione “degli antichi”, diventa occasioni di subdola ipocrisia. E’ l’abile malizia del cuore indurito per cui la legge “santa” si trasforma in sottile strumento per eludere la verità e le esigenze autentiche della religione “del cuore”.

    Il termine “ipocrisia” è significativo: l’ “ipocrita” era il protagonista nella scena teatrale, colui che impersonava ciò che non era, pantomimo di una realtà inesistente. L’ipocrisia è la presunzione di voler apparire davanti agli altri, a se stessi e a Dio, più o meno consciamente, per quello che non si è.

    Dopo l’esempio riportato Gesù non esita a concludere il suo discorso affermando una realtà scomoda: “E di queste cose ne fate molte” (v. 13). Realmente la malizia del cuore umano non conosce confini.

     

    Collatio

     

    Esiste anche per noi cristiani il rischio di ricadere nella religiosità “delle labbra”; ovvero in una pratica religiosa vuota, sterile, perché privata della sua vera radice che è l’essere innestata non nella legge ma in un autentico rapporto con Dio. Una religiosità delle “labbra” è molto lontana da quella del “cuore” dove si gioca realmente la libertà della coscienza dinanzi alla Parola. Purtroppo sono molti che fanno propria la religione “delle labbra” se è vera la frase usata dai vescovi italiani in un documento di alcuni anni fa nel quale affermavano che “le nostre chiese sono piene di praticanti ma non di credenti”.

    La rivelazione biblica ci presenta il cuore dell’uomo indurito a causa della propria chiusura all’ascolto della Parola. Ecco allora l’uomo “sordo” porsi alla ricerca della propria giustificazione, fatta delle mille sicurezze derivanti dall’osservanza della legge. Si diventa cultori della legge, antica e… nuova, quando l’uomo “religioso” pone il sabato prima dell’uomo, giungendo stoltamente a sacrificarlo alla legge. Nessuna legge, neppure religiosa, può arrogarsi tale pretesa.

    La legge, antica e nuova, cerca sempre di svuotare la Buona Notizia, che è l’umile e gioiosa accoglienza della gratuità del dono di Dio. Si vuole trasformare il vino nuovo di Cana nuovamente nell’acqua degli otri della legge (cfr Gv 2,6). I cinquemila nel deserto hanno mangiato con gioia e entusiasmo del dono del pane moltiplicato senza preoccuparsi d’essersi prima lavati le mani! A questa gioia che trasborda la legge risponde volendosi mettersi di mezzo, nella presunzione d’essere lei strumento di salvezza.

    Qui sta il grande travisamento del dono della legge: per l’apostolo Paolo suo compito non è di giustificarci dinanzi a Dio, ma solo di farci prendere coscienza dell’impossibilità di salvarci da soli:Infatti in virtù delle opere della legge nessun uomo sarà giustificato davanti a lui, perché per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato” (Rm 3,20). Quando la legge dimentica questo, si trasforma in strumento di difesa nei confronti di Dio e delle esigenze della sua Parola. Essa infatti permette di attaccarci in tutta buona coscienza alle garanzie offerte dalle norme del passato, evitandoci la fatica e la sofferenza dell’umile ascolto della Parola. La legge è più comoda perché deresponsabilizza, fa dipendere dall’esterno la verità del rapporto tra la coscienza e Dio. Tragico destino della legge che, nata per additare la porta stretta della vita, diviene meschina e comoda autostrada che conduce alla “sclerocardia”, come amavano dire i padri orientali. Essa invece di aiutare l’uomo a puntare lo sguardo sull’essenziale si trasforma in idolo: quando il tuo dito indica la luna, dice un famoso proverbio cinese, lo stolto guarda il tuo dito.

    Gesù vuole liberare l’uomo e la sua comunità, dalla legge che lo rende solo schiavo. E’ questo il messaggio lanciato agli scribi e farisei venuti da Gerusalemme: egli vuole dal profondo del suo cuore che il nostro rapporto con Dio sia quello tra Padre e figli. Dio non vuole schiavi!

    La Buona Notizia annuncia il primato della religione del cuore che supera ogni legge: “E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre!” (Rm 81,5).

     

    Oratio

     

    Chiediamo ora al Signore la grazia di poter riconoscere senza timore la durezza del nostro cuore. Questa durezza si manifesta quando, invece di porci “in religioso ascolto” della Parola lasciando che essa sola sia luce alla nostra strada, facciamo più comodo e cieco ricorso alle leggi, tradizioni,  “osservanze”, che seppur buone, si trasformano in ostacolo alla vera obbedienza della fede.

    Anziché camminare nella libertà della vera fede che fa di noi dei “credenti” decadiamo in tristi “osservanti” di una sterile pratica religiosa, lontana da quel cuore che Dio ricerca:Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori” (Gv 4,23)

    Donaci, o Padre, il coraggio dell’autocritica che ci permetta di evitare le comode scappatoie delle “cose ovvie e scontate”, del “si è sempre fatto così!”, fuggendo il faticoso ma liberante confronto con l’autorità della tua Parola che è il Figlio tuo e con la verità dell’uomo.

    Soprattutto rendici capaci di usare la legge, nella Chiesa e nelle nostre comunità, sempre come semplice strumento passibile di modifiche, affinché l’uomo sia rispettato, il debole salvaguardato, la tua Parola più ascoltata, Dio servito in tutta purezza di cuore.

    Se ci attacchiamo troppo alle nostre leggi ed esse ci impediscono di vivere e far vivere la vera libertà dei figli di Dio, ti preghiamo, invia un “vento impetuoso e un rombo di tuono” alla tua Chiesa affinché scardini tutto ciò che non è secondo il tuo cuore.

    Donaci soprattutto di poter gustare la “sobria ebbrezza dello Spirito”, che è l’ebbrezza della libertà dei figli, e donaci infine di poter gustare la gratuità e la bellezza del dono del tuo pane che è il Figlio tuo, offertoci ogni giorno gratuitamente.

  • 27 Gen

    di p. Attilio F. Fabris 

     

    Nel libro della Genesi troviamo il meraviglioso racconto del dialogo orante di Abramo e i suoi tre misteriosi ospiti sotto la quercia di Mamre.

    Certo Dio non cambia, e anche noi come Abramo possiamo scoprire che Dio non sarebbe più tale nel caso egli cambiasse; infatti un Dio sottomesso alle nostre esitazioni non potrebbe essere Colui dal quale attendiamo sicurezza:

    “Ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della Luce, nel quale non c’è variazione né ombra di cambiamento” (Gc 1,17)

    Ma allora perché supplicare Dio di intervenire? A cosa serve presentargli la nostra miseria?

    Dio non cambia, ma tuttavia “allorché distrusse le città, egli si ricordò di Abramo, e fece fuggire Lot dal disastro” (Gn 19,29). Questa è la risposta alla sua preghiera.

    Dio è immutabile nei suoi disegni, ma ciò sarebbe mutilare la sua provvidenza se si limitasse ai soli risultati visibili, alle realtà apparenti.

    Dio è immutabile nei suoi disegni, ma in questi disegni interviene la preghiera dei suoi figli.

    Scopo della preghiera non è cambiare l’ordine delle cose stabilito da Dio, ma di ottenere ciò che Dio ha deciso di compiere attraverso la nostra preghiera.

    Dio ha voluto far dipendere la realizzazione di certe realtà, dalla nostra preghiera.

    “La preghiera cristiana è cooperazione alla Provvidenza di Dio, al suo disegno di amore per gli uomini” (CFC 2738).

    L’ordine voluto da Dio comporta la mia collaborazione. Siamo fatti per cooperare al nostro destino e all’evolversi della storia.

    Potremmo quasi suddividere tutto ciò che capita nella nostra vita in due categorie di avvenimenti:

    – ciò che capita, ma che non dipende da noi

    – ciò che possiamo ottenere attraverso il nostro sforzo ed impegno.

    Se non preghiamo noi rimaniamo puramente passivi di fronte agli avvenimenti della prima categoria e attribuiamo ai nostri sforzi quelli della seconda.

    Al contrario: pregando noi sostituiamo alla nostra volontà quella di Dio, ovvero entriamo nel piano di Dio.

    Ci poniamo così sulla stessa lunghezza d’onda del progetto di Dio. Scopro di conseguenza che Dio fa la storia con me. Che, come Maria, sono fattivamente collaboratore di Dio.

    Egli non vuole fare senza di te ciò che ha deciso di fare con te!

    Abbiamo nella Scrittura diversi esempi:

    – Gesù e la donna sirofenicia: ella deve lottare con lui per ottenere ciò che desidera;

    – la lotta dell’angelo con Giacobbe: essa dura tutta la notte, Dio desidera essere vinto dall’uomo;

    – Mosé intercede per il popolo dopo il peccato dell’adorazione del vitello;

    – la vedova importuna che chiede giustizia.

    La preghiera perfetta alla quale tendiamo è sull’esempio di Gesù stesso: “Sia fatta la tua volontà”.

    Essa non cambia, ma deve compiersi con il nostro assenso e collaborazione. Che possiamo volere ciò che Dio stesso vuole.

    Dio entrando in comunione con noi fa appello alla nostra libertà: chiederà a Mosé: “Lascia che la mia collera s’infiammi contro di loro” (Es 32,10).

    Caterina da Siena fa dire al Signore: “Io sono incatenato dalle catene dei vostri desideri; ma queste catene le ho forgiate io stesso”. Dio suscita in noi i desideri che intende esaudire.

    Nel suo disegno eterno ed immutabile, Dio ha collocato un posto preciso alla nostra preghiera, e Dio non cambia. E’ questa una delle peculiarità più profonde della preghiera cristiana, che possiamo tradurre con un’espressione di san Tommaso:

    “L’amore non ha permesso a Dio di restare solo”

    L’amore è condivisione di tutto. Dio vuole farci partecipi della sua felicità. E’ questa la grande rivelazione della fede cristiana. Per la filosofia antica e le vecchie religioni l’uomo non era che uno spettatore. Paolo, con la sua veemenza afferma di costoro:

    “Siamo collaboratori di Dio” (1 Cor 3,9)

    E’ questo l’insegnamento di tutti i santi. Teresa di G.B. scrive ad esempio:

    “Perché Gesù dice: Pregate il Signore della messe perché mandi operai nella sua messe? Gesù forse non è onnipotente? Ah, è che Gesù ha nei nostri confronti un amore così grande che vuole che anche noi abbiamo parte alla salvezza delle anime, non vuole far nulla senza di noi. Il creatore dell’universo attende la preghiera d’una povera, piccola anima per salvare altre anime, riscattate dal suo stesso sangue. Ecco le parole di Gesù: “Alzate lo sguardo, vedete… Vedete come nel mio cielo vi sono dei posti vuoti, tocca a voi riempirli. Voi siete i miei Mosé che pregano sulla montagna” (Lettere)

    Noi entriamo nel mistero della rivelazione cristiana allorché sperimentiamo che Dio vuole essere amato come colui che attende da noi il desiderio di cooperare al suo piano. Vi scopriamo anche l’estrema delicatezza di Dio che non comanda, non si impone, ma un Dio che chiede un Dio che… prega l’uomo!

    Potremmo tentare così una prima definizione della preghiera: un incontro tra due desideri o meglio, l’assorbimento del desiderio dell’uomo in quello di Dio.

    La preghiera è dunque un incontro, nell’interiorità, fatto di amicizia e di cui Dio ha la prerogativa:

    “Sia che l’uomo dimentichi il suo Creatore, oppure si nasconda lontano dal suo volto, sia che corra dietro ai propri idoli o accusi la divinità di averlo abbandonato, il Dio vivo e vero chiama incessantemente ogni persona al misterioso incontro della preghiera. questo passo d’amore del Dio fedele viene sempre per primo nella preghiera; il passo dell’uomo è sempre una risposta. Man mano che Dio si rivela e rivela l’uomo a se stesso, la preghiera appare come un appello reciproco, un evento di alleanza. Attraverso parole e atti, questo evento impegna il cuore” (CFC 2567).

    Chiaramente la percezione della concretezza della preghiera, il suo rientrare nell’”appello reciproco”, nell’”Alleanza”, fa sì che essa debba in noi allargare sempre più i suoi confini, andando al di là di tante preoccupazioni immediate e talvolta meschine.

    Ancora su queste basi bisognerebbe riflettere alle dimensioni e al realismo che potrebbe assumere la nostra preghiera, all sua audacia, all’abbandono confidente in dio qualora essa sia percepita ed accolta quale collaborazione al disegno di Dio.

     

     

     

     

     

  • 27 Gen

    di p. attilio fabris 

    Vi è una contraddizione nel nostro pregare:

    da un lato avvertiamo il bisogno del dialogo con Dio

    dall’altro la preghiera suscita in noi innumerevoli resistenze.

    Alcune di queste resistenze potrebbero essere:

    – la mancanza di tempo

    – la stanchezza

    – la difficoltà.

    Potremmo fermarci a queste. Ma se abbiamo il coraggio di indagare poco più in profondità scopriamo in noi un’obiezione di fondo: “Forse la nostra preghiera è inutile?” Infatti: “Se Dio già conosce tutto, e per di più non ha bisogno delle mie preghiere, allora perché dovrei pregare?”.

     

    DIO SA TUTTO

     

    In effetti, dobbiamo confermarlo, la preghiera non “serve” a Dio: “Tu non hai bisogno della nostra lode” (Liturgia). Gesù stesso ci pone attentamente in guardia contro questa falsa presunzione:

    “Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate” (Mt 6,7-8)

    Dunque Dio conosce meglio di noi ciò che ci serve. La preghiera non serve a lui, ma a noi.

     

     

    L’INTOLLERANZA DEL LIMITE

     

    Una delle esperienze più dure e dolorose che ciascuno, prima o poi, è chiamato a fare è la presa di coscienza del proprio limite.

    Solo chi è stato in grado di integrare questo limite nella sua esistenza può dirsi maturo umanamente; se ciò non accadesse la persona vivrebbe in un mondo illusorio, falsamente idealizzato, tipico dell’adolescente.

    Anche la preghiera è chiamata a farci prendere coscienza del nostro limite. Si tratta della pedagogia di Dio. In questo contesto possiamo collocare quella virtù tanto un tempo apprezzata che è l’umiltà, quella vera. Il CCC afferma a tal proposito:

    “L’umiltà è il fondamento della preghiera… è la disposizione necessaria per ricevere gratuitamente il dono della preghiera: ‘L’uomo è un mendicante di Dio’ (sant’Agostino)” (n. 2559)

    Il prendere coscienza del proprio limite, nell’umiltà, è una prova alla quale ogni uomo è soggetto e che attraversa in varie strade (malattia, sofferenza morale o psichica, morte di cari, esperienze “metafisiche”…): attraverso la prova egli giunge alla coscienza di essere creatura superando la tentazione di Adamo: l’onnipotenza! Essere Dio a se stessi.

    Naturalmente siamo portati a rifiutare il limite, a fuggirlo. Ecco allora la dis-trazione il di-vertimento. Ovvero lo sforzo di distoglierci dagli interrogativi che ci richiamano alla nostra vera realtà. L’uomo che fugge in mille modi e che ha paura di se stesso. La distrazione appare allora come l’opposto della preghiera, come una scappatoia dalla coscienza della nostra reale condizione, un’evasione da essa verso un’illusione, il sogno, il miraggio del “Sarete come Dio!” (Gn 2)

    Allora il primo passo verso la preghiera è l’umiltà, l’apprendere e il riconoscere il proprio limite di creatura.

    La preghiera ci riconduce, essa è pedagogia di Dio, a ciò di cui più autenticamente ha bisogno il nostro cuore limitato:

    “Il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te” (S. Agostino, Confessioni)

    Essa salvaguardia ciò di cui abbiamo più bisogno, ciò che in noi è più prezioso e autentico: il nostro desiderio di Dio.

    Il riconoscimento del proprio limite implica già di per se stesso una chiamata da parte di Dio. La preghiera appare come una risposta alla domanda che Dio pone nel segreto del nostro cuore: Essa è un incontro tra due desideri:

    “Se tu conoscessi il dono di Dio. La meraviglia della preghiera si rivela proprio là presso i pozzi dove andiamo a cercare acqua: là Cristo viene ad incontrare ogni essere umano; egli ci cerca per primo ed è lui che ci chiede da bere. Gesù ha sete: la sua domanda sale dalle profondità di Dio che ci desidera. Che lo sappiamo o no, la preghiera è l’incontro della sete di Dio con la nostra sete. Dio ha sete che noi abbiamo sete di Lui” (CCC 2560)

    Questa chiamata all’uomo nel contesto del limite nella Scrittura appare spesso in forma sconcertante: es: Agar e la gelosia di Sara, la sua fuga (Gn 21,8-21); Elia fuggitivo e perseguitato (1Re 19); l’esilio di Israele (Bar 2,30-3,8); il figlio prodigo (Lc 15).

    Dovremmo porci l’interrogativo: Che atteggiamento assumo io dinanzi alle esperienze del mio limite? Quali sono queste esperienze? Di fronte al limite mi accorgo di soccombere o esso mi spinge ad aprirmi alla scoperta dell’Altro?

    Quando Dio mi conduce allo spogliamento non è forse sempre in vista di una mia crescita?

    “Nella terra del loro esilio ritorneranno in sé, e riconosceranno che io sono il Signore loro Dio. Darò loro un cuore e orecchi che ascoltano nella terra del loro esilio. Mi loderanno e si ricorderanno del mio nome” (Bar 2,26)

     

     

     

     

    DIO HA BISOGNO DEGLI UOMINI

     

    Dice Gesù nel vangelo di Giovanni: “La verità vi farà liberi”: ma questa verità, questa pedagogia di Dio, spesso è dura e dolorosa perché l’esperienza della nostra povertà ci sconcerta.

    La preghiera svolge un ruolo fondamentale: essa trasforma ciò che in noi è limite, pesantezza; essa cambia il nostro modo di guardare la nostra povertà.

    La preghiera dopo averci costretto ad accettare i nostri limiti ed averci insegnato il nostro vero bisogno, trasforma tutto questo in uno sguardo rivolto ad un Altro.

    Il nostro bisogno è in qualche modo indispensabile a Dio per instaurare la sua relazione con noi.

    La nostra povertà diviene il nostro tesoro. E rifiutare di essere poveri è rifiutare che Dio sia Dio per noi.

    Così Dio non ci donerà ciò di cui abbiamo bisogno anche se lo conosce bene, senza che noi glielo domandiamo.

    “Con la preghiera di domanda noi esprimiamo la coscienza della nostra relazione con Dio: in quanto creature non siamo noi il nostro principio, né siamo padroni delle avversità, né siamo il nostro ultimo fine” (CFC 2629)

    Ogni giorno prendiamo atto della nostra povertà. Ogni giorno è necessario che la poniamo alla base della nostra preghiera.

    Scriveva s. Giovanni Crisostomo:

    “Se Dio tarda a rispondere è unicamente per trattenerci più lungamente presso di lui, proprio come i padri fanno con i figli che amano. Ma io sono indegno. La tua perseveranza a pregare ti renderà degno. Spesso Dio si fa attendere per mostrarsi poi più generoso”

  • 26 Gen

     

    di P. Attilio Fabris

     

    Gesù entra in Gerico

    Gesù acclamato dalla folla entra in Gerico: ha appena guarito un cieco. Tutti gli sono addosso forse sperando in qualche altra grazia da parte sua.

     

    Zaccheo

    Presentiamo la sua figura fisica, morale e spirituale.

    E’ piccolo di statura: è un forte limite che forse egli ha tentato in ogni modo di rimuovere con il suo arrivismo e aggressività e cinismo.

    E’ capo dei pubblicani: per colmare il suo limite none sita a vendersi agli stranieri, a vivere disonestà verso i suoi.

    E’ ricco: e questa sua fortuna è frutto di ingiustizia, soprattutto nei confronti dei più deboli e poveri che non hanno la forza di rivendicare i propri diritti.

    La fede di Zaccheo. È quasi sicuramente di tipo molto formalista. E’ si praticante, ma non per convinzione ma ancora per interesse.

    Certamente è odiato da tutti.

    Invidiato da tutti.

    Una vita apparentemente riuscita, a cui non manca nulla: potere e denaro per acquistarlo.

    Circondato da falsi “amici” e “ammiratori” che sperano solo di trarre qualche vantaggio da lui.

    In fin dei conti è una persona sola! Ha puntato tutto sull’ansia della vita e sulla paura di perdersi.

    Una persona che non si è riconciliata con il proprio limite che è esperienza di vuoto-morte dal quale tutti cerchiamo di fuggire e di non guardare in faccia:

    per ovviare tale esperienza si cerca di evitarla con mille scappatoie:

              la ricerca della propria immagine

              soldi e potere che danno l’impressione dell’autosufficienza

    E quando il limite si impone in modo drastico l’uomo può reagire in diversi modi:

              il rifiuto espresso in una lotta impari e disperata contro di esso

              la condanna di Dio

              la rassegnazione

              oppure la riconciliazione con la vita e con Dio: l’abbandono delle sue mani.

     

    Zaccheo cerca di vedere Gesù

    Perché?

    Da cosa è spinto? Cosa cerca?

    Cosa si aspetta?

    E’ solo curiosità?

    Ma anche la curiosità nasce da un interesse più o meno conscio. E un interessa è una realtà significativa per la mia esperienza vitale.

    Dunque Gesù per Zaccheo è interessante.

    Ma perché?

    Probabilmente da quello che ha sentito dire avverte nel messaggio di Gesù un “qualcosa” che può venire a colmare la sua sete di amore.

    Ma ha paura di questo desiderio: egli cerca “solo” di “vedere” il profeta di Nazareth!

     

    La folla impedisce a Zaccheo di vedere Gesù

    La folla rappresenta tutto ciò che mi può ostacolare nel mio bisogno di incontro.

    Spesso tante nostre iniziative e parole intorno al vangelo non rischiano di avere lo stesso effetto?

    La folla sono tutte le barriere che si pongono da impedimento.

    Occorre nella vita dare un nome alla folla:

    attivismo? Mass-media? Non comunicazione?

     

    Una decisione da prendere

    Zaccheo deve anzitutto decidersi. Continuare nella ricerca o desistere? Attendere un momento migliore: ma ci sarà? Potrebbe benissimo rientrare in casa. Oppure escogitare qualcosa affinché si possano creare le condizioni favorevoli all’incontro.

    E’ la nostra parte di iniziativa nel cammino di fede.

     

    Una corsa e una salita

    Zaccheo si stacca dunque dalla folla osannante.

    Così facendo ancora una volta prende atto del suo limite: con che sentimenti? Rabbia e imprecazioni?…

    Corre in avanti: e questo gesto lo pone in evidenza davanti agli altri, lo differenzia, provocando l’ironia, la critica, il giudizio di quella stessa folla (cfr la folla nel racconto della guarigione del cieco).

    Ma Zaccheo vince la paura e la vergogna di esporsi. E questo dice quanto gli prema “vedere” Gesù.

    Si distacca da tutti i condizionamenti: e sappiamo quanto questi giocano sulla nostra vita e sulla nostra paura di “perderci”. Con questo gesto in Zaccheo sono vinte due forti controrisonanze contro l’apertura alla verità: la paura di essere se stessi e la paura degli altri.

    Sale su un sicomoro: certamente mettendo in mostra il proprio limite. A un certo punto se voglio incontrare il Signore non devo fare verità nella mia vita?

    Ora Zaccheo, pur tentando di nascondersi tra le foglie!, è contento: finalmente il suo desiderio può essere portato a realizzazione: attende impaziente.

    Si sente ancora lui il protagonista dell’incontro.

    Gesù sta per arrivare.

    Finisce qui il primo atto.

     

    Gesù alza gli occhi

    Inizia il secondo atto, in cui si vede il cambio di protagonista.

    Non è più Zaccheo ma Gesù stesso.

    L’incontro sarà segnato da una caratteristiche fondamentale: la gratuità.

    Perché? Cosa significa?

    Gesù alza lo sguardo, e dopo di lui tutta la folla.

    Zaccheo diventa oggetto di attenzione da parte di tutti.

    Da parte sua arrossisce, è imbarazzato. Forse è stato uno sbaglio salire lì. E adesso cosa vorrà da me questo profeta? Ha paura. Vorrebbe non essere lì. E adesso come la si metterà?

    Le nostre relazioni sono spesso segnate da questa paura e sospetto: e anche la relazione con Dio.

    Dio alla coscienza religiosa appare inaffidabile, insensibile, tiranno e geloso della nostra felicità.

    Da lui occorre nascondersi e scappare talmente i suoi occhi indaganti ci spiano inesorabilmente.

    La folla alza gli occhi con Gesù verso Zaccheo e attende, ironica e beffarda, parole di invettiva e rimprovero contro di lui: non è il difensore dei poveri?

     

    Zaccheo !

    Gesù lo chiama per nome.

    “Finalmente qualcuno mi chiama per nome, e mi conosce: ma perché proprio lui?”

    Ci conosce uno ad uno come il buon pastore le sue pecore.

    Ha cura di ciascuno di noi.

    E’ lui che conosce il nostro vero nome.

    Dio chiama sempre per nome.

    Se mi chiama per nome è perché vuole intessere una relazione personale con me: un chiamare per nome domanda una risposta.

     

    scendi subito

    Scendere significa ritornare ad essere “piccolo” in mezzo agli altri e di fronte a Gesù. Ritornare ad essere quello che era, mettendo in mostra il proprio limite. E’ un momento di verità nel quale non mi è più permesso di nascondermi (un po’ come Gesù farà con l’emoroissa)

     

    Oggi

    E’ il kairòs. Il momento della grazia che in questo momento ci è offerta.

    L’oggi non è solo indicazione cronologica.

    La scrittura e la liturgia richiamano spessissimo all’oggi della grazia che mi raggiunge incessantemente.

    A livello di vita spirituale nasce l’importanza del vivere pienamente il momento presente come l’unico e vero momento in cui la grazia mi può raggiungere e trasformare.

     

    Devo

    Un dovere dettato da una missione da svolgere. “salvare ciò che era perduto”. Una missione che nasce solo dall’amore: e un amore incondizionato, a fondo perduto, eterno.

     

    Fermarmi in casa tua

    “Io sto alla porta e busso”.

    Vedi l’importanza del verbo “rimanere” “menein” in Giovanni.

    Se il Signore chiede di entrare nella mia vita è per restarci, è per fare comunione di vita con me.

    E’ lui che me lo chiede, come un mendicante d’amore! Non ha paura di perdere se stesso, di umiliarsi davanti a me: è il suo amore per me che glielo impone.

    Non mi chiede nient’altro! Non mi chiede di cambiar vita nel caso voglia che entri in casa sua.

    Non lo rimprovera o reguardisce. Nulla di questo: solo accoglierlo in casa sua.

    Non lo ama mettendo qualche “se”: è un amore-dono incredibilmente preveniente e incondizionato.

     

    In fretta e con gioia scese

    La “fretta” e la “gioia” sono caratteristiche amate da Luca.

    Zaccheo risponde subito all’invito.

    E’ il momento cruciale.

    Cosa prova Zaccheo?

    E’ incredulo!

    Ma come. Da uno come me il profeta vuol venire?

    Ma questo sconvolge tutta la sua immagine di Dio, sconvolge l’impostazione della sua vita.

    Scopre la realtà della gratuità dell’amore-dono che non chiede nulla se non di essere accolto fidandosi di lui.

    Questo sconvolge la vita di Zaccheo: i suoi schemi, l’impostazione che per anni ha cercato di dare alla sua esistenza.

    Zaccheo scopre che nel mondo esiste un amore di cui non sospettava l’esistenza.

    E’ una scoperta che lo riempie di gioia! Qualcuno allora mi vuol bene!

    I suoi limiti allora non lo disturbano più, li può accogliere serenamente. Sa che c’è un amore del quale può fidarsi ciecamente. Non si sente più obbligato a mascherarsi e a cercare di primeggiare sugli altri per ovviare al suo limite.

    E’ questa la sua buona notizia!

    E solo questa buona notizia gli può cambiare radicalmente la vita.

    Zaccheo saltellante di gioia, prendendo la mano di Gesù sorridente gli fa strada verso casa sua.

    Dove organizza subito un piccolo banchetto in onore dell’illustre ospite.

    E qui termina il secondo atto. Potrebbe concludersi qui. Ma si apre di nuovo il sipario.

    E’ il terzo atto.

     

    Alcuni però mormoravano…

    L’entrare in casa di un pubblicano e mangiare con lui è un gesto carico di significato. Un gesto non approvato dalla Legge, in cui il peccatore deve essere allontanato: esso contamina la santità del popolo eletto.

    Gesù compie l’atto scandaloso di mettersi dalla parte dei peccatori.

    La mormorazione è la reazione e l’ostilità alla buona notizia: l’ostilità all’aprirsi alla rivelazione dell’amore-dono.

    La mormorazione è la non approvazione e la critica all’operato di Gesù che viene a sconvolgere la loro visione della vita e di Dio.

    Quella stessa folla che lo seguiva entusiasta ora ha cambiato opinione radicalmente: Gesù li ha delusi tutti!!

    Gesù abbatte la distinzione tra giusti e peccatori: tutti devono ugualmente sentirsi amati e perdonati dal Padre nello stesso modo.

    Ma l’uomo peccatore fa fatica ad accogliere questo annuncio di perdono.

    Distinguersi dai peccatori ci rassicura, ci fa sentire meritevoli di premio e giusti ai nostri occhi: è l’uomo che ricerca nella legge la sua “giustizia”.

     La resistenza della folla è la stessa resistenza del figlio maggiore nella parabola del Figliol prodigo (Lc 15).

     

    Darò metà dei miei beni ai poveri

    Il gesto di Zaccheo è una risposta generosa ed entusiasta all’esperienza di gratuità e accoglienza ricevuta da parte di Gesù.

    E’ questa esperienza di gratuità che gli tocca il cuore e gli fa capire che la vita è fatta per farsi gratuità, dono agli altri soprattutto nei confronti dei poveri e dei peccatori (i veri poveri come Zaccheo!).

     Non è dunque un gesto che scaturisce da una coscienza morale che cerca di rimettere in pareggio i conti con se stessa (basterebbe restituire allora solo ciò che si estorto): la “giustizia” di Zaccheo supera di molto quella degli scribi e dei farisei.

      

     

    Gesù riconosce, davanti ai mormoratori, il cammino compiuto da Zaccheo.

    E’ giusto far festa per il peccatore pentito, come per la dramma e la pecora perdute e ritrovate.

    Come per il figlio minore che ritorna.

     Gesù sottolinea che la sua missione si identifica con il “cercare e salvare chi è perduto”. E’ dunque missione di misericordia fatta alla comunità dei discepoli.

     Nessuno ne deve essere escluso: tutti sono figli di Abramo.

     La comunità dei discepoli non si sentirà mai in diritto di condannare nessuno, di escludere nessuno. Avrà un cuore dilatato nella misura di quello di Cristo.

     Tutti si riconoscono in “chi è perduto”. Tutti dobbiamo essere cercati e salvati dalla misericordia di Dio.

    Sono venuto a salvare

  • 24 Gen

     

    Padre santo,

    tu che hai glorificato tuo Figlio Gesù

    e gli hai conferito potere su ogni carne,

    perché egli comunichi la vita eterna

    a tutti quelli che hanno creduto in lui quale Dio e Salvatore,

    noi ti ringraziamo del dono elargito a noi uomini:

    di comprendere la profondità dell’unione consustanziale

    che è tra te e tuo Figlio e lo Spirito santo,

    alla quale ci hai chiamati

    attraverso la preghiera innalzata a te dal figlio tuo:

    «Affinché siano tutti una cosa sola,

    come tu sei in me, o Padre, e io in te;

    affinché anche loro siano una cosa sola in noi,

    e così il mondo creda che tu mi hai mandato».

    Noi veramente crediamo

    che questa unità cui ci hai coinvitati,

    è necessaria quale testimonianza

    del mistero della tua opera nella natura umana,

    incline alla decomposizione e alla disintegrazione

    a causa del peccato e dell’egoismo.

    Questa unità è necessaria anche perché il mondo creda

    che non c’è altra speranza

    se non nella persona di Gesù Cristo, tuo prediletto,

    che hai mandato per unire le realtà celesti con quelle terrestri. 

    Noi confessiamo che la venuta di tuo Figlio in noi

    provoca in noi un’attrazione insopprimibile verso l’unità:

    «Io in loro e tu in me,

    perché così siano perfettamente uno,

    e il mondo sappia che tu mi hai mandato

    e che li hai amati come tu hai amato me».

    Perciò tutte le nostre resistenze

    alla piena realizzazione dell’unità in te,

    quell’unità che tu hai voluto per noi,

    costituiscono una carenza di fede

    e una mancanza di carità da parte nostra.

    Queste deficienze ci fanno anteporre

    le controversie ideologiche, politiche, razziali

    alle esigenze dello Spirito, della fede e dell’amore

    e affievoliscono la voce di Cristo nei nostri cuori

    per accondiscendere al mondo e agli uomini. 

    Padre santo,

    glorifica il tuo Figlio nella vita della chiesa,

    perché la chiesa glorifichi te e il figlio tuo

    quando tutti si saranno liberati

    da ogni impedimento contro l’unità e l’amore.

    Signore non lasciare che la comunità soccomba

    e tenti di eliminare un peccato con un altro peccato,

    di curare un male con un altro male;

    non permettere che l’unità sia cercata

    attraverso controversie ideologiche,

    e la carità sia confusa con la politica,

    e le coalizioni razziali vengano considerate

    una forza dello Spirito.

     

    Matta el Meskin , monaco

  • 23 Gen

    di p. Attilio Fabris

    In cammino per allontanarsi

     

    Nello stesso giorno”: in Luca tutto l’evento pasquale si svolge nell’arco di un solo giorno. Siamo al “primo giorno dopo il sabato” nel pomeriggio.

     

    Sono “due di loro”, di cui uno di nome Cleopa e l’altro anonimo (ritroviamo il volto di tutti noi) i discepoli protagonisti del racconto.

    Hanno fatto parte del gruppo dei discepoli, hanno conosciuto e seguito Gesù di Nazaret, fino alla passione. Sono due di quelli che, con gli undici, ricevettero l’annunzio della resurrezione (v. 9).

     

    Stavano camminando”. L’uomo è sempre in cammino. Ognuno ha una direzione verso cui incamminarsi. Il verbo “camminare” non indica solo un moto fisico.

    A Gerusalemme la comunità dei discepoli in quel momento è radunata nel Cenacolo confrontandosi con quell’annuncio che ha disorientato tutti: il sepolcro è vuoto!

    I due discepoli stanno allontanandosi da Gerusalemme verso Emmus (una decina di chilometri).  Costoro si stanno allontanando da essa, si stanno distanziando dagli eventi di Gesù avvenuti nella città santa. Questo porre distanza sta a dire l’impossibilità ormai di un rapporto di appartenenza sia al Maestro come alla sua comunità.

    Il loro abbandono della comunità ci dice che la comunità dei discepoli pre-pasquale non ha futuro, il suo destino è la disgregazione, se non interviene l’esperienza della Buona Notizia.

     

    I due “conversavano” ( in greco “fare l’omelia”) tra loro di tutte queste cose “che erano accadute”, e “stavano dibattendo” (greco: cercare insieme, litigare).

    Questo cammino dunque è intessuto di scambi di opinioni, di risonanze, è un dialogo fitto, intenso. Ci dice che i due non hanno capito ma nello stesso tempo non possono dimenticare. Infatti si parla a lungo di ciò che sta a cuore, e sta a cuore ciò che si cerca, si cerca ciò che si ama. Sono ricurvi sul passato, e pur allontanandosi dalla comunità, il loro cuore è rimasto ancorato a quella realtà sconcertante della passione e morte del Maestro. Sono profondamente delusi a causa della crocifissione di quell’uomo. Essi commemorano un morto, uno, che pur avendo promesso tante cose, è rimasto vittima della cattiveria altrui e ha fatto la fine di un fallito o di un illuso. Hanno atteso fino al terzo giorno dopo la crocifissione ma inutilmente. Si tratta per loro di una ricerca difficile di interpretazione e comprensione di ciò che hanno sperimentato in quei giorni: quella passione e morte di Gesù così scandalosa e incomprensibile. Ma non ne riescono a venire a capo!

    Il dibattere dice che il ricordo del Signore non li unisce, ma li divide.

    Proviamo ad immaginarci i loro discorsi via facendo….

     

     

    Il viandante sconosciuto

     

    E’ a questa situazione di agonia della speranza che si rivolge la buona notizia. “Gesù si avvicinò in persona e camminava con loro”. E’ proprio lui “in persona” a farsi accanto, a camminare al loro fianco facendo la strada con loro. L’iniziativa è solo sua, come in ogni altro racconto delle apparizioni del risorto. E’ l’Amore Dono che continua ad offrirsi discretamente, senza imporsi, di propria volontà. Niente lo spinge a farlo se non l’avere a cuore il bene dell’uomo.

     

    Ma gli occhi dei due “sono incapaci di riconoscerlo”.

    Da dove nasce questa incapacità? Essa scaturisce dalla incomprensione degli avvenimenti e dalla non illuminazione di essi da parte della Scrittura. La sfiducia e la paura stendono un velo dinanzi ai nostri occhi, e essi vedono  la realtà non come essa è realmente ma attraverso i loro filtri oscuri. Il loro sguardo non ha luce sufficiente per comprendere l’uomo nuovo, il vincitore della morte che è lì, accanto a loro.

    Non si parla qui tanto di vederlo quanto di “riconoscerlo”. E’ importante questa sottolineatura perché ci dice che il Risorto ora è possibile solo riconoscerlo attraverso quell’atto di fede che solo può aprire gli occhi.

     

     

    Intessitura iniziale del dialogo

     

    E’ Gesù che prende l’iniziativa e apre il dialogo con loro: “Che sono questi discorsi che state facendo?”.

    Gesù vuole che si esprima la delusione dei discepoli, che si oggettivizzi. L’annuncio deve entrare in tutto il negativo dell’uomo e della sua storia. Esso vuole salvarci da questo. Ecco perché Gesù non impone la sua presenza immediatamente. E’ necessario che l’uomo si accosti alla fede attraversando tutte le sue controrisonanze. Eluderle non servirebbe a nulla! Il cuore rimarrebbe inalterato e dubbioso.

     

    La reazione è un fermarsi del cammino, un osservare “col volto triste”. Si fermano perché quella semplice domanda li riporta improvvisamente ancora all’inizio dei loro discorsi. Le controrisonanze che abitano nel loro cuore si oggettivizzano attraverso il loro sguardo colmo di tristezza: è delusione mista a dolore.

     

    La loro risposta: “Tu solo sei forestiero da non sapere ciò che è accaduto?”. Gesù è considerato uno straniero che non conosce i fatti! Possibile dato il rumore che hanno provocato a Gerusalemme?

     

    Quali?”. Gesù non impone la sua evidenza dopo questa risposta. Restando sconosciuto Egli desidera iniziare un dialogo, una condivisione con i due. Ne hanno bisogno!

    Si fa raccontare ciò che è accaduto, ovvero stimola a portare alla coscienza l’oggetto della loro discussione, a chiarire ciò che fa problema, a dire i sentimenti che li hanno accompagnati. Li interroga affinché esca tutta la loro amarezza.

    La fede non è elusione dei problemi ma la loro soluzione, perciò questi non vanno dribblati o rimossi. La pedagogia di Gesù è straordinaria: è la pedagogia del dialogo e della condivisione che deve accompagnare qualsiasi iniziazione alla fede.

     

    Il viandante interroga discretamente. E cosa fa? Ascolta e condivide, condivide e ascolta… A un certo punto comincia  a dir la sua. 

     

     

    Discorso dei pellegrini

     

    Ciò che emerge dalla loro risposta è che gli avvenimenti riguardanti Gesù di Nazaret non trovano composizione nella loro coscienza, essi appaiono troppo contraddittori: non ne riescono a cogliere il senso, li vivono con un atteggiamento fatto di delusione e di turbamento.

    Essi parlano di Gesù come di un “profeta potente in opere e in parole”, ossia rievocano l’esperienza entusiasmante e gioiosa del ministero di Gesù, la sua predicazione e i suoi miracoli: tutto ciò testimoniava la verità della sua missione e della sua identità di inviato di Dio..

    Ma ecco la contraddizione: come si concilia questa esperienza e certezza con lo scandalo della sua esecuzione da parte dei capi? Come conciliare la certezza del suo essere inviato da Dio e la sua condanna a morte? Perché Dio non l’ha riconosciuto e l’ha abbandonato? “Forse ci siamo ingannati: non era colui che credevamo, ma un impostore”. Oppure altra conclusione: “Dio stesso l’ha rifiutato come fece con Saul per qualche sua colpa a noi sconosciuta”.

    Rifiutano lo scandalo della croce.

    Essi sono rimasti scandalizzati dalla fine di questo profeta, sebbene continuino a credere che egli sia stato un grande profeta mandato da Dio, Egli ha subito la sorte di tanti altri profeti. Ma quanto al riconoscerlo Messia, per loro il discorso è chiuso. Un uomo che è stato crocifisso ed è morto non può presumere di essere il messia; da lui non ci si può attendere la pienezza della realizzazione delle promesse di Dio. Dio infatti non ha impedito la sua fine ingloriosa e non ha accreditato la sua testimonianza. La croce è uno scoglio insormontabile!

     

    Dai fatti i due discepoli passano agli stati d’animo: “Noi speravamo…”. Speranza che fosse proprio lui l’atteso, il messia che avrebbe liberato il suo popolo (probabilmente in senso nazionalistico) come promesso da Dio.

    La croce è letta come la fine di ogni speranza. Il pensiero dell’uomo resta chiuso (9,45; 18,34), anzi profondamente deluso, davanti al pensiero di Dio (Mc 8,31-33). Davanti alla croce si frantumano le nostre fragili speranze e attese.

    Quel “noi speravamo” sta a dire le attese religiose dell’uomo, così amaramente deluse dalla croce. E così questa speranza è stata sottoposta ad una dura e tragica delusione. “Sono già passati tre giorni…”. Ovvero è la fine di ogni speranza, tutto è finito definitivamente. E’ una constatazione di cui prendere dolorosamente atto. L’osservazione sul “terzo giorno” non è da collegare alla speranza della resurrezione, anzi vuole sottolineare che per loro la morte di Gesùè un fatto compiuto e irrevocabile. Secondo la concezione ebraica l’anima aleggia intorno al corpo per tre giorni dopo la morte; trascorso questo termine non è più possibile tornare in vita (Ernst).

     

    Ma i due discepoli aggiungono qualcosa d’altro. Sì qualcosa è successo di strano. Mediata da altri è giunta un’esperienza: “alcune donne….”. Ma come credere a questo stando il fatto che alcuni dei discepoli sono andati al sepolcro hanno visto ciò che le donne avevano detto ma…. Lui non l’hanno visto! Anche loro due non si sono presa la briga di andare a vedere.

    Le loro parole contengono già tutto il kerygma, ne è un’esposizione precisa.  Essi sono in possesso di tutti gli elementi del kerygma: ma tutto ciò non costituisce ancora per loro una buona notizia! Essi in verità possiedono tutto il bagaglio dell’Annuncio cristiano, ma non sono in grado di aprirsi ad esso, di comporlo, possiedono già un piccolo “Credo” ma manca la chiave di lettura. Non riescono da soli a ricomporre il senso della vicenda di Gesù.

    Il sepolcro vuoto per loro è solo un ulteriore motivo di disorientamento e ambiguità.

    Sia allora che adesso il problema è identico: senza l’annuncio della Buona Notizia l’esperienza di fede del Risorto è impossibile (Gv 4,42). Ma chi potrà fare questo annuncio della Buona Notizia se non un evangelizzatore? E chi è che può svolgere tale servizio in questo momento se non il solo Gesù?

     

     

    Discorso di Gesù

     

    Gesù non aggiunge altri dati riguardanti la sua vicenda, i due li conoscono fin troppo bene. Ma è necessario aiutare i due pellegrini ad interpretare la sua vicenda aprendo alla loro coscienza uno sguardo nuovo su di essa. Si appresta ad un vero servizio di evangelizzazione.

     

    O senza testa e tardi di cuore…”: E’ un rimprovero forte e autorevole che non è certamente quello di un estraneo o di un ignorante. La figura del viandante assume gradualmente un aspetto dignitoso e magisteriale. Da sempre l’uomo è “di dura cervice e di cuore incirconciso”. Una testa impermeabile alla verità di Dio, e il cuore (il luogo dell’interiorità, il luogo della valutazione, del giudizio e della decisione) appesantito dalla tristezza e dalla delusione. L’incredulità è prestare fede alla paura e alla menzogna: è il peccato. Il primo passo da fare è quello di prestare l’orecchio più alla Parola che alla nostra paura.

     

    Non era forse necessario… e cominciando da Mosè e da tutti i profeti…”. Gesù inizia con i due una condivisione della parola: è la parola che diventa luce, ed apre all’intelligenza del mistero. E’ solo alla luce della parola che la sua morte non è più un incidente di percorso, estraneo al progetto di Dio. Ciò che agli occhi dei due discepoli appare contraddizione, diviene ora evento “necessario” per l’adempiersi delle promesse.

    La croce “scandalo e stoltezza” per chi non crede alla luce della Parola condivisa si trasforma in luogo di rivelazione del peccato dell’uomo e del suo rifiuto e nello stesso tempo piena rivelazione dell’agire  e del volto di Dio. Non è la smentita di Dio sulla missione di Gesù e sulla sua identità, bensì il suo compimento.

    “Tutta la scrittura costituisce un unico libro e quest’unico libro è Cristo, perché tutta la Scrittura parla di Cristo e trova in Cristo il suo compimento” (Ugo di san Vittore).

    A che servirebbe incontrare Gesù risorto, esultare di gioia, se non si può spiegare questa morte che ha gettato il sospetto della coerenza del percorso? Perché è stato rigettato, perché i capi religiosi sono riusciti a farlo crocifiggere, come un malfattore? Forse egli non era così potente come si pensava se gli altri hanno prevalso su di lui! Tanti “perché” resterebbero inspiegati!

    La condivisione di Gesù co i due discepoli dice bene il processo del circuito dell’ascolto dalla “Traditio” alla “Redditio” e viceversa. E’ la “fractio verbi”.

     

    Vorremmo sapere di più circa lo svolgimento di questo dialogo. Luca non lo riporta, lo accenna soltanto. Perché se questo è il punto decisivo? Perché la comunità alla quale scrive questo contenuto è ben conosciuto e assimilato. L’essenziale era conosciuto e fatto proprio da tutti.

     

     

    “Rimani con noi”

     

    Si avvicinarono al luogo a cui erano diretti…”. Il cammino pare giungere alla sua conclusione e così il dialogo con quel viandante.

     

    Egli fece come se dovesse proseguire… ma essi insistettero (lo forzarono): Rimani con noi…”. In questa domanda/ preghiera non vi è solo e anzitutto il dovere dell’ospitalità, ma soprattutto il desiderio di non separarsi da una relazione che man mano, cammin facendo, si è rivelata importante, capace di scaldare nuovamente il cuore riaprendolo alla speranza attraverso un diverso modo di leggere gli avvenimenti. Nei due discepoli vi è così la disponibilità a comprendere in modo diverso la vicenda del loro Maestro.

    Cosa significa se non che la “fractio verbi” ha fatto scattare la “fractio vitæ”?

    Attraverso il servizio della Parola offerto da Gesù si è innescata tra lui e i due discepoli una relazione talmente importante che essi dal viandante non vogliono separarsi. Non è la riprova che l’ascolto e la condivisione della Parola creano relazioni nuove e significative? E’ una ulteriore richiesta di condivisione alla quale il Signore risponde ben volentieri e con gioia.

     

    Egli entrò e si mise a tavola con loro”: vi è una reciproca ospitalità, nella quale avviene una sempre maggior consegna dell’uno all’altro. “Ecco sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). Gesù si consegna ai due volentieri.

    La condivisione dell’essere fra i tre si completa con la condivisione dell’avere. I tre siedono insieme alla mensa, Arriva il momento della “fractio panis”.

     

     

    Riconoscimento

     

    Quando fu a tavola con loro prese il pane, benedisse e spezzato lo dava (imperf.) loro…”: Lo spezzare il pane, azione compiuta da ogni capofamiglia, od ospite d’onore al momento del pasto, indica il gesto del servizio e di amore di Gesù, segno della comunione fraterna.

    Si usano espressioni che fanno riferimento all’istituzione eucaristica. L’abbondante mensa della parola che ha preceduta è servita a far desiderare e comprendere lo spezzare del pane. Tale segno unisce il passato, vissuto dai discepoli fino alla morte, al presente, all’evento nuovo della resurrezione. Esso rinvia non solo all’ultima cena, ma anche alla moltiplicazione dei pani. In questo modo i due sono consapevoli che è sempre lo stesso signore e che essi stessi sono quelli di sempre. Si afferma così la continuità della storia della salvezza che garantisce la concretezza e la realtà della visione di fede. Se non fosse avvenuto tale segno, poteva nascere il dubbio di un evento fantastico o puramente soggettivo.

    Il gesto dello spezzare il pane non causa il riconoscimento del Risorto da parte dei discepoli, ma ne è l’occasione. Il gesto dello spezzare il pane non causa il riconoscimento del Risorto da parte dei discepoli, ma ne è l’occasione. Se i loro occhi si aprono proprio in quel momento, allo spezzare del pane, è perché Gesù ha voluto così, egli, ha deciso dove, quando, come manifestarsi.

     

     

    Sono questi gesti ad “aprire loro gli occhi”. E’ difficile esplicitare la densità di questa esperienza. I gesti compiuti sono capaci di aprire al riconoscimento, gesti nei quali Gesù alla vigilia della sua morte aveva riassunto il significato di tutta la sua vita e della sua morte.

    Se il pane realizza quanto la parola promette, la parola permette di riconoscere il pane come realizzazione della promessa di Dio. Per questo Parola e Pane formano un unico sacramento indisgiungibile.

    Non si dice che lo vedono ma che lo riconoscono. Vengono così chiaramente indicati i limiti posti al vedere fisico per riconoscere il risorto. Il tempo che separa il “vedere” dal “riconoscere” permette la lezione di esegesi: i due uomini confesseranno poi (v. 32) che essa li ha trasformati. Capiranno allora perché Gesù non si è voluto far riconoscere subito da loro: il loro desiderio di vederlo era forte, ma ora sanno che la visione fisica non è più un assoluto; pur essendo invisibile ai loro occhi di carne, il Risorto resterà presente (Aletti).

     

    E’ un punto di svolta: ma questa apertura degli occhi non termina con la visione perché Gesù “scomparve alla loro vista”. Un’altra contraddizione? L’esperienza dell’apparizione del Risorto non è fine a se stessa, ma apre ad un al di là, ad un nuovo cammino da fare, a un’esperienza di fede diversa, ad una presenza diversa del risorto. (cfr Gv 20,29).

    Non scompare, ma diviene invisibile. Resta sempre e ci accompagna benché non visto. Non è più con noi ma in noi: la parola ce l’ha messo nel cuore e il pane nella vita.

    L’invisibilità non equivale all’assenza. L’improvvisa scomparsa di Gesù, dopo il riconoscimento, avrebbe potuto lasciarli tristi, interdetti, paralizzati. Invece neppure ne parlano, come se non li riguardasse o fosse cosa di nessun rilievo. In loro è avvenuto un cambiamento straordinario.

    Questo “sparire” di Gesù è un ulteriore dono. Egli infatti vuole offrire l’opportunità di ritrovare la sua presenza in seno alla comunità di Gerusalemme (cfr Mt 18,20).  E’ una promessa.

     

     

    Il ritorno

     

    Non è più notte perché nel cuore dei due vi è una luce sfolgorante: “Non ci fu giorno come quello né prima né dopo: stette il sole e non si affrettò a calare” (Gs 10,12-14).

    Riscaldati e saziati si può riprendere il cammino. Ecco il frutto della condivisione della parola e del pane: la dilatazione del cuore. Il valore sacramentale e salvifico della parola illumina l’intelligenza, pacifica e purifica il cuore, infiamma gli affetti, muove la volontà, apre la speranza.

     

    Due reazioni caratterizzano il loro frettoloso ritorno al Cenacolo.

     

    La prima consiste in una esternazione delle proprie risonanze interiori: si dicono l’un l’altro, si aprono il cuore reciprocamente. Si raccontano a vicenda come Cristo abbia mosso i loro sentimenti, come la sua parola che “apriva” la Scrittura abbia riscaldato il loro animo. Si stabilisce fra di essi una sincera e fraterna unione nel medesimo spirito di fede. I due discepoli ora fanno memoria: “non ci ardeva forse il cuore quando…”. Il cuore era stato aperto prima degli occhi, e questo attraverso l’ascolto e la condivisione della Parola.

    Dio non si rivela più all’esterno, ma nell’interno del cuore.

     

    La seconda reazione spinge i due a ritornare al gruppo dei discepoli che credono in preda all’amarezza e alla delusione per annunciare loro la vicenda vissuto con Gesù risorto. Non importa l’ora tarda: nel cuore c’è un fuoco incontenibile che non si può spegnere. Sono ormai annunciatori del kerigma. Questo “ardore” non può che non rimettere di nuovo in cammino, un cammino inverso, di ritorno. Ritorno a Gerusalemme luogo degli eventi, al Cenacolo incontro alla comunità lasciata: “Trovarono gli undici e gli altri, e dicevano: Davvero il Signore è risorto!”.

    Alla testimonianza di Pietro, degli undici e della comunità i due possono ora aggiungere la loro testimonianza.

     

     

    Conclusione

      

    In confronto con gli altri racconti evangelici di apparizioni questa pericope è del tutto singolare, al punto che ci si chiede se si può ancora parlare di “apparizione”. In fondo, i due discepoli, non hanno visto il risorto ma un viandante straniero, e poi, sul punto di riconoscerlo, non hanno visto più nessuno (Rossé). Ciò colloca il racconto più vicino all’epoca della Chiesa, quando i cristiani incontrano Gesù per mezzo della sua parola spiegata nell’assemblea e per mezzo della celebrazione eucaristica.

     

    Noi non abbiamo visto né Gesù né coloro che lo hanno visto. Siamo i cristiani della “terza” generazione. La nostra fede è fondata sulla parola dei testimoni. Come le donne e Pietro possiamo benissimo andare pellegrini al sepolcro per trovarlo vuoto. Ma come sperimentarlo Vivente accanto a noi?

    Il racconto ci apre una pista: come ai due discepoli Gesù si fa vicino a noi tutti. Fa i nostri stessi passi così spessi intrisi più di delusione che di speranza. Ci incontra nella nostra quotidianità a volte così grigia e pesante, associandosi al nostro cammino, e ovunque andiamo! Non si allontana anche quando noi ci allontaniamo. Il superamento di queste “empisse”  è possibile dalla presenza e dall’azione di Gesù.

    Anzitutto è lui stesso che ha attraversato queste situazioni di contraddizione e può quindi illuminarle dall’interno, aiutandoci così a non perderci ed aggrovigliarci in esse.

    Ma questo si attua nella nostra vita attraverso la disponibilità a lasciarci interrogare dalla vita e dalle sue contraddizioni. Il nostro pericolo più grave è quello di chiuderci in noi stessi, di smettere di interrogarci e di interrogare la fede. Se ciò accade il nostro prendere le distanze ci condanna al distacco definitivo dalla comunità, alla perdita dell’orizzonte della fede.

    E’ importante mantenere lucida la coscienza del vissuto della nostra coscienza, condividere i nostri interrogativi con i nostri compagni di viaggio, avere il coraggio di confrontarci su ciò che ci delude e rischia di farci perdere la speranza.

    La pedagogia di Gesù nel confronto dei due si sviluppa proprio in questa direzione.

    Possiamo cercare con disponibilità e accogliere come grande dono quei contesti di relazioni personali, di gruppo, di comunità in cui ci è permesso di esprimere i tratti problematici della nostra esperienza, gli aspetti contraddittori, le nostre fatiche a vivere la fede.

      

    Ma noi non lo riconosciamo. I nostri occhi sono chiusi. La nostra vita può scontrarsi con situazioni che difficilmente riusciamo ad integrare in una visione di fede, ci appaiono profondamente contraddittorie nei confronti di Dio.

    Il confronto con la vicenda dei due discepoli di Emmaus dunque ci può aiutare.

    Sono in molti, forse anche noi, a prendere le distanze a volte quasi inavvertitamente a volte in modo brusco, dall’appartenenza alla comunità cristiana e dal vivere la fede.

    A volte si tratta di un normale passaggio da una fede ricevuta ad una riappropriata attraverso un proprio cammino.

    Altre volte questo distanziamento è dato da esperienze problematiche e da interrogativi che hanno posto in grave crisi la fede fino a quel momento vissuta. Non sempre la fede oggettiva ricevuta corrisponde all’esperienza soggettiva.

    La vita stessa ci presenta situazioni si sofferenza, di delusione, di contraddizione, che rischiano di mettere in scacco la nostra comprensione abituale di fede.

     

    Come i due discepoli, anche noi possiamo conoscere bene il Signore e tutte le Scritture. Ma siamo evangelizzati a metà, e tutta la nostra vita è amarezza e delusione fino a quando la sua Parola non ci fa comprendere la croce e il suo pane non ce lo fa riconoscere vivo e operante in noi.

    Il Signore risorto accompagna il cammino dei suoi discepoli, portandoli a comprendere il significato della sua pasqua attraverso il circuito dell’ascolto della Parola e lo spezzare del pane.

    La nostra esperienza di vita dovrebbe portarci ad interrogare e condividere la Parola, ed essa alla luce della Pasqua, ci guiderà a comprendere con più verità la figura di Cristo, educando il nostro cuore ad entrare.

    L’ascolto e la condivisione della Parola è l’ambito in cui Gesù ci parla, ci illumina per spiegarci il senso del suo mistero e della nostra vita.

    Alla luce della Parola e dello spezzare il Pane eucaristico anche la nostra vita, nelle sue contraddizioni, si illumina di una nuova luce e di una nuova possibilità.

     

    Questa esperienza ci restituisce alla comunità, alla gioia di condividere insieme il dono ricevuto. Nel confronto comunitario con le Scritture e nell’eucarestia la fede compie il suo cammino di maturazione: può essere testimoniata agli altri non come qualcosa di esteriore, ma come esperienza vissuta.

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