• 29 Gen

     

    di p. Attilio F. Fabris 

     

    Un altro scolio per la nostra preghiera è l’illusione di credere di essere sempre pronti ad incontrare Dio.

    Si tratta di una doppia illusione in quanto da un lato il nostro cuore è occupato da tante cose e dentro di noi non vi è silenzio; dall’altro rimaniamo estranei alle cose di Dio: una mancanza di familiarità con la dottrina.

     

    LA MANCANZA DI SILENZIO E DI DISTACCO

     

    Dice un proverbio arabo: “Non sono le difficoltà del cammino che fanno male ai piedi, ma i sassi che hai nelle scarpe”. Ovvero: è dall’interno di noi stessi che provengono i principali ostacoli, mentre spontaneamente saremmo portati a trovarli immediatamente all’esterno: scrive Basilio di C.:

    “Ho ben abbandonato le occupazioni del mondo, sorgenti di mille mali, ma non ho saputo ancora abbandonare me stesso. Io sono come quei tali che, sul mare, non conoscendo cosa sia una traversata, provano la nausea del mal di mare, e malcontenti della barca in cui si trovano, che sembra loro non adatta, passano su un’altra; ma sempre stanno male, perché nausea e bile li hanno accompagnati.

    Così è per noi: portando in noi le passioni siamo ovunque nella stessa confusione, come non avessimo guadagnato nulla nella solitudine. Al che bisogna dire: <Se qualcuno vuol seguirmi, rinunci a se stesso>“.

    Così è per noi. Spesso pretendiamo di ascoltare Dio, mentre siamo ingombri di noi stessi: ascoltiamo solo noi stessi e i nostri progetti. Magari sì siamo portati a credere importante il silenzio esteriore, ma nonostante questo il sasso che è nella scarpa rimane, non riusciamo a liberarcene; lo sforzo ci sembra inutile.

    Potremmo proporci un piccolo esame di coscienza sul nostro silenzio:

    – la nostra memoria: l’amarezza interiore, il rancore, i cambiamenti di umore, il ricordo di tutto ciò che non è stato secondo quello che ci aspettavamo riguardo a noi stessi, gli altri, gli avvenimenti… “Quando accetterai in pace la prova di non amarti per te stesso? Solo allora fari posto a Cristo” (s. Teresa d’Avila). Forse nella preghiera siamo troppo preoccupati da ciò che ci ingombra la memoria.

    – la nostra persona: un’altra fonte di disturbo interiore è costituito da tutte le idee che ci siamo fatti di noi stessi. Siamo molto attaccati all’immagine di noi stessi che ci viene riflessa dagli altri. Purtroppo molto spesso ricerchiamo negli altri l’immagine che noi vorremmo essere, un’immagine che ci rassicuri, in cui possiamo trovarci tranquilli, nel falso silenzio del nostro sogno. “Io non ho nulla – amava ripetere l’abbé Chevence – io non ho assolutamente nulla, e ci ho messo trent’anni per riconoscerlo. Ciò che pesa all’uomo è il sogno” (Bernanos, La gioia).

    – la nostra attività: un’eccessiva inclinazione al lavoro, la smania di arrivare rapidamente a dei risultati possono creare in noi una tensione tale da impedirci la preghiera.

    “La tentazione più frequente, la più nascosta, è la nostra mancanza di fede. Si manifesta non tanto in una incredulità dichiarata, quanto piuttosto in una preferenza di fatto. Quando ci mettiamo a pregare, mille lavori e preoccupazioni ritenuti urgenti, si presentano come prioritari; ancora una volta è il momento della verità del cuore e del suo amore preferenziale.” (CCC 2732).

    Questa tensione si riversa nella preghiera stessa: la caccia di distrazioni diviene a sua volta fonte di distrazione. Si diviene incapaci di imporsi delle pause di silenzio.

    – le nostre passioni: sono tutti i nostri piccoli o grandi attaccamenti, a livello di persone, cose, situazioni: “Che l’uccello sia legato ad una catena o ad un filo non importa, è sempre legato” (s. Giovanni della C.).

    Tutte queste difficoltà traggono forza dal falso amore per noi stessi. Dal ricercarci per noi stessi dimenticando il nostro fondarci sul un Altro. Siamo allora terrorizzati dall’idea di “perderci”. Ci troviamo costretti a rimpiazzare l’autentico amore, con altri piccoli ed insufficienti amori.

    Se amare significa divenire una sola cosa con chi si ama, ciò può avvenire nella misura in cui si è liberi dall’attaccamento per tutto il resto. Amare è preferire la persona amata a tutto il resto: “Nulla antepongano all’amore di Cristo” (RB).

    Questo è il senso più vero del silenzio interiore: un silenzio colmo di amore:

    “L’orazione è silenzio <simbolo del mondo futuro> (Isacco di N.), o <silenzioso amore> (s. Giovanni della C.). Nell’orazione le parole non sono discorsi, ma come ramoscelli che alimentano il fuoco dell’amore. E’ in questo silenzio, insopportabile all’uomo <esteriore>, che il Padre ci dice il suo Verbo incarnato, sofferente, morto e risorto” (CCC 2717).

    Il silenzio fa sì che ci poniamo nella condizione di unificare la nostra vita. Ciò che esaurisce l’anima, una delle sue sofferenze, è l’inevitabile moltiplicarsi in noi e dall’esterno di infiniti messaggi che disperdono. Siamo dis-tratti: portati, strappati quasi in mille diverse direzioni.

    A motivo di questa dispersione siamo sempre alla ricerca del nostro vero centro, perno della nostra esistenza, che è impossibile scoprire a livello di semplici impressioni e diversità di messaggi.

    Se il punto di riferimento del nostro agire siamo noi stessi, allora rimarremo nella discontinuità, nella molteplicità. Solo il silenzio può fare unità nella nostra vita poiché esso si inscrive nel più profondo di noi stessi, nella nostra anima che ci rimanda ad un Altro al di fuori di noi stessi.

    Il silenzio non è facile, anzi. I ritmi della nostra cultura non ci aiutano Si ha paura del silenzio e della solitudine. E’ per questo motivo che dobbiamo continuamente apprendere il silenzio. attraverso uno stile di vita, delle abitudini sane che possono far da argine a stili di vita ed abitudini diametralmente opposte.

    “L’amico del silenzio si avvicina a Dio. In segreto si intrattiene con lui e riceve la sua luce” (. Giovanni C., Sc. Par.).

     

     

     

     

    Posted by attilio @ 16:02

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