• 31 Gen

    Possibile accompagnamento spirituale per una guarigione interiore dopo l’interruzione volontaria della gravidanza

     

     

     

    La donna che fa riferimento all’operatore pastorale (sacerdote, religioso/a…) lo chiede generalmente per il forte disagio, talvolta devastante, dovuto al senso di colpa che vive interiormente. Sente di non poter ricevere perdono da Dio (es. confessioni reiterate), teme per la perdita definitiva del bambino rifiutato in un  disperato tentativo di riappropriazione (“che ne è di lui?”), vive un senso di vuoto e dunque di “di-sperazione”: “Ma tu credi che mio figlio si sia salvato???.. Dio potrà perdonarmi?”[1]

    Se dovessimo riassumere il significato dell’itinerario proposto esso si può riassumere come un cammino della rieducazione della coscienza in vista di una libertà “per” e non semplicemente e distruttivamente solo “da”. È questa l’urgenza psico-spirituale al giorno d’oggi nella nostra società. Per la donna significa intraprendere per se stessa la gestazione faticosa di una “nuova nascita” della sua identità.

    Parto dal presupposto che esista nella donna che ha abortito, come d’altronde in ciascuno di noi, un profondo bisogno di riconciliazione con la vita stessa e con le ferite subite come per quelle da noi stessi inferte.

    La violenta esperienza dell’IVG rappresenta un vero e proprio trauma sotto tutti gli aspetti della persona che necessita a questo punto di essere riascoltata, interpretata, guarita.

    “Al risveglio dall’anestesia l’infermiere mi disse: “Signorina, è tutto finito!”…..Non dimenticherò mai queste parole, che crearono in me sollievo per aver finalmente concluso un capitolo della mia vita, ma amareggiata per come era stato concluso…non aspettandomi MAI che il dopo sarebbe stato tragico…più di prima….da allora non sono più la stessa ragazza, quella ragazza che anche con mille problemi amava, era felice, aveva mille ideali….ora sono una che tenta di sopravvivere all’angoscia profonda di aver distrutto un essere umano….un figlio!”

    La necessità di riconciliazione emerge più o meno in modo dirompente e drammatico, mettendo prima o poi fine ad uno status quo stazionario in cui il conflitto era solo rimosso: “Posso distrarmi, impegnarmi, fare di tutto per non pensarci, posso fare di tutto per far cicatrizzare una ferita…ma questa, purtroppo, non potrà mai essere cancellata!”

    Qualsiasi ferita, la ferita interiore provocata dal IVG, provoca sempre una destrutturazione nella persona. La donna che ha negato la sua maternità non solo ha rifiutato la vita nascente ma anche parte del proprio Sé. Questo rifiuto comporta come conseguenza appunto una destrutturazione che conduce talvolta la donna a non cogliere più il senso del suo esistere e del suo agire con le conseguenze devastanti di cui psichiatri e psicologi si trovano spesso ad aver a che fare (cfr psicosi, stress e sindromi post abortivi).

    Il bisogno di riconciliazione diviene richiesta pressante al fine di porre fine ad un vivere “divisi” dentro di sé, ad una solitudine che generalmente la donna che ha abortito ha sperimentato drammaticamente prima e dopo l’intervento.

    L’aborto è quasi sempre l’esito di una solitudine e di un abbandono in cui la donna è stata lasciata: “Arrivai in sala operatoria piangendo e chiedendo all’infermiera di pregare per il mio bambino, le altre ragazze, come me offuscate dal falso perbenismo di parenti e amici mi sostenevano dicendo: “non ti preoccupare…l’operazione è semplice e dura poco!!” Cosa poteva in quel momento interessarmi dell’operazione, in quel momento pensavo solo al mio bambino e chiesi di pregare per lui..sperando che almeno lì, dove credo sia ora l’avrebbero accolto e amato, cosa che io non sono stata in grado di fare”

    Quando si intraprende un cammino di “riconciliazione”  si entra necessariamente nell’area conflittuale della persona e delle sue ferite.

    Nei confronti della donna che ha vissuto il trauma dell’aborto volontario significa entrare in ascolto e in dialogo con aree esistenziali sofferte bisognose di guarigione:

             il rapporto con se stessa e la propria storia

             il rapporto con il bambino rifiutato

             con gli altri (partner, famiglia, società …)

             l’immagine di Dio quasi sempre distorta

    Queste aree esistenziali spesso necessitano di un ascolto specialistico in quanto in esse sono contenuti aspetti clinici, psicodinamici con ampi risvolti inconsci e altamente conflittuali. Il rapporto e l’interazione con il medico e/o lo psicoterapeuta risulta in questi casi necessario tenendo presente che agli interrogativi più profondi che scaturiscono dall’esperienza dell’IVG non si può rispondere solo in termini tecnici o farmacologici: il dramma dell’aborto va ascoltato molto al di là nelle sue più o meno immediate conseguenze psico-patologiche investendo quella serie di interrogativi espressi in modo più o meno consapevole che vanno a collocarsi nella direzione del senso dell’esistenza stessa.

    Provo ora ad elaborare alcune possibili tappe verso una riconciliazione-guarigione da far compiere alla donna che ha abortito: lo strumento elettivo è l’ascolto attento e profondo, l’empatia nei confronti della sua sofferenza, e un dialogo capace di riaprirla progressivamente alla speranza. Tutto questo all’interno di una fondamentale esperienza di perdono ricevuto e dato.

     

    La prima fase è rappresentata dall’ascolto empatico della sofferenza che emerge dal vissuto della donna che ha ricorso all’IVG aiutandola in questo a giungere ad una coscienza corretta del male compiuto

     

    Si tratta di una presa di coscienza dolorosa. La donna ha fatto una scelta vissuta allora come esperienza liberatoria e positiva per sé.

    Quella scelta si è rivelata al contrario devastante in quanto in modo più o meno improvviso e drammatico la donna ha preso coscienza che ha fatto e si è fatta del male in modo oggettivamente irrimediabile. In questo vissuto segnato quasi sempre da un senso di colpa di stampo nevrotico la donna si pone dinanzi ad un debito insolvibile: non gli è possibile tornare indietro.

    Questo dolore investe diverse fasce che si compenetrano:

    – quello della ferita emotiva che ne è scaturita

    – quello conflittuale legato alla negazione dell’essere donna e madre

    – quello per la responsabilità negata nella relazione col figlio

    – quello di un peccato imperdonabile

    Generalmente la donna che domanda un ascolto o un accompagnamento spirituale sta già vivendo questa fase in modo drammatico sperimentando in se stessa un’incapacità di riconciliazione: “ho cominciato a piangere, urlare, gridare a squarciagola”.

    Niente di peggio in questa prima fase del minimizzare, anestetizzare questo “grido”: i facili e comodi  riduzionismi non sanno ascoltare veramente e profondamente il dolore che vuole emergere dalle ferite anche “se fa male da morire”: “Ero consapevole dell’omicidio….certo alcuni medici hanno tentato anche con varie teorie e pseudo teorie scientifiche di dimostrarmi che quello non era un bimbo, ma un semplice agglomerato di cellule, compreso mio padre e mio fratello lo sostenevano…(in cuor mio so che in realtà non lo credevano)….queste teorie convincevano la mia mente e soffocavano il mio cuore e la mia coscienza che urlava e piangeva…il cuore di una mamma sa benissimo che quel embrione è un figlio! E le mamme che lo negano a se stesse è perché non vogliono ascoltare il loro cuore e la loro coscienza….perchè fa male, fa davvero tanto male, fa male da morire!”

    L’operatore pastorale deve fare attenzione in questa fase ad aiutare, in concomitanza all’aiuto specialistico medico, la donna a non continuare a vivere scelte di “depistamento” quali potrebbero essere ad esempio atteggiamenti di ripiegamento su di sé e soprattutto di vissuti autopunitivi dai molteplici risvolti ad esempio cadendo nel vortice di pensieri ossessivi in cui teme un “castigo” che se da un lato teme dall’altro spera.

    In tutti i casi non si parte mai dal presupposto di un sano senso di colpa: questo esigerebbe una maturità affettiva che vi è legittimamente da domandarsi  possa esistere in una donna che abbia ricorso “consapevolmente” all’aborto: “Io credente ed amante dei bambini quando si parlava di aborto, affermavo che Mai l’avrei fatto…mai…..ed invece quando dovevo prendere la decisione,….entrai nel panico più totale, sentivo che Dio era vicino a me e che nonostante tutto mi stava facendo un regalo, un dono…quel figlio che da tanto desideravo, anche se in situazioni diverse, era lì…”.

    L’ascolto che non giudica e l’esperienza di essere accolta nel suo dramma segna per la donna un primo passo verso la riconciliazione.

     

    La seconda fase può essere rappresentata come un aiutare la donna a “rientrare in se stessa” al fine di rielaborare il “lutto” e trovando di conseguenza nuove interpretazioni della realtà.

     

    In questa fase si cerca di aiutare la donna a rileggere la propria storia e la propria vicenda scoprendovi un appello per una libertà nuova gestita “per” la vita e non contro di essa come purtroppo ha drammaticamente e ora consapevolmente fatto:  ….a tutti pensavo fuorché a quell’esserino che era dentro di me e che se anche la mia mente rifiutava, non voleva pensarci, il mio cuore ed il mio essere non poteva negare ciò che c’era, ciò che era venuto al mondo, attraverso me, ciò che era nel mio ventre, colui che era lì e già mi amava e chiedeva solo che io facessi in modo che gli eventi della vita continuassero e che non spezzassi quel cordone unico che lo teneva legato alla vita, la mia volontà… Cercavo in continuazione e inesorabilmente qualcuno e qualcosa che legittimasse la mia scelta….”.

    Si colloca qui il fondamentale e faticoso passaggio caratterizzato dalla rielaborazione del lutto. Questo che essa è chiamata a rielaborare ha connotazione tutte sue; infatti è duplice: si tratta non solo di una perdita di sé in rapporto all’oggetto (la vita rifiutata), ma anche della perdita simultanea e concreta di una parte del Sé (l’essere donna e madre): “da quel 21 febbraio, la mia vita è cambiata, mi sento orfana, orfana di un figlio conosciuto per soli  2  mesi e rifiutato”.

    Un aspetto importante è aiutare la donna a non cogliere nel “fantasma” del bambino rifiutato un nemico, ma un possibile alleato per il proprio futuro e le proprie scelte diverse. Il confronto/incontro interiore con lui è utile: non bisogna ignorarlo, evitarlo con la falsa scusa di non voler rinnovare una dolorosa consapevolezza e un dolore. In questo caso la guarigione sta nell’accogliere e leggere questo dolore. L’invito che faccio è di rapportarsi con il bambino (in un’ottica cristiana e di fede) dandogli un nome: “In quel momento sentivo l’amore di Dio, sentivo l’amore del bambino, sentivo l’amore per la vita e solo dopo…..dopo aver abortito che ho sentito, sempre più forte col tempo, un senso di vuoto, un senso di inesistenza di tutto…..di Dio, dell’Amore,…del mio bambino! Cerco disperatamente qualcosa o qualcuno che mi dia nuovamente ciò che ho perso…il senso della vita”.

    Questo processo comprende il riconoscere effettivamente ed affettivamente la perdita senza negarla. In definitiva si tratta di rieducare la donna al desiderio di essere donna e madre: “La donna ha bisogno di essere aiutata, sorretta e consigliata nel migliore dei modi in quei giorni…ha bisogno di grande aiuto, vive dei momenti indescrivibili di indecisione e di scelta, io ho incontrato medici e psicologi che mi hanno illustrato la facilità di scelta..come fosse semplice rinunciare ad un figlio… e secondo loro, a volte giusto…bastavano 10 minuti di intervento per eliminare un problema…si 10 minuti che intervengono a condizionare la donna per sempre… ho sbagliato a rivolgermi a loro, avrei tanto voluto conoscere in quei momenti ragazze madri e ragazze che avessero già vissuto la tragica scelta dell’aborto, avrei voluto consultarmi con loro, mi avrebbero aiutato a decidere e scegliere ciò che è giusto, più loro, che i “dottori”, che non avevano vissuto sulla propria pelle l’aborto, ma parlavano secondo teorie, statistiche, pensieri …ecc..ecc.. Perchè nei consultori non fanno entrare il Movimento per la Vita? Perchè??”

    Gli scogli da evitare sono rappresentati da un irrigidimento nei confronti di nuove possibilità di lettura del proprio essere e della propria identità, con il derivante negarsi il pensiero di nuove prospettive.

    Questa fase è la più lunga e laboriosa: può durare molto a lungo e varia da persona a persona.

     

                                                           

    La terza fase è aiutare la donna ad assumersi nuove decisioni.

     

    Questo comporta  la capacità di farsi carico di sé e della propria storia ferita, e il coraggio di mettere in atto operativamente scelte e gesti concreti  che non devono essere interpretati come una sorta di “riscatto” (si farebbe ancora il gioco contorto dell’autopunizione) ma come scelta di vivere la propria libertà in termini diversi da quelli usati precedentemente: “ Ora non mi resta che pregare ed augurarmi che sempre meno mamme vivino l’incubo di un figlio mai nato per propria scelta…Sono laureata in Giurisprudenza e dovrei difendere la legge se considerata giusta, ma la Legge 194 non posso condividerla…non posso…perchè si soffre troppo con l’aborto, se mi soffermo a pensare a quello che ho fatto, scoppio a piangere, la donna soffre per l’aborto, anche quella che lo condivide, anche quella che crede di avere fatto la scelta più giusta…la donna sa di avere avuto un figlio in grembo e che gli ha negato la vita, lo sa, anche se vuole adombrare e nascondere, spesso anche a se stessa, questa atroce verità!”

    Gli scogli qui sono rappresentati da possibili e infiniti rimandi e attendismi che hanno lo scopo di impedirsi la prospettiva di scelte concrete diverse.

     

     

    La quarta tappa, o meglio lo sfondo che sta al cammino di riconciliazione, è un sempre maggior confronto realistico con l’immagine di sé che porta come conseguenza una riconciliazione che si pone a più livelli: non solo con se stessa, ma anche con gli altri e con Dio.

     

    Questa fase consiste nel coraggio di lasciarsi amare, e amarsi, anche nei propri errori accettando il bisogno di riconciliazione che proviene dall’ “Altro”. E’ un vero e proprio disarmo, un arrendersi e un riconsegnarsi alla vita, alla propria libertà, rendendosene responsabili costruttivamente. E’ un rifare un vero e proprio patto con la vita. Questo è possibile nella misura in cui si è capaci di rinuncia alle proprie difese, aggressività.

    L’itinerario spirituale proposto vuole alla fin fine aiutare la donna a passare dal rimorso al pentimento, dal senso di colpa alla confessione del peccato: a questo punto finalmente è possibile annunciare un perdono possibile che ha come frutto una riconciliazione con sé, con l’ “altro” e con Dio.

    Riconciliazione che non è da intendersi come un colpo di spugna che cancelli l’irrimediabilità di un male compiuto verso se stessi e l’altro. E ancora non è frutto di un pentimento che cavalchi il senso di colpa, che esiga un pagamento del danno che in questo caso è insolvibile: il pentimento vero nella visione cristiana è riconoscere in verità il proprio peccato ma nella consapevolezza/esperienza di poter essere accolti, amati gratuitamente e gratuitamente riconsegnati alla responsabilità della propria libertà nei confronti della vita, di se stessi e degli altri. La riconciliazione sacramentale è quasi il sigillo di questo cammino di riconciliazione e di apertura nuova al futuro.

    Un aspetto a cui si dovrebbe accennare è che l’IVG non dovrebbe interpellare solo la donna ma anche tutte le persone che attorno a lei hanno fatto sì che ella arrivasse a tale scelta. Il partner spesso delega la donna scaricando la sua responsabilità, i genitori scelgono spesso di consigliare la strada che appare più facile e meno compromettente… questo lascia strascichi “rivendicativi” difficili talvolta da sanare. Anche il rapporto con i figli avuti e successivi potrebbe essere ulteriormente disturbato: questo appunto porta a considerare il dramma del “non nascere” in un orizzonte più vasto di quello a cui generalmente si pensa. Un cammino di riconciliazione e di guarigione interiore sarebbe a questo punto auspicabile per tutti ma sappiamo quanto poco vi sia di disponibilità a “cambiare la vita”, ciò che in termini cristiani si chiama “conversione”.

      

    Bibliografia

     

    S. Gindro e S. Mancuso (a cura di): Aborto volontario: le conseguenze psichiche, CIV ediz., Roma 1996

    Kellerhals, Pasini: Perché l’aborto?, Mondandori 1977

    Gius: Maternità negata, Piccin 1978

    G. Sovernigo, Senso di colpa, peccato e confessione: aspetti psicodinamici, EDB, Bologna 2001

    G. Davanzo, Aborto, in “Dizionario enciclopedico di Teologia Morale”, Paoline, Roma 1976


    [1] Riporto in corsivo la testimonianza diretta di una donna di 27 anni dopo la drammatica esperienza dell’IVG.

  • 31 Gen

    di p. Attilio F. Fabris

     

    “Nel suo cammino quaggiù la nostra vita non può sottrarsi alla prova, dal momento che il nostro progresso si realizza attraverso la prova; nessuno conosce se stesso senza essere stato messo alla prova, può essere coronato senza aver vinto, può vincere senza aver combattuto” (s.Agostino, Enarr. in Ps. 60,3)

    Ogni vita spirituale conosce la prova del deserto. Basterebbe ripercorrere la storia dei grandi protagonisti nella S. Scrittura (cfr Abramo, Mosé, i profeti, lo stesso popolo d’Israele … Gesù, gli apostoli ecc…), e dei grandi santi senza alcuna eccezione.

    Sono questi dei periodi in cui Dio sembra lontano, talvolta drammaticamente assente.

    Mentre nei periodi di fervore ci si sentiva attirati dalla preghiera e dalle cose di Dio, durante i periodi di aridità non si sente più nulla, la preghiera non attrae, sembra di aver perso ogni gusto di Dio.

    “Un’altra difficoltà, specialmente per coloro che vogliono sinceramente pregare, è l’aridità. Fa parte dell’orazione nella quale il cuore è insensibile, senza gusto  per i pensieri, i ricordi e i sentimenti anche spirituali. E’ il momento della fede pura, che rimane con Gesù nell’agonia e nella tomba: “Il chicco di grano se muore produce molto frutto” (Gv 12,24)” (CCC 2731).

    Subito allora sorge spontaneo l’interrogativo: E’ colpa mia? Perché Dio si è allontanato da me? Vuole forse punirmi per qualche mia mancanza? Sorge allora purtroppo in noi l’immagine di un Dio severo, esigente che non si lascia sfuggire nulla.

    Ecco allora correre ai ripari cercando di fare ogni sforzo di buona volontà, oppure ci si lascia andare sfiduciati cercando sfoghi nell’attività, sperando che almeno così gli si possa dimostrare il nostro amore.

     

    CAUSE

     

    Un’aridità può subentrare per mancanza di generosità, allontanamento da Dio, insufficienza di contatti con Lui.

    “Un’altra tentazione, alla quale la presunzione apre la porta, è l’accidia. Con questo termine i Padri della vita spirituale intendono una forma di depressione dovuta al rilassamento dell’ascesi, ad un venir meno della vigilanza, alla mancanza di custodia del cuore” (CCC 2733).

    Può essere effetto di un’attività eccessiva, di una lavoro intellettuale troppo intenso, di stanchezza fisica.

    E’ sempre importante vedere se non si ha qualche responsabilità in questa aridità che si instaura.

    “Se l’aridità è dovuta a mancanza di radice, perché la Parola di Dio è caduta sulla pietra, il combattimento rientra nel campo della conversione” (CCC 2731).

    Ma la prova del deserto può avere anche altre cause.

    Dio può agire in modo meno sensibile in noi. La sua azione, benché sempre presente, è tuttavia non colta dall’individuo.

    Oppure potrebbe essere conseguenza dello stesso avanzamento nel mistero di Dio. Raggiunto un livello profondo si ha il tempo di gustarlo, viverlo ma presto si rivelerà insufficiente perché il mistero di Dio sarà ancora al di là. Si avrà perciò l’impressione di non sentire più nulla. Le stesse cose non producono più gli stessi effetti. Si tratta in questo caso di un deserto solamente a livello sensibile, perché invece la persona è stata resa capace di percepire più profondamente Dio sempre presente: è un deserto abitato.

    Un attaccamento eccessivo alle consolazioni di Dio invece che al Dio delle consolazioni può rendere la prova del deserto molto più arida e sofferta. Ciò accade spesso agli inizi del cammino spirituale. Il nostro itinerario conoscerà molteplici “notti” per usare le note espressioni di s. Giovanni della Croce: E’ facile cadere  nel nulla, perciò risulterà sempre importante cadere ai piedi del crocifisso disceso agli inferi, identificarsi col Cristo agonizzante: “Dio mio perché mi hai abbandonato?” “Padre nelle tue mani affido il mio spirito”.

    Attraverso la prova Dio vuole che il nostro io venga purificato, che si renda sempre più capace di accogliere la sua grazia:

    “La volontà propria – l’Io – viene distrutta solo per mezzo delle contrarietà inviate da Dio per turbare la falsa quiete dell’Io e abbattere i monumenti di illusione che questi innalza a propria gloria dinanzi agli uomini” (Matta El Meskin, Consigli per la preghiera).

    La liberazione dalla “filoautia” , l’amore di sé, rende l’essere umano più accordato a Dio: meno ancorato certo al sensibile, ma profondamente in pace alla presenza costante a Dio.

     

    RICONOSCERE DIO NEL DESERTO

     

    E’ di capitale importanza riconoscere Dio nel deserto, fin dall’inizio del nostro cammino spirituale.

    Tre segni ci permettono di assicurare che i legami con Dio non sono tagliati, e che perciò egli è sempre presente benché nascosto:

    – La pace profonda

    – L’apertura ad ogni eventuale manifestazione della sua volontà

    – La fedeltà alla sua volontà così come viene colta in quel momento preciso.

    Quando questi segni sono tutti presenti, possiamo essere sicuri che Dio è presente in noi, ci abita, ci muove, ci trasforma.

    Rendendoci attenti a questa realtà interiore da noi vissuta nella fase del deserto, cammineremo ancora nella fiducia e nella perseveranza non scossi più di tanto dal fatto che la nostra sensibilità non vibri sempre di gioia ed entusiasmo.

     Potremmo tuttavia sempre domandarci: E’ Dio che mette alla prova? Molti autori spirituali affermano che è Dio che vuole, in questi momenti di aridità, purificarci, provare la nostra fedeltà.

    Una spiegazione di tal genere non può essere comunque assolutizzata infatti se affermiamo che Dio è Amore e Vita, il presentare un Dio che vuole la prova sofferta è un riaffiorare dell’immagine falsa di un Dio esigente e spietato, che non corrisponde alla rivelazione fattaci da Gesù di Dio come Abbà, padre.

    Occorre elaborare un nuovo linguaggio per parlare della prova dell’aridità.

    Dio abita l’uomo e vuole contribuire alla sua crescita e alla sua felicità. Se l’uomo si allontana da lui, la sua crescita si arresta, la felicità viene ricercata in molteplici e infruttuose direzioni.

    Mentre quando l’uomo si apre all’azione divina, la vita scaturisce rendendolo felice in tutto il suo essere.

    Dio può prendere l’iniziativa di rinforzare la sua azione e la felicità, attraverso la prova, aumenta:

    La prova “agisce in noi quale il timone di profondità per l’aeroplano, o meglio ancora, quale la potatura per la pianta. Esso convoglia la nostra linfa interiore, libera le “componenti” più pure del nostro essere, tanto da farci balzare più alti e più diritti” (T. De Chardin, Ambiente divino).

    Dio allora può anche rendersi meno sensibilmente presente, senza cessare per questo di essere lì. E’ una prova che infligge? Preferiamo dire che Dio è libero e considerare il fatto che Egli è sempre lì, piuttosto che il fatto che non ci sia più come prima. Certo è una prova per noi, perché restiamo un po’ sconcertati e bisogna imparare e tener duro senza essere apparentemente sostenuti da lui. Ma Dio non vuole la prova, può volere solo la nostra felicità.

    Dio è Abbà, Papà.

  • 30 Gen

     

    “Un uomo vide un giorno un bambino che teneva in mano una lampada accesa. “Dove hai preso questa luce?” gli domandò. Il bambino soffiò sulla fiamma e disse: “Dimmi dove è andata e ti dirò dove l’ho presa””.

    La volontà di Dio è come quella lampada nella nostra vita: una realtà estremamente semplice e tuttavia dinanzi alla quale possiamo domandarci: da dove viene? Dove mi porta? L’esperienza di ogni giorno di dovrebbe dimostrare che questo cammino con Dio, che è la santità, conosce dei punti fissi, dei riferimenti costanti. La santità domanderà sempre una cooperazione attiva da parte nostra con la grazia di Dio. Si tratta di una cooperazione che assume per la maggior parte il tenore di una purificazione.

    Di che cosa è fatto il terreno della nostra collaborazione se non da ciò che di più vero ed umano troviamo in noi? i nostri desideri, aspettative, la nostra capacità di amare e di essere amati.

    La preghiera è la possibilità dataci ogni giorno per collaborare con Dio. E’ attraverso essa che prepariamo il terreno affinché Egli possa compiere la sua opera.

    Ma saremmo in grave errore se dicessimo che è sufficiente pregare. Si potrebbe infatti dimenticare che il non porre ostacoli alla grazia richiede in realtà altrettanto impegno libero, una iniziativa da parte nostra.

    Occorre tener presente sempre che la nostra natura umana è stata ferita dal peccato, e che perciò in essa troviamo già degli impedimenti. La vita divina incontra, quando tenta di entrare in noi attraverso la preghiera, un’altra legge chiamata da s. Paolo la “legge del peccato” (Rm 7).

    “Dio concede la preghiera a chi, vincendo la ribellione o l’assopimento della propria natura, si impone di pregare, e attinge così il profondo impulso del proprio essere creato a immagine di Dio. Perché l’immagine è calamitata dal suo modello” (O. Clement).

    Dobbiamo allora dedurre che anche il “non porre ostacoli” è privilegio della santità.

    Per giungere a questa meta bisogna lavorare con ogni forza onde preparare le vie, creare il terreno ed offrirsi al dono di Dio. La semente è ottima, è il terreno che occorre preparare.

    L’illusione sarebbe credere che “non porre ostacoli” sia facile, poiché si tratterrebbe solo di accogliere. L’accogliere liberamente è invece opera difficile, attiva, sofferta.

     

    SPERANZA E PREGHIERA

     

    Ognuno di noi cerca la felicità, siamo fatti per essa. La cerchiamo sempre ma spesso non dentro di noi ma al di fuori.

    Questa speranza di trovare la nostra felicità è minacciata da due pericoli:

    – l’impazienza

    Sia per formazione, sia per tanti altri motivi più o meno profondi, non crediamo di poterci mettere dinanzi a Dio se non quando abbiamo l’impressione di “aver fatto o fare qualche cosa”. Ci è stato spesso ripetuto che non bisogna contentarsi di bei pensieri, e in nome di questa convinzione, noi crediamo che il “soprannaturale” ce lo possiamo fabbricare attraverso i nostri sforzi. Prendiamo l’abitudine di agire in base ai nostri progetti, scelte, aspirazioni.

    Ci ricerchiamo, vogliamo dominare, secondo schemi prettamente adolescenziali, malgrado che gli avvenimenti, le circostanze ci mostrino che la strada è un’altra.

    Rimaniamo allora sbalorditi e disorientati il giorno in cui la via di Dio non sembra più coincidere con la nostra.

    All’opposto dell’impazienza troviamo la rinuncia:

    In nome dello spirituale si rinuncia ad un esame e critica della nostra coscienza, dei nostri errori. Ci si scorda del necessario sforzo “ascetico”.

    Si rinuncia all’azione e all’impegno, con la pretesa di acquisire la vita spirituale mediante l’abdicazione delle proprie responsabilità.

    Il problema non è se utilizzare o no le realtà terrene, ma è credere che possiamo assicurarci con le nostre sole forze la felicità che queste realtà promettono.

    Non credo che questa tentazione si presenti solo in rare e specifiche situazioni, nei momenti di importanti decisioni. Ogni minimo atto di scelta ci pone nuovamente la domanda: devo decidere in base di un bene che mi supera tenendo conto di una chiamata che mi giunge dall’esterno oppure devo stabilire da me stesso le regole della felicità, facendo,mi dio a me stesso?

    Il peccato di di-sperazione è di continuamente domandare alle creature di assicurarci una promessa che non possono mantenere.

    La sottile e tremenda tentazione è di voler essere dio, di essere padroni e origine di se stessi, di non aver bisogno di nessuno, di essere.

    Questa tentazione si può infiltrare anche nella nostra preghiera.

    Dobbiamo perciò far attenzione a non usare la preghiera per i nostri scopi, siano essi apparentemente i più spirituale.

    Se così fosse ci renderemmo insensibili alla speranza, all’attesa di un qualcosa che ci verrà donato da qualcun Altro. La preghiera allora scomparirebbe.

    “Lo spirito santo, che ci insegna a celebrare la Liturgia nell’attesa del ritorno di Cristo, ci educa a pregare nella speranza. A loro volta, la preghiera della Chiesa e la preghiera personale alimentano in noi la speranza. In modo particolarissimo i salmi, con il loro linguaggio concreto e ricco, ci insegnano a fissare la nostra speranza in Dio: “Ho sperato, ho sperato nel Signore, ed egli su di me si è chinato ha dato ascolto al mio grido” (Sal 40,2). “Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo” (Rm 15,13)” (CCC 2657).

     

  • 30 Gen

    di p. Attilio F. Fabris

     

     

    Scriveva il Surin: “Come gli animali attaccati ad un piolo, che non possono spingersi se non fino a dove la corda può tendersi e non possono far altro che girare con noia… questo è simile a colui che prepara i suoi tre punti senza osare uscirne”.

    Occorre rimanere in guardia contro l’eccesso di ogni metodo. Niente è più contrario alla fantasia dello Spirito santo che il voler sottomettere tutti ad una identica ginnastica interiore:

    “Lo Spirito santo… è il maestro interiore della preghiera cristiana. E’ l’artefice della tradizione vivente della preghiera. Indubbiamente, vi sono tanti cammini di preghiera quanti sono coloro che pregano, ma è lo stesso Spirito che agisce in tutti e con tutti” (CCC 2672).

    La nostra reticenza dinanzi ad un metodo è legittima: i diversi temperamenti, le diverse storie, i desideri di ciascuno, le aspirazioni, devono trovare il massimo rispetto nel nostro rapporto con Dio.

    Dobbiamo aver sempre presente una certezza di base: l’essenziale non è il metodo di preghiera ma è l’incontro tra me e Dio, si tratta di un dialogo fatto per nutrire un’amicizia.

    “Un metodo non è che una guida; l’importante è avanzare, con lo Spirito santo, sull’unica via della preghiera: Gesù Cristo” (CCC 2707)

     

    Tuttavia, dinanzi all dispersione della nostra vita, dinanzi alla nostra pigrizia e ai nostri alti e bassi, sperimentiamo l’insufficienza di una  reazione puramente negativa dinanzi al problema del metodo. Inoltre non è sufficiente evitare le divagazioni e sollecitazioni, la mancanza di silenzio, le illusioni, ecc… Occorre nutrire il nostro desiderio profondo di incontro con Dio, per approfondirlo e dilatarlo sempre più.

    Vero ostacolo alla nostra vita di preghiera è un amore disordinato per noi stessi, e non si rimpiazza un amore se cono con un altro amore.

    E’ perciò che saremo contenti in certi giorni di poter contare sull’aiuto di un metodo, semplice, facile, vero.

     

    In ogni metodo occorre tener presenti due qualità: anzitutto la sua flessibilità. Deve lasciare in noi lo spazio della libertà. Non sia un fine ma semplice mezzo.

    Poi che abbia la capacità di introdurci al dialogo cristiano: quello di Cristo con il Padre, e della Chiesa con Cristo.

    In questo rapporto troveremo subito delle prime difficoltà: si tratta di passare dal piano astratto a quello della vera relazione personale.

    Come in ogni amicizia vi è un periodo in cui non siamo completamente sicuri dell’altro, in seguito questo cambia. Si diventa capaci di fiducia illimitata e capaci di accettare le inevitabili divergenze. Si accetta ovvero la reciprocità.

    Così il valore di ogni metodo di preghiera si può giudicare non dalla quantità di idee astratte che può far nascere in noi, ma da questa domanda basilare: è un aiuto o un ostacolo per lo sviluppo dell’autentico dialogo di Cristo in noi?

     

    Esistono alcune regole per pregare (cfr Gasparino, Primi passi nella preghiera).

     

    1. entrare in rapporto “io-tu” con Dio.

    La preghiera è un calarmi nella realtà di Dio: Dio vivo, presente, vicino, persona. La preghiera diviene pesante, difficile quando non avviene l’incontro tra due persone. Io rimango assente, vuoto, mentre Dio è lontano, una realtà con cui non comunico.

    E’ importante nella mia preghiera che io usi poche parole, povere, ma ricche di contenuto. Possono bastare parole come: Padre, Gesù salvatore, Spirito d’amore, Gesù via verità, vita…).

     

    2. Instaurare una comunicazione affettuosa con Dio.

    La preghiera non è uno svolazzo della fantasia. La mente ed il cuore sono gli strumenti diretti per comunicare con Dio. Se fantastico, se mi ripiego sui miei problemi, se dico parole vuote, se leggo, non comunico con Lui. Comunico quando penso e amo nello Spirito santo.

    E’ importante nella preghiera che lo sguardo sia rivolto più a lui che a noi. Poche parole, molto cuore, tutta l’attenzione tesa a lui, ma nella serenità e nella calma. Non lasciare cadere il contatto con Dio col pensiero. Se succede tornare con calma e pace a Lui. Iniziare la preghiera sempre invocando lo Spirito che suggerisca in noi “i pensieri di Dio”.

     

    3. Imparare a ringraziare.

    Siamo sommersi dai doni di Dio dal mattino alla sera: ogni cosa è dono di Dio. Dobbiamo allenarci alla gratitudine. Non occorrono cose complicate: basta aprire il cuore al grazie sincero.

    E’ importante interrogarsi sovente sui doni più grandi che Dio ha fatto. La vita, l’intelligenza, la fede. Abituarci a ringraziare per tutto, anche per chi non ringrazia mai.

     

    4.Fare della preghiera un’esperienza di amore.

    Esistono tante gradualità nella preghiera, ma essa è soprattutto esperienza di amore. Se è solo un discorrere con Dio, è preghiera ma non la migliore. Finché a Dio parliamo soltanto, diamo ben poco, non siamo ancora nella preghiera profonda. Così, se ringraziamo, se imploriamo, è preghiera, ma la migliore consiste nell’amare.

    Legare spesso la preghiera a questa domanda: Signore che cosa vuoi da me? Signore, sei contento di me? In questo problema quale è la tua volontà?

    Abituarci a scendere sempre nella concretezza: lasciare la preghiera con qualche decisione ben precisa, per migliorare qualche dovere.

    Preghiamo quando amiamo, amiamo quando diciamo qualcosa di concreto a Dio, qualcosa che lui attende da noi, o che gradisce in noi. La preghiera vera comincia sempre dopo la preghiera, dalla vita.

     

    5.Far scendere la potenza di Dio nelle nostre viltà.

    Pregare è amare Dio nelle nostre situazioni concrete. E ciò significa specchiarci nelle nostre realtà quotidiane (doveri, difficoltà, debolezze) confrontandole con schiettezza con la volontà di Dio; significa poi chiedere con umiltà e fiducia la forza di Dio, per portare avanti i nostri Doveri come Dio vuole.

    E’ bene iniziare sempre la preghiera dai punti che scottano, cioè dai problemi che urgono di più. Riflettere, decidere, implorare: sono questi i tre tempi della nostra preghiera, se vogliamo sperimentare la forza di Dio nelle nostre difficoltà.

     

    6.Passare dalla preghiera di semplice presenza alla concentrazione profonda.

    Gandhi diceva: “E’ meglio una preghiera senza parole, che tante parole senza preghiera”. Se la preghiera di semplice presenza è mettersi davanti a Dio senza parole, pensieri o fantasie, essa avvia alla concentrazione che predispone alla preghiera profonda.

    Questo esercizio viene fatto dinanzi all’Eucaristia o ad un’icona, ad occhi chiusi, immersi nel pensiero della presenza di Dio che ci avvolge. Occorre curare la compostezza e la calma: E’ utile ripetere qualche semplice parola, ritmata col respiro (Preghiera del Nome).

     

    7. Mettersi in ascolto.

    Il centro della preghiera non siamo noi, ma è Dio. L’ascolto è attesa di Dio, della sua luce; l’ascolto presuppone il nostro desiderio che la nostra volontà aderisca alla sua.

    L’ascolto si può fare interpellando umilmente Dio su un problema che ci assilla, oppure cercando luce di Dio attraverso la Scrittura. E’ bene impostare la preghiera su qualche domanda che inchiodi ogni evasione: Signore cosa vuoi da me? Cosa mi dice attraverso questa pagina del Vangelo?

    La preghiera che va diritto alla ricerca della volontà di Dio, dà nerbo alla vita cristiana, abitua alla concretezza.

     

    8. Pregare con il corpo.

    E’ importante cominciare la preghiera dal corpo, chiedendogli una posizione che aiuti la concentrazione. La posizione non è la preghiera, ma aiuta o ostacola la preghiera.

     

    9. Valorizzare il luogo, il tempo, il fisico.

    E’ utile crearsi un angolo di preghiera nella propria casa, o camera. Abituarsi ad un’ora fissa : l’abitudine crea la necessità, e crea il richiamo alla preghiera.

     

     

  • 30 Gen

    di p. Attilio F. Fabris

     

     

    “La tradizione della Chiesa propone ai fedeli dei ritmi di preghiera destinati ad alimentare la preghiera continua. Alcuni sono quotidiani: la preghiera del mattino e della sera, prima e dopo i pasti, la liturgia delle ore. La Domenica, al cui centro sta L’Eucaristia, è santificata soprattutto mediante la preghiera. Il ciclo dell’anno liturgico e le sue grandi feste rappresentano i ritmi fondamentali della vita di preghiera dei cristiani” (CCC 2698).

    Nei confronti della preghiera liturgica, ufficiale della Chiesa, possiamo trovare in noi un duplice atteggiamento: la possiamo infatti assolutizzare come unica e valida forma di preghiera oppure scartare come impedimento alla libera e personale crescita spirituale.

    Possiamo però partire da un dato di fatto: ogni essere vivente necessita di un determinato ambiente per crescere. Così anche la vita spirituale. Non si può respirare in qualsivoglia clima: ma esistono dei luoghi in cui la vita può crescere rigogliosa e altri in cui essa deperisce fino a morire.

    La liturgia vorrebbe, dovrebbe essere un luogo privilegiato, un’atmosfera ideale affinché la vita divina possa svilupparsi nel cuore.

    Vogliamo vedere nella liturgia una scuola, un sostegno, un’illuminazione per la vita cristiana.

    Io non posso inventarmi la vita, ma la ricevo. Così anche la mia fede: io la posso soltanto ricevere dalla Chiesa (Nei primi secoli questo veniva sottolineato attraverso il rito della Traditio Simboli).

    Non ho da inventare la mia preghiera,  io ricevo tramite la Chiesa la preghiera di Cristo (consegna del Pater nel battesimo):

    “La Liturgia è anche partecipazione alla preghiera di Cristo, rivolta al Padre nello Spirito Santo. In essa ogni preghiera cristiana trova la sua sorgente e il suo termine. Per mezzo della Liturgia, l’uomo interiore è radicato e fondato nel “grande amore con il quale il Padre ci ha amati” (Ef 2,4) nel suo Figlio diletto. Ciò che viene vissuto e interiorizzato da ogni preghiera, in ogni tempo, “nello Spirito” (Ef 6,18) è la stessa meraviglia di Dio” (CCC 1073).

    Liturgia non sono i riti, il folclore, le usanze. Si tratta di molto di più, si tratta di una realtà vitale: essa è il luogo, la condizione perché io possa respirare, nutrirmi spiritualmente.

    Il senso della liturgia potrebbe essere riassunto in questo: la Chiesa mi propone la preghiera di Cristo, e mi accoglie in un ambiente vitale, nella comunità, dove questa preghiera può nascere e crescere.

    Siamo cristiani nella misura in cui siamo membra di Cristo, e non è membro di Cristo se non colui che accoglie la sua vita attraverso la comunione di fede e di preghiera dei suoi fratelli.

    Allora potremmo interrogarci su certe reticenze che possiamo trovare in noi nei confronti della preghiera liturgica. Pigrizia, presunzione (quella di credere di bastare a noi stessi, che si possa far da soli), oppure una non conoscenza e approfondimento della preghiera liturgica.

     

    La preghiera liturgica è fatta sì per condurre alla preghiera personale, interiore, ma anche per esprimerla.

    Non bisogna infatti ridurre l’insieme dei gesti esteriori che accompagnano la preghiera ad un fine esclusivamente pedagogico, formativo. Il ruolo della liturgia non è solo di luogo di “tradizione”, ma anche e senza dubbio ancor prima, deve essere luogo di incarnazione visibile della mia piena adorazione interiore.

    Senza questa realtà la liturgia sarebbe solamente semplice coreografia.

     

    La Liturgia, preghiera della Chiesa che esprime l’adorazione di ogni suo membro, si apre agli orizzonti di quella che è la liturgia del cielo. E’ un’unica, grande, solenne, eterna preghiera di lode (cfr. Ap 4-5; Ebr 9-10).Non siamo noi che “saliamo in cielo” ma è il cielo che durante la divina liturgia discende si fa visibile sulla terra: qui l’uomo scopre la sua vocazione di liturgo. Il farsi voce della preghiera di tutte le cose.

     La preghiera di Cristo ha servito da modello alla preghiera della Chiesa, la preghiera della Chiesa serve da modello e metodo alla  nostra preghiera personale: questa è continuazione e preparazione alla preghiera liturgica.

    Non vi è così che un’unica preghiera, quella di Cristo vivente nelle sue membra.

    Ogni contrapposizione non ha più alcuna ragione di esservi.

     Cristo si rivela in tal modo la chiave di lettura di tutta la Liturgia della Chiesa:

    “Questo mistero di Cristo la Chiesa annunzia e celebra nella sua Liturgia, affinché i fedeli ne vivano e rendano testimonianza nel mondo: “La Liturgia infatti, mediante la quale, massimamente nel divino sacrificio dell’Eucaristia, si attua l’opera della nostra redenzione, contribuisce in sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il Mistero di Cristo, e la genuina natura della vera Chiesa” (SC2)” (CCC 1068).

    Quindi i tempi (il ciclo liturgico), i testi (salmi, preghiere…), i simboli(acqua, fuoco, pane….): tutto questo ci spinge a cercare Cristo, penetrare nel suo mistero:

    “E’ in lui che noi pronunciamo la preghiera, è in noi che lui pronuncia la preghiera del salmo che ha per titolo: Preghiera di Davide. Che nessuno dica, udendo queste parole: Cristo qui non parla!. Che non dica: Non sono io qui che parlo! Ma che ciascuno creda di essere nel Corpo di Cristo, e dica di conseguenza: E’ il Cristo che parla, sono io che parlo.

    Senza di lui non dirai nulla e Lui senza di te non potrà dire nulla” (s.Agostino).

  • 29 Gen

    di p. Attilio F. Fabris

     

     

    L’evento della preghiera ci viene pienamente rivelato nel Verbo che si è fatto carne e dimora in mezzo a noi. Cercare di comprendere la sua preghiera, attraverso ciò che i suoi testimoni ci dicono di essa nel vangelo, è avvicinarci al Santo signore Gesù come al Roveto ardente: dapprima contemplarlo mentre prega, poi ascoltare come ci insegna a pregare, infine conoscere come egli esaudisce la nostra preghiera” (CCC 2598).

    Per comprendere l’originalità della nostra preghiera cristiana è necessario accostarci al Signore Gesù.

    Egli stesso ha pregato e ha voluto che la sua stessa preghiera ci fosse di esempio: “si alzò a pregare mentre era ancora buio”, “passò tutta la notte in preghiera”.

    Gesù come uomo ha pregato, ha sentito il bisogno della preghiera, pur vivendo da Figlio nella relazione continua con il “Padre suo”: “Il Padre non mi lascia mai solo” “Io e il Padre siamo una cosa sola”. La sua preghiera è dunque testimonianza della verità della sua incarnazione. Egli come uomo ha pregato con tutta la sua sensibilità, una preghiera umile e profondamente umana. Davanti alla tomba di Lazzaro, e davanti a Gerusalemme Gesù in preghiera piange. E’ inquieto dinanzi alla debolezza di Pietro: “Simone ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno” (Lc 22,32). Prega quando è schiacciato dall’angoscia e dalla tristezza: “cadde con la faccia a terra dicendo: Padre se è possibile passi da me questo calice” (Mt 26,39).

    Tutto questo ci rassicura: il Signore conosce la nostra fatica umana che ci fa talvolta titubare, tirar indietro, volere ciò che Dio non vuole. Sulla croce Gesù sperimenta in modo drammatico questa fatica, questa angoscia che sembra far sprofondare negli inferi:

    “Tutte le angosce dell’umanità di ogni tempo, schiava del peccato e della morte, tutte le implorazioni e le intercessioni della storia della salvezza confluiscono in questo grido del Verbo incarnato.” (CCC 2606).

     

    Cristo dunque è modello della nostra preghiera:

    “Quando Gesù prega, già ci insegna a pregare. Il cammino teologale della nostra preghiera è la sua preghiera al Padre… Come un pedagogo egli ci prende là dove siamo e, progressivamente, ci conduce al Padre” (CCC 2607).

    Ci suggerisce l’atteggiamento, anche le stesse parole con cui pregare. Soprattutto ci svela i grandi momenti o passaggi della preghiera cristiana: la lode, l’adorazione, la domanda.

    Gesù si pone dinanzi al Padre sua in atteggiamento di lode:

    “Padre ti do lode, Signore del cielo e della terra” (Mt 11,25)

    “Padre… ti ho glorificato sopra la terra” (Gv 17,4-5).

    L’invocazione della paternità di Dio, rivelataci da Gesù, è sorgente di ciò che Egli è per l’uomo. Gesù ci insegna a chi deve indirizzarsi la nostra preghiera: (“Quale Padre darà….”).

    Il Dio al quale ci rivolgiamo nella preghiera è un Padre che ci ha rivelato il suo amore donandoci il Figlio suo:

    “Dio ha tanto amato il mondo da mandare il Figlio suo unigenito perché chiunque crede in lui non muoia ma abbia la vita eterna” (Gv 4).

    Il primo momento della preghiera è dunque un’azione di grazie, una lode, una eucaristia, con tutte le sfumature che prenderà l’invocazione di “Padre”:

    “Prova che voi siete figli è che Dio ha inviato nei nostri cuori lo Spirito del Figlio suo che grida: Abbà, Padre!” (Gal 4,6).

    La lode è la forma di preghiera che più immediatamente riconosce che Dio è Dio! Lo canta per se stesso, gli rende gloria perché EGLI E’, a prescindere da ciò che fa. E’ una partecipazione alla beatitudine dei cuori puri, che amano Dio nella fede prima di vederlo nella Gloria. Per suo mezzo, lo Spirito si unisce al nostro spirito per testimoniare che siamo figli di Dio, rende testimonianza al Figlio unigenito nel quale siamo stati adottati e per mezzo del quale glorifichiamo il Padre. La lode integra le altre forme di preghiera e porta verso colui che ne è la sorgente e il termine: il solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui (1 Cor 8,6).” (CCC 2639).

     

    Glorificare il nome di Dio: vocazione di Cristo e del cristiano.

    “Sia glorificato il tuo Nome”

    “Padre glorifica il tuo Nome” (Gv 12,28)

    “Io ho manifestato il tuo Nome agli uomini “ (Gv 17,6).

    Il dono di Dio a noi è pura grazia. Egli infatti non ha bisogno della nostra lode. La gratuità, la liberalità del suo dono appaiono agli occhi della fede come segni di un amore purissimo, il solo  amore puro: noi “non serviamo niente a Dio”. Il suo dono di grazia è manifestazione luminosa della sua diversità, della sua infinita dignità di Dio.

    Contemplando gli aspetti divini del dono del Padre, scoprendo la magnificenza che suppone il dono, la sequela di Cristo, il cristiano scopre nel suo essere stesso fino a qual punto questo dono, non solamente scaturisce da un’iniziativa totalmente gratuita del donatore, ma ancor più come apporta addirittura anche i titolo per essere ricevuto. Il dono di Dio colma per sua grazia i ritardi, le mancanze, le imperfezioni che gli infrapponiamo (“Mentre eravamo ancora peccatori…” Rm). E’ l’adorazione.

    “L’adorazione è la disposizione fondamentale dell’uomo che si riconosce creatura davanti al suo Creatore. Essa esalta la grandezza del Signore che ci ha creati e l’onnipotenza del Salvatore che ci libera dal male. E’ la prosternazione dello spirito davanti al Re della Gloria (Sal 24,9) e il silenzio rispettoso al cospetto del Dio “sempre più grande di noi”. L’adorazione del Dio tre volte santo e sommamente amabile ci cola di umiltà e dà sicurezza alle nostre suppliche” (CCC 2628).

    La gratuità del dono è quella dettata dalla infinita misericordia di Dio: di Colui che solo può farsi più piccolo, benché tre volte santo,, di colui che vuole salvare perché non ha alcun timore di perdere se stesso.

    Cristo sa che pregando affinché sia reso al Nome del Padre l’onore di cui è degno, prega affinché sia riconosciuto il vero carattere della trascendenza dell’onnipotente: quella della misericordia.

     

    L’invocazione del Regno di Dio ci apre allo spiraglio della preghiera di domanda.

    “Venga il tuo Regno”

    “Il Regno di Dio è vicino” (Lc 10,11)

    “Il mio Regno non è di questo mondo” (Gv 18,36).

    La percezione dei doni meravigliosi di Dio non fa che infiammare il nostro desiderio di vederli condivisi, accolti da tutti. E’ questo l’oggetto della seconda parte della preghiera sacerdotale di Gesù, come della seconda parte del Padre Nostro:

    “Che essi siano una cosa sola come noi”

    “preservali dal male”

    “santificali nella verità”…

    Invocare la venuta del Regno equivale all’attesa a alla speranza di ciò di cui più vero e profondo portiamo in noi stessi:

    “La domanda cristiana è imperniata sul desiderio e sulla ricerca del regno che viene, conformemente all’insegnamento di Gesù. Nelle domande esiste una gerarchia: prima di tutto si chiede il Regno; poi ciò che è necessario per accoglierlo e per cooperare al suo avvento. Tale cooperazione alla missione di Cristo e dello Spirito Santo, che è ora quella della Chiesa, è l’oggetto della preghiera della comunità apostolica. … mediante la preghiera ogni battezzato opera per l’avvento del Regno” (CCC 2632).

     

    E’ all’interno del rapporto tra Cristo e il Padre che si colloca la nostra preghiera di cristiani.

    “E’ contemplando e ascoltando il Figlio che i figli apprendono a pregare il Padre” (CCC 2601).

    La preghiera cristiana nasce dal riconoscimento del dono di grazia fattoci dal “Padre del N.S.Gesù Cristo”. E’ lui che ha l’iniziativa. Non arriviamo perciò a lui lui a forza di impegno e di volontà, ma come dice la liturgia solamente “Obbedienti al comando del Salvatore e formati al suo divino insegnamento” possiamo osare dire il Nome di Padre.

    La preghiera non è cristiana sino a ché essa non realizza la transustanziazione dei nostri desideri e volontà in quelli di Cristo: è questo lo statuto perfetto della preghiera. Autentica amicizia con Cristo. E questo è dono dello Spirito:

    “La preghiera di fede non consiste soltanto nel dire “Signore, Signore”, ma nel disporre il cuore a fare la volontà del Padre (Mt 7,21). Gesù esorta i suoi discepoli a portare nella preghiera questa passione di collaborare al Disegno divino” (CCC 2611).

    La nostra preghiera partecipa dell’audacia, della sicurezza, dell’universalità della preghiera di Cristo. In ogni situazione, di gioia o di dolore, ci possiamo unire alla preghiera di Gesù, di conseguenza il nostro cuore si dilaterà come il suo. Non ci sentiremo più impotenti dinanzi al mondo.

  • 29 Gen

    di p. Attilio F. Fabris

     

     

    Si aspetta e si ama solo ciò che si conosce: e più si conosce più si ama.

    Se siamo assenti a noi stessi nella preghiera non è forse perché siamo estranei alle cose di Dio? La nostra preghiera è forse troppo scarna e povera perché carente di nutrimento.

    A noi il non confondere spontaneità con trascuratezza.

    Pretendere di amare una persona non conoscendola è una pretesa assurda: si rischia di restare ad una affettività povera, limitata. Per amare una persona devo giungere ad un’autentica conoscenza.

    E’ doveroso per il credente che vuole crescere nella propria fede e nel proprio cammino di fede attingere a quegli strumenti che ci aiutano a preparare la nostra intelligenza.

    Sempre dobbiamo operare un confronto tra i nostri desideri ed aspirazioni con la Parola di Dio, la sana dottrina: Esse infatti ci espongono ampiamente i desideri e le aspirazioni di Cristo e della Chiesa.

    Inoltre occorre spesso far fronte concretamente all’inerzia, all’accidia e ai vuoti interiori, combattendoli con grande umiltà: si tratta dell’umiltà delle scelte precise e concrete.

    Questo non contraddice ciò che si è detto circa il pericolo del cerebrale: si tratta invece di scoprire un equilibrio tra la pigrizia e l’ingordigia spirituale-intellettuale: lettura e meditazione non hanno valore se non nella misura in cui ci spingono ad intrattenerci con Dio.

    “Questa forma di (la meditazione) riflessione orante ha un grande valore, ma la preghiera cristiana deve tendere più lontano: alla conoscenza d’amore del Signore Gesù, all’unione con lui” (CCC 2708).

    Bisogna tacere, nell’incontro con Dio, piuttosto che continuare una meditazione di pure idee; ma, contro le mie distrazioni, dovrò essere in grado di ricorrere a quel testo o a quell’idea che mi permetteranno di ritrovare il mio luogo di incontro con Dio:

    “Se ti viene una riflessione utile, prenda per te il posto della salmodia. Non rifiutare il dono di Dio per mantenere la tradizione. Una preghiera in cui non entrino l’intuizione di Dio e la visione dell’intelletto, è soltanto una fatica della carne. Non compiacerti della quantità dei salmi: questa getta un velo sul tuo cuore. Vale di più una sola parola nell’intimità che mille parole nella lontananza” (Evagrio P., Parenetica).

     Venendo ora a trattare del doveroso disinteresse nella preghiera, dobbiamo purtroppo partire da una constatazione. La nostra cultura non ci facilita in questo: essa giudica tutto in base al rendimento, all’interesse che se ne ricava. Tutto, anche certe forme di preghiera e meditazione, viene ridotto ad utensile.

    “Dobbiamo anche affrontare alcune mentalità di questo mondo che, se non siamo vigilanti, ci contaminano, per esempio: l’affermazione secondo cui vero sarebbe ciò che è verificato dalla ragione e dalla scienza (pregare invece è un mistero che oltrepassa la nostra coscienza e il nostro inconscio); i valori della produzione e del rendimento (la preghiera improduttiva è dunque inutile); il sensualismo, il comfort, eretti a criteri del vero e del bene (la preghiera invece “amore della bellezza” è passione per la gloria di Dio vivo e vero); per reazione contro l’attivismo, ecco la preghiera presentata come fuga dal mondo (La preghiera cristiana, invece, non è un estranearsi dalla storia né un divorzio dalla vita” (CCC 2727).

    La gratuità, l’amore verso la Bellezza puro dono, tutto ciò contraddistingue un amore autentico da uno invece interessato in cui la persona ricerca solo se stessa. L’animale cessa di desiderare quando ottiene, per l’uomo non è così: l’amore adulto non ama più solo e in base a ciò che ottiene in soddisfacimento di un bisogno, ma diviene trascendente, dono di sé:

    “La preghiera… tutto attinge all’Amore con cui siamo amati in Cristo e che concede di rispondervi amando come lui ci ha amati. L’Amore è la sorgente della preghiera; che vi attinge, tocca il culmine della preghiera:

    “Vi amo o mio Dio, e il mio unico desiderio è di amarvi fino all’ultimo respiro. Vi amo o mio Dio infinitamente amabile, e preferisco morire amandovi che vivere senza amarvi. Vi amo, Signore, e la sola grazia che vi chiedo è di amarvi eternamente. Mio Dio, se la mia lingua non può ripetere ad ogni istante che vi amo, voglio che il mio cuore ve lo ripeta tutte le volte che io respiro”(G.M.Vianney)” (CCC 2658).

    L’uomo dinanzi a Dio non è più solo un mendicante, ma quasi fosse alla pari, egli può farsi “Signore” di un dono di gratuità. Allora non è perché abbiamo anzitutto bisogno di Dio che noi lo adoriamo, ma perché egli Dio, il solo degno di essere adorato e servito:

    “La lode è la forma di preghiera che più immediatamente riconosce che Dio è Dio. Lo canta per se stesso, gli rende gloria perché egli E’, a prescindere da ciò che fa. E’ una partecipazione alla beatitudine dei cuori puri, che amano Dio nella fede prima di vederlo nella gloria…” (CCC 2639).

    Se la nostra adorazione nascesse dalla paura e dal desiderio, sarebbe sempre inficiata da un amore non puro, da un interesse che accentrerebbe l’attenzione “non al Dio delle consolazioni, ma alle consolazioni di Dio” (s. Francesco di S.).

    La nostra adorazione unita a quella di tutti gli esseri creati è chiamata ad essere un riconoscimento che Dio è Dio:

    “Tu solo sei degno, o Signore e Dio nostro, di ricevere la lode, l’onore e la potenza” (AP 4,11).

    Questo invito dovrebbe eliminare dalla nostra preghiera ogni atteggiamento di calcolo: il povero non fa calcoli. Si affida.

    Non troppo raramente capita invece che “usiamo” della preghiera. Allora trasformiamo Dio in un tappabuchi a nostro servizio quando ne abbiamo bisogno.

    Nel Vangelo al contrario incontriamo Gesù che è ammirato dalla preghiera disinteressata: Maria di Magdala e il suo prezioso vaso di profumo (Mc 14,3-6).

    Quando ci accingiamo a pregare ricordiamo che la preghiera non è un mezzo tra tanti altri, ma che ad essa dobbiamo abbandonarci, perdervisi.

    Essa deve sviluppare in noi il senso della gratuità, del dono, che è la migliore prova  del nostro amore disinteressato.

    Risulta quindi essenziale nel nostro incontro con Dio la tensione ad oltrepassare il nostro bisogno, non certo per negarlo, ma per purificarlo, per cercare un riposo disinteressato in Dio amato “sopra ogni cosa”:

    “Noi dobbiamo insistere soprattutto nella preghiera, che è come il corifeo delle virtù, in quanto è tramite essa che chiediamo le rimanenti virtù a Dio. Chi insiste nella preghiera si unisce a lui in una stretta comunione grazie ad una mistica santità, a un’energia spirituale e ad una disposizione d’animo ineffabile. Costui, ricevuto da dio lo Spirito come guida e alleato, brucia d’amore per il Signore, ribolle di desiderio e non si sazia mai di pregare” (Gregorio Niss., Fine cristiano).

     

     

  • 29 Gen

     

    di p. Attilio F. Fabris 

     

    Un altro scolio per la nostra preghiera è l’illusione di credere di essere sempre pronti ad incontrare Dio.

    Si tratta di una doppia illusione in quanto da un lato il nostro cuore è occupato da tante cose e dentro di noi non vi è silenzio; dall’altro rimaniamo estranei alle cose di Dio: una mancanza di familiarità con la dottrina.

     

    LA MANCANZA DI SILENZIO E DI DISTACCO

     

    Dice un proverbio arabo: “Non sono le difficoltà del cammino che fanno male ai piedi, ma i sassi che hai nelle scarpe”. Ovvero: è dall’interno di noi stessi che provengono i principali ostacoli, mentre spontaneamente saremmo portati a trovarli immediatamente all’esterno: scrive Basilio di C.:

    “Ho ben abbandonato le occupazioni del mondo, sorgenti di mille mali, ma non ho saputo ancora abbandonare me stesso. Io sono come quei tali che, sul mare, non conoscendo cosa sia una traversata, provano la nausea del mal di mare, e malcontenti della barca in cui si trovano, che sembra loro non adatta, passano su un’altra; ma sempre stanno male, perché nausea e bile li hanno accompagnati.

    Così è per noi: portando in noi le passioni siamo ovunque nella stessa confusione, come non avessimo guadagnato nulla nella solitudine. Al che bisogna dire: <Se qualcuno vuol seguirmi, rinunci a se stesso>“.

    Così è per noi. Spesso pretendiamo di ascoltare Dio, mentre siamo ingombri di noi stessi: ascoltiamo solo noi stessi e i nostri progetti. Magari sì siamo portati a credere importante il silenzio esteriore, ma nonostante questo il sasso che è nella scarpa rimane, non riusciamo a liberarcene; lo sforzo ci sembra inutile.

    Potremmo proporci un piccolo esame di coscienza sul nostro silenzio:

    – la nostra memoria: l’amarezza interiore, il rancore, i cambiamenti di umore, il ricordo di tutto ciò che non è stato secondo quello che ci aspettavamo riguardo a noi stessi, gli altri, gli avvenimenti… “Quando accetterai in pace la prova di non amarti per te stesso? Solo allora fari posto a Cristo” (s. Teresa d’Avila). Forse nella preghiera siamo troppo preoccupati da ciò che ci ingombra la memoria.

    – la nostra persona: un’altra fonte di disturbo interiore è costituito da tutte le idee che ci siamo fatti di noi stessi. Siamo molto attaccati all’immagine di noi stessi che ci viene riflessa dagli altri. Purtroppo molto spesso ricerchiamo negli altri l’immagine che noi vorremmo essere, un’immagine che ci rassicuri, in cui possiamo trovarci tranquilli, nel falso silenzio del nostro sogno. “Io non ho nulla – amava ripetere l’abbé Chevence – io non ho assolutamente nulla, e ci ho messo trent’anni per riconoscerlo. Ciò che pesa all’uomo è il sogno” (Bernanos, La gioia).

    – la nostra attività: un’eccessiva inclinazione al lavoro, la smania di arrivare rapidamente a dei risultati possono creare in noi una tensione tale da impedirci la preghiera.

    “La tentazione più frequente, la più nascosta, è la nostra mancanza di fede. Si manifesta non tanto in una incredulità dichiarata, quanto piuttosto in una preferenza di fatto. Quando ci mettiamo a pregare, mille lavori e preoccupazioni ritenuti urgenti, si presentano come prioritari; ancora una volta è il momento della verità del cuore e del suo amore preferenziale.” (CCC 2732).

    Questa tensione si riversa nella preghiera stessa: la caccia di distrazioni diviene a sua volta fonte di distrazione. Si diviene incapaci di imporsi delle pause di silenzio.

    – le nostre passioni: sono tutti i nostri piccoli o grandi attaccamenti, a livello di persone, cose, situazioni: “Che l’uccello sia legato ad una catena o ad un filo non importa, è sempre legato” (s. Giovanni della C.).

    Tutte queste difficoltà traggono forza dal falso amore per noi stessi. Dal ricercarci per noi stessi dimenticando il nostro fondarci sul un Altro. Siamo allora terrorizzati dall’idea di “perderci”. Ci troviamo costretti a rimpiazzare l’autentico amore, con altri piccoli ed insufficienti amori.

    Se amare significa divenire una sola cosa con chi si ama, ciò può avvenire nella misura in cui si è liberi dall’attaccamento per tutto il resto. Amare è preferire la persona amata a tutto il resto: “Nulla antepongano all’amore di Cristo” (RB).

    Questo è il senso più vero del silenzio interiore: un silenzio colmo di amore:

    “L’orazione è silenzio <simbolo del mondo futuro> (Isacco di N.), o <silenzioso amore> (s. Giovanni della C.). Nell’orazione le parole non sono discorsi, ma come ramoscelli che alimentano il fuoco dell’amore. E’ in questo silenzio, insopportabile all’uomo <esteriore>, che il Padre ci dice il suo Verbo incarnato, sofferente, morto e risorto” (CCC 2717).

    Il silenzio fa sì che ci poniamo nella condizione di unificare la nostra vita. Ciò che esaurisce l’anima, una delle sue sofferenze, è l’inevitabile moltiplicarsi in noi e dall’esterno di infiniti messaggi che disperdono. Siamo dis-tratti: portati, strappati quasi in mille diverse direzioni.

    A motivo di questa dispersione siamo sempre alla ricerca del nostro vero centro, perno della nostra esistenza, che è impossibile scoprire a livello di semplici impressioni e diversità di messaggi.

    Se il punto di riferimento del nostro agire siamo noi stessi, allora rimarremo nella discontinuità, nella molteplicità. Solo il silenzio può fare unità nella nostra vita poiché esso si inscrive nel più profondo di noi stessi, nella nostra anima che ci rimanda ad un Altro al di fuori di noi stessi.

    Il silenzio non è facile, anzi. I ritmi della nostra cultura non ci aiutano Si ha paura del silenzio e della solitudine. E’ per questo motivo che dobbiamo continuamente apprendere il silenzio. attraverso uno stile di vita, delle abitudini sane che possono far da argine a stili di vita ed abitudini diametralmente opposte.

    “L’amico del silenzio si avvicina a Dio. In segreto si intrattiene con lui e riceve la sua luce” (. Giovanni C., Sc. Par.).

     

     

     

     

  • 29 Gen

    di p. Attilio F. Fabris 

     

    Chi può pretendere di saper già pregare? Dinanzi al mistero di Dio rimaniamo sempre degli apprendisti, bisognosi di approfondire. In questo difficile cammino  è dunque indispensabile essere preparati agli scogli, alle varie difficoltà che ci obbligano sempre a dover ripetere: “Signore, insegnaci a pregare”.

    I principali scogli che incontriamo potremmo elencarli come:

    – mancanza di povertà

    – mancanza di preparazione

    – mancanza di gratuità.

     

    L’ILLUSIONE DEL CEREBRALE

     

    Crediamo spesso che per pregare dobbiamo anzitutto avere delle idee. Forse giudichiamo la bontà della nostra preghiera nella misura in cui abbiamo avuto delle buone idee. O al contrario affermiamo: “Sono così poco ispirato durante la preghiera!”.

    Quando preghiamo non si tratta di seguire un corso di teologia, né una dissertazione, ma di conformare la nostra volontà, i nostri progetti alla volontà e ai progetti di Dio.

    Prendiamo l’esempio dei salmi: essi sono costruiti su un piccolissimo numero di temi molto semplici: la grandezza di Dio, la debolezza dell’uomo, la misericordia di Dio, la confidenza dell’uomo. Per entrare in questi temi non occorre certamente essere dei laureati. Andiamo a Dio con tutta semplicità e con i nostri bisogni più veri ed essenziali.

    La preghiera, più che pensieri della mente, si deve trasformare in un linguaggio del cuore che è anzitutto nell’ordine della fede e non delle idee.

    Se la preghiera non raggiunge questo livello rimane un puro esercizio della mente, un atto che rimanda ad una nostra presunta sufficienza.

    Imparare a guardare e a lasciarci guardare, amare e lasciarci amare. E’ il vertice della preghiera: la contemplazione:

    “è sguardo di fede fissato su Gesù: “Io lo guardo ed egli mi guarda” diceva al suo santo curato il contadino d’Ars in preghiera davanti al tabernacolo. Questa attenzione a Lui è rinuncia all’”io”. Il suo sguardo purifica il cuore. La luce dello sguardo di Gesù illumina gli occhi del nostro cuore; ci insegna a vedere tutto nella luce della sua verità e della sua compassione per tutti gli uomini.” (CCC 2715).

     

    Ciò non significa assolutamente che non occorra partire da una meditazione della mente, da un’idea, che ci impedisca la dispersione.

    Occorre infatti fissare lo Spirito al fine di permettergli di ritrovare Colui che la nostra distrazione rischia di allontanare:

    “La meditazione è soprattutto una ricerca. Lo spirito cerca di comprendere il perché e il come della vita cristiana, per aderire e rispondere a ciò che il Signore chiede. Ci vuole un’attenzione difficile da disciplinare. Abitualmente ci si aiuta con qualche libro, che ai cristiani non mancano: la sacra Scrittura particolarmente il santo Vangelo, le sante icone, i testi liturgici del giorno o del tempo, gli scritti dei Padri della vita spirituale, le opere di spiritualità, il grande libro della creazione e quello della storia, la pagina dell’ “oggi” di Dio” (CCC 2705).

    Ma bisogna fare attenzione. Questo sforzo della mente deve sempre essere pervaso dal desiderio di incontrare Dio e di far nostre la sua volontà ed il suo amore:

    “La teologia è luce, la preghiera è fuoco. La loro unione esprime l’unione dell’intelligenza e del cuore. ma è l’intelligenza a doversi “riposare” nel cuore e la teologia a doversi sorpassare nell’amore. “Se sei teologo pregherai veramente, e se tu preghi veramente sei teologo” (Evagrio P.)” (O. Clement)

    E’ il Dio vivente che noi cerchiamo. Non andiamo alla preghiera per aumentare il nostro bagaglio intellettuale sia pure religioso, ma per ridire a Dio che noi l’amiamo e che sappiamo che Lui ci ama, per conformarci al piano di misericordia che è il suo.

     

    L’ILLUSIONE DEL SENSIBILE

     

    Rischiamo ancor più di ricercare noi stessi in luogo di Dio nella nostra sensibilità e di credere che la nostra preghiera abbia valore nella misura in cui abbiamo “sentito” qualcosa.

    La nostra cultura è smaniosa di nuove esperienze, del “sentire”, di ricercare nuovi stati di coscienza etc…

    “Nel combattimento della preghiera dobbiamo affrontare in noi stessi e intorno a noi, delle concezioni erronee della preghiera. Alcuni vedono in essa una semplice operazione psicologica, altri uno sforzo di concentrazione per arrivare al vuoto mentale. C’è chi la riduce ad alcune attitudini e parole rituali” (CCC 2726).

    Ciò che differenzia grandemente la preghiera cristiana da esperienze meditative di altre aree religiose è l’assenza di ricerca di una proiezione di sé stessi. Noi non preghiamo in primo luogo per ritrovare noi stessi, ma per donarci ad un Altro, per entrare in un disegno di salvezza che ci sorpassa.

    Ciò che conta per noi non è la qualità dell’esperienza interiore che apparentemente talvolta può essere molto deludente, ma Colui che è l’oggetto di questa esperienza.

    Non andiamo alla preghiera anzitutto per ricevere ma per donare: e se è l’amicizia con Dio che ci sta veramente a cuore, allora andremo alla preghiera per donarci in dono gratuito: “Donare ostia per ostia” (M.Robin).

    Il fariseo della parabola è persuaso che egli sta ostentando a Dio i frutti della sua pratica di pietà, mentre il pubblicano non sa che egli sta facendo a Dio il più bel dono, dandogli l’occasione di manifestare il suo amore.

    C’è in noi una certa sfumatura farisaica quando diciamo: “Sono contento di averti fatto piacere!”. Si è cercato noi stessi nel dono non l’altro. Poter dare sapendo di poter dare è ancora giocare al ricco.

    Da qui l’importanza che i mistici danno al vuoto, al nostro nulla davanti a Dio:

    “A poco a poco, al di là delle sue forme secondarie la preghiera deve fare il vuoto in attesa di Dio. Un vuoto attento, raccolto, amoroso. “Vuoto” quando alla tensione interna non corrisponde niente di esteriore (S.Weil). Povertà. Nada dei mistici spagnoli” (O.Clement).

    Il nostro amore per Dio deve attraversare il deserto della purificazione: operare il passaggio dalla ricerca del nostro piacere a voler amare Dio perché è Dio.

     

    Se Dio resta in silenzio, frustrando le attese della nostra sensibilità, è perché Egli ha sommo rispetto della nostra libertà e del nostro vero bene. Egli opera in tal modo un affinamento spirituale:

    “Abbiamo la pretesa di vedere il risultato della nostra domanda. Qual è dunque l’immagine di Dio che motiva la nostra preghiera: un mezzo di cui servirci oppure il Padre di nostro Signore Gesù Cristo?…

    Se noi chiediamo con un cuore adultero, diviso, Dio non ci può esaudire, perché egli vuole il nostro bene, la nostra vita. … Il nostro Dio è “geloso” di noi, e questo è il segno della verità del suo amore. Entriamo nel desiderio del suo Spirito e saremo esauditi” (CCC 2734.7).

    Scriveva in una lettera s. Francesco di Sales: “Mi dite che non fate niente durante la preghiera, ma cosa “volete” fare, se non ciò che già fate ossia presentare e ripresentare la vostra miseria a Dio. Quando i mendicanti espongono la loro miseria e necessità, è questo il miglior richiamo che essi possono indirizzarci”.

     

  • 28 Gen

    di p. Attilio Franco Fabris 

     

     

    Apriamo una parentesi per intenderci sul significato di coscienza. Come abbiamo già sperimentato, si tratta di chiamare per nome quello che c’è dentro di noi senza darci subito un giudizio di buono e cattivo come invece spesso ci è stato insegnato.

    La lettura della Bibbia che fa appello alla coscienza, la lettura vissuta in modo coinvolgente, fa risuonare quello che c’è in noi e fa emergere l’appello che Dio ci fa, che è diverso dall’immagine che ci siamo fatti di lui e da quello che ci atttendiamo da lui.

    Il nostro è un itinerario biblico non solo perchè prende in mano testi della Bibbia (lo fanno anche i T.d.G.!) ma soprattutto perchè ci porta ad un affidamento alla parola di Dio, senza cercare altre sicurezze e garanzie. La Parola di Dio ascoltata ci rivela di volta in volta la nostra paura di fidarci di Dio e ci mette di fronte al fatto che solo lo spirito può aprirci ad una comprensione diversa della presenza di Dio nella nostra vita.

    Ogni itinerario biblico, quando ci si inoltra un po’ dentro, manifesta dei segreti o misteri che sembrano complicarsi piuttosto che dipanarsi. E’ invece il passo che posso fare ogni giorno. La strada si apre passo dopo passo, Dio mi domanda di passare dalle mie carestie quotidiane, dalle mancanze che condizionano la mia vita quotidiana alla pienezza del dono della vita. E’ esperienza di Esodo e di deserto, come ascoltiamo in questo Vangelo. Vivremo l’esodo dall’immagine del Padre ricevuta fin dall’infanzia per camminare verso quella conosciuta e sperimentata con l’ascolto.

     

     

    Gesù cammina sulle acque e Pietro con lui

     

    “Subito dopo Gesù ordinò ai discepoli di salire sulla barca e di precederlo sull’altra sponda, mentre lui avrebbe congedato la folla.” (v. 22)

    Come prendono i discepoli questo ordine di Gesù?

    Quali sono le risonanze di Simone e compagni?

     Con che stato d’animo di accostiamo a queste docce fredde che spesso il Vangelo ci propone?

    …Già lo sapevo che la felicità non può durare.

    …Ma perchè non possiamo gustare il positivo della vita?

    …I cristiani sono sempre sfigati che non possono godere come gli altri dei loro successi?

    …Alla fine la lingua batte sempre dove il dente duole e così avviene in questo campo che si finisce sempre per sottolineare le cose negative. Non c’è un altro sistema?

     “La barca, intanto distava già qualche miglio da terra ed era a­gitata dalle onde, a causa del vento contrario. (v. 24)

    I discepoli si imbarcano. E come se non bastasse la batosta appe­na presa ecco che scoppia sul lago la tempesta.

    Siamo ancora in contesto di Esodo: acqua e vento.

     “Verso la fine della notte egli venne verso di loro camminando sul mare.”

    “Le parole “Verso la fine della notte” ci riportano ancora nel contesto dell’Esodo.

     Che cosa significa “camminare sul mare”? Cioè passare sopra le onde, attraversare il mare, restando a piedi asciutti?

    Che cosa rappresenta il mare?

    Che cosa ha significato per il popolo d’Israele attraversare il Mare Rosso a piedi asciutti?

    Che cosa vuol significare questo camminare di Gesù sul lago per gli apostoli e per noi?

     Per cogliere bene questi significati è importante cogliere la ri­sonanza degli apostoli al vedere Gesù restare, nella notte, col vento impetuoso, sulle onde senza sprofondare.

     “I discepoli a vederlo camminare sul mare furono turbati e disse­ro: “E’ un fantasma!” e si misero a gridare dalla paura.” (v. 26)

    Il fantasma evoca la morte. Questo fantasma che compare è il se­gno che nel lago aleggia la morte.

    Nella tradizione biblica il mare è il simbolo della morte per la presenza del Leviatan: la forza della morte. Il mare ingoia e non restituisce nessuno…

    Qui Gesù è riconosciuto un fantasma: una forza di morte che mette terrore.

     Perché Dio è preso, normalmente, per un fantasma?

    Perché mi fa morire a me stesso e io non voglio morire.

    La paura della morte mi fa vedere Dio come un fantasma, come uno che non vuole la mia vita, che anzi vuole la mia morte, vuole il sacrificio del dover essere…

    Così dove Dio si presenta l’uomo grida  di terrore perché non lo riconosce come è veramente cioè colui che vince la morte, che mi fa superare la morte senza che la morte mi faccia niente: mi fa passare attraverso il fuoco senza che mi bruci e mi fa passare attraverso l’acqua senza che mi bagni!

     

     

    “Ma subito Gesù parlò loro:

    “Coraggio, sono io, non abbiate pau­ra”

     

    Gesù si presenta nella sua identità, come colui che cammina sulle acque, che ha la possibilità di vincere la morte. Non c’è motivo di spaventarsi; anzi c’è motivo di rallegrarsi perché con questa capacità Gesù rimane nella sua disponibilità ad aiutarli, a libe­rarli dal pericolo sempre incombente della morte, a far sì che anche loro passano infischiarsene della morte (delle onde minac­ciose del lago) come sta facendo lui.

    Infatti Pietro coglie subito questa possibilità e lo prende il desiderio di fare come Gesù, di stare con Gesù sulle acque, di vincere con Gesù la morte, e quindi la paura della morte.

     “Pietro gli disse: “Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque”. Ed egli disse “Vieni!”  (v. 28-29a)

     C’è sempre una Parola mi ha fatto partire, richiamo alla memoria esempi di brani del Vangelo che mi hanno fatto uscire da situazioni, ecc… Quando Gesù mi ha detto “Vieni!”

     Gesù accoglie volentieri il desiderio di Pietro di camminare sul­le acque, di vincere la morte, di non aver paura della morte. E’ venuto per questo tra gli uomini, appunto per dare loro la possi­bilità di infischiarsene della morte, e quindi di essere liberi dalla conseguente paura che rovina loro la vita. Gesù sembra dire a Pietro:

    ATTUALIZZAZIONE: “Sí, caro Pietro, sono io che cammino senza sprofondare nel mare, nella morte. E ben volentieri comando alla morte di non farti del male, perché io posso vincere la morte e come vorrei che gli uomini fidandosi di me se ne infischiassero della morte. la morte è innocua perché ci sono io a proteggerti a proteggere chiunque confida in me e non confida in se stesso: confidare in se stessi è fidarsi della paura della morte; quella paura della morte che rende insopportabile e invivibile la vita.

    Vieni Pietro e vedrai che anche tu puoi camminare sulla morte!”

     “Pietro, scendendo dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù.” (v. 29b)

     

    DRAMMATIZZAZIONE SULLA SPONDA DELLA BARCA

     

    Risonanze di Pietro.

    Come si comporta Pietro all’invito di Gesù?

    Scende subito? Chiede qualcosa a Gesù?

    Quali risonanze ha provato sentendo il mare solido sotto i suoi piedi?

    Che cosa ha detto? A sè, a Gesù, ai suoi compagni?

     “Ma per la violenza del vento, s’impaurì e, cominciando ad affon­dare gridò: “Signore, salvami!”. (v. 30)

    Come mai si impaurì? Non aveva sperimentato che si poteva cammi­nare sul mare?

    Come mai la paura che inizialmente era stata vinta, prende poi il sopravvento?

     Eccolo, Pietro, ciascuno di noi. Diciamo che prima di tutto si FIDA DI SE STESSO. Inizia a camminare sull’acqua attratto da un’esperienza nuova e che ritiene nelle sue possibilità. Poi ad un certo punto cosa interviene? Paura di soffrire? E’ quando la fatica è tale da aumentare lo stress e possiamo riassumere il tutto quando diciamo: non ce la faccio più!

     La parola vieni può dar frutto al 30, al 60 al 100% lasciare alle persone di esprimersi…

                 Cosa mi succede?

    1.         Incomincio a non aver più fiducia nelle mie possibilità.

    2.         Allora interviene il ragionamento, rapido e deciso, che lascia libera la fantasia di immaginare quello che succederà.

    3.         Aumenta la sensazione di essere incastrato in qualcosa di più grande di me. Ma guarda un po’ che amici, che compagnia mi sono trovato: mi portamo dove non ce la faccio ad arrivare. Quanto bene stavo a casa mia, con le mie sicurezze…

    4.         Una spinta forte da dentro: devi scegliere finchè sei in tempo, puoi ancora trovare una strada per fuggire dignitosamente, senza farti sorprendere dagli eventi…

    5.         Ancora la fantasia che elabora vie di fuga cercando la migliore nel più breve tempo possibile.

    6.         Mi sfogo su me stesso. Sono proprio ammalato, incapace, finito, mi faccio del male per apparire quello che la paura mi ha delineato davanti in modo così chiaro che ormai mi appare come l’unica verità.

    7.         Sposo questa mia verità e rifiuto ogni altra proposta oppure mi affido ad un altro punto di vista, che sia più libero del mio dalla paura di non farcela, che mi ridona l’oggettività e la salvezza che da solo non riesco a riconoscere presente nella mia vita.

    8.         Pietro incontra Cristo perchè impara a fuggire dalla sua paura e dal suo soffocante circolo vizioso. 

     

    Certamente Pietro, ad un certo punto, smette di guardare a Gesù: perché si impossessa del dono, si fa bello del dono, incomincia a confidare in se stesso… La forza che gli veniva dalla fiducia in Gesù un pò alla volta diminuisce e così cresce, invece, l’in­sicurezza, la paura; tanto che la morte attraverso la paura ri­prende il sopravvento: ecco allora che incomincia a sprofondare. Di nuovo, proprio perché viene a cadere la fiducia in Gesù, domi­na nella vita di Pietro la morte, attraverso al paura.

     Cerco ora, a partire dall’ascolto delle mie risonanze, di tradurre quella parola dura: nella vita di Pietro domina la morte.

    La paura della morte e inversamente proporzionale alla fiducia in Gesù.

    E’ la fiducia che garantisce la vittoria sulla morte e quindi sulla paura!

    Pietro fortunatamente ha a portata di mano Gesù, e gli è sponta­neo gridare il suo bisogno di essere salvato.

    In quel grido c’è il ricupero del rapporto con Gesù, il quale lo afferra e lo tira fuori dalle onde, dalla morte.

     

     

    “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”

     

     “E subito Gesù stese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”

    “Subito”: Gesù non attende un attimo; all’invocazione immediata­mente soccorre, senza perdere un attimo di tempo. Gesù, il Signo­re, è sempre pronto a venirci in aiuto, a liberarci dalla morte.

    ma rispetta la nostra libertà: ci libera solo se glielo chiedia­mo.

    Anzi sembra dire a Pietro: Eccomi! Sono qui. Sono sempre stato qui a tua disposizione. Perché non mi hai tenuto presente sempre?

    Perché hai dubitato di me? Perché hai ad un certo punto cessato di fidarti di me hai scelto di fidarti di te?

    Questo è avvenuto proprio per la tua poca fiducia in me!”

     Gesù sembra qui meravigliarsi di questo atteggiamento di Pietro.

    Gesù, comunque, sa che Pietro, come ogni uomo, è continuamente tentato a confidare solo in se stesso.

    Questo è uno smacco per Gesù, per il Signore, il quale deve con­tinuamente subire questo tradimento, questo voltafaccia, questa accusa stolta e insensata dell’uomo di non essere in grado di mantenere fede al suo amore, al suo impegno di salvarci dalla morte.

     

    CELEBRAZIONE CONCLUSIVA

     

    Preghiera spontanea: “Signore salvaci” con il salmo 69(68)

     

    Signore, pietà per la stoltezza del nostro cuore, che dopo essersi abbeverato alla fonte che sei tu, ti rifiuta per sceglie­re fontane screpolate e senza acqua. Qualcosa nasce di nuovo perchè nella vita non ci sono solo le prove, anche se quando ci siamo dentro ci sembra che dalla sofferenza non nasca niente. Ma non c’’ solo la sofferenza!

     

     

    “Appena saliti sulla barca il vento cessò.”

     

    Con Gesù c’è la pace, la calma della coscienza, il riposo nella serenità di un sicuro porto tranquillo e senza sorprese, senza paure, quindi.

    La furia del vento, dello spirito cattivo, della paura della mor­te e delle sue conseguenze, cessa quando noi facciamo spazio a Gesù, gli affidiamo la nostra vita, lo scegliamo come nostro com­pagno di cammino.

     Risonanze di Pietro e degli altri discepoli SOTTO FORMA DI PREGHIERA

    Comportamento di Pietro e degli altri che erano sulla barca e hanno assistito a tutta la scena.

     Pietro ha fatto un’esperienza unica: è stato immesso a far parte del potere di Gesù sulla morte e sulla paura della morte, ma il suo cuore, ancora malato di diffidenza e di paura, non ha retto agli assalti del vento, cioè dell’avversario, della paura della morte.

    Avrà bisogno ancora di tempo, di esperienze di dono e di falli­mento, soprattutto di interiorizzare il significato della morte e della risurrezione di Gesù, per poter aprirsi alla forza dell’a­more più forte della morte e così affrontare con fiducia e corag­gio la morte.

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