• 29 Dic

    Si assiste sempre più ad un accentuato contrasto tra l’insistenza dei pastori sull’importanza, anzi sulla necessità dell’impegno politico dei cattolici, e il diffuso disimpegno in questo ambito.

    Potrebbe scaturirne una visione pessimismistica: se i cristiani più vicini agli insegnamenti della Chiesa non percepiscono concretamente la necessità dell’impegno politico, sembra superfluo insistervi ulteriormente e dedicare un convegno a questo tema.

    L’altra prospettiva  invece è più ottomistica: il diffuso disinteresse in campo politico deve servire di stimolo per perseverare in tale insegnamento, per insistere sulla necessità dell’impegno politico, e sulle caratteristiche che esso deve avere; e bisogna farlo non solo al livello teoretico, ma anche al livello pratico e in modo incisivo.

     

    1. Il diritto-dovere all’impegno politico

     

    Tutti coloro che partecipano alla vita sociale, vale a dire tutti gli uomini, hanno il diritto e il dovere di impegnarsi in campo politico.

    Naturalmente, ognuno lo farà con modalità diverse, secondo la sua situazione e le sue attitudini; ma nessuno può rimanere estraneo a questo importante compito.

    Ciò è particolarmente vero per i cristiani.

    Prima però vorrei fare una precisazione: il diritto-dovere di partecipare alla vita politica deriva dalla cittadinanza delle persone.

    In tal senso, un cattolico non ha una situazione particolare che accresca o riduca tale diritto-dovere rispetto al resto della società.

    L’essere cattolico costituisce però, di fronte alla propria coscienza, un ulteriore motivo per vivere con più responsabilità l’impegno politico.

     

    1.1. Il punto di vista della Redenzione

     

    Cristo ha redento tutto l’uomo, anche nel suo essenziale rapporto con gli altri e con la società. La realtà sociale naturale è stata assunta nel disegno redentore

    Tutte le attività temporali possono quindi essere vissute come risposta alla vocazione divina, nella quale la persona segue le orme del Signore.

    Nell’esperienza della salvezza l’uomo scopre il vero significato della sua libertà ed è educato al suo retto uso. Così alla dimensione soteriologica della liberazione viene ad aggiungersi una dimensione etica: la persona è chiamata ad agire in favore della liberazione da ciò che schiavizza l’uomo, anche riguardo ai rapporti sociali.

    Sebbene la salvezza non possa essere ridotta alla dimensione etico-sociale, che ne è una conseguenza, la distinzione tra le due non comporta una separazione; infatti, la vocazione dell’uomo alla vita eterna non elimina, anzi conferma il suo dovere di mettere in atto le energie e i mezzi per sviluppare la sua vita temporale.

    Perciò nessuna realtà umana — ambito politico incluso — è estranea al disegno redentore e, pertanto, all’evangelizzazione e alla missione della Chiesa e dei cristiani.

    Tuttavia, «si osservano a volte degli atteggiamenti che derivano dall’incapacità di penetrare in questo mistero di Gesù.

    Per esempio, la mentalità di chi vede nel cristianesimo soltanto un insieme di pratiche e atti di pietà, senza coglierne il nesso con le situazioni della vita ordinaria, con l’urgenza di far fronte alle necessità degli altri e di sforzarsi per eliminare le ingiustizie. Direi che chi ha questa mentalità non ha ancora compreso che cosa significa che il Figlio di Dio si sia incarnato, abbia preso corpo, anima e voce umana, abbia condiviso il nostro destino, fino a sperimentare la suprema dilacerazione della morte. Magari senza volere, alcune persone considerano Cristo come estraneo all’ambiente degli uomini.

    Altri, invece, tendono a immaginare che per poter essere umani bisogna mettere in sordina alcuni aspetti centrali del dogma cristiano, e agiscono come se la vita di preghiera, il colloquio continuo con Dio, costituissero un’evasione dalle proprie responsabilità e un abbandono del mondo. Dimenticano che fu proprio Gesù a rivelarci fino a quali estremi debbono essere spinti l’amore e il servizio. Soltanto se cerchiamo di capire il mistero dell’amore di Dio, il mistero dell’amore che arriva fino alla morte, saremo capaci di darci totalmente agli altri senza lasciarci sopraffare dalle difficoltà o dall’indifferenza».

    In breve: sebbene la crescita del Regno di Dio e la promozione umana non si identifichino, esiste tra di esse una concatenazione profonda ed inscindibile. Perciò la sequela di Cristo richiede l’ottemperanza dei doveri politici, e questi si possono compiere con maggiore perfezione se sono animati dallo spirito cristiano.

    Tutto ciò pone ai cristiani obblighi specifici: essi non devono considerare le strutture sociali, politiche ed economiche come indifferenti rispetto alla storia salvifica, ma come realtà affidateci dal Signore come compito e connotate dalla scelta libera e responsabile degli uomini e, quindi, positivamente o negativamente relazionate ai valori del Regno.

     

    1.2. Punto di vista della perfezione personale

     

    Il disegno del Creatore include la vita sociale degli uomini (cfr. Gn 2,18). Dio ha chiamato l’uomo a raggiungere la patria celeste tramite l’agire terreno; sicché tutte le attività umane indirizzate a far progredire questa vita corrispondono alle intenzioni del Creatore, e le persone devono compierle responsabilmente.

    In unione con Cristo l’operare politico acquisisce una dignità tutta nuova: non è soltanto un’opera “indifferente” resa buona da qualcosa di esterno, ma è molto di più poiché, per l’unione con Cristo, tale agire diviene una realtà santa, santificata e santificante nella storia della salvezza.

    Non esiste un’autentica vita cristiana (neppure umana) se si tiene poco conto dei bisogni, delle leggi e delle istituzioni sociali. E ciò è ancora più vero nelle circostanze odierne, in cui la crescente interdipendenza sottolinea pressantemente che tutti siamo veramente responsabili di tutti.

    Perciò il Vaticano II ammonisce: «Il cristiano che trascura i suoi impegni temporali, trascura i suoi doveri verso il prossimo, anzi verso Dio stesso, e mette in pericolo la propria salvezza eterna»[14].

    Talvolta si è detto che la preoccupazione dei cristiani per l’aldilà fa loro dimenticare i problemi del mondo presente. La realtà è diametralmente opposta: poiché la vita eterna dipende dal nostro agire in questo mondo, e più specificamente dall’agire in favore degli altri, occorre riconoscere che la vita cristiana è un forte incentivo ad impegnarsi seriamente nella costruzione di una società più giusta e fraterna.

     

    1.3. Punto di vista della società

     

    Lo scopo precipuo della politica è il raggiungimento del bene comune.

    Il dovere di partecipare allo sviluppo del bene comune non riguarda però tutte le persone nella stessa misura; è un dovere differenziato a seconda del ruolo sociale di ognuno. Tale responsabilità è propria in primo luogo dello Stato e dei poteri pubblici, poiché questa è la loro ragion di essere e, conseguentemente, il loro dovere primario.

    Ciò però non giustifica il disimpegno per il bene comune delle singole persone e dei gruppi sociali. Poiché il bene comune è il fine della società, tutti i suoi membri sono responsabili nell’instaurarlo e conservarlo.

    Di più: come la dottrina della Chiesa insegna e la storia ha dimostrato, per assicurare un saldo bene comune occorre una floridezza di società intermedie; «queste, infatti, maturano come reali comunità di persone ed innervano il tessuto sociale, impedendo che scada nell’anonimato ed in un’impersonale massificazione, purtroppo frequente nella moderna società».  La necessità dell’impegno di tutti per il bene comune comporta la necessità dell’impegno di tutti nella vita politica.

     

    1.4. Obbligatorietà dell’impegno politico

     

    Da quanto detto si desume la straordinaria portata umanizzante (o disumanizzante) dell’attività politica. Perciò «la Chiesa ha un’alta stima per la genuina azione politica; la dice “degna di lode e di considerazione” (Gaudium et spes, n. 75), l’addita come “forma esigente di carità” (Octogesima adveniens, n. 46).

    Da ciò derivano il diritto e il dovere di impegnarsi per migliorare la vita pubblica, organizzandola in modo conforme alla dignità della persona umana.

    Questo è oggi un diritto ampiamente accettato nella società.

    Ma è anche un dovere, poiché libertà non significa soltanto mancanza di coazione o indifferenza nell’agire; la libertà è una formidabile energia, una fonte potenziale di progresso che non deve rimanere inattiva, né nelle singole persone, né nelle comunità e nei paesi. Anzi, la “salute” di una comunità politica si esprime, tra l’altro, «mediante la libera partecipazione e responsabilità di tutti alla cosa pubblica”.

    A ciò si deve aggiungere che l’ottenimento di un bene — incluso il bene comune — esige un impegno attivo. La politica non può limitarsi all’ambito teoretico: non basta comprendere perché un’azione umana sia buona o cattiva in ordine al bene sociale. Il suo scopo è anche, e principalmente, quello di “dirigere” l’agire umano verso il bene: perciò la politica possiede una “praticità” inerente al suo stesso enunciato.

    L’insegnamento sociale cristiano possiede, pertanto, un’imprescindibile dimensione pratica, e deve evitare una grave e deleteria dicotomia: quella che separa la fede dalla vita.

    Non è proprio del cristianesimo un malinteso distacco che porta a vedere le cose del mondo come estranee ai propri interessi, né una lamentazione sterile che nulla risolve. È necessario che i cristiani apportino alla vita sociale l’elemento vivificatore dei principi evangelici, rispettando l’autonomia delle realtà terrene, che, pure, costituisce un principio evangelico

    Così Leone XIII ricorda che per i fedeli «l’astensione totale dalla vita politica non sarebbe meno biasimevole che il rifiuto di qualsiasi concorso al pubblico bene: tanto più che i cattolici in ragione appunto dei loro principi, sono più che mai obbligati di portare nei propri impegni integrità e zelo». E Paolo VI invitava tutti a fare, a questo proposito, un serio esame di coscienza: «Ciascuno esamini se stesso per vedere quello che finora ha fatto e quello che deve fare. Non basta ricordare i principi, affermare le intenzioni, sottolineare le stridenti ingiustizie e proferire denunce profetiche: queste parole non avranno peso reale se non sono accompagnate in ciascuno da una presa di coscienza più viva della propria responsabilità e da un’azione effettiva. (…) In tal modo, nella diversità delle situazioni, delle funzioni, delle organizzazioni, ciascuno deve precisare la propria responsabilità e individuare, coscienziosamente, le azioni alle quali egli è chiamato a partecipare»[27]. Indirizzate direttamente ai fedeli laici, le seguenti parole di Giovanni Paolo II sottolineano come questo grave dovere di tutti i cattolici sia oggi sempre più pressante: «Situazioni nuove, sia ecclesiali sia sociali, economiche, politiche e culturali, reclamano oggi, con una forza del tutto particolare, l’azione dei fedeli laici. Se il disimpegno è sempre stato inaccettabile, il tempo presente lo rende ancora più colpevole. Non è lecito a nessuno rimanere in ozio».

    Si deve perciò prendere la decisione di influire positivamente sulla vita politica, evitando così un’apparente vita cristiana, che non può essere autentica se trascura i doveri sociali.

     

     

    2. Elementi che favoriscono un corretto impegno politico

     

    2.1. Finalità dell’agire politico

     

    Giovanni Paolo II, nell’esortazione apostolica Christifideles laici, afferma che la politica è la «molteplice e varia azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale, destinata a promuovere organicamente e istituzionalmente “il bene comune”». E poco dopo ricorda: «Una politica per la persona e per la società trova il suo criterio basilare nel perseguimento del bene comune, come bene di tutti gli uomini e di tutto l’uomo, bene offerto e garantito alla libera e responsabile accoglienza delle persone, sia singole che associate»[29].

    Queste frasi sintetizzano un costante insegnamento della Chiesa: lo scopo immediato della politica è quello di promuovere organicamente e istituzionalmente il bene comune. Perciò la politica, ad ogni suo livello, non va considerata soltanto come un metodo per costituire, consolidare ed esercitare il potere pubblico; né va vista come una procedura tecnica per il buon andamento di quanto corrisponde alla natura, alla finalità, ai mezzi e alle forme di organizzazione dello Stato. La politica è soprattutto un servizio al bene comune, che necessariamente include il bene integrale di ogni persona appartenente ad una determinata società.

    Da qui l’importanza di capire correttamente cosa sia il bene comune, affinché l’agire politico sia ad esso adeguato.

    Il Vaticano II insegna che il bene comune è «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente». La finalità del bene comune è, pertanto, quella di aiutare e facilitare la realizzazione di ogni persona umana, affinché essa “sia” di più, e progredisca secondo l’integra verità dell’uomo. Ciò richiede che gli elementi materiali, culturali e spirituali siano sviluppati in modo armonico, sia in ogni singola persona, sia nei rapporti tra le diverse persone e i diversi gruppi sociali. Occorre ricordare che il bene comune non è la semplice somma degli interessi particolari, ma implica la loro valutazione e composizione, in base ad un’equilibrata gerarchia di valori e, in ultima analisi, ad un’esatta comprensione della dignità e dei diritti umani.

    E bisogna sottolineare che, poiché la perfezione della persona è intimamente legata alla sua dimensione trascendente, cioè alla sua relazione con Dio, il bene comune si ricollega, innanzitutto, all’aspetto spirituale e morale dell’uomo, a cui corrisponde la preminenza tra i diversi elementi dell’uomo stesso[33]. Preminenza, purtroppo, frequentemente dimenticata nel concreto agire politico odierno.

    Certo, la priorità dell’aspetto trascendente non esclude la necessità dei beni terreni, ma fa sì che questi siano integrati nel quadro generale della vita umana senza prendere il sopravvento:. Lo sviluppo integrale include il possesso di beni materiali, ma lo scopo di tali beni è di contribuire alla maturazione e all’arricchimento della persona umana in quanto tale. Per risolvere le “questioni sociali”, per trovare più efficienti strutture di governo o di produzione è necessario quindi che la ricerca sia accompagnata e, in un certo senso, preceduta dalla consapevolezza delle questioni umane più profonde e basilari.

    Bisogna curare, in primo luogo, lo sviluppo delle persone poiché il tentativo di migliorare la società senza impegnarsi per il miglioramento personale non può che rivelarsi illusorio.

    In aggiunta ai cambiamenti personali e istituzionali, occorre compiere un terzo passo, senza il quale i primi due rimarrebbero in uno stato di precarietà: bisogna cioè impregnare la cultura di fermenti etici, i soli che danno solidità allo sviluppo umano integrale. «È insufficiente e riduttivo pensare che l’impegno sociale dei cattolici possa limitarsi a una semplice trasformazione delle strutture, perché se alla base non vi è una cultura in grado di accogliere, giustificare e progettare le istanze che derivano dalla fede e dalla morale, le trasformazioni poggeranno sempre su fragili fondamenta».

    In politica, forse più che in altri campi, non basta risolvere le questioni che si presentano giorno per giorno: è necessaria una programmazione culturale di ampio respiro. Il fallimento di tanti progetti fatti con buona volontà, ma privi di lungimiranza ne è la prova palese.

     

    2.2. I mezzi dell’impegno politico

     

    a) Dimensione morale della politica

     

    il primo “mezzo” dell’attività politica è quello di salvaguardare la sua dimensione morale.

    Tutto l’agire personale appartiene all’ordine morale: l’arte, la scienza, la tecnica, la politica, l’economia, ecc., non si possono considerare soggetti neutrali dal punto di vista della crescita umana. E siccome la politica è finalizzata a promuovere la dignità delle persone, vale a dire, al raggiungimento del bene di tutti gli uomini e di tutto l’uomo, l’agire politico, più di altri ambiti dell’agire umano, è particolarmente legato alle esigenze morali.

    Infatti, «è nella persona umana, intesa nell’integralità dei suoi diritti e doveri, che deve trovarsi la base di partenza, il punto di incontro e il criterio deontologico per l’agire politico o per agire in politica. Il primato e la centralità della persona umana relativizzano ogni sistema politico e la stessa politica, sottolineandone vigorosamente il carattere funzionale e di servizio».

    Sicché la metodologia politica non deve essere sorretta da un’antropologia di tipo quantitativo (che aspira ad un gran numero di consensi), bensì da un’antropologia qualitativa che mira ad ottenere la fiducia dei cittadini; una fiducia che occorre conquistare giorno per giorno tramite un comportamento e un insieme di istituzioni e di leggi che siano in sé affidabili.

    Il principio cardine dell’etica sociale è la dignità di ogni essere umano. Tale dignità ha un limite negativo invalicabile che va applicato sempre a tutte le persone: non bisogna mai considerare una persona come una semplice parte di un corpo sociale e non bisogna abbassarla in nessun caso a mezzo, perché ogni persona ha sempre il valore di fine, in quanto titolare di diritti intangibili ed inviolabili. Tali diritti, che l’autorità politica deve tutelare in ogni circostanza, costituiscono non soltanto un confine invalicabile, ma anche un obiettivo da raggiungere. Perciò il rispetto della persona esige la solidarietà, perché nessuna fascia sociale (economica, etnica, religiosa, ecc.) deve essere esclusa dal bene comune.

    Da quanto detto si evince, e la storia lo ha mostrato in molteplici occasioni, che una vita sociale sana dipende da una moralità personale sana. E, viceversa, la separazione tra etica e politica risulta funesta per la stessa vita sociale.

     

    b) Impegno politico e coerenza cristiana

     

    La fedeltà morale trova un sostegno particolarmente valido nella vita cristiana: essa insegna l’intera verità sull’uomo e sorregge saldamente la condotta morale delle persone. Perciò la fede si rivela un aiuto di prim’ordine. Se vissute con coerenza, le credenze religiose — soprattutto quella cristiana — sono sempre un elemento importante dell’agire umano, sia nell’ambito individuale sia in quello che riguarda le rispettive comunità di appartenenza. 

    Al contrario, se si affievolisce la fede in Dio e in Gesù Cristo, e si spegne negli animi la luce dei principi morali, viene scalzato l’unico e insostituibile fondamento che può sorreggere un vero e duraturo ordine sociale.

    Certamente, la strada del miglioramento interiore delle persone come presupposto per migliorare le strutture politiche può sembrare «più ardua, più lunga, più complessa. A volte essa può apparire anche non adeguata all’urgenza dei problemi. Ma è l’unica che permette soluzioni veramente umane e durature. Insomma, la fede cristiana svolge un ruolo importante nella costruzione della società. Anche per questo il Vaticano II ricorda: «Il distacco, che si constata in molti tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverato tra i più gravi errori del nostro tempo»[54].

    È chiaro che tutto ciò non può costituire un alibi per la pigrizia e il disimpegno, né significa che la politica debba essere succube della religione, ma piuttosto che essa deve servire l’uomo e, di conseguenza, deve rientrare nell’ambito della morale, il cui fondamento saldo è Dio.

    La spiritualità del cristiano impegnato nell’ambito politico consiste nella maturazione della sintesi interiore e profonda tra l’obbedienza al disegno di Dio e l’impegno storico speso alla ricerca di strumenti e nel perfezionamento o nella creazione di istituzioni che rispondano alle esigenze ordinarie dell’esistenza terrena.

    Una fede coerente infonde un grande vigore allo sviluppo sociale, perché da essa deriva una motivazione perenne e profonda per incoraggiare gli impegni terreni e politici; essa comunica fiducia e ottimismo sulla possibilità di costruire un mondo più a misura d’uomo, anche se mai esisterà un «paradiso in terra». Le motivazioni religiose della Redenzione annunciata dalla Chiesa possono non essere condivise, ma l’atteggiamento etico che ne deriva costituisce uno dei cardini comuni più forti attorno ai quali si può sviluppare lo sforzo dei cristiani e di tutti gli uomini di buona volontà per un cammino da compiere insieme.

     

    c) Inefficacia del comportamento onesto?

     

    Esiste una diffusa ammirazione, non sempre confessata, per coloro che, comportandosi in modo disonesto negli affari pubblici, tuttavia “la fanno franca”. Parallelamente si ritiene spesso che in ambito pubblico, soprattutto in quello politico, un comportamento onesto non risulti efficace. Da ciò nasce non soltanto l’idea che la politica sia sempre un “affare sporco” — il che accresce la disaffezione per questo ambito —, ma anche la pretesa di giustificare tale comportamento. «Oggi siamo in presenza di un tentativo in grande scala, a livello planetario e continentale, di annullare la nostra coscienza, personale e collettiva. Le società più avanzate sono alla ricerca di un “sistema societario” che possa rendere inutili e vani sia i valori sia le norme propriamente umane: il tentativo è quello di costruire un “sistema sociale” che consenta all’uomo di procedere senza dover fare scelte propriamente etiche, cioè fra il bene e il male» (Donati).

    Ma, anche limitandoci ad un’ottica puramente terrena e materialistica, occorre rilevare che un comportamento del genere tende ad estendersi a macchia d’olio — come si è visto in tanti paesi in tempi recentissimi —, e quando dilaga la disonestà dilagano gli svantaggi materiali per tutti. Poi, con un’ottica più profondamente antropologica, è facile capire che i vantaggi che si possono ottenere mediante una condotta immorale sono ben poca cosa rispetto alla perdita umana di chi agisce così: già Socrate sosteneva che è peggio perpetrare un’ingiustizia che subirla, e lo stesso ha sempre insegnato la dottrina cristiana.

    La Chiesa «pensa che occorra, anzitutto, fare appello alle capacità spirituali e morali della persona e all’esigenza permanente della conversione interiore, se si vogliono ottenere cambiamenti economici e sociali che siano veramente al servizio dell’uomo. Il primato dato alle strutture e all’organizzazione tecnica sulla persona e sulle esigenze della sua dignità è espressione di un’antropologia materialistica, ed è contrario all’edificazione di un giusto ordine sociale».

    Ciò non comporta la futilità dei mezzi e delle tecniche politiche, che sono imprescindibili. Ma sottolinea che essi, da soli, non bastano: occorre che siano accompagnati e, ancor meglio, preceduti dai mezzi e dalle tecniche morali e spirituali.

    Abbiamo già ricordato che l’egoismo è il più grande nemico di una vita sociale sana; ciò, perché l’amore disordinato per se stessi tende ad assolutizzarsi e a usare le cose e le persone per il proprio tornaconto fino all’abuso e alla sopraffazione.

      

    d) Necessità della formazione

     

    Quanto detto mette in luce la necessità di unire la formazione tecnico-politica con quella morale. Difatti, per tradurre l’impegno politico in un’azione efficace per lo sviluppo sociale, e per maturare una realistica capacità di iniziativa politica, la persona deve acquisire adeguate competenze tecniche e lucidità di discernimento, nonché le necessarie qualità morali.

    Nell’educazione politica dei fedeli occorre distinguere, di conseguenza, due livelli:

    Il primo può essere descritto come l’edificazione della personalità sociale, intesa come l’insieme delle qualità che rendono la persona in grado di assumere efficacemente l’impegno politico

    Il secondo livello è quello dell’educazione civile e politica, che va impartita diligentemente affinché tutti svolgano adeguatamente il loro ruolo nell’ambito delle comunità in cui sono inseriti.

    Poiché la dottrina sociale della Chiesa trova la sua forza più nella pratica che nella coerenza dei suoi principi, occorre che l’educazione sociale non rimanga soltanto al livello teoretico, ma mostri parimenti, e forse più insistentemente, i modi concreti di applicare tale insegnamento.

    Occorre quindi promuovere esperienze che consentano di tradurre gli orientamenti della dottrina sociale in termini concreti, all’interno di una matura unità tra vita morale e azione pubblica.

    In questo ambito è particolarmente importante non cedere al relativismo etico, e non confondere la giusta autonomia dei cattolici in politica con la disattenzione nei confronti dei valori etici umani e cristiani. Non si può favorire, anzi si deve contrastare «l’attuazione di un programma politico o di una singola legge in cui i contenuti fondamentali della fede e della morale siano sovvertiti dalla presentazione di proposte alternative o contrarie a tali contenuti. Poiché la fede costituisce come un’unità inscindibile, non è logico l’isolamento di uno solo dei suoi contenuti a scapito della totalità della dottrina cattolica. L’impegno politico per un aspetto isolato della dottrina sociale della Chiesa non è sufficiente ad esaurire la responsabilità per il bene comune. Né il cattolico può pensare di delegare ad altri l’impegno che gli proviene dal vangelo di Gesù Cristo perché la verità sull’uomo e sul mondo possa essere annunciata e raggiunta» (Congr. per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, 24-XI-2002, n. 4). Anche in ambito politico l’intelligenza e la volontà umana sono costitutivamente orientate verso il vero e il bene e, di conseguenza, sono estranee allo scetticismo e al relativismo etico.

    Nella situazione odierna, con un pluralismo sovente affine al relativismo e all’indifferenza morale, occorre, oltre alla virtù della fortezza e a una solida personalità, un’intensa formazione e un profondo rinnovamento delle coscienze per compiere i peculiari doveri politici.

    È opportuno soffermarci un momento anche su un tema che viene riproposto oggi con una certa frequenza: alle volte si sente dire che i cattolici dovrebbero rinunciare alla propria dottrina quando agiscono in una funzione pubblica: ciò è illusorio e ingiusto. Illusorio, poiché le convinzioni di una persona — derivate o meno da una fede religiosa — influiscono necessariamente su quanto tale persona decide e su come agisce; ingiusto, perché i non cattolici — per quanto si è appena detto — applicano in questo ambito le proprie dottrine. Difatti, tutti i cittadini, siano o meno cristiani, hanno il diritto e il dovere di agire coerentemente con le proprie idee, rispettando le differenze e la dignità di ogni persona.

    Anzi, accantonare le proprie convinzioni nella vita politica, accademica, culturale, ecc., comporterebbe una mancanza di sincerità, che è una virtù indispensabile nei rapporti sociali.

     

    2.3. Il ruolo dei laici

     

    Tale missione ha un denominatore comune a tutti i fedeli, ma ognuno deve viverla in conformità con la vocazione ricevuta: sacerdote, religioso o laico. La funzione propria e specifica del laico, anche se non unica né esclusiva, è quella di contribuire alla santificazione delle realtà terrene quasi dall’interno. Tale “indole secolare” dei fedeli laici non si limita ad essere una realtà di fatto, ma è anche una qualità teologica ed ecclesiale; una qualità, cioè, che qualifica i rapporti che tali fedeli hanno con Dio nella Chiesa. Il fatto che l’indole secolare del laico sia di carattere teologico, implica che egli deve — mediante i suoi compiti nel mondo (familiari, politici, professionali, ecc.) — portare a termine quella parte di missione della Chiesa che a lui, in quanto  suo membro, corrisponde. Dio li chiama a vivere nel mondo e a compiere la loro missione cristiana (santità e apostolato) nelle loro mansioni terrene.

    A tal fine, occorrono — come già accennato — un’adeguata formazione e un serio impegno: «Ai laici spettano propriamente, anche se non esclusivamente, gli impegni e le attività temporali. Quando essi, dunque, agiscono quali cittadini del mondo, sia individualmente sia associati, non solo rispetteranno le leggi proprie di ciascuna disciplina, ma si sforzeranno di acquistarsi una vera perizia in quei campi. Daranno volentieri la loro cooperazione a quanti mirano a identiche finalità. Nel rispetto delle esigenze della fede e ripieni della sua forza, escogitino senza tregua nuove iniziative, ove occorra, e le realizzino. Spetta alla loro coscienza, già convenientemente formata, di inscrivere la legge divina nella vita della città terrena. Dai sacerdoti i laici si aspettino luce e forza spirituale. Non pensino però che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta o che proprio a questo li chiami la loro missione: assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del magistero» (GS 43).

    Tutti i cristiani godono di un’ampia libertà nel loro agire politico; ma non soltanto nell’agire: secondo l’insegnamento appena ricordato del Vaticano II, essi hanno la stessa autonomia per quanto riguarda gli ideali e i progetti da proporre in questo ambito. Anche per questo, nell’impegno di “cristianizzazione” della realtà politica, i laici non sono semplici esecutori, ma creatori di pensiero sociale.

     

     

    Conclusione

     

    Oggi si assiste a una crescente spoliticizzazione dei cittadini, che si manifesta con una indifferenza generalizzata verso i problemi che riguardano la società (a condizione che essi non ledano gli interessi personali). Il crollo delle ideologie, che va accolto con gioia, ha però portato con sé anche il crollo delle idee e degli ideali politici. L’uomo appare ipersensibile di fronte a ciò che lo riguarda personalmente e incredibilmente apatico nei confronti del bene comune. La causa principale di tale atteggiamento è forse la perdita di significato della vita personale e sociale, per cui le persone tendono a rifugiarsi nell’immediato e nell’effimero. Un’altra causa, non meno grave, va ricercata nel disincanto generato dall’immoralità privata e pubblica di molte persone e di tanti gruppi politici. In definitiva la spoliticizzazione di cui si parlava è dovuta, soprattutto, a cause morali e culturali. Una ragione in più per impegnarsi seriamente e con un alto profilo etico nell’ambito dell’attività politica.

    Occorre ribadire ancora che il cristiano coerente non può disinteressarsi di tale attività, non può essere succube della passività o della rassegnazione in questa sfera così importante per il bene di tutti gli uomini. La partecipazione alla vita politica è un diritto e un dovere, che ognuno dovrà assumersi a seconda delle personali competenze e delle proprie condizioni, ma senza cessioni né scoraggiamenti.

     

     

     

     

     

     

    SCHEDA di LAVORO

     

     

    1. Il diritto-dovere del cristiano all’impegno politico

     

    Tutti coloro che partecipano alla vita sociale, vale a dire tutti gli uomini, hanno il diritto e il dovere di impegnarsi in campo politico.

     

    1.1. Il punto di vista della Creazione e Redenzione

    Cristo ha redento tutto l’uomo, anche nel suo essenziale rapporto con gli altri e con la società. La realtà sociale naturale è stata assunta nel disegno redentore. La vocazione dell’uomo alla vita eterna non elimina, anzi conferma il suo dovere e mandato – e il valore – di mettere in atto le energie e i mezzi per sviluppare la crescita umana.

    Il disegno del Creatore include la vita sociale degli uomini (cfr. Gn 2,18). Dio ha chiamato l’uomo a raggiungere la patria celeste tramite l’agire terreno; sicché tutte le attività umane indirizzate a far progredire questa vita corrispondono alle intenzioni del Creatore, e le persone devono compierle responsabilmente.

     

    1.2. Punto di vista della società

    Lo scopo precipuo della politica è il raggiungimento del bene comune. Il dovere di partecipare allo sviluppo del bene comune è un dovere differenziato a seconda del ruolo sociale di ognuno.

     

    1.3. Obbligatorietà dell’impegno politico

    Da ciò derivano il diritto e il dovere di impegnarsi per migliorare la vita pubblica, organizzandola in modo conforme alla dignità di ciascuna persona umana.

    È oggi un diritto ampiamente accettato nella società. Ma è anche un dovere, poiché libertà non significa soltanto mancanza di coazione o indifferenza nell’agire; la libertà è una formidabile energia, una fonte potenziale di progresso che non deve rimanere inattiva, né nelle singole persone, né nelle comunità e nei paesi.

     

     

    2. Elementi che favoriscono un corretto impegno politico

     

    2.1. Finalità dell’agire politico

    Il costante insegnamento della Chiesa è: lo scopo immediato della politica è quello di promuovere organicamente e istituzionalmente il bene comune. Perciò la politica, ad ogni suo livello, non va considerata soltanto come un metodo per costituire, consolidare ed esercitare il potere pubblico; né va vista come una procedura tecnica per il buon andamento di quanto corrisponde alla natura, alla finalità, ai mezzi e alle forme di organizzazione dello Stato.

    La politica è soprattutto un servizio al bene comune, che necessariamente include il bene integrale di ogni persona appartenente ad una determinata società.

     

    2.2. I mezzi dell’impegno politico

     

    a) Dimensione morale della politica

    Il primo “mezzo” dell’attività politica è quello di salvaguardare la sua dimensione morale.

    Infatti, «è nella persona umana, intesa nell’integralità dei suoi diritti e doveri, che deve trovarsi la base di partenza, il punto di incontro e il criterio deontologico per l’agire politico o per agire in politica. Il primato e la centralità della persona umana relativizzano ogni sistema politico e la stessa politica, sottolineandone vigorosamente il carattere funzionale e di servizio».

     

    b) Impegno politico e coerenza cristiana

    La fedeltà morale trova un sostegno particolarmente valido nella vita cristiana: essa insegna l’intera verità sull’uomo e sorregge saldamente la condotta morale delle persone. Perciò la fede si rivela un aiuto di prim’ordine. Le motivazioni religiose della Redenzione annunciata dalla Chiesa possono non essere condivise, ma l’atteggiamento etico che ne deriva costituisce uno dei cardini comuni più forti attorno ai quali si può sviluppare lo sforzo dei cristiani e di tutti gli uomini di buona volontà per un cammino da compiere insieme.

     

    c) Inefficacia del comportamento onesto?

    Esiste una diffusa ammirazione, non sempre confessata, per coloro che, comportandosi in modo disonesto negli affari pubblici, tuttavia “la fanno franca”. Parallelamente si ritiene spesso che in ambito pubblico, soprattutto in quello politico, un comportamento onesto non risulti efficace. Da ciò nasce non soltanto l’idea che la politica sia sempre un “affare sporco” — il che accresce la disaffezione per questo ambito —, ma anche la pretesa di giustificare tale comportamento.

    La Chiesa «pensa che occorra, anzitutto, fare appello alle capacità spirituali e morali della persona e all’esigenza permanente della conversione interiore, se si vogliono ottenere cambiamenti economici e sociali che siano veramente al servizio dell’uomo. Il primato dato alle strutture e all’organizzazione tecnica sulla persona e sulle esigenze della sua dignità è espressione di un’antropologia materialistica, ed è contrario all’edificazione di un giusto ordine sociale».

     

    d) Necessità della formazione

    Quanto detto mette in luce la necessità di unire la formazione tecnico-politica con quella morale. Difatti, per tradurre l’impegno politico in un’azione efficace per lo sviluppo sociale, e per maturare una realistica capacità di iniziativa politica, la persona deve acquisire adeguate competenze tecniche e lucidità di discernimento, nonché le necessarie qualità morali.

    È opportuno soffermarci un momento anche su un tema che viene riproposto oggi con una certa frequenza: alle volte si sente dire che i cattolici dovrebbero rinunciare alla propria dottrina quando agiscono in una funzione pubblica: ciò è illusorio e ingiusto. Illusorio, poiché le convinzioni di una persona — derivate o meno da una fede religiosa — influiscono necessariamente su quanto tale persona decide e su come agisce; ingiusto, perché i non cattolici — per quanto si è appena detto — applicano in questo ambito le proprie dottrine. Difatti, tutti i cittadini, siano o meno cristiani, hanno il diritto e il dovere di agire coerentemente con le proprie idee, rispettando le differenze e la dignità di ogni persona.

     

    2.3. Il ruolo dei laici

    Tale missione nell’attività politica è un denominatore comune a tutti i fedeli, ma ognuno deve viverla in conformità con la vocazione ricevuta: sacerdote, religioso o laico. La funzione propria e specifica del laico, anche se non unica né esclusiva, è quella di contribuire alla santificazione delle realtà terrene dall’interno.

     

     

    Conclusione

     

    Tutti i cristiani godono di un’ampia libertà nel loro agire politico; ma non soltanto nell’agire: secondo l’insegnamento appena ricordato del Vaticano II, essi hanno la stessa autonomia per quanto riguarda gli ideali e i progetti da proporre in questo ambito. Anche per questo, nell’impegno di “cristianizzazione” della realtà politica, i laici non sono semplici esecutori, ma creatori di pensiero sociale.

  • 29 Dic

     

    Di fronte al difficile compito della pace, non bastano le parole. È necessario che penetri il vero spirito di pace. Genitori ed educatori, aiutate i fanciulli e i giovani a fare l’esperienza della pace nelle mille azioni quotidiane. Giovani, siate dei costruttori di pace! Uomini impegnati nella vita professionale e sociale, spesso per voi è difficile realizzare la pace. Non c’è pace senza giustizia e senza libertà, senza un coraggioso impegno per promuovere l’una e l’altra. Uomini politici, aprite nuove porte alla pace! Fate tutto ciò che è in vostro potere per far prevalere la voce del dialogo su quella della forza. Fate gesti di pace di pace, anche audaci, poi tessete pazientemente la trama politica, economica e culturale della pace. Il lavoro per la pace, ispirato dalla carità che non tramonta produrrà i suoi frutti. La pace sarà l’ultima parola della storia.

     

    Giovanni Paolo II, 21 dic. 1978

  • 26 Dic

    Signore che abiti e vivi con noi,

    ti preghiamo per la nostra famiglia.

    Aiutaci a conoscerci meglio,

    a comprenderci di più.

    Perché ciascuno si senta sicuro
    dell’affetto degli altri,

    perché a nessuno sfugga la stanchezza
    e la preoccupazione degli altri.

    Rendici capaci di tacere e di parlare
    al momento opportuno, con il tono giusto:

    perché le discussioni non ci dividano
    e il silenzio troppo lungo non ci renda
    estranei l’uno all’altro.
    Signore, liberaci dalla pretesa di imporre
    agli altri il nostro modo di pensare e di vivere.

    Perdonaci quando dimentichiamo
    di essere tuoi figli e amici,

    quando viviamo in casa come se Tu non fossi presente.

    Distruggi l’egoismo e la paura che ci chiudono:

    la nostra famiglia sia disponibile ai parenti,

    aperta agli amici, ospitale per tutti,

    sensibile al bisogno di giustizia e di pace.

    Signore, tienici uniti per sempre

    nella tua Chiesa in cammino,

    perché vediamo sempre il tuo volto e la tua gioia nella famiglia vera, nella comunione perfetta.

    Amen

  • 23 Dic

     

     

     

    A. Introduzione

    Nel periodo post-conciliare abbiamo assistito ad un notevole rifiorire di attenzione alla Parola. Sono nati un po’ dovunque tentativi di «rimettere mano alla Parola»… ma quanta fatica!

    In qualche modo ci ritroviamo un po’ tutti nella situazione di dover imparare a metterci in ascolto di fronte alla Parola, per lasciare che la nostra vita ne sia trasformata. Spesso ci sentiamo proporre cammini in cui si «prega la Parola», si «contempla la Parola». Questo breve lavoro che condivido con gli altri amici di Qumran.net è una sintesi di un corso di iniziazione alla lectio che ho già avuto occasione di proporre a giovani, a religiosi in formazione e… alla mia comunità.

    «Appunti» perché ho pensato di proporre uno schema, pratico e snello, pur cercando di mantenere una certa completezza. In ogni caso trovate in appendice due bibliografie, una molto più ricca, aggiornata al 2002, e un’altra «essenziale», con indicazioni critiche per ogni testo.

    «Una»: non ho certo la pretesa di dira «la»! È “una” proposta che si fonda sulla tradizione, “testata”, ma rimane una proposta.

    «Iniziazione» e non introduzione: può sembrare una distinzione accademica, ma non lo è. Introduzione ha più il sapore di uno studio intellettuale, ma nella lectio divina è tutta la persona umana che è in gioco, perché è “preghiera”, è porci di fronte a Dio. «Iniziazione» dà più il senso di cammino, di un mettersi accanto ad un altro, fornirgli alcune indicazioni e poi lasciare che percorra la sua strada, come e dove lo Spirito lo condurrà.

    Quanto condivido con ciascuno di voi… è anche frutto di riflessione, di cammino comunitario. La lectio divina vissuta insieme (e poi darò alcune indicazioni in merito) ha decisamente favorito la crescita umana e spirituale mia e della mia comunità: un tale dono non poteva che essere condiviso.

     

     

    B. premesse generali

    1. Oggetto

    È la Scrittura «divina»: la Bibbia. Per essere “certi” di questa affermazione si può leggere la Costituzione Dei Verbum del Concilio Vaticano II.

     

    2. Finalità

    Dai testi conciliari, che parlano della lectio divina in termini tradizionali, emergono quattro finalità: teologale, cristologica, ecclesiale ed antropologica.

    1) Teologale: «perché avvenga il colloquio con Dio» (DV 25).

    2) Cristologica: «per ottenere la sovreminente conoscenza di Gesù Cristo» (Fil 3,8 citato in DV 25 e PC 6), per poter «vedere il Cristo in ogni uomo, vicino o estraneo» (AA 4).

    3) Ecclesiale: per «generare» (Gc 1,18; 1Pt 1,23; cf. At 2,37.42), «sostenere» (DV 21) e «far ringiovanire» (LG 4) una comunità cristiana (cf. PO 4) e religiosa (cf. PC 15 [a]). Questo scopo si ottiene tanto meglio quando la lectio privata si sviluppa nella forma comunitaria della collatio.

    4) Antropologica: «perché l’uomo di Dio sia perfetto, preparato per ogni opera buona» (2Tim 3,16). La Sacra Scrittura è la fonte da cui attingere i criteri per «giudicare rettamente le cose in ordine al fine dell’uomo» (AA 4). (Giurisato G., Lectio divina oggi, pp. 7-9).

     

    3. Condizioni richieste dalla qualità specifica del libro sacro

    1) La Bibbia è un libro ispirato da Dio: perciò «deve essere letta e interpretata con l’aiuto dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta» (DV 12).

    2) Nella Bibbia «Dio ha parlato per mezzo di uomini e alla loro maniera»: perciò «si deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi realmente hanno inteso dire e che cosa Dio ha voluto manifestare con le loro parole» (DV 12).

     

    4. Disposizioni soggettive del lettore

    – Pregare perché il Signore ci voglia «aprire la mente all’intelligenza delle Scritture» (Lc 24,45)

    Non ci mettiamo di fronte alla Scrittura come ad un altro libro. Riconosciamo che essa è stata ispirata dallo Spirito Santo e allora per comprenderla c’è sì tutto il nostro sforzo, una “santa fatica”, ma a ben poco potrebbe se lo stesso Spirito non ce ne dà una comprensione più profonda.

    Siamo così chiamati ad esplicitare la nostra professione di fede: «le Sacre Scritture sono veramente parola di Dio» (DV 24). Un atteggiamento di fondo di fede e umiltà.

    – Lettura assidua

    Quando un libro ci ha appassionato, rimane nella nostra mente, anzi spesso vi torniamo per rileggerlo. Ma la Bibbia usa un linguaggio lontano dalla nostra cultura, dal nostro quotidiano. Si tratta dunque  di acquisire una certa familiarità con il testo biblico, ma come fare? Diverse sono le possibilità. La prima è quella di cominciare a leggerla, anche se non si capisce tutto:  su Internet sono già stati pubblicati diversi schemi per leggere tutta la Bibbia in un anno. Esistono in commercio almeno due edizioni con un notevole apparato critico: la Bibbia di Gerusalemme (BJ) e la TOB che hanno una grande ricchezza di note e di rimandi. La seconda consiste nel “navigare” da un punto all’altro della Bibbia, seguendo queste note o rimandi. Non c’è la praticità del mouse o dei “clic” sui link, ma ne vale la pena… anche se all’inizio può essere un po’ faticoso. «La Scrittura spiega la Scrittura».

    – Imparare ad ascoltare la Parola

    Parlare di ascolto della Parola significa far riferimento immediato al silenzio, ma questa dimensione è comune ad ogni ascolto umano. L’ascolto esige silenzio, attenzione, presenza all’altro e quant’altro è necessario perché ci sia un reale dialogo. Il rischio in questo caso è di parlare noi… e lasciare la Parola estranea, così che al termine della lectio ce ne andiamo esattamente come eravamo arrivati.

     

    5. Circa il luogo, il tempo e la durata della lectio divina

    Il luogo dove svolgere la lectio deve essere tale da favorire un clima esterno di silenzio, di raccoglimento e di preghiera. Per questo va cercata una cappella o un ambiente adatto allo scopo, dove ci si trovi a proprio agio. Questo sarà il luogo della lotta di ognuno con il suo cuore, il vero deserto dove il Signore ci parla, ci converte, ci educa e ci attira a sé.

    Anche il tempo da riservare alla lectio riveste la sua importanza per l’assimilazione della parola di Dio: esso deve ritmare la vita del cristiano, senza mai stancarlo (cfr. Lc 18,1-8; 1Ts 5,17). Perché una lettura della Parola sia proficua si esige un tempo determinato di almeno mezz’ora, mentre il tempo dello svolgimento della lectio non è definibile: non si incontra mai un amico tenendo lo sguardo sull’orologio!

    È anche importante e necessario che non avvenga in modo sporadico o occasionale, ma quotidiano.

     

    6. Le difficoltà

    Oggi tendiamo a leggere velocemente; la civiltà moderna esige velocità nella stessa lettura, la quale è soprattutto “informativa”, tende a far sapere il maggior numero di cose nel minor tempo possibile: la lectio divina, invece, deve essere lenta. La lettura che cerca di acquistare nuove conoscenze lo vuole fare nella maniera più veloce: la lectio divina, al contrario, è a base di “ruminazione”, cioè della lenta assimilazione del testo letto.

    Si legge per agire, ci si documenta in vista dell’azione, la lettura guarda all’efficacia, all’efficienza: la lectio divina, invece, deve essere disinteressata.

    Infine, la lectio non è una lettura per distrarsi: è invece una lettura impegnata, in cui uno si sente realmente e direttamente coinvolto.

    Altra difficoltà: non dimentichiamo che la S. Scrittura non sempre è così facile o immediata; richiede una certa preparazione, studio, e quindi tempo.

    Aggiungiamo tutte le difficoltà per raccogliersi, per concentrarsi. Per riuscire in questo, ci vuole sforzo continuo, fatica, allenamento. C’è tutto il problema di una certa preparazione alla preghiera e alla lectio divina: una preparazione remota, che comprende tutta la vita, uno sforzo di coerenza alla propria vocazione, l’evitare una eccessiva agitazione e dissipazione nel lavoro o nella vita quotidiana; una preparazione prossima, per stabilire pace e silenzio in noi stessi, oltre che all’esterno…

     

     

    C. L’invocazione dello Spirito Santo

    Il perché di questa preghiera allo Spirito lo abbiamo già visto nelle premesse generali.

    Quale preghiera? Possiamo utilizzare un salmo, anche solo alcuni versetti: per esempio il salmo 118, che è il salmo per eccellenza dell’ascolto della Parola. Ma possiamo fare nostre altre invocazioni tratte dalla Scrittura, dalla Liturgia, dai Padri della Chiesa, ecc. È chiaro che può essere anche una “nostra” preghiera!

    Vari sono gli effetti di questa invocazione allo Spirito.

    La preghiera allo Spirito, anzitutto, ci preserva dal consumismo privatistico della Parola o da una sua interpretazione soggettiva ed arbitraria, che misconosce la realtà stessa della Parola nella Chiesa.

    Inoltre, in positivo, essa produce, in chi si pone in preghiera dinanzi alla Scrittura, il distacco da noi stessi, la purezza del cuore, la conversione alla Parola, la docilità, realtà che lo rendono libero per accogliere con amore il pensiero di Dio.

    Si determina così una consapevolezza di umiltà profonda, che fa andare incontro al testo con un senso del sacro, di riverente adorazione di fronte al mistero e di docilità, frutto di una collaborazione tra la volontà umana e l’azione dello Spirito.

     

     

    D. Lectio

    Studiare la Scrittura è stato per tante generazioni di cristiani (non solo monaci!) il vero e proprio impegno quotidiano. La fedeltà nel perseguire questo significato letterale della parola di Dio è una delle costanti necessarie alla autentica lectio divina. È una fatica, certo, ma non la si può evitare: il rischio è quello di fare delle “pie meditazioni”, “letture spirituali”, quando non le facciamo dire di tutto, anche quello che la Scrittura non dice!

     

    1. Ancora una piccola premessa

    Alla lectio, ma in un momento decisamente antecedente, si deve premettere la lettura di un commento esegetico al testo che sarà poi oggetto della lectio. Uno strumento molto buono, e semplice, potrebbe essere: AA.VV, I Vangeli, Cittadella editore.

    Con questo primo passo della lectio divina ci lasciamo liberare da una “tentazione”: soprattutto quando il testo è tratto dai vangeli questo è abbastanza conosciuto. Il rischio è di sentire (e non “ascoltare”) la prima frase e poi “disconnetterci” in quanto “sappiamo già come va a finire!”. Un esempio? Se sentiamo leggere «Un uomo scendeva da Gerusalemme» noi sappiamo già che si tratta della parabola del buon samaritano e rischiamo di non “ascoltare” salvo poi ricollegarci all’omelia…

     

    2. Che cosa leggere

    Senz’altro la Scrittura! Ma come? Quanta?

    La liturgia è senz’altro una buona “palestra” e ci dà – secondo la saggezza della Chiesa – il “cibo quotidiano”, ma… c’è un rischio. Se, necessariamente, la liturgia ci propone dei brevi brani, la lectio non può prescindere dal loro contesto.

    Detto questo, si può certo usare il lezionario liturgico della Messa [rapporto liturgia – LD] con particolare attenzione – per iniziare – al vangelo del giorno (non dimentichiamo – ad esempio – le “collette” proprie dei tempi forti, delle domeniche o delle solennità: sono teologicamente ricchissime e ci donano alcune piste di lettura), ma per passare in seguito alla lectio di un libro della Scrittura, iniziando sempre dal Nuovo Testamento.

    Non è mai, comunque, questione di “quantità”.

     

    3. Come leggere

    – Leggerlo attentamente più volte

     

    Ma come leggere?

    a) È bene leggere ripetutamente il testo e possibilmente farlo risuonare al nostro orecchio mediante una lettura ad alta voce. La lettura del Libro è in funzione dell’ascolto della Parola viva, propria della relazione interpersonale.

    b) Impariamo a leggere «con la matita in mano»: sia per sottolineare, ma anche per copiare.

    c) Facciamo anche la fatica di “sfruttare la fatica altrui”: sfruttiamo la fatica degli esegeti che hanno lavorato per fornirci di seri apparati critici (cfr. ancora BJ e TOB).

    d) La lectio divina suppone una conoscenza esatta del testo biblico, anche se non si ferma ad essa, ma la utilizza per la preghiera. Certamente si riferisce a questa serietà intellettuale la Dei Verbum, quando afferma che occorre accostarsi alla Sacra Scrittura «con uno studio accurato» (DV 25). È necessario ed utile utilizzare i risultati delle ricerche esegetiche. [Queste vanno lette prima della lectio, magari la sera prima, dopo aver letto il testo che ascolteremo il giorno dopo nella celebrazione eucaristica]

     

    Può esserci di aiuto:

           – impararlo a memoria

           – trascriverlo

     

    Personalmente consiglio molto quest’ultimo modo: la trascrizione ci aiuta a concentrarci meglio e a fissare l’attenzione sul testo.

     

    4. Analisi del testo

    – Facciamo molta attenzione ai vocaboli

                                                          ai verbi

    – può essere molto utile la conoscenza del greco o l’aver sottomano un’altra traduzione diversa da quella della CEI: questo ci permette di “appropriarci” meglio del testo e di cogliere sfumature che nella traduzione si sono perse.

     

    Impariamo a farci alcune domande:

    – quali sono i personaggi che troviamo nella pericope

    – dove si svolge l’azione

    – quando

    – che cosa fanno i personaggi

       verbi (atteggiamenti)

       avverbi (sentimenti)

       aggettivi (qualità)

     

    – cerchiamo quella che per noi è l’affermazione principale, la “parola chiave”, quello che per noi è «nucleo». Sarà questa che dovremo portarci nel cuore durante la giornata.

    E se il testo è tratto da una lettera di san Paolo? Dobbiamo conoscere, almeno discretamente, l’epistolario paolino e la struttura della lettera dalla quale è stato tratto il testo.

    Anche in questo caso possiamo porci delle domande:

    – a chi scrive Paolo e perché

    – in che momento della sua vita (cf. gli Atti)

    – qual è il nucleo del testo

     

     

    5. Il “nucleo”

    Durante e dopo la attenta lettura, emerge ai nostri occhi il “nucleo”, o – comunque – quella parola o quella frase che emergono come “centrali” per noi.

    Ora, si può dedicare più attenzione alle note e ai rimandi relativi al “nucleo”. Questa operazione permette di cogliere qualcosa in più del significato del testo biblico. In caso di necessità lo si può approfondire sul Dizionario di teologia biblica o sul Dizionario dei concetti biblici.

     

    6. Dalla lectio alla meditatio

    Ora, la frase o parola, il “nucleo”, può essere imparata a memoria. Questo è l’anello di congiunzione tra lectio e meditatio. La preghiera non è una serie di cassetti “a tenuta stagna”… Il passaggio dalla lectio alla meditatio, alla oratio può avvenire in modi e tempi diversi, secondo la nostra accoglienza e il dono dello Spirito.

     

    E. Meditatio

    1. Cos’è la meditatio?

    «Per gli antichi – ci ricorda J. Leclercq – meditare è leggere un testo e impararlo a memoria nel senso più forte di questo atto, cioè con tutto il proprio essere: con il corpo poiché la bocca lo pronuncia, con la memoria che lo fissa, con l’intelligenza che ne comprende il senso, con la volontà che desidera metterlo in pratica».

    Tale ripetizione è in funzione della memoria: «Ne deriva più che una memoria visiva delle parole scritte, una memoria muscolare delle parole pronunciate, una memoria uditiva delle parole ascoltate. La meditatio consiste nell’applicarsi attentamente a questo esercizio di memoria totale; essa è dunque inseparabile dalla lectio. Essa inscrive, per così dire, il testo sacro nel corpo e nello spirito».

     

    Ai nostri giorni quando si usa il termine “meditazione” si intende un processo di riflessione. Bisogna allora comprendere bene cosa si intende come meditatio nella lectio divina.

    Abbiamo visto che durante la lectio la nostra attenzione (il nostro cuore!) si è fermato su una frase, una parola e abbiamo fatto lo sforzo di memorizzarla. Se la lectio assomiglia a uno “scavo archeologico”, la meditatio avvicina e applica a noi il testo antico: la meditatio comporta l’assimilazione personale della parola di Dio, così da diventare in noi sorgente di preghiera e di contemplazione.

     

    Il ripetere dentro di noi la parola / la frase che è per noi “il nucleo”

    a) è dare realmente uno “spazio” alla Parola dentro di noi;

    b) aiuta a concentrarci lasciando che questo “nucleo” si arricchisca di altri passi che ci aiutano a comprenderlo sempre meglio e più profondamente;

    c) è preghiera.

    In questa “navigazione” è buona cosa rimanere all’interno del vangelo, della lettera (o dell’epistolario) o del libro dell’AT da cui è tratto il brano. Gli evangelisti, Paolo, Giovanni, si sono avvicinati al mistero di Dio in un modo complementare a quello degli altri. Prima di cercare i vari paralleli è importante rimanere all’interno degli scritti dell’autore per capirne meglio il pensiero.

     

    Stiamo inventando qualcosa di nuovo? No: si tratta di una antica tradizione antica, che troviamo anche nella Bibbia:

    «Questi precetti che oggi ti dò, ti stiano fissi nel cuore; li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte»  (cf. Dt 6,6-9)

     

    Si tratta anzitutto di creare nell’intimo del cuore uno spazio elastico di risonanza, perché la Parola penetri nelle zone più profonde dello spirito e tocchi le fibre più intime: questo ci trasformerà, ci chiamerà continuamente a conversione, ci metterà in crisi. E forse ci metterà anche in crisi la continua novità di Dio e della sua Parola che ci conducono dove non avremmo mai pensato!

    Siamo e rimaniamo nella totale gratuità. Ma sia ben chiaro: la preghiera della Parola – proprio perché tale – non ci distacca dai fratelli. Piuttosto non ci permette di inabissarci nel turbinìo delle nostre fantasie, in balia degli alti e bassi degli umori.

     

    La meditatio all’inizio esige anche uno sforzo della volontà che deve trovare spazi di tempo e concentrazione per mettersi alla presenza della “parola”.

    Sarebbe opportuno meditare con penna e foglio… Tuttavia non è meditare scrivere per far leggere o per pubblicare. È meditazione lo scritto fatto in solitudine che genera ulteriore silenzio adorante in noi ed attorno a noi.

     

     

    F. Oratio

    Il testo conciliare, che invita «tutti i fedeli» a praticare la lectio divina, conclude dicendo:

    «Si ricordino però che la lettura della Sacra Scrittura dev’essere accompagnata dalla preghiera, affinché possa svolgersi il colloquio tra Dio e l’uomo; poiché quando preghiamo parliamo con lui, lui ascoltiamo quando leggiamo gli oracoli divini» (DV 25).

     

    Su questa citazione si devono fare tre rilievi.

    Primo: il termine «lettura» riassume i due momenti trattati fin qui della lectio e della meditatio, perché in fondo costituiscono un unico atteggiamento di ricezione: ascoltare Dio che parla.

    Secondo: la lettura «dev’essere accompagnata dalla preghiera», perché dopo l’ascolto è necessario dare una risposta.

    Terzo: solo quando si dà questa risposta si ottiene lo scopo della lectio divina, cioè che «possa svolgersi il colloquio tra Dio e l’uomo». Alla lectio divina manca una parte essenziale finché non si connette «Bibbia e preghiera», finché la Parola non è pregata. La frase finale del testo conciliare è una citazione di sant’Ambrogio, che riflette un pensiero tradizionale e mette in risalto i due tempi del colloquio con Dio.

     

    Tutta la lectio divina è preghiera. Allora, che cos’è l’oratio all’interno di essa?

    È il momento in cui dialoghiamo con Dio con la Parola che ci ha donato. Vogliamo un esempio? Pensiamo al Magnificat: Maria canta questo inno… “mosaico di Parola”. Come possiamo vedere nelle nostre Bibbie, vengono messe in evidenza, in corsivo, le citazioni dell’A.T.: ben poco rimane in tondo!

     

    È quindi un momento privilegiato di dialogo con Dio. Prima è stato Lui ad aver parlato attraverso la Sua Parola, noi abbiamo lasciato scendere nel profondo il suo richiamo mediante la meditazione di essa ed ora siamo pronti a “dire” la nostra fede e il nostro amore.

    È il grido dello Spirito in noi che può esprimersi in mille modi. È il nostro rivolgersi a Dio dopo aver colto il frutto dell’ascolto. La preghiera non si preoccupa, a questo punto, di farsi domanda o lode o ringraziamento o adorazione, ecc… È un unico movimento dell’anima che si apre a Dio; è il lasciar sgorgare dal profondo la ricchezza di ciò che vi si è raccolto stando davanti a Lui. Ciò che realmente conta è il desiderio di risposta ad un amore, quello di Dio, che è diventato propria esperienza nella fede, in relazione alla Parola letta, meditata, pregata.

     

    Anche in questo momento, possiamo scrivere le nostre preghiere tenendo ben presente quanto detto per la meditatio: è per noi e per Dio, non per divulgare o pubblicare.

    Rileggendo questi testi a distanza di tempo… avremo delle grandi sorprese.

     

     

    G. Contemplatio

    La lectio divina è riconosciuta come un cammino verso la contemplazione. Ancora una volta intenderci sui termini: contemplare non è meditare, non è riflettere, non è pregare… Ma che cos’è allora?

    Il mistero di Dio che si rivela esige umiltà nel parlarne. Per alcuni secoli fino alla prima metà del secolo scorso veniva accusato di arroganza ci desiderava contemplare Dio. Questo perché non si distinguevano quelle che la teologia chiama “grazie mistiche speciali”, in cui troviamo, per esempio, le visioni.

    La contemplazione è invece secondo i Padri il “normale” sviluppo della lectio perché il primo a volersi rivelare è proprio Dio!! Dunque, non è qualcosa che viene a sovrapporsi come dall’esterno, ma è come un frutto squisito che matura sul tronco stesso della lettura biblica. Frutto normale: a condizione che non si prenda il termine – mi ripeto!! – come l’espressione di grazie mistiche straordinarie. C’è infatti una contemplazione che è alla portata di tutti e che è il coronamento normale di un cristianesimo preso sul serio.

    Con queste premesse, è evidente che prima di tutto è dono, assoluto e gratuito dono di Dio che si fa conoscere da noi. Noi possiamo chiedere di contemplare il suo volto, ma poi… possiamo solo attendere e desiderare.

     

    Essendo dunque dono gratuito di Dio… non può esistere un manuale di istruzioni sul come fare. Possiamo però provare a dire qualcosa sul che cos’è la contemplazione.

    La sua fonte è biblica: è un «elevarsi dell’anima» che parte dalla lettura della parola di Dio. Il Concilio si esprime così:

    «Questa Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura dell’uno e dell’altro Testamento sono come uno specchio nel quale la Chiesa pellegrina sulla terra contempla Dio, dal quale tutto riceve, finché giunga a vederlo faccia a faccia, com’egli è» (DV 7).

    Perciò si distingue da qualsiasi speculazione filosofica e naturalistica.

    La Bibbia non usa i termini contemplazione e contemplare, ma preferisce i verbi conoscere, vedere e soprattutto ascoltare, che è il verbo più usato nell’AT.

    La contemplazione cristiana non è un’introspezione psicanalitica, né una capacità visionaria; ma attinge dal di fuori il suo oggetto che entra, più che per l’occhio, per l’orecchio: attraverso l’ascolto o la lettura della Parola.

     

    2) Il suo culmine è assaporare la rivelazione divina: «gustare le gioie della dolcezza eterna». Nella tradizione latina contemplare e sapere sono sinonimi. È contemplazione ogni volta che con la lampada della Parola (cf. Sal 119,105) si coglie il piano sapienziale di Dio, nel suo insieme o sotto qualche aspetto particolare.

     

    3) Il suo obiettivo è Dio: l’anima si eleva al di sopra di sé, «rimanendo come sospesa in Dio». Non si tratta di una conquista dal basso, affidata alle forze della ragione. Dio è al di là di ogni immaginazione umana. Nella pienezza dei tempi «ha deciso di entrare in modo nuovo e definitivo nella storia umana inviando a noi il suo Figlio» (AG 3), «immagine del Dio invisibile» (Col 1,15).

     

    La contemplazione cristiana quindi non è speculazione o introspezione, ma apertura a una realtà oggettiva, storica. Uno dei testi più luminosi al riguardo sta nel prologo della prima lettera di Giovanni, dove l’esperienza contemplativa degli apostoli ha per oggetto la rivelazione storica della vita divina in Cristo (“ciò che”: 1Gv 1,1-3).

    Nella lectio divina la contemplazione consiste nel fissare lo sguardo e il cuore in Dio, quale si rivela nella storia, e nel vedere la storia alla luce della parola di Dio. La lectio divina diventa una scuola dove imparare a «pensare secondo Dio» (Mt 16,23), a interpretare ogni situazione secondo «il pensiero di Cristo» (1Cor 2,16). Con tale esercizio l’occhio è spinto a vedere sempre più tutte le cose nello stadio definitivo, secondo il compimento escatologico.

     

    Possiamo far riferimento al termine utilizzato in greco per indicare contemplazione: theoria, e significa vedere, andando dentro a ciò che si osserva. Ora il punto di riferimento di questo termine greco, theoria, è, nella tradizione cristiana, uno soltanto: il Cristo crocifisso. San Luca adopera per l’unica volta in tutto il Nuovo Testamento il termine theoria solo per indicare questa visione di Cristo crocifisso.

    Per i Padri antichi questo significa che colui che ha il dono della theoria, della contemplatio, è sempre uno che ha davanti a sé il mistero del Cristo crocifisso come asse portante della storia, come la Parola che tutta la storia ha rivelato e rivela. In questo caso il contemplativo sarebbe allora colui che guarda tutto a partire da questa visione del Cristo crocifisso, un uomo che vede in tutte le pieghe della storia umana e del mondo l’annunzio e la manifestazione del Cristo crocifisso.

    Anche in questo caso vediamo però che il cristiano contemplativo non è fuori dalla storia e non si riferisce a cose esterne alla storia, ma è colui che è nel cuore della storia, è colui che si riferisce al cuore stesso delle cose e degli avvenimenti.

    E là dove gli occhi dell’uomo vedono soltanto uno sfiguramento di volto umano, gli occhi della fede vedono la riconciliazione nel Signore, nel Figlio di Dio crocifisso per l’uomo. Quindi l’annunzio che porta il contemplativo è anche qui un annunzio di pace, è una bella notizia che parte come da fonte di grazia dal Cristo crocifisso.

    Ovviamente tutto questo in prospettiva della notte di pasqua. È questa la visione del contemplativo. Educato alla scuola della parola di Dio, egli sa benissimo che il Signore non permetterà che il suo santo veda la corruzione. Il Signore non permetterà che l’ultima parola sia detta dal male, dal peccato alla morte. Perché, proprio quando raggiunge la profondità dell’abisso del male, proprio lì il contemplativo sa che il Signore risponderà al grido d’aiuto che sente uscire dall’uomo.

     

    Alla radice della contemplazione, in tutte queste forme, c’è in concreto la trasfigurazione determinata nell’uomo dalla sua conformazione alla parola di Dio.

     

     

    H. Collatio

    1. Che cos’è

    La collatio è condivisione vitale di quanto Dio ci ha donato di vivere nella lectio.Non è dunque un’omelia o una dotta dissertazione sul testo… ma è consegnarci reciprocamente gli uni gli altri.

    È un momento molto delicato. È bene che ci sia qualcuno che aiuti il gruppo a rimanere in un clima di preghiera, di ascolto.

    S. Basilio (sec. IV, Epistola I, 2, 5, PG 32, 229), che doveva avere molta esperienza di vita comune, ci dona alcune note che mi sembrano utili per una collatio:

    «Parlare conoscendo l’argomento,

    interrogare senza voglia di litigare,

    rispondere senza arroganza,

    non interrompere chi parla se dice cose utili,

    non intervenire con ostentazione,

    essere misurati nel parlare e nell’ascoltare,

    imparare senza vergognarsene,

    insegnare senza prefiggersi alcun interesse,

    non nascondere ciò che si è imparato dagli altri»

      

     

    I. E al termine?

    Nella lectio comunitaria, chi ha guidato la collatio può spendere qualche minuto per sintetizzare – a beneficio di tutti – i significati principali emersi nella collatio stessa. Questa sintesi può essere proposta anche come preghiera finale. La conclusione può essere affidata ad un canto.

     

    Nell’esperienza personale, si può terminare con un salmo, con la preghiera sgorgata nella oratio. In ogni caso si faccia in modo che il ritorno alle occupazioni avvenga con calma.

  • 21 Dic

    Parola di Dio che fai l’universo,

    Parola di Dio, Parola di vita,

    Parola di Dio per l’uomo di oggi,

    parola di Dio, non stare lontano!

                Parola di Dio, divina alleanza,

                Parola di Dio che dici il perdono,

                Parola di Dio, messaggio di pace,

                Parola di Dio, rovescia la morte!

    Parola di Dio che fai ritornare,

    Parola di Dio che vinci ogni male,

    Parola di Dio che sei libertà,

    Parola di Dio, abbatti le sbarre!

                Parola di Dio che incendi la notte,

                Parola di Dio che indichi il Giorno,

                Parola di Dio, sul nostro cammino,

                Parola di Dio, tu aprici gli occhi!

    Parola di Dio che apri le acque,

    Parola di Dio che domini i venti,

    Parola di Dio più forte di tutto,

    Parola di Dio, tu  porta speranza.

                Parola di Dio fatta carne a sangue,

                Parola di Dio che l’uomo tocca e contempla

                Parola di Dio che cammini con noi
                trasformarci a immagine tua.

     

    Didier Rimaud

  • 18 Dic

    Il nome Yoseph  significa «Dio aggiunga»: nome ben augurante per un uomo che attende una prosperità numerosa. Sarà vero anche per il nostro Giuseppe?
    Il suo lavoro è quello comune di un buon carpentiere, mestiere che insegnerà al figlio Gesù, che sarà conosciuto come «il carpentiere» (Mc 6,3).
    Nel vangelo più antico, quello di Marco, Giuseppe non è mai nominato.
    Giovanni gli dedica solo due citazioni indirette (1,45; 6,42).
    Matteo e Luca non gli mettono in bocca una parola.
    Anche il suo appellativo più comune non è quello di «marito» di Maria, ma il più casto di «sposo».
    Anche e soprattutto nei riguardi della sua funzione di padre di Gesù la sua funzione è stata ridotta all’essere un padre semplicemente “putativo” ovvero “apparente”.
    Anche l’arte non ha fatto un servizio migliore: ce lo ha rappresentato come un buon vecchietto i cui ardori giovanili sono solo un ricordo, e con lo sguardo un po’ perso nel vuoto di chi non si raccapezza.
    Ci ritroviamo con un Giuseppe declassato in un’esistenza opaca: sposo senza moglie e padre senza figlio.
    Il testo a cui faremo riferimento per la nostra meditazione è quello relativo alla nascita di Gesù come viene narrata da Matteo.
    Il genere letterario del racconto è quello tipico degli “Annunci”.
    La figura centrale del racconto è appunto quella di Giuseppe, presentato nella sua fatica a discernere la volontà di Dio sulla sua vita. E’ la contropartita dell’annunciazione a Maria (cfr Lc 1,26-38). 

    v. 18:
    Nella legge giudaica con il fidanzamento, che avveniva dinanzi a testimoni, il contratto matrimoniale era già stipulato.
    La donna aveva generalmente dodici anni. L’uomo intorno ai diciotto.
    Il matrimonio avveniva in due fasi:  lo sposalizio e le nozze.
    Al termine della cerimonia dello sposalizio, che aveva come scopo il concordare la dote della sposa,  lo sposo pronunciava la formula: “Tu sei mia moglie”, e la donna rispondeva: “Tu sei mio marito”. Da quel momento erano effettivamente sposati pur continuando a vivere nelle rispettive case.
    La festa nuziale, con cui la sposa veniva introdotta nella casa del marito, intercorreva invece generalmente dopo un anno.  Nel caso nascesse un figlio nel periodo intermedio era considerato a tutti gli effetti figlio legittimo.
    E’ nel periodo intermedio tra lo sposalizio e le nozze che Maria si trova incinta “per opera dello Spirito santo”. Per Maria vi è un annuncio in cui viene chiarito il suo ruolo, e risolte le sue difficoltà. (cfr Lc 2).
    Come Giuseppe si sarà posto dinanzi alla gravidanza di Maria? Maria avrà parlato a Giuseppe, raccontandogli la sua esperienza? Probabilmente sì, ma come Giuseppe avrà reagito alle sue parole?
    Attraverso la contemplazione possiamo ipotizzarle: stupore? Preoccupazione? Ansietà? Dubbi? Perplessità? Gioia? Entusiasmo?…
    Possiamo intuire un cammino faticoso di Giuseppe nell’accoglienza di questo fatto: sarà passato da un sospetto iniziale, ad uno sconcerto, un disorientamento?
    Giuseppe vive la fatica di non riuscire a comprendere, a capire, non solo il fatto di Maria ma il senso della sua presenza in tutta questa faccenda.
    Quanto tempo sarà durato questa stato di cose incerto e sofferto?
    Noi cosa faremmo al posto di Giuseppe? Come reagiremmo? 

    v. 19:
    Il testo prosegue presentando un Giuseppe che tenta una soluzione. Come d’altronde tenta diverse soluzioni Abramo nei confronti dell’attualizzarsi della promessa. La sua quasi decisione è di farsi da parte in una situazione in cui non comprende il suo ruolo: questo comporta riconsegnare Maria al progetto che Dio ha su di lei.
    Matteo ci descrive Giuseppe che in questa decisione agisce nella sua qualità di uomo “giusto”.
    Ma di che giustizia si tratta?
    Non è la giustizia ossequiosa alla legge avrebbe prescritto a Giuseppe di ripudiare pubblicamente la moglie infedele. Non si tratta di una giustizia costituita solo da bontà, che detta un semplice atto misericordioso di ripudio segreto.
    Siamo forse di fronte ad una giustizia del tutto diversa: Giuseppe è l’uomo “giusto” timorato di Dio che di fronte al mistero che si sta compiendo nella sua sposa sente di non essere più al posto giusto, egli desidera mettersi in disparte.
    E’ giusto non perché stende un pietoso velo su Maria, ma perché non osa intromettersi in un mistero che lo sorpassa e che non riesce a comprendere.
    Si sente un “anawim”, egli ne fa parte, si sente piccolo, povero, timorato di Dio. E’ la giustizia degli “anawim”, di cui anche Zaccaria ed Elisabetta fanno parte (Lc 1,6).
    Egli pensa dunque di trarsi da parte, non vuole assolutamente attentare al vincolo matrimoniale.
    E neanche Maria può chiarirgli più di tanto il mistero in cui sono coinvolti, anch’essa vi entra come in un pellegrinaggio oscuro.
    La crisi di Giuseppe è tutta imperniata in funzione del chiarimento della sua missione.
    E’ qui che emerge Giuseppe in tutta la sua vera valenza! Un uomo che cerca, che si interroga, su quale è il suo compito nella vita. 

    v. 20:
    Matteo ci descrive dunque un Giuseppe che si interroga dolorosamente su cosa fare, per quale scelta optare. Non è soddisfatto della decisione che sta per prendere, ovvero di rimandare in segreto Maria: è perciò inquieto, rimugina nel sonno la sua difficile situazione.
    Matteo ci presenta un Giuseppe che viene raggiunto dalla Parola di Dio nel sonno, o meglio nel sogno. Il sogno nella cultura orientale è veicolo di trasmissione della rivelazione divina (cfr Gn 15,12; 37,5;…). Perché proprio nel sogno? Nella veglia ci si difende, censurando ciò che non si vuole. Nel sonno invece esce tutto in libertà. Il “giusto”, con il suo cuore libero, è aperto ai sogni di Dio: la sua parola può parlargli anche nel sonno delle altre parole. Il sogno come la nuce e il fuoco è elemento etereo che esprime più chiaramente la presenza di Dio.
    La parola raggiunge Giuseppe nel silenzio del suo ascolto.
    Il Signore sa che Giuseppe ha bisogno di una rassicurazione. L’angelo deve rassicurare infatti non solo Maria ma anche Giuseppe.
    Ecco allora la prima parola: “Non temere!”: il timore qui non è la paura, ma l’invito ad entrare nell’obbedienza della fede che domanda fiducia e collaborazione.
    Dopo questo invito il messaggero può aprire la mente e il cuore di Giuseppe al suo compito. Lo fa rivolgendosi a lui con un titolo solenne: “Giuseppe, figlio di Davide”.
    Così Giuseppe è introdotto nel grande contesto della storia della salvezza: nella promessa messianica che da Abramo, passa a Davide sino a giungere proprio a lui.
    Matteo infatti ha iniziato il suo vangelo con la geneologia che partendo da Abramo giunge appunto fino a Giuseppe. Secondo il ritmo del testo, in cui si ripete monotonamente il verbo “generare”, ci si attenderebbe che anche alla quarantesima volta si dicesse: “Giuseppe generò Gesù”. Invece, arrivato a Giuseppe, l’evangelista scrive: “Giuseppe, il marito di Maria, dalla quale è generato Gesù” (1,16).
    Che ruolo dunque avrà dato che Giuseppe è escluso dalla generazione di Gesù?
    Ecco che le parole del messaggero non spiegano la condotta di Maria, ma il posto che spetta a Giuseppe Il messaggero tocca il mistero con accenni delicati e riverenti: non ci si perde in chiacchiere e indiscrezioni. Si da una sola spiegazione: “Per opera dello Spirito santo”: è lo stesso contenuto della rivelazione fatta dall’angelo Gabriele a Maria: “Lo Spirito santo verrà su di te e la potenza dell’Altissimo ti adombrerà” (Lc 1,35).
    Ma non perché il concepimento di Maria è miracoloso ciò significa che Giuseppe debba trarsi da parte!
    Giuseppe diviene padre del Messia senza che anch’egli abbia parte alcuna al suo concepimento, come anche Maria diviene madre senza che abbia conosciuto uomo. 

    v. 21:
    Quale allora il compito di Giuseppe?
    Maria partorirà un figlio, e compito di Giuseppe sarà di imporgli il nome “Gesù” che significa “Jhwh è salvezza”.
    Per gli israeliti il nome indicava la natura e la missione di un individuo. L’imposizione del nome quindi era un atto per così dire creativo che apparteneva di diritto al padre. Il bambino non viene chiamato, secondo l’usanza, con il nome del padre o del nonno, o di qualche antenato
    Ma nel caso di Giuseppe questo diritto appare limitato: il nome è dato da Dio stesso, il figlio è dono di Dio che domanda di essere riconosciuto e accolto. Anche in questo si rivela in Gesù una creazione del tutto nuova dono dall’alto e non frutto dell’iniziativa umana. Egli non è il figlio della carne e del sangue (cfr Gv 1,13), ma frutto unicamente dello Spirito.
    Sia la paternità di Giuseppe che la verginità di Maria hanno una funzione eminentemente cristologica. La loro verginità mette in luce l’azione libera e creativa di Dio nella storia. 

    v. 22:
    viene portata dal messaggero un’ulteriore conferma profetica. Il testo è di Isaia e riguarda l’Emannuele, profezia fatta al re Acaz in un momento tragico della storia del popolo di Israele: “Ecco: la vergine concepirà e darà alla luce un figlio e gli darà nome Emmanuele” (Is 7,14). Il testo di Isaia è uno dei caposaldi del messianismo regale.
    Con questa citazione il messaggero conferma la discendenza davidica tramite la paternità di Giuseppe. Gesù sarà “figlio di Davide” perché figlio di Giuseppe. La promessa si attua attraverso la fondamentale mediazione di Giuseppe.
    Come Maria da la carne al figlio, così Giuseppe gli dà il nome, lo iscrive e lo inserisce nella storia della salvezza.

    v. 24:
    Giuseppe fa come gli è stato ordinato. Un’obbedienza pronta e fiduciosa, scandalosa agli occhi della sapienza umana, molto simile a quella di Abramo. Nel silenzio accoglie il mistero. Dicendo “sì” a Maria dice sì al dono di Dio che è in lei. Quale sarà stato il grado di conoscenza che Giuseppe ebbe del mistero riguardante suo figlio? Avrà dovuto anch’egli come Maria “pellegrinare nella fede”, attraverso la prova, il buio, la speranza.
    Come avrà vissuto il rapporto con Gesù?
    E Gesù che tipo di rapporto avrà vissuto con il padre Giuseppe?
    Una riflessione ulteriore ci dovrebbe spingere a considerare il ruolo educativo che Giuseppe come padre ebbe nei confronti del figlio. Gesù come ogni figlio non avrà preso a modello nella sua crescita il padre, non sarà stato lui un punto di riferimento essenziale?
    Giuseppe come colui che educa alla fede e alla preghiera Gesù…
    Giuseppe come colui che introduce Gesù nella fatica del vivere attraverso il proprio lavoro e l’assunzione delle proprie responsabilità….
    La vera paternità non si risolve solo e anzitutto nell’atto biologico del generare. Si è padre soprattutto nell’assumersi il compito di educare alla vita quel figlio che ho davanti.
    E ancora: quanto l’umanità di Cristo ha avuto bisogno della figura di Giuseppe per raggiungere la sua completezza, e questo a tutti i livelli?
    Da tutto questo emerge uno spessore straordinario di Giuseppe nella storia salvifica. Il suo nascondimento e il suo silenzio più che adombrarlo manifestano il suo ruolo, sì nascosto e silenzioso, ma non per questo non meno fondamentale del ruolo di Maria.

  • 18 Dic

    Nell’umanità del tuo Figlio, o Padre,

    hai ricreato l’uomo perché la morte
    non deformasse in lui
    la tua immagine viva.

    È grazia della tua pietà che ci salva:

    dalla carne di Adamo
    il peccato ci aveva dato la morte,

    dalla carne di Cristo
    il tuo amore ci ha riplasmato alla vita.

     

    Liturgia ambrosiana, Prefazio d’Avvento

     

  • 11 Dic

    Mentre il silenzio fasciava la terra
    e la notte era a metà del suo corso,
    tu sei disceso, o Verbo di Dio,
    in solitudine e più alto silenzio.
       La creazione ti grida in silenzio,
    la profezia da sempre ti annuncia,
    ma il mistero ha ora una voce,
    al tuo vagito il silenzio è più fondo.
       E pure noi facciamo silenzio,
    più che parole il silenzio lo canti,
    il cuore ascolti quest’unico Verbo
    che ora parla con voce di uomo.
       A te, Gesù, meraviglia del mondo,
    Dio che vivi nel cuore dell’uomo,
    Dio nascosto in carne mortale,
    a te l’amore che canta in silenzio.

    p. David Maria Turoldo

  • 08 Dic

     

    Preghiera iniziale

    Invochiamo il dono dello Spirito perché ci apra alla conoscenza e all’intelligenza della Parola vincendo in noi le tenebre e le chiusure che si frappongono all’ascolto

     

    Lettura

    Il testo è di Luca 2,8-18: L’annuncio ai pastori

     

    Lectio

    Il brano ascoltato nell’intento di Luca vuole offrire la chiave di lettura teologica del significato della nascita di Gesù.

    Vedremo che per Luca riveste particolare importanza e rilievo il tema dell’annuncio che da significato all’evento stesso. Il racconto rappresenta il terzo annuncio del vangelo dell’infanzia. (a Zaccaria, a Maria e appunto ai pastori)

    I pastori:non siamo nell’interno della casa grotta dove Maria, aiutata da Giuseppe, ha trovato riparo e riservatezza per dare al mondo il suo primogenito.

    La scena si sposta all’esterno nei campi limitrofi del villaggio di pastori che è Betlemme.

    Alcuni pastori stanno vegliando e custodendo i loro greggi.

    Il fatto avviene di notte; ed è da notare che nella storia della salvezza gli avvenimenti salvifici più importanti avvengono di notte (cfr. es. l’esodo)

    Come mai l’annuncio dell’avvenimento salvifico si rivolge in primo luogo a loro? Perché sono i migliori, i più bravi, i più santi? No!

    Tutt’altro. Dio rivela la nascita del suo Messia proprio ad una delle celassi più umili e biasimate del tempo a causa dell’ignoranza della legge e dello stato di continua impurità legale.

    I rabbini dicevano che i pastori con i pubblicani difficilmente potevano salvarsi a causa del loro stile di vita. E’ proprio a costoro che il messaggio è dato per primo.

    Questi pastori rappresentano il nuovo popolo di Israele costituito da poveri e peccatori.

    Sono costoro che attendono un salvatore. Giusti e pii credono di non averne bisogno

    Un angelo: Angelo significa: “Colui che annuncia”. E’ colui che da la buona notizia.

    E una buona notizia apporta con sé gioia.

    Perché una notizia così importante darla a così pochi e a persone così? E’ la scelta di Dio questa.

    La buona notizia è data a pochi, ma attraverso questi a tutto il mondo. E’ l’economia dell’incarnazione: l’universale è mediato dal singolare, la parte è sacramento del tutto.

    Il limite è superato nella trasmissione dell’annuncio che dilata lo spazio della comunità fino agli estremi confini dello spazio e del tempo.

    Oggi… un salvatore: la gioia è motivata. Ci è dato un salvatore. E’ questo il centro dell’annuncio. La salvezza del regno irrompe nel mondo con la nascita di Gesù denominato con tre importanti titoli: Salvatore, Cristo, Signore. L’annuncio non è un’idea, una salvezza astratta, ma è un salvatore: colui che è in grado di assumere su di sé la nostra umanità povera, ferita, ammalata destinata alla morte e restituirla alla bellezza e alla gioia della vita.

    Luca insiste su quell’”Oggi”. Un oggi che si ripete nel momento in cui ci si apre all’ascolto della parola.

    Un  segno: l’annuncio accompagnato da un segno è necessario perché l’adempimento della promessa di Dio non può essere dedotta da ragionamenti o sforzi umani. Con la ragione non cercherebbero il suo adempimento certamente nella direzione indicataci dall’angelo: andrebbero al tempio o ai palazzi del potere: cercherebbero un Dio forte, potente. Il dio dei nostri desideri e della nostra paura.

    L’annuncio indica una direzione diversa: a Betlemme! Un bambino in una stalla! Lì si presenta un Dio piccolo, tremante, bisognoso, impotente, che si offre come cibo nella mangiatoia delle bestie. Questa rivelazione è fatta ai pastori.

    “Dio ama parlare con i semplici” (Pr 3,23s), non si rivela ai prudenti e ai sapienti (10,21.nulla di straordinario o di meraviglioso. Il segno è quell’umanità così normale di un bambino. Il “bambino” è segno stesso di Dio. “Dio è colui del quale non si può pensare nulla di più piccolo”.

    Andiamo e vediamo: I pastori ascoltato l’annuncio intraprendono il cammino. “In fretta” non bisogna lasciare che il kairos sfugga, l’occasione di grazia potrebbe non presentarsi più.  E’ un itinerario di fede. Senza questa obbedienza non potrebbero mai verificare la verità dell’oggetto dell’annuncio.

    A questa obbedienza i pastori si incoraggiano vicendevolmente.

    C’è perciò un udire, un andare, un vedere… a cui seguirà un annunciare.

    Tale obbedienza non nasce dai loro  ragionamenti, sillogismi, deduzioni: ma solo da una fiducia che porta ad accogliere la parola “non quale parola di uomini, ma quale è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete” (1Ts 2,13).

    Videro e riferirono…: i pastori “vedono” la realtà di ciò che il Signore ha fatto loro conoscere.

    E quello che vedono non possono tenerlo per  sé: è troppo importante. Ha toccato il loro cuore.

    Ciò che gli angeli hanno fatto in cielo, ora i pastori iniziano a farlo sulla terra: diventano angeli, annunciatori, mediatori della Parola. Si profila così la dinamica missionaria della Chiesa.

    Tutti si stupirono: la prima reazione è la meraviglia, lo stupore. La meraviglia pone nel cuore una domanda che attende una risposta. E’ il primo passo per un cammino da intraprendere. Il cuore così si apre ad una  novità che appare di primo acchito incredibile.

     

    Meditatio

    I pastori: una comunità di poveri

    Nei pastori scorgiamo i primi destinatari e i primi ascoltatori della Parola che a loro volta si fanno annunciatori della buona notizia. In essi si profila già la comunità dei credenti: la chiesa. Questa nasce dall’annuncio. Ed è una chiesa fatta di poveri e di ultimi. Noi forse vorremmo comunità diverse: perfette, composte da gente benpensante, che non dia problemi… Ma “ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono” (1Cor 1,28) scrive san Paolo.

    In ascolto della Parola

    Senza annuncio non ci si apre alla fede. Senza ascolto non ci si mette in cammino.

    I pastori di Betlemme sono obbedienti all’ascolto, vi prestano fede. L’annuncio è efficace solo per chi ascolta. E’ solo l’obbedienza della fede che può aprirci alla constatazione della verità della Parola. Chi disobbedisce può sempre dire: “Vedi che non è vera la Parola!”.

    Non è facile quest’ascolto e questa obbedienza: in noi scattano molteplici resistenze che vorrebbero impedirci di abbandonarci alla fiducia! Queste resistenze rischiano di ritardare, ostacolare, bloccare l’incontro con la Parola che salva.

    Nella vita del credente e della comunità è essenziale che vi sia la dimensione dell’annuncio e dell’ascolto della Parola senza la quale non vi può essere iniziazione al cammino della fede.

    Il segno: alla ricerca del volto di Dio

    A Betlemme Dio rivela il suo volto e la sua scelta. Farsi piccolo, debole, bisognoso. Un Dio che per le attese religiose è deludente: noi ne vorremmo un altro che risolvesse immediatamente i nostri problemi. Dentro di noi coltiviamo volti e attese di Dio legate ai nostri sogni e al nostro immaginario dettati dalle nostre paure, desideri, insoddisfazioni, frustrazioni. Spesso ci creiamo un Dio che dovrebbe porre rimedio a tutto questo. Un Dio che  non incontreremo mai perché non esiste. L’annuncio di Betlemme ci chiede di metterci in cammino in una direzione diversa: a non cercare un Dio fatto a nostra immagine ma scoprire un Dio, che pur essendo nostra immagine, mi invita a scoprire il suo volto nella fragilità del bambino adagiato in un fienile per animali.

    Quale grandezza vi può essere a Betlemme e sul Calvario se non la grandezza dell’amore? Questa consiste nel farsi piccolo per lasciare spazio a tutti, cominciando proprio dai più piccoli.

    Quel bambino crescerà sempre più nell’ordine della piccolezza: sino al massimo livello che sarà la nudità della croce. . La sua grandezza si fa da noi abbracciare. Ecco il volto vero di Dio!

    Videro e riferirono: evangelizzati ed evangelizzatori

    Dopo aver ascoltato, messo in atto un cammino si può giungere a vedere, a toccare con mano. E quella verità che si è scoperta, che per noi è Gesù, non la possiamo tenere nascosta, solo per noi. La gioia è incontenibile, comanda di essere comunicata, annunciata a sua volta.

    “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi”. (1Gv 1,2-4).

    I pastori da evangelizzati si trasformano in evangelizzatori.

    Una comunità evangelizzata non può non divenire evangelizzatrice. Se non lo è non è forse perché non è sufficientemente evangelizzata?

      

    Oratio

    O Padre, noi ti ringraziamo per il dono di tuo Figlio.

    In lui è la tua mano che stendi,  nella notte,

    alla nostra umanità affinché si riapra alla speranza e alla vita.

    Ti ringraziamo perché anche oggi

    hai fatto risuonare ancora una volta l’annuncio di gioia:

    “Oggi è nato per voi un salvatore che è Cristo Signore”.

    Come i pastori ti chiediamo di aprire le orecchie del nostro cuore

    affinché si dischiudano con fiducia a questa Buona Notizia.

    Che i nostri cuori si aprano al tuo invito a porci in cammino,

    nonostante mille dubbi e fatiche,

    per vedere e toccare la fedeltà e l’adempimento della tua Promessa.

    O Padre la tua Parola in Gesù si adempie finalmente,

    ma questo adempimento ci lascia sbalorditi:

    rispondi in modo inaspettato, inatteso, forse scandaloso alle nostre attese.

    Vorremmo scoprirti potente, forte, glorioso

    e tu ci porti dinanzi a un Bambino tremante, debole, bisognoso.

    In lui vuoi rivelare al mondo il tuo vero volto:

    volto di un amore che si dona, inerme, disposto a lasciarsi ferire.

    Volto di un amore gratuito che nulla domanda se non d’essere accolto e abbracciato.

    Questa rivelazione, o Padre, si sconcerta, ci stupisce, forse ci delude

    ma nel medesimo tempo apre il cuore allo stupore,  alla meraviglia di un Dio diverso.

    Che questo stupore tocchi il nostro cuore.

    Che l’amore che rivela lo ferisca.

    E allora come potremo non annunciare quello che abbiamo udito, visto, toccato?

    In noi impellente sarà il bisogno di portare al mondo

    il dono che tu ci hai fatto. Amen.

     

    Actio

    Ciascuno a questo punto può liberamente davanti al Signore assumere un piccolo impegno che aiuti a concretizzare nel giorno di domani la Parola che abbiamo ascoltato.

     

  • 05 Dic

    È Natale, Signore.

    O è già subito Pasqua?

    Il legno del presepio è duro,

    come il legno della croce.

    Il freddo ti punge

    quasi corona di spine.

    L’odio dei potenti ti spia e ti teme.

    Fuga affannosa nella notte.

    Sangue innocente di coetanei,

    presagio del tuo sangue.

    Lamento di madri desolate,

    eco del pianto di tua Madre.

    Quanti segni di morte, Signore,

    in questa tua nascita.

    Comincia così

    il tuo cammino tra noi,

    la tua ostinata decisione

    di essere Dio, non di sembrarlo.

    Le pietre non diverranno pane.

    Non ti lancerai

    dalla dorata cima del tempio.

    Non conquisterai i regni dell’uomo.

    Costruirai la tua vita di ogni giorno

    raccogliendo con cura meticolosa,

    con paziente amore,

    tutto quello che noi scartiamo:

    gli stracci della nostra povertà,

    le piaghe del nostro dolore,

    i pesi che non sappiamo portare;

    le infamie che

    non vogliamo riconoscere.

    Grazie, Signore,

    per questa ostinazione,

    per questo sparire,

    per questo ritrarti,

    che schiude un libero spazio

    per la mia libera decisione

    di amarti.

    Dio che ti nascondi,

    Dio che non sembri Dio,

    Dio degli stracci e delle piaghe,

    Dio dei pesi e delle infamie,

    io ti amo.

    Non so come dirtelo,

    ho paura di dirtelo,

    perchè talvolta mi spavento

    e ritiro la parola;

    eppure sento che devo dirtelo:

    io ti amo.

    In questa possibilità di amarti,

    che la tua povertà mi schiude,

    divento veramente uomo.

    Amo gli stracci, le piaghe, i pesi

    di ogni fratello.

    Piango le infamie di tutto il mondo.

    Scopro di essere uomo,

    non di sembrarlo.

    Il tuo Natale è il mio natale.

    Nella gioia di questo nascere,

    nello stupore di poterti amare,

    nel dono immenso

    di vivere insieme,

    io accetto, io voglio, io chiedo

    che anche per me, Signore,

    sia subito Pasqua.

    Don Luigi Serentha

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