SANT’ANNA MADRE DELLA BEATA VEGINE MARIA
Come vorrei che tu venissi tardi,
per avere ancora tempo di annunciare
e di portare la tua carità agli altri.
Come vorrei che tu venissi presto,
per conoscere subito, alla fonte, il calore della carità.
Come vorrei che tu venissi tardi,
per poter costruire nell’attesa,
un regno di solidarietà, di attenzione ai poveri.
Come vorrei che tu venissi presto,
per essere subito in comunione piena e definitiva con te.
Come vorrei che tu venissi tardi,
per poter purificare nell’ascesi,
nella penitenza, nella vita cristiana
la mia povera esistenza.
Come vorrei che tu venissi presto,
per essere accolto, peccatore,
nella tua infinita misericordia.
Come vorrei che tu venissi tardi,
perchè è bello vivere sapendo che tu ci affidi
un compito di responsabilità.
Come vorrei che tu venissi presto,
per essere nella gioia piena.
Signore, non so quello che voglio,
ma di una cosa sono certo:
il meglio è la tua volontà.
Aiutami ad essere pronto a compiere
in qualsiasi tempo e situazione
la tua volontà d’amore per noi,
adesso e al tempo della mia morte.
Amen.
“Eccomi sono la serva del Signore”
Il racconto della vocazione di Maria (Lc 1,26-38), più noto come l’annunciazione a Maria, è di una ricchezza esorbitante. Si può infatti leggere la pericope sotto il profilo cristologico, appuntando l’attenzione sull’identità e sulla missione del Figlio annunciato a Maria, oppure si può appuntare maggiormente l’attenzione al volto di Dio che emerge da tale racconto.
Infine – ed è quanto faremo qui – si può privilegiare la contemplazione della figura di Maria, dalla sua prima reazione all’annuncio dell’angelo alla celebre domanda sulla modalità di quella gravidanza, fino alla sua totale e gioiosa accettazione del progetto divino.
Un sorprendente saluto
Innanzitutto sostiamo sul saluto angelico, causa del turbamento interiore di Maria, saluto che, nell’attuale traduzione liturgica, suona con un troppo neutro: «Ti saluto, o piena di grazia». Poiché Luca è l’evangelista della gioia, sembra preferibile tradurre l’espressione letterale del saluto, nel suo significato filologico di ‘gioire‘. In tal modo, la frase suonerebbe così: «gioisci…»; diventa allora evidente il richiamo a quegli appelli alla gioia che i profeti del Primo Testamento rivolgono appassionatamente al popolo di Dio, affinchè non si lasci schiacciare dal dolore, ma accolga la consolazione divina. Maria è come la ‘figlia di Sion’, esortata a gioire per la presenza salvifica del Signore nella sua comunità.
L’angelo, oltre che invitarla a gioire, non si rivolge a lei chiamandola per nome, ma le conferisce un nome nuovo, carico di un’enorme promessa: «colei che viene riempita di grazia» (infatti in greco non c’è un aggettivo, ma il participio perfetto passivo del verbo charitóó = fare grazia). E infine, come nei testi di missione dei grandi personaggi del Primo Testamento, Maria riceve l’esaltante assicurazione che il Signore è con lei.
Ella, davanti a tutto ciò, non può non porsi domande, e non può non essere turbata da un saluto così sorprendente. Da ciò emerge implicitamente il ritratto dell’umiltà di Maria, la quale non si ritiene certo meritevole di tanta attenzione da parte di Dio. Lo sconvolgimento interiore di Maria non è soltanto emozionale, ma è un interrogarsi pieno di intelligenza spirituale, ed è proprio per tale intelligenza che essa avverte tutta la sproporzione tra il proprio essere – quello che nel Magnificat dirà essere la sua ‘bassezza/infimità’ – e l’iniziativa di Dio verso di lei.
L’ascolto è una caratteristica della figura spirituale di Maria fin dall’inizio della presentazione che ne fa l’evangelista; ebbene, l’ascolto è dare peso alle parole, coglierle nel loro spessore e nella loro eco. Si comprende allora che Maria, ascoltando queste parole dell’inviato divino, ne rimanga come sconvolta.
Seguendo lo schema tradizionale dei racconti di vocazione/ missione, alla reazione umana corrisponde l’invito divino a non temere (cfr. Gen 15,1; Gdc 6,23; ecc.), come avviene appunto anche in questa occasione. Ma le parole dell’angelo non rendono più leggero il saluto, anzi lo gravano di un significato ulteriore, perché dichiarando che lei, Maria, ha «trovato grazia presso Dio», indica una relazione personalissima e singolare di Dio con lei, relazione attribuita nel Primo Testamento ai grandi protagonisti della storia della salvezza.
Il lettore, così, comprende con Maria quali possano essere i motivi profondi dell’iniziale invito alla gioia. Le ragioni di Maria per gioire non stanno certo nelle sue prospettive di promozione sociale mediante l’ormai prossimo matrimonio, né tanto meno nella condizione storica in cui versa il suo popolo, oppresso dai romani, ma è l’amore di Dio che si sta manifestando su di lei, come lascia intuire la parola angelica sul fatto che ella ha trovato grazia. In tal modo la figura di Maria si carica di una valenza simbolica, e lei diventa quasi l’icona della gioia, che è una dimensione intrinseca della fede del popolo di Dio,
Subito dopo il messaggero di Dio le indica anche in che cosa consista la sua missione: avere un Figlio le cui caratteristiche saranno di natura messianica, anzi divina. Infatti egli sarà l’erede delle promesse davidiche, sarà ‘grande’ in assoluto, sarà chiamato ‘Figlio dell’Altissimo’ da Dio stesso, come suggerisce l’uso del passivo teologico.
Le parole angeliche a riguardo del Figlio che Maria concepirà e partorirà richiederebbero un approfondimento fin nel minimo dettaglio filologico, ma qui ci limiteremo a riflettere sull’ulteriore domanda di Maria, questa volta espressa e non trattenuta nel segreto del cuore.
Come avverrà questo?
Di fronte ad un annuncio tanto sbalorditivo – poiché si prospetta la nascita di un personaggio dalle caratteristiche regali, assolutamente incomparabili con quelle dei re che Israele aveva conosciuto, e ancor più dalle caratteristiche divine, con una figliolanza ineffabile nei confronti di Dio – , Maria non può fare a meno di porre una domanda. Purtroppo, come ben si sa, la traduzione CEI è davvero infelice e fuorviante, poiché rende Lc 1,34 con «Come è possibile? Non conosco uomo».
In attesa di una traduzione più adeguata, ci limitiamo a segnalare che una resa letterale della frase greca suona più convincentemente: «Come avverrà questo?», traduzione che risolve già varie perplessità sorte nel lettore.
Maria chiede spiegazioni, ma lo fa senza pretendere una prova o avanzare dubbi sulla veridicità della parola angelica, come ha fatto invece Zaccaria (cfr. Le 1,18). La domanda di Maria è legittima, poiché negli altri annunci biblici prospettanti la nascita prodigiosa di un bimbo viene sempre indicato in qualche modo il genitore del piccolo. Maria, attenta ascoltatrice della parola del Signore, nella sua domanda chiede pertanto quali siano le ulteriori disposizioni del Signore verso di lei, visto che l’angelo non indica in alcun modo le modalità del concepimento.
Va allora ribadito che la domanda di Maria non è affatto segno di incredulità o di dubbio, come era stato il riso di Sara, quando aveva udito, da parte dei tre visitatori, l’annunzio di una sua gravidanza (cfr. Gen 18,12ss.). Anche Abramo, il grande padre nella fede, che pure aveva creduto in Dio, si era lasciato trascinare dalla logica umana, quando, dopo aver ricevuto la promessa divina, aveva cercato di adattare le cose secondo il criterio di possibilità. La faccenda sembrava a lui e a Sara abbastanza chiara: non potendo avere da lei un figlio, lo avrebbe avuto dalla sua schiava (cfr. Gen 16); mostrava in tal modo di non aver capito fino in fondo che Dio è davvero il Signore dell’impossibile, e che il suo agire trascende le vie e le logiche umane.
Al contrario Maria, da credente assolutamente integra nella sua fede, non persegue la propria logica, ma si affida totalmente alla volontà di Dio, chiedendo che Egli, attraverso il suo messaggero, le manifesti le modalità del concepimento. La sua condizione di ragazza vergine, «che non conosce uomo», rende ancora più evidente l’affidarsi di Maria alle vie di Dio.
Bisogna però chiedersi come si debba intendere questo «non conosco uomo». Tradizionalmente è inteso come indicazione della sua condizione verginale, del suo non aver rapporti con un uomo. Qualche autore cattolico si era spinto più in là, vedendo in questa affermazione un voto di verginità perpetua; così si esprimeva, ad esempio, il grande esegeta M. Zerwick: «Describit statum virginalem cum implicita voluntate retinendi eum». Questa lettura è oggi abbandonata, ma resta quella più diffusa per cui Maria segnala la sua condizione verginale all’angelo. Questo comunque suona un po’ strano, dal momento che tale precisazione risulta inutile, visto che il lettore già per due volte ha incontrato il termine parthénos (vergine/giovane ragazza non sposata) e non si capisce perché Maria debba informare di ciò il misterioso visitatore, che già la conosce così nel profondo, da sapere qual è la sua condizione davanti a Dio.
La domanda di Maria e la sua precisazione sul non conoscere uomo può essere forse meglio intesa alla luce del contesto. Infatti, immediatamente prima l’angelo ha prospettato le qualità messianiche divine di quel bambino che lei avrebbe concepito, qualità così alte e così incomparabili che non possono derivare dall’uomo. In questo senso allora la sua domanda dice almeno due cose.
La prima è che lei non vuole anticipare le proprie vie, ma si mette a disposizione della volontà del Signore, e resta in attesa delle sue indicazioni. La seconda è che la sua fede è davvero lucida, poiché sa bene che nessuna creatura umana è in grado di
generare un figlio che abbia le qualità e la natura divina come l’angelo ha appena annunziato!
Scenderà la potenza dell’Altissimo
A questo punto l’angelo spiega a Maria come si verificherà la sua maternità e quale sarà l’origine del bambino. Qui il testo si carica di grande densità teologica, poiché non solo indica le modalità ‘misteriose’ del concepimento, ma ribadisce l’origine ‘altra’ del Figlio che Maria avrà. Proprio in conseguenza di tale origine ‘santa’, il bambino «sarà chiamato figlio di Dio». Suggeriamo qui la preferenza per questa traduzione del testo evangelico: «quello che nascerà santo, sarà chiamato figlio di Dio» (CEI invece traduce: «Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio». In tal caso si intenderebbe dire che è l’origine santa, divina, di questo Figlio di Maria che indica, segnala la sua figliolanza divina).
L’angelo poi afferma che sarà lo Spirito Santo ad agire in lei. La frase risulta composta di due parti parallele, di cui la seconda suona così: «la potenza dell’Altissimo stenderà la sua ombra su di te». Il verbo ‘stendere l’ombra’, in tutti i passi del Primo e del Nuovo Testamento in cui ricorre, indica sempre un’attività divina, il mistero dell’agire di Dio in una persona. L’espressione angelica richiama poi anche il celebre passo di Es 40,35, in cui viene presentata la nube di Dio che ricopre la tenda, e la gloria del Signore che riempie la dimora. Orbene, Maria diventerà ‘dimora di Dio’, diventerà come il tempio nel quale Dio pone la sua presenza, fa riposare la sua gloria.
È utile qui richiamare alcuni aspetti della ricchissima teologia del Primo Testamento sul tema del dimorare di Dio. Ebbene, nel Sal 132, che ha anche un chiaro colorito messianico, Dio è presentato come inquieto, perché è alla ricerca di una Dimora in cui rimanere in modo stabile con il suo popolo. Alla luce di questa immagine Maria appare qui come la Dimora degna, tanto sospirata, come quel cuore in cui Dio può finalmente far riposare il suo Nome, per essere vicino non solo a lei ma all’intero suo popolo.
Che in un certo senso il Signore trovi casa proprio presso Maria lo si era già visto in quel misterioso «entrare dell’angelo del Signore da lei» (cfr. v. 28). Se per Zaccaria l’evangelista parla di un’apparizione di Gabriele, ora invece si realizza un incontro molto più profondo, coinvolgente, reso possibile dal fatto che la casa interiore di Maria è completamente ospitale.
Le ultime parole dell’angelo si interessano poi al tema del ‘segno’, costituito dalla gravidanza di Elisabetta. Questo segno – elemento ricorrente nei racconti di vocazione, in quanto sostegno per la fiducia del chiamato – non è preteso da Maria, ma da lei accolto con prontezza, senza esitazione, come si vedrà nella pericope successiva della visitazione ad Elisabetta. Esso serve a sottolineare il carattere eccezionale e reale del concepimento annunciato a Maria. Nella maternità di Elisabetta Maria riceve un segno per credere che «nessuna parola sarà impossibile a Dio» (questa è la traduzione letterale del versetto che la traduzione CEI rende impropriamente con «nulla è impossibile a Dio»). Maria crede non solo all’inattesa maternità di una donna anziana e sterile, ma a qualcosa di infinitamente più grande, e cioè che Dio voglia entrare in questa storia in modo così intimo e concreto da farsi ‘nato da donna’, da assumere la condizione umana. Questa è la parola che non sarà impossibile a Dio e che ella crede con tutta se stessa.
La serva del Signore
«Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto». Secondo quanto affermato in Lc 1,27, nella vita di questa vergine di Nazaret vi è il progetto di un matrimonio, ormai prossimo. Ma, come credente, ella coltiva un sogno più grande, che trascende anche questi progetti personali: che il Signore compia prontamente le sue promesse e che nella sua vita possa vedere i giorni del Messia! È questa infatti la preghiera, il kaddish, che – come tanti altri credenti del suo popolo – ella recita quotidianamente per la santificazione del Nome, invocando di potere sperimentare nei giorni della propria esistenza il venire del Regno di Dio: «Sia proclamata la grandezza e la santità del Nome grande di Dio nel mondo che egli ha creato secondo la sua volontà, e stabilisca egli il suo Regno durante la nostra vita e nei nostri giorni e durante la vita di tutta la casa d’Israele, presto, in tempo prossimo… ». Ora il sogno diventa realtà e Dio le chiede di prendere posizione, di dare il suo ‘sì!’.
La promessa sposa di Giuseppe viene così associata alla schiera dei grandi protagonisti della storia della salvezza, come Abramo, Mosè, Isaia, uomini chiamati da Dio a collaborare al suo piano di salvezza per Israele e per le genti. Il passo biblico più vicino all’assenso di Maria alla parola di Dio, comunicatale dal messaggero divino, è però quello in cui, al Sinai, Israele accetta per la prima volta la proposta di un’alleanza da parte del Signore. Il popolo promette: «Quanto il Signore ha detto, noi lo faremol» (Es 19,8).
Propriamente il Signore non ha ancora comandato qualcosa al popolo, ma ha soltanto chiesto se esso voglia acconsentire alla sua iniziativa di fare alleanza con Lui. Alla luce di questo passo biblico, si vede come il primo ‘sì’ da dire a Dio non sia tanto l’obbedienza ai suoi ordini e decreti, ma la fede nella sua promessa, l’adesione piena al suo progetto, che vuole il bene dell’uomo. Il ‘sì’ di Maria è come quello di Israele perché è un credere fermamente alla sua volontà di salvezza e fiorisce da un cuore vergine, abitato dal desiderare ciò che Dio stesso desidera e plasmato da una totale fiducia nel Signore.
Cari fratelli e sorelle,
nelle ultime due catechesi abbiamo parlato della figura di san Pietro. Adesso vogliamo, per quanto le fonti permettono, conoscere un po’ più da vicino anche gli altri undici Apostoli. Pertanto parliamo oggi del fratello di Simon Pietro, sant’Andrea, anch’egli uno dei Dodici. La prima caratteristica che colpisce in Andrea è il nome: non è ebraico, come ci si sarebbe aspettato, ma greco, segno non trascurabile di una certa apertura culturale della sua famiglia. Siamo in Galilea, dove la lingua e la cultura greche sono abbastanza presenti. Nelle liste dei Dodici, Andrea occupa il secondo posto, come in Matteo (10,1-4) e in Luca (6,13-16), oppure il quarto posto come in Marco (3,13-18) e negli Atti (1,13-14). In ogni caso, egli godeva sicuramente di grande prestigio all’interno delle prime comunità cristiane.
Il legame di sangue tra Pietro e Andrea, come anche la comune chiamata rivolta loro da Gesù, emergono esplicitamente nei Vangeli. Vi si legge: “Mentre Gesù camminava lungo il mare di Galilea vide due fratelli, Simone chiamato Pietro e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in mare, perché erano pescatori. E disse loro: «Seguitemi, vi farò pescatori di uomini»” (Mt 4,18-19; Mc 1,16-17). Dal Quarto Vangelo raccogliamo un altro particolare importante: in un primo momento, Andrea era discepolo di Giovanni Battista; e questo ci mostra che era un uomo che cercava, che condivideva la speranza d’Israele, che voleva conoscere più da vicino la parola del Signore, la realtà del Signore presente. Era veramente un uomo di fede e di speranza; e da Giovanni Battista un giorno sentì proclamare Gesù come “l’agnello di Dio” (Gv 1,36); egli allora si mosse e, insieme a un altro discepolo innominato, seguì Gesù, Colui che era chiamato da Giovanni “agnello di Dio”. L’evangelista riferisce: essi “videro dove dimorava e quel giorno dimorarono presso di lui” (Gv 1,37-39). Andrea quindi godette di preziosi momenti d’intimità con Gesù. Il racconto prosegue con un’annotazione significativa: “Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia, che significa il Cristo», e lo condusse a Gesù” (Gv 1,40-43), dimostrando subito un non comune spirito apostolico. Andrea, dunque, fu il primo degli Apostoli ad essere chiamato a seguire Gesù. Proprio su questa base la liturgia della Chiesa Bizantina lo onora con l’appellativo di Protóklitos, che significa appunto “primo chiamato”. Ed è certo che anche per il rapporto fraterno tra Pietro e Andrea la Chiesa di Roma e la Chiesa di Costantinopoli si sentono tra loro in modo speciale Chiese sorelle. Per sottolineare questo rapporto, il mio predecessore Papa Paolo VI, nel 1964, restituì l’insigne reliquia di sant’Andrea, fino ad allora custodita nella Basilica Vaticana, al Vescovo metropolita ortodosso della città di Patrasso in Grecia, dove secondo la tradizione l’Apostolo fu crocifisso.
Le tradizioni evangeliche rammentano particolarmente il nome di Andrea in altre tre occasioni che ci fanno conoscere un po’ di più quest’uomo. La prima è quella della moltiplicazione dei pani in Galilea. In quel frangente, fu Andrea a segnalare a Gesù la presenza di un ragazzo che aveva con sé cinque pani d’orzo e due pesci: ben poca cosa – egli rilevò – per tutta la gente convenuta in quel luogo (cfr Gv 6,8-9). Merita di essere sottolineato, nel caso, il realismo di Andrea: egli notò il ragazzo – quindi aveva già posto la domanda: “Ma che cos’è questo per tanta gente?” (ivi) – e si rese conto della insufficienza delle sue poche risorse. Gesù tuttavia seppe farle bastare per la moltitudine di persone venute ad ascoltarlo. La seconda occasione fu a Gerusalemme. Uscendo dalla città, un discepolo fece notare a Gesù lo spettacolo delle poderose mura che sorreggevano il Tempio. La risposta del Maestro fu sorprendente: disse che di quelle mura non sarebbe rimasta pietra su pietra. Andrea allora, insieme a Pietro, Giacomo e Giovanni, lo interrogò: “Dicci quando accadrà questo e quale sarà il segno che tutte queste cose staranno per compiersi” (Mc 13,1-4). Per rispondere a questa domanda Gesù pronunciò un importante discorso sulla distruzione di Gerusalemme e sulla fine del mondo, invitando i suoi discepoli a leggere con accortezza i segni del tempo e a restare sempre vigilanti. Dalla vicenda possiamo dedurre che non dobbiamo temere di porre domande a Gesù, ma al tempo stesso dobbiamo essere pronti ad accogliere gli insegnamenti, anche sorprendenti e difficili, che Egli ci offre.
Nei Vangeli è, infine, registrata una terza iniziativa di Andrea. Lo scenario è ancora Gerusalemme, poco prima della Passione. Per la festa di Pasqua – racconta Giovanni – erano venuti nella città santa anche alcuni Greci, probabilmente proseliti o timorati di Dio, venuti per adorare il Dio di Israele nella festa della Pasqua. Andrea e Filippo, i due apostoli con nomi greci, servono come interpreti e mediatori di questo piccolo gruppo di Greci presso Gesù. La risposta del Signore alla loro domanda appare – come spesso nel Vangelo di Giovanni – enigmatica, ma proprio così si rivela ricca di significato. Gesù dice ai due discepoli e, per loro tramite, al mondo greco: “E’ giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (12,23-24). Che cosa significano queste parole in questo contesto? Gesù vuole dire: Sì, l’incontro tra me ed i Greci avrà luogo, ma non come semplice e breve colloquio tra me ed alcune persone, spinte soprattutto dalla curiosità. Con la mia morte, paragonabile alla caduta in terra di un chicco di grano, giungerà l’ora della mia glorificazione. Dalla mia morte sulla croce verrà la grande fecondità: il “chicco di grano morto” – simbolo di me crocifisso – diventerà nella risurrezione pane di vita per il mondo; sarà luce per i popoli e le culture. Sì, l’incontro con l’anima greca, col mondo greco, si realizzerà a quella profondità a cui allude la vicenda del chicco di grano che attira a sé le forze della terra e del cielo e diventa pane. In altre parole, Gesù profetizza la Chiesa dei greci, la Chiesa dei pagani, la Chiesa del mondo come frutto della sua Pasqua.
Tradizioni molto antiche vedono in Andrea, il quale ha trasmesso ai greci questa parola, non solo l’interprete di alcuni Greci nell’incontro con Gesù ora ricordato, ma lo considerano come apostolo dei Greci negli anni che succedettero alla Pentecoste; ci fanno sapere che nel resto della sua vita egli fu annunciatore e interprete di Gesù per il mondo greco. Pietro, suo fratello, da Gerusalemme attraverso Antiochia giunse a Roma per esercitarvi la sua missione universale; Andrea fu invece l’apostolo del mondo greco: essi appaiono così in vita e in morte come veri fratelli – una fratellanza che si esprime simbolicamente nello speciale rapporto delle Sedi di Roma e di Costantinopoli, Chiese veramente sorelle.
Una tradizione successiva, come si è accennato, racconta della morte di Andrea a Patrasso, ove anch’egli subì il supplizio della crocifissione. In quel momento supremo, però, in modo analogo al fratello Pietro, egli chiese di essere posto sopra una croce diversa da quella di Gesù. Nel suo caso si trattò di una croce decussata, cioè a incrocio trasversale inclinato, che perciò venne detta “croce di sant’Andrea”. Ecco ciò che l’Apostolo avrebbe detto in quell’occasione, secondo un antico racconto (inizi del secolo VI) intitolato Passione di Andrea: “Salve, o Croce, inaugurata per mezzo del corpo di Cristo e divenuta adorna delle sue membra, come fossero perle preziose. Prima che il Signore salisse su di te, tu incutevi un timore terreno. Ora invece, dotata di un amore celeste, sei ricevuta come un dono. I credenti sanno, a tuo riguardo, quanta gioia tu possiedi, quanti regali tu tieni preparati. Sicuro dunque e pieno di gioia io vengo a te, perché anche tu mi riceva esultante come discepolo di colui che fu sospeso a te … O Croce beata, che ricevesti la maestà e la bellezza delle membra del Signore! … Prendimi e portami lontano dagli uomini e rendimi al mio Maestro, affinché per mezzo tuo mi riceva chi per te mi ha redento. Salve, o Croce; sì, salve davvero!”. Come si vede, c’è qui una profondissima spiritualità cristiana, che vede nella Croce non tanto uno strumento di tortura quanto piuttosto il mezzo incomparabile di una piena assimilazione al Redentore, al Chicco di grano caduto in terra. Noi dobbiamo imparare di qui una lezione molto importante: le nostre croci acquistano valore se considerate e accolte come parte della croce di Cristo, se raggiunte dal riverbero della sua luce. Soltanto da quella Croce anche le nostre sofferenze vengono nobilitate e acquistano il loro vero senso.
L’apostolo Andrea, dunque, ci insegni a seguire Gesù con prontezza (cfr Mt 4,20; Mc 1,18), a parlare con entusiasmo di Lui a quanti incontriamo, e soprattutto a coltivare con Lui un rapporto di vera familiarità, ben coscienti che solo in Lui possiamo trovare il senso ultimo della nostra vita e della nostra morte.
Roberto non appartenne alla famiglia dei conti di Aurillac come si era sempre ritenuto secondo la tradizione, ma alla famiglia dei Turlande. Sembra che sua madre al momento del parto fu colta dalle doglie mentre si recava in un castello vicino, perciò si dovette fermare nei boschi, e qui dare alla luce Roberto: da questo evento alcuni predissero che sarebbe diventato un eremita. Un altro evento ricordato della sua infanzia è quando sua madre non poté più allattarlo e per questo lo affidò a due balie, dalle quali però il bambino non volle allattare: sembra che tali balie non conducessero una vita morigerata.
Fu inviato per gli studi culturali e spirituali presso gli ecclesiastici di SaintJiulien, situato nell’alta Loira. Dimostrando ottime qualità fu ammesso alla vita ecclesiastica, divenendo canonico di San Giuliano. Si racconta che facesse molte veglie e preghiere notturne e di giorno si occupava di aiutare i poveri ed i malati, e che molti di essi furono guariti improvvisamente solo standogli nei pressi. Tale attaccamento per i più miseri si accrebbe con il tempo. A tale scopo fece edificare un ospedale a Brioude. Poco tempo dopo ottenne l’ordinazione a presbitero e cominciò a celebrare la s. Messa tutti i giorni.
Andò poi nell’abbazia benedettina di Cluny, sede principale della spiritualità del suo tempo, e vi rimase per circa quaranta anni, seguendo la regola del suo santocompatriota abate Odilone.
Tornato forzatamente a Brioude, ebbe in mente di fondare un nuovo ordine monastico e per tale motivo si apprestò a contattare e chiedere l’approvazione al papa Benedetto IX. Il Pontefice lo incoraggiò a ritirarsi con due suoi compagni in un posto boschivo a sud-est dell’Arvenia. Qui Roberto ed i suoi compagni costruirono un eremitaggio che chiamarono per l’appunto Casa di Dio (Chaise-Dieu).
Rapidamente tale posto richiamò molti discepoli, e Roberto fu costretto a costruire nel 1050 un vero e proprio monastero nel quale fece applicare la regola di san Benedetto. Papa Leone IX eresse poco dopo tale monastero ad abbazia ed essa divenne in breve una delle più fiorenti sedi della cristinità del tempo. Alla morte di Roberto nel 1067 essa contava circa 300 monaci ed aveva inviato in tutta la Francia altri monaci fondatori di monasteri analoghi.
Roberto fondò anche il ramo femminile di tale ordine a Lavadieu presso Brioude. In coincidenza con l’elezione di Pierre Roger, monaco di Chaise-Dieu a papa con il nome di Clemente VI, l’abbazia raggiunse la sua massima fama. In essa fu custodito il corpo di san Roberto fino a quando gli Ugonotti lo bruciarono durante le guerre di religione. Infine l’abbazia fu quasi completamente distrutta durante la rivoluzione francese: rimangono solo la chiesa grande, il chiostro, la tomba di Clemente VI e la torre clementina.
La Chiesa cattolica ne celebra la memoria liturgica il 19 aprile.
Il terzo successore di Robero fu l’abate Lantelmo il quale accetto l’invito del vescovo di Genova Ugone della Volta ad accettare il monastero di Borzone: i monaci de “La Chaise-Dieu” vi entrarono nel 1186 rimanendovi sino al 1536.
Paolo Danei Massari nacque ad Ovada (AL), Italia, il 3 gennaio 1694; con la famiglia si trasferì a Castellazzo Bormida, non lontano dal suo luogo natale. La madre gli insegnò a trovare nella Passione di Cristo la forza per superare tutte le difficoltá. Innamorato di Gesù Crocifisso sin dall’infanzia, volle che tutta la sua vita fosse consacrata a Lui. durante una grave malattia, una visione dell’inferno lo terrorizzò. Ascoltando una predica di un sacerdote si sentì illuminato dal Signore all’amore per il Cristo Crocifisso: fu il momento che egli chiama della sua “conversione”.
Verso il 1715-1716, desideroso di servire Cristo si recò a Venezia e si arruolò nell’esercito. Con l’ideale del crociato voleva lottare conto i Turchi che minacciavano l’Europa. Mentre faceva l’adorazione al Santissimo Sacramento in una chiesa, capì che non era quella la sua vocazione. Decise di abbandonare l’esercito, stette per qualche mese a servizio presso una famiglia e poi fece ritorno a casa. Anche se uno zio sacerdote gli aveva lasciato un’eredità perché si potesse sposare, egli vi rinunciò.
Fare memoria del Crocifisso. Secondo una testimonianza, un’apparizione delle Vergine Maria gli fece conoscere l’abito, il segno e lo stile di vita, che avrebbe avuto sempre al centro Gesù Crocifisso. Il vescovo di Alessandria, mons. Gattinara, previo il giudizio di confessori prudenti, il 22 novembre 1720, lo rivestì dell’abito della Passione. Trascorse 40 giorni nella sacrestia della chiesa di S. Carlo a Castellazzo. Le sue esperienze e lo stato del suo spirito in quella “quaresima” sono illustrate nel cosiddetto “Diario Spirituale”. Compose le Regole per dei possibili compagni da lui chiamati “I Poveri di Gesù”. Suo fratello, Giovanni Battista che era andato a trovarlo chiese di unirsi a lui ma Paolo, per allora, non volle.
Terminata questa esperienza, il vescovo lo autorizzò a vivere nel romitorio di S. Stefano, a Castellazzo ed a svolgere apostolato da laico. Nell’estate del 1721 si diresse a Roma con il desiderio di ottenere un’udienza dal Papa per esporre le ispirazioni avute sulla futura Congregazione. Gli ufficiali del Quirinale , dove risiedeva allora il Papa, non lo lasciarono passare credendolo un avventuriero.
Il primo voto passionista. Accettò questa umiliazione che lo configurava a Gesù Crocifisso e, nella Basilica di S. Maria Maggiore, di fronte al quadro della Vergine “Salus Populi Romani”, fece il voto di consacrarsi a promuovere la memoria della Passione di Gesù Cristo.
Facendo ritorno al suo paese si fermò per qualche tempo ad Orbetello, nel romitorio dell’Annunziata, sul Monte Argentario. A Castellazzo si unì a lui il fratello Giovanni Battista e partirono per dedicarsi alla vita eremitica sul Monte Argentario. Successivamente, invitati da mons. Pignatelli, furono nel romitorio della Madonna della Catena, a Gaeta. Mons. Cavalieri li accolse per un certo tempo a Troia. Successivamente fecero ritorno nella diocesi di Gaeta, presso il santuario della Vergine della Civita, ad Itri. I tentativi di fondare una comunità fallivano uno dopo l’altro. Per essere predicatori della Passione dovevano accedere al sacerdozio e per questa ragione si portarono a Roma, dove nell’ospedale di San Gallicano assistettero i malati di tigna, mentre frequentavano gli studi di teologia. Ebbero modo di incontrare il Papa mentre era in visita al Celio, alla chiesa detta “La Navicella” che permise ai due fratelli di fondare il primo convento sul Monte Argentario. Una volta ordinati sacerdoti, nel 1727 i due fratelli lasciarono Roma e si recarono sul Monte Argentario.
Predicare la Passione di Cristo. Iniziarono il loro apostolato tra i pescatori, i boscaioli, i pastori. Si unirono ai due, il fratello Antonio alcuni compagni e sacerdoti ben preparati. I vescovi si rivolgevano loro per chiedere di tenere delle missioni nei paesi. Quando nella zona scoppiò la guerra dei Presidi, Paolo si dedicò a curare ed assistere i feriti nelle due zone nemiche ricevendo sempre buona accoglienza.
Il primo ritiro, dedicato alla Presentazione, la cui prima pietra fu posta nel 1733, fu inaugurato nel 1737. Paolo presentò quindi a Roma le Regole della nascente Congregazione. Dopo alcune mitigazioni, Benedetto XIV le approvò nel 1741.
Il fondatore fu contemporaneo di apostoli come S. Leonardo da Porto Maurizio e S. Alfonso M. de Liguori, che ebbe modo di conoscere. I tre Santi erano accomunati dal medesimo Amore a Gesù Crocifisso che li spingeva al ministero apostolico delle missioni.
Anche se sin dal 1747 fu sempre Superiore Generale, non lasciò mai di predicare né di scrivere lettere di direzione spirituale. L’Istituto incontrò delle opposizioni in qualche settore della Chiesa e la fondazione di diversi conventi fu sospesa fino a quando una Commissione pontificia non ebbe dato un giudizio favorevole ai Passionisti.
Paolo cercò sempre di alimentare lo spirito della solitudine, della povertà e della orazione con i consigli e con l’esempio del fratello Giovanni Battista. Quando, nel 1767, questi morì, Paolo si sentì orfano.
Religiose passioniste. Una contadina, Lucia Burlini, aveva parlato a S. Paolo, delle “Colombe del Calvario”, immagine di alcune anime con lo stesso spirito contemplativo dei religiosi. Anche se impiegò quasi 40 anni per realizzare questa idea, nel 1771 nacquero a Corneto (Tarquinia), le Passioniste di clausura. Alla loro guida Paolo pose M. Crocifissa Costantini, benedettina, che con il permesso di Clemente XIV, era passata nel nuovo monastero.
Dopo la soppressione della Compagnia di Gesù, Clemente XIV trasferì i Padri della Missione (Lazzaristi) nella chiesa di Sant’Andrea al Quirinale e donò a Paolo della Croce la casa e la basilica che essi avevano sul Celio: i SS. Giovanni e Paolo. In questo luogo, a due passi dal Colosseo, Paolo trascorse i due ultimi anni della sua vita e ricevette le visite di Clemente XIV il 26/06/1774 e di Pio VI nel marzo del 1775. Morì dopo qualche mese il 18 ottobre 1775. Le sue spoglie mortali si conservano nella cappella a lui dedicata, inaugurata nel 1880.
Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei parlare del santo abate Colombano, l’irlandese più noto del primo Medioevo: con buona ragione egli può essere chiamato un santo “europeo”, perché come monaco, missionario e scrittore ha lavorato in vari Paesi dell’Europa occidentale. Insieme agli irlandesi del suo tempo, egli era consapevole dell’unità culturale dell’Europa. In una sua lettera, scritta intorno all’anno 600 ed indirizzata a Papa Gregorio Magno, si trova per la prima volta l’espressione “totius Europae – di tutta l’Europa”, con riferimento alla presenza della Chiesa nel Continente (cfr Epistula I,1).
Colombano era nato intorno all’anno 543 nella provincia di Leinster, nel sud-est dell’Irlanda. Educato nella propria casa da ottimi maestri che lo avviarono allo studio delle arti liberali, si affidò poi alla guida dell’abate Sinell della comunità di Cluain-Inis, nell’Irlanda settentrionale, ove poté approfondire lo studio delle Sacre Scritture. All’età di circa vent’anni entrò nel monastero di Bangor nel nord-est dell’isola, ove era abate Comgall, un monaco ben noto per la sua virtù e il suo rigore ascetico. In piena sintonia col suo abate, Colombano praticò con zelo la severa disciplina del monastero, conducendo una vita di preghiera, di ascesi e di studio. Lì fu anche ordinato sacerdote. La vita a Bangor e l’esempio dell’abate influirono sulla concezione del monachesimo che Colombano maturò col tempo e diffuse poi nel corso della sua vita.
All’età di circa cinquant’anni, seguendo l’ideale ascetico tipicamente irlandese della “peregrinatio pro Christo”, del farsi cioè pellegrino per Cristo, Colombano lasciò l’isola per intraprendere con dodici compagni un’opera missionaria sul continente europeo. Dobbiamo infatti tener presente che la migrazione di popoli dal nord e dall’est aveva fatto ricadere nel paganesimo intere Regioni già cristianizzate. Intorno all’anno 590 questo piccolo drappello di missionari approdò sulla costa bretone. Accolti con benevolenza dal re dei Franchi d’Austrasia (l’attuale Francia), chiesero solo un pezzo di terra incolta. Ottennero l’antica fortezza romana di Annegray, tutta diroccata ed abbandonata, ormai coperta dalla foresta. Abituati ad una vita di estrema rinuncia, i monaci riuscirono entro pochi mesi a costruire sulle rovine il primo eremo. Così, la loro rievangelizzazione iniziò a svolgersi innanzitutto mediante la testimonianza della vita. Con la nuova coltivazione della terra cominciarono anche una nuova coltivazione delle anime. La fama di quei religiosi stranieri che, vivendo di preghiera e in grande austerità, costruivano case e dissodavano la terra, si diffuse celermente attraendo pellegrini e penitenti. Soprattutto molti giovani chiedevano di essere accolti nella comunità monastica per vivere, come loro, questa vita esemplare che rinnovava la coltura della terra e delle anime. Ben presto si rese necessaria la fondazione di un secondo monastero. Fu edificato a pochi chilometri di distanza, sulle rovine di un’antica città termale, Luxeuil. Il monastero sarebbe poi diventato il centro dell’irradiazione monastica e missionaria di tradizione irlandese sul continente europeo. Un terzo monastero fu eretto a Fontaine, un’ora di cammino più a nord.
A Luxeuil Colombano visse per quasi vent’anni. Qui il santo scrisse per i suoi seguaci la Regula monachorum – per un certo tempo più diffusa in Europa di quella di san Benedetto – disegnando l’immagine ideale del monaco. È l’unica antica regola monastica irlandese che oggi possediamo. Come integrazione egli elaborò la Regula coenobialis, una sorta di codice penale per le infrazioni dei monaci, con punizioni piuttosto sorprendenti per la sensibilità moderna, spiegabili soltanto con la mentalità del tempo e dell’ambiente. Con un’altra opera famosa intitolata De poenitentiarum misura taxanda, scritta pure a Luxeuil, Colombano introdusse nel continente la confessione e la penitenza private e reiterate; fu detta penitenza “tariffata” per la proporzione stabilita tra gravità del peccato e tipo di penitenza imposta dal confessore. Queste novità destarono il sospetto dei Vescovi della regione, un sospetto che si tramutò in ostilità quando Colombano ebbe il coraggio di rimproverarli apertamente per i costumi di alcuni di loro. Occasione per il manifestarsi del contrasto fu la disputa circa la data della Pasqua: l’Irlanda seguiva infatti la tradizione orientale in contrasto con la tradizione romana. Il monaco irlandese fu convocato nel 603 a Châlon-sur-Saôn per rendere conto davanti a un sinodo delle sue consuetudini relative alla penitenza e alla Pasqua. Invece di presentarsi al sinodo, egli mandò una lettera in cui minimizzava la questione invitando i Padri sinodali a discutere non solo del problema della data della Pasqua, problema piccolo secondo lui, “ma anche di tutte le necessarie normative canoniche che da molti – cosa più grave – sono disattese” (cfr Epistula II,1). Contemporaneamente scrisse a Papa Bonifacio IV – come qualche anno prima già si era rivolto a Papa Gregorio Magno (cfr Epistula I) – per difendere la tradizione irlandese (cfr Epistula III).
Intransigente come era in ogni questione morale, Colombano entrò poi in conflitto anche con la Casa reale, perché aveva rimproverato aspramente il re Teodorico per le sue relazioni adulterine. Ne nacque una rete di intrighi e manovre a livello personale, religioso e politico che, nell’anno 610, si tradusse in un decreto di espulsione da Luxeuil di Colombano e di tutti i monaci di origine irlandese, che furono condannati ad un definitivo esilio. Furono scortati fino al mare ed imbarcati a spese della corte verso l’Irlanda. Ma la nave si incagliò a poca distanza dalla spiaggia e il capitano, vedendo in ciò un segno del cielo, rinunciò all’impresa e, per paura di essere maledetto da Dio, riportò i monaci sulla terra ferma. Essi, invece di tornare a Luxeuil, decisero di cominciare una nuova opera di evangelizzazione. Si imbarcarono sul Reno e risalirono il fiume. Dopo una prima tappa a Tuggen presso il lago di Zurigo, andarono nella regione di Bregenz presso il lago di Costanza per evangelizzare gli Alemanni.
Poco dopo però Colombano, a causa di vicende politiche poco favorevoli alla sua opera, decise di attraversare le Alpi con la maggior parte dei suoi discepoli. Rimase solo un monaco di nome Gallus; dal suo eremo si sarebbe poi sviluppata la famosa abbazia di Sankt Gallen, in Svizzera. Giunto in Italia, Colombano trovò un’accoglienza benevola presso la corte reale longobarda, ma dovette affrontare subito difficoltà notevoli: la vita della Chiesa era lacerata dall’eresia ariana ancora prevalente tra i longobardi e da uno scisma che aveva staccato la maggior parte delle Chiese dell’Italia settentrionale dalla comunione col Vescovo di Roma. Colombano si inserì con autorevolezza in questo contesto, scrivendo un libello contro l’arianesimo e una lettera a Bonifacio IV per convincerlo a fare alcuni passi decisi in vista di un ristabilimento dell’unità (cfr Epistula V). Quando il re dei longobardi, nel 612 o 613, gli assegnò un terreno a Bobbio, nella valle della Trebbia, Colombano fondò un nuovo monastero che sarebbe poi diventato un centro di cultura paragonabile a quello famoso di Montecassino. Qui giunse al termine dei suoi giorni: morì il 23 novembre 615 e in tale data è commemorato nel rito romano fino ad oggi.
Il messaggio di san Colombano si concentra in un fermo richiamo alla conversione e al distacco dai beni terreni in vista dell’eredità eterna. Con la sua vita ascetica e il suo comportamento senza compromessi di fronte alla corruzione dei potenti, egli evoca la figura severa di san Giovanni Battista. La sua austerità, tuttavia, non è mai fine a se stessa, ma è solo il mezzo per aprirsi liberamente all’amore di Dio e corrispondere con tutto l’essere ai doni da Lui ricevuti, ricostruendo così in sé l’immagine di Dio e al tempo stesso dissodando la terra e rinnovando la società umana. Cito dalle sue Instructiones: “Se l’uomo userà rettamente di quelle facoltà che Dio ha concesso alla sua anima allora sarà simile a Dio. Ricordiamoci che gli dobbiamo restituire tutti quei doni che egli ha depositato in noi quando eravamo nella condizione originaria. Ce ne ha insegnato il modo con i suoi comandamenti. Il primo di essi è quello di amare il Signore con tutto il cuore, perché egli per primo ci ha amato, fin dall’inizio dei tempi, prima ancora che noi venissimo alla luce di questo mondo” (cfr Instr. XI). Queste parole, il Santo irlandese le incarnò realmente nella propria vita. Uomo di grande cultura –scrisse anche poesie in latino e un libro di grammatica – si rivelò ricco di doni di grazia. Fu un instancabile costruttore di monasteri come anche intransigente predicatore penitenziale, spendendo ogni sua energia per alimentare le radici cristiane dell’Europa che stava nascendo. Con la sua energia spirituale, con la sua fede, con il suo amore per Dio e per il prossimo divenne realmente uno dei Padri dell’Europa: egli mostra anche oggi a noi dove stanno le radici dalle quali può rinascere questa nostra Europa.
Cari fratelli e sorelle,
vorrei oggi parlare di san Benedetto, Fondatore del monachesimo occidentale, e anche Patrono del mio pontificato. Comincio con una parola di san Gregorio Magno, che scrive di san Benedetto: “L’uomo di Dio che brillò su questa terra con tanti miracoli non rifulse meno per l’eloquenza con cui seppe esporre la sua dottrina” (Dial. II, 36). Queste parole il grande Papa scrisse nell’anno 592; il santo monaco era morto appena 50 anni prima ed era ancora vivo nella memoria della gente e soprattutto nel fiorente Ordine religioso da lui fondato. San Benedetto da Norcia con la sua vita e la sua opera ha esercitato un influsso fondamentale sullo sviluppo della civiltà e della cultura europea. La fonte più importante sulla vita di lui è il secondo libro dei Dialoghi di san Gregorio Magno. Non è una biografia nel senso classico. Secondo le idee del suo tempo, egli vuole illustrare mediante l’esempio di un uomo concreto – appunto di san Benedetto – l’ascesa alle vette della contemplazione, che può essere realizzata da chi si abbandona a Dio. Quindi ci dà un modello della vita umana come ascesa verso il vertice della perfezione. San Gregorio Magno racconta anche, in questo libro dei Dialoghi, di molti miracoli compiuti dal Santo, ed anche qui non vuole semplicemente raccontare qualche cosa di strano, ma dimostrare come Dio, ammonendo, aiutando e anche punendo, intervenga nelle concrete situazioni della vita dell’uomo. Vuole mostrare che Dio non è un’ipotesi lontana posta all’origine del mondo, ma è presente nella vita dell’uomo, di ogni uomo.
Questa prospettiva del “biografo” si spiega anche alla luce del contesto generale del suo tempo: a cavallo tra il V e il VI secolo il mondo era sconvolto da una tremenda crisi di valori e di istituzioni, causata dal crollo dell’Impero Romano, dall’invasione dei nuovi popoli e dalla decadenza dei costumi. Con la presentazione di san Benedetto come “astro luminoso”, Gregorio voleva indicare in questa situazione tremenda, proprio qui in questa città di Roma, la via d’uscita dalla “notte oscura della storia” (cfr Giovanni Paolo II, Insegnamenti, II/1, 1979, p. 1158). Di fatto, l’opera del Santo e, in modo particolare, la sua Regola si rivelarono apportatrici di un autentico fermento spirituale, che mutò nel corso dei secoli, ben al di là dei confini della sua Patria e del suo tempo, il volto dell’Europa, suscitando dopo la caduta dell’unità politica creata dall’impero romano una nuova unità spirituale e culturale, quella della fede cristiana condivisa dai popoli del continente. E’ nata proprio così la realtà che noi chiamiamo “Europa”.
La nascita di san Benedetto viene datata intorno all’anno 480. Proveniva, così dice san Gregorio, “ex provincia Nursiae” – dalla regione della Nursia. I suoi genitori benestanti lo mandarono per la sua formazione negli studi a Roma. Egli però non si fermò a lungo nella Città eterna. Come spiegazione pienamente credibile, Gregorio accenna al fatto che il giovane Benedetto era disgustato dallo stile di vita di molti suoi compagni di studi, che vivevano in modo dissoluto, e non voleva cadere negli stessi loro sbagli. Voleva piacere a Dio solo; “soli Deo placere desiderans” (II Dial., Prol 1). Così, ancora prima della conclusione dei suoi studi, Benedetto lasciò Roma e si ritirò nella solitudine dei monti ad est di Roma. Dopo un primo soggiorno nel villaggio di Effide (oggi: Affile), dove per un certo periodo si associò ad una “comunità religiosa” di monaci, si fece eremita nella non lontana Subiaco. Lì visse per tre anni completamente solo in una grotta che, a partire dall’Alto Medioevo, costituisce il “cuore” di un monastero benedettino chiamato “Sacro Speco”. Il periodo in Subiaco, un periodo di solitudine con Dio, fu per Benedetto un tempo di maturazione. Qui doveva sopportare e superare le tre tentazioni fondamentali di ogni essere umano: la tentazione dell’autoaffermazione e del desiderio di porre se stesso al centro, la tentazione della sensualità e, infine, la tentazione dell’ira e della vendetta. Era infatti convinzione di Benedetto che, solo dopo aver vinto queste tentazioni, egli avrebbe potuto dire agli altri una parola utile per le loro situazioni di bisogno. E così, riappacificata la sua anima, era in grado di controllare pienamente le pulsioni dell’io, per essere così un creatore di pace intorno a sé. Solo allora decise di fondare i primi suoi monasteri nella valle dell’Anio, vicino a Subiaco.
Nell’anno 529 Benedetto lasciò Subiaco per stabilirsi a Montecassino. Alcuni hanno spiegato questo trasferimento come una fuga davanti agli intrighi di un invidioso ecclesiastico locale. Ma questo tentativo di spiegazione si è rivelato poco convincente, giacché la morte improvvisa di lui non indusse Benedetto a ritornare (II Dial. 8). In realtà, questa decisione gli si impose perché era entrato in una nuova fase della sua maturazione interiore e della sua esperienza monastica. Secondo Gregorio Magno, l’esodo dalla remota valle dell’Anio verso il Monte Cassio – un’altura che, dominando la vasta pianura circostante, è visibile da lontano – riveste un carattere simbolico: la vita monastica nel nascondimento ha una sua ragion d’essere, ma un monastero ha anche una sua finalità pubblica nella vita della Chiesa e della società, deve dare visibilità alla fede come forza di vita. Di fatto, quando, il 21 marzo 547, Benedetto concluse la sua vita terrena, lasciò con la sua Regola e con la famiglia benedettina da lui fondata un patrimonio che ha portato nei secoli trascorsi e porta tuttora frutto in tutto il mondo.
Nell’intero secondo libro dei Dialoghi Gregorio ci illustra come la vita di san Benedetto fosse immersa in un’atmosfera di preghiera, fondamento portante della sua esistenza. Senza preghiera non c’è esperienza di Dio. Ma la spiritualità di Benedetto non era un’interiorità fuori dalla realtà. Nell’inquietudine e nella confusione del suo tempo, egli viveva sotto lo sguardo di Dio e proprio così non perse mai di vista i doveri della vita quotidiana e l’uomo con i suoi bisogni concreti. Vedendo Dio capì la realtà dell’uomo e la sua missione. Nella sua Regola egli qualifica la vita monastica “una scuola del servizio del Signore” (Prol. 45) e chiede ai suoi monaci che “all’Opera di Dio [cioè all’Ufficio Divino o alla Liturgia delle Ore] non si anteponga nulla” (43,3). Sottolinea, però, che la preghiera è in primo luogo un atto di ascolto (Prol. 9-11), che deve poi tradursi nell’azione concreta. “Il Signore attende che noi rispondiamo ogni giorno coi fatti ai suoi santi insegnamenti”, egli afferma (Prol. 35). Così la vita del monaco diventa una simbiosi feconda tra azione e contemplazione “affinché in tutto venga glorificato Dio” (57,9). In contrasto con una autorealizzazione facile ed egocentrica, oggi spesso esaltata, l’impegno primo ed irrinunciabile del discepolo di san Benedetto è la sincera ricerca di Dio (58,7) sulla via tracciata dal Cristo umile ed obbediente (5,13), all’amore del quale egli non deve anteporre alcunché (4,21; 72,11) e proprio così, nel servizio dell’altro, diventa uomo del servizio e della pace. Nell’esercizio dell’obbedienza posta in atto con una fede animata dall’amore (5,2), il monaco conquista l’umiltà (5,1), alla quale la Regola dedica un intero capitolo (7). In questo modo l’uomo diventa sempre più conforme a Cristo e raggiunge la vera autorealizzazione come creatura ad immagine e somiglianza di Dio.
All’obbedienza del discepolo deve corrispondere la saggezza dell’Abate, che nel monastero tiene “le veci di Cristo” (2,2; 63,13). La sua figura, delineata soprattutto nel secondo capitolo della Regola, con un profilo di spirituale bellezza e di esigente impegno, può essere considerata come un autoritratto di Benedetto, poiché – come scrive Gregorio Magno – “il Santo non poté in alcun modo insegnare diversamente da come visse” (Dial. II, 36). L’Abate deve essere insieme un tenero padre e anche un severo maestro (2,24), un vero educatore. Inflessibile contro i vizi, è però chiamato soprattutto ad imitare la tenerezza del Buon Pastore (27,8), ad “aiutare piuttosto che a dominare” (64,8), ad “accentuare più con i fatti che con le parole tutto ciò che è buono e santo” e ad “illustrare i divini comandamenti col suo esempio” (2,12). Per essere in grado di decidere responsabilmente, anche l’Abate deve essere uno che ascolta “il consiglio dei fratelli” (3,2), perché “spesso Dio rivela al più giovane la soluzione migliore” (3,3). Questa disposizione rende sorprendentemente moderna una Regola scritta quasi quindici secoli fa! Un uomo di responsabilità pubblica, e anche in piccoli ambiti, deve sempre essere anche un uomo che sa ascoltare e sa imparare da quanto ascolta. Benedetto qualifica la Regola come “minima, tracciata solo per l’inizio” (73,8); in realtà però essa offre indicazioni utili non solo ai monaci, ma anche a tutti coloro che cercano una guida nel loro cammino verso Dio. Per la sua misura, la sua umanità e il suo sobrio discernimento tra l’essenziale e il secondario nella vita spirituale, essa ha potuto mantenere la sua forza illuminante fino ad oggi. Paolo VI, proclamando nel 24 ottobre 1964 san Benedetto Patrono d’Europa, intese riconoscere l’opera meravigliosa svolta dal Santo mediante la Regola per la formazione della civiltà e della cultura europea. Oggi l’Europa – uscita appena da un secolo profondamente ferito da due guerre mondiali e dopo il crollo delle grandi ideologie rivelatesi come tragiche utopie – è alla ricerca della propria identità. Per creare un’unità nuova e duratura, sono certo importanti gli strumenti politici, economici e giuridici, ma occorre anche suscitare un rinnovamento etico e spirituale che attinga alle radici cristiane del Continente, altrimenti non si può ricostruire l’Europa. Senza questa linfa vitale, l’uomo resta esposto al pericolo di soccombere all’antica tentazione di volersi redimere da sé – utopia che, in modi diversi, nell’Europa del Novecento ha causato, come ha rilevato il Papa Giovanni Paolo II, “un regresso senza precedenti nella tormentata storia dell’umanità” (Insegnamenti, XIII/1, 1990, p. 58). Cercando il vero progresso, ascoltiamo anche oggi la Regola di san Benedetto come una luce per il nostro cammino. Il grande monaco rimane un vero maestro alla cui scuola possiamo imparare l’arte di vivere l’umanesimo vero.
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